Fabrizio Ulivieri's Blog, page 142

June 20, 2017

Perché ho scritto "Rugìle"?



Quando sei anni fa ho cominciato a scrivere Rugìle non avevo idea dove andassi a finire.Il titolo era diverso. Molti titoli si sono succeduti. Quello che ha durato di più provvisoriamente è stato uno preso da un detto giapponese onna gokoro to aki no sora, come il cielo d'autunno il cuore delle donne.
In origine volevo parlare della vita di un uomo, di una vita semplice, dove non accadeva nulla e accadeva tutto perché lui si interrogava sul senso della vita e dell'esistere. Volevo farlo con la maestria di Yasunari Kawabata o Yukio Mishima (ma senza il suo supereroismo). Volevo che la storia scorresse e si adattasse alla varie fasi della vita (come l'acqua si adatta agli sbarramenti), come avevo letto in La cartella del professore di Hiromi kawakami, un libro che mi aveva incantato.
Ma poi volevo parlare dei cuori delle donne, della loro capacità di cambiare, di passare da un universo ad un altro e questo mi portò alla teoria dei multiversi della fisica quantistica. Volevo capire perché un amore dura e un altro no, e questo mi portò alla teoria dell'entaglement della fisica quantistica.
La fisica quantistica mi aiutò a spiegare il sesso, il suo istinto anche violento e assoluto. Mi aiutò a capire come un istinto sia irrazionale e insezionabile perché è ridotto a pochi bit (quelli basilari) di un programma che ci domina e ci fa agire in un modo invece che un altro.
Poi scoprii Rugile, e da lei imparai il vero amore. L'amore assoluto, entangled, potente e davanti al quale non puoi più nasconderti perché la sua forza trascende ciò che sei negando la tua individualità.
Per questo dedicai il libro a Rugìle: mi aveva insegnato ciò che non avevo mai capito. Dovevo esserle riconoscente e grato.

Questo libro allo stesso tempo è divenuto una risposta a molte domande, ma soprattutto a una: come evitare una letteratura noiosa? Il 97% della letteratura corrente è noioso. Leggere un libro spesso costringe a una sofferenza per 300 e passa pagine. Si pubblicano autori noiosi che si limitano a ripetere ciò che altri hanno scritto, le mode che altri hanno instaurato. Ripetono eterni memes.
Io non volevo questo.
Io volevo un testo che prendesse dalla prima all'ultima pagina e quel testo finalmente c'è ed è Rugìle.
E' un testo magico, a mio avviso, che prende e fa accadere molte cose nella vita perché la influenza, come hanno testimoniato molti lettori.
E' un testo per persone con ormoni, che si fermano e gridano al mondo "Ehi ci sono anche io!" Per questo piace ai giovani e giovanissimi. E' un testo per chi vuole la vita e vuole far sentire la sua voce ("Ehi ci sono anche io!") in questo universo fatto di tanti universi.Chi lo leggerà apparterrà alla vita e non alla morte, apparterrà ai tanti universi che compongono una vita ordinaria ma straordinaria allo stesso tempo perché ti insegna come l'amore, il sesso, sia un continuo passaggio da un universo all'altro, quasi infinito nella sua finitudine, che riempie la vita, fa della vita la vita stessa e ti allontana dal dolore e dalla morte.

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RugìleIl sorriso della meretrice

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Published on June 20, 2017 03:13

May 20, 2017

Del carattere dell'Italia



Nel porsi il problema del carattere degli italiani credo che il primo e fondamentale quesito sia: in quale mondo vivono?La storia dell’Italia moderna si caratterizza per la mancanza di un “qui”, su cui si focalizzano le categorie del pensiero.

Esistono invece tanti “qui” nei quali le categorie di un pensiero si focalizzano.
Queste categorie o partono dall’interiorità o si costruiscono dall’esteriorità.
Noi propenderemmo per la seconda prospettiva. La categoria non è all’interiorità dell’uomo italiano ma gli appartiene in quanto la individua all’esterno di uno dei tanti “qui”
L’uomo italico non è certamente un uomo kantiano e nemmeno cartesiano. E’ piuttosto un uomo fenomenologico.
L’uomo italiano vive progettato verso l’esterno ed composto dagli strati dei “qui”.

Individuiamo due “qui” di partenza, uno dell’Italia pre-unitaria e uno dell’Italia quasi-unitaria.

Machiavelli e Guicciardini – “i proto-qui”

Da una parte abbiamo uno schema generato dal pensiero del Guicciardini in cui l’uomo si rifugia nel “particulare”, nel proprio tornaconto personale o del proprio clan familiare o comunque nel proprio mondo davanti alla coscienza che la realtà è immutabile nella sua imprevedibilità e impossibile da cambiare; dall’altra abbiamo lo schema machiavelliano dell’adattamento alla situazione e perfino della simulazione al solo scopo di raggiungere i propri fini, in entrambi è la realtà (effettuale) a dettare le ragioni all’uomo, a imporgli le proprie categorie.



Liborio Romano – l’inventore del trasformismo 
“Meglio, in politica, aver rappresentato venti bandiere che nessuna: parecchi grandi uomini sono passati da una ad un’altra bandiera, e il mondo non si è trovato di ciò troppo male (Benedetto Croce)
Romano Liborio è colui che ha codificato il trasformismo, lo ha reso prassi e legge fisica fondamentale della politica italiana.
Incomincia la sua carriera in una setta carbonara e la prosegue da ministro di Polizia del re Borbone mentre si mantiene in contatto con Cavour, tradisce Cavour e si schiera con Garibaldi. Garibaldi lo farà ministro Cavour lo escluderà da ogni carica.
Un uomo di forte personalità e intelligenza che vive costantemente in più stati contemporaneamente. A causa forse della sua estrema intelligenza tattica egli sa anticipare di uno stato lo stato che già occupa per cui chi vi si relaziona non ne coglie mai la posizione in atto. Ma alla fine questa sua continua superposition lo farà collassare e sarà emarginato dalla vita politica.
L'accusa più grave che gli si muove è quella di aver costituito una speciale forza dell'ordine composta di camorristi. Di essersi connesso con la camorra e di averne favorito il passaggio da illegale a legale. Di aver costruito la prima ufficiale collusione fra stato e mafia facendo entrare nella forza di ordine pubblico Salvatore De Crescenzo (Tore 'e Criscienzo) capo camorrista e di conseguenza la camorra napoletana.
Era già successo in passato, ma mai in maniera così palese e ufficiale.

Le carceri in quel periodo (dopo i moti del 1848) avevano forgiato un primo una prima connessione, fra camorristi e uomini politici liberali che si opponevano ai Borboni. Molti avvocati, professori, nobili, in contrasto con la dinastia dei Borboni erano finiti in carcere e si erano incontrati con i camorristi ottenendone il rispetto.
Quindi l'idea di Liborio aveva già una lunghezza d'onda che si estendeva a tutto l'ambiente liberale e godeva che tendeva ad un ordine di coesione fra camorra e stato.

Vi è anche una data che fissa quella legge fisica: 3 luglio 1860
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Published on May 20, 2017 06:49

May 19, 2017

Garibaldi arriva a Napoli - come si prepara la città



Don Salvatore aveva fatto ciò che aveva promesso.
Domani a Napoli sarebbe arrivato Garibaldi. Napoli era tutta sotto il controllo di Don Salvatore che aveva ricevuto mandato dal ministro Liborio.

Da abilissimo mestatore politico, l'avvocato Romano Liborio faceva credere ai liberali di star preparando il terreno per l'avvento di Garibaldi, e lasciava intendere ai borbonici di essere l'ultimo strenuo difensore della monarchia: in realtà il ministro, resosi conto che le due parti in lotta avevano eguali probabilità di prevalere, agiva in maniera da poter in ogni caso, mantenere se stesso a galla.

Ma alla fine il suo continuo anticipare status e cambiare di posizione in base alle dinamiche politiche lo avrebbe fatto emarginare dalla vita politica dell’Italia unificata.

L'accusa più grave che gli sarebbe stata mossa sarebbe stata quella di aver costituito una speciale forza dell'ordine composta di camorristi, di essersi connesso con la camorra e di averne favorito la condizione, da illegale a legale. Di aver costruito la prima ufficiale collusione fra stato e mafia facendo entrare nella forza di ordine pubblico Salvatore De Crescenzo (Tore 'e Criscienzo) capo camorrista e di conseguenza la camorra napoletana tutta.

Eppure in quella città controllata dalla Camorra, grazie all’accordo con Liborio, i primi giorni dell’accordo camorristi e baldracche con coltelli e stocchi, pistole e fucili aveva percorso in lungo e largo Napoli gridando “Viva l’ Italia, viva Vittorio e Garibaldi” seguiti da cori di monelli, accattoni e cialtroni e canaglia in generale alla busca di danaro.

Non si può dire che, almeno nei primi giorni del loro mandato, gli ex camorristi diventati poliziotti si fossero comportati molto bene. Avevano incominciato col pugnalare un loro collega, Peppe Aversano, per poi passare a compiere molte vendette private.

In piazza San Nicola alla Carità aggredirono il giovane ispettore della polizia borbonica Perrelli, che nel passato li aveva perseguitati; ferito gravemente, l'ispettore venne adagiato su una carrozzella e avviato all'ospedale, senonché un camorrista di nome Ferdinando Mele lo raggiunse e gli inferse il colpo di grazia, uccidendolo.

Un altro ex commissario di Pubblica Sicurezza, Cioffi, fu picchiato a sangue e si salvò per miracolo. Istigati da patrioti del comitato «Ordine», il 28 giugno i camorristi incominciarono a dare l'assalto a tutti i commissariati di Pubblica Sicurezza, distruggendo gli archivi e poi sedendosi pomposamente dietro le scrivanie, forti della loro nuova condizione.

Al commissariato del rione Stella, dal quale i poliziotti borbonici non avevano voluto sloggiare, vi era stata una sparatoria nutritissima…

Che le cose stessero cambiando lo si sentiva nell’aria. C’era troppo di tutto. Di tutto quello che nel passato non c’era stato.
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Published on May 19, 2017 08:33

May 16, 2017

I mali dell'Italia sono già all'origine del processo di Unificazione: Romano Liborio



Da oggi iniziamo una carrellata di personaggi e fatti per capire come i mali di questo paese siano già tutti codificati fin dall'origine stessa dell'Italia, nella sua Unificazione.  Da allora quasi nulla o pochissimo è cambiato.
Cominciamo con Romano
Liborio.

Immaginiamo un universo in cui per capire l'origine di un fenomeno sia necessario comprendere anche tutto il resto, in cui per comprendere perché un pianeta orbita intorno a una stella si dovessero sviscerare prima le leggi fondamentali del cosmo e determinare come esse agiscono sui costituenti elementari della materia ma un universo in cui tuttavia si possano svelare questi meccanismi un passo alla volta, svelare un meccanismo dopo l'altro a ritroso prima di svelare la singolarità, il momento iniziale che ha determinato tutto il resto (Big bang).
Così Newton, che non sapeva nulla degli atomi, ha potuto avere le sue fondamentali intuizioni sulla natura del moto e della gravità. Einstein non ha dovuto capire come fosse nato lo spaziotempo per poter stabilire il suo ruolo nella trasmissione della forza gravitazionale.

Il mondo degli uomini, delle loro idee e comportamenti sociali, in fondo non differisce di molto.
Sempre mi sono chiesto da che derivi il voltagabbanismo, la doppiezza e ambiguità politica italiana. Il famoso trasformismo.
Ebbene senza arrivare al Big Bang, e limitandosi a stabilire una legge classica valida come punto regolatore di questo comportamento italiano la chiameremo legge Liborio.
Romano Liborio, chi era costui?
Colui che ha codificato il trasformismo, lo ha reso prassi e legge fisica fondamentale della politica italiana.
Incomincia la sua carriera in una setta carbonara e la prosegue da ministro di Polizia del re Borbone mentre si mantiene in contatto con Cavour, tradisce Cavour e si schiera con Garibaldi. Garibaldi lo farà ministro Cavour lo escluderà da ogni carica.
Un uomo di forte personalità e intelligenza che vive costantemente in superposition, in più stati contemporaneamente. A causa forse della sua estrema intelligenza tattica egli sa anticipare di uno stato lo stato che già occupa per cui chi vi si relaziona non ne coglie mai la posizione in atto . Ma alla fine questa sua continua superposition lo farà collassare e sarà emarginato dalla vita politica.
L'accusa più grave che gli si muove è quella di aver costituito una speciale forza dell'ordine composta di camorristi. Di essersi connesso con la camorra e di averne favorito lo stato, da illegale a legale. Di aver costruito la prima ufficiale collusione fra stato e mafia facendo entrare nella forza di ordine pubblico Salvatore De Crescenzo (Tore 'e Criscienzo) capo camorrista e di conseguenza la camorra napoletana.
Era già successo in passato, ma mai in maniera così palese e ufficiale. Le carceri in quel periodo (dopo i moti del 1848) forgiarono un primo entanglement, una prima connessione, fra camorristi e uomini politici liberali che si opponevano ai Borboni. Molti avvocati, professori, nobili, in contrasto con la dinastia dei Borboni erano finiti in carcere e si erano incontrati con i camorristi ottenendone il rispetto.Quindi l'idea di Liborio aveva già una lunghezza d'onda che si estendeva a tutto l'ambiente liberale e godeva di un processo entropico decrescente, dal caos fra l'opposizione camorra-stato si tendeva ad un ordine di coesione  fra camorra e stato.
Vi è anche una data che fissa quella legge fisica: 3 luglio 1860.
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Published on May 16, 2017 10:31

May 13, 2017

Che cos’è l’amore? (Da Amore Šaltibarščiai e Pomodori Rossi)





Ormai verso la fine di questa storia credo posso ritornare a trattare un tema che ho già anticipato e toccato passim nel libro.
Che cos’è l’amore?
E’ una simmetria risponderei. E’ un’energia e una struttura che permane e si conserva anche quando scompare.
Infatti non appena riappare subito la riconosci e ne provi gli stessi effetti.
E’ una simmetria che tira fuori dalla singolarità (solitudine in senso stricte) e congiunge all’universo attraverso l’unione trascendente di due singolarità (amante > < amato)
L’amore cambia si trasforma ma rimane inalterato nella sua struttura e modo di attuarsi. Cresce, descresce, compare, scompare…ma sono sempre modalità dell’Amore.
Per ogni forma che si conserva c’è una simmetria.
Attraverso questa struttura siamo accettati come siamo. Siamo accettati in quanto tali. Non abbiamo alcunché da dimostrare. Anche le nostre parti più negative scompaiono, non vengono viste. Vengono rimosse.
L’amore trasfigura.

Io sono, Austėja è, un insieme di quarks, gluoni, elettroni e fotoni
Io sono, Austėja è, due persone che si amano

Io sono, Austėja è, due oggetti materiali che coeriscono nelle leggi dell’universo
Io sono, Austėja è, siamo capaci di provare l’Amore una struttura che ha le sue leggi

Il nostro stato di amore è inserito in quella struttura e soggetto a quella struttura, in essa cambiamo in quanto essa non cambia.
Nell’amore gioiamo e senza amore soffriamo.
Quella struttura simmetrica è bellezza.

















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Published on May 13, 2017 13:51

May 6, 2017

"Rugìle" Recensione di Alessandro Ricci


di ALESSANDRO RICCI

“Esiste il libero arbitrio?”, si chiede il protagonista di Rugìle, descrivendo una storia d’amore intensa, drammatica (lo saranno tutte le sue), che sembra essersi sviluppata secondo vie deterministiche, a cui non si potevano sottrarre lui e la sua amata.
Questo interrogativo si dipana lungo tutta l’opera di Fabrizio Ulivieri grazie a sunti posti a fine di ogni capitolo, espediente curioso e interessante per riflessioni mai scontate e che gettano luce sugli avvenimenti vissuti dai personaggi del romanzo. I loro comportamenti, il loro incontrarsi, il loro amarsi, il loro perdersi e il loro ritrovarsi, sono frutto di forze superiori, governate dall’istinto, o sono la conseguenza di libere e consapevoli scelte?

“Io sono romantico. E’ vero che amo il sesso ma in fondo sono romantico. Cerco l’amore. Faccio sesso ma senza amore alla fine mi sento vuoto”. Leggendo questo silenzioso grido d’amore, il lettore si dà una risposta: le nostre scelte sono libere, condizionate solo da una continua e disperata ricerca d’amore. Si può essere trascinati in storie di sesso e goderne, ma quello che alla fine tutti desideriamo è accettare l’altro e essere accettati. Amare e essere amati. Il nostro incontra ragazze e donne con una vita sessuale intensa e libera, ma sia lui che le sue amanti cercano l’uno nelle altre il riparo sicuro dalle prove cui la vita li sottopone. Cercano l’amore vero. Così anche per Rugìle, ultima e più significativa relazione descritta, nella quale il protagonista sembra trovare il senso della sua vita, se pur in modo drammatico.

La scrittura di Ulivieri è semplice, veloce, e profonda. Quando cita personaggi illustri a conferma dei suoi pensieri ispira curiosità, mai pedanteria. Le sue riflessioni sul determinismo e sulla libertà coinvolgono e fanno riflettere sulla propria vita e le sue traiettorie. E quando usa un linguaggio forte per descrivere le esperienze sessuali del protagonista, si ha sempre la sensazione che quella forza nasconda in realtà la forza dell’amore che lui è pronto a dare e che desidera ricevere.

Rugìle è un romanzo molto bello, forte e vero, spietato e romantico.

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Published on May 06, 2017 11:05

April 25, 2017

„Rugilė“

Romane „Rugilė“  pasakojama vyro florencijiečio gyvenimo istorija, girdint tik jo balsą, ir išgyventas įsimylėjimo akimirkas, meilės pinkles, kančias, aistringą seksą be tabu, išgijimą iš sunkios ligos be medikų pagalbos, gyvenimo etapą, kai nebėra ką prarasti. Autorius įvardina, kad pagrindinis knygos herojus yra instinktas, kurio visi mes esame valdomi. Kūrinyje ištisinė žmogaus, ypač vyro, vidinė analizė per egzistencinę prizmę. Keliami klausimai: Kodėl esame taip stipriai valdomi aistros ir primityvaus sekso instinkto? Kur šis instinktas glūdi ir kokia jo kilmės priežastis? Kaip skirtingai gali mylėti moteris italė, japonė, amerikietė, lietuvė? Kokios šių moterų vertybės, meilės išraiškos, aistra, manieros bei mąstymo būdai?  Kodėl turime kasdienines kaukes, su kuriomis išeiname į gatvę, į viešumą? Kokius ženklus palieka gyvenimas ant mūsų kūnų ir sielų? Kokia gyvenimo ir mirties akistata?
    Galiausiai, knygos autorius atsakymus į kamuojančius egzistencinius klausimus randa kvantinės fizikos teorijos išaiškinimuose. Išmintingai išdėstyta knygos struktūra, knygą leidžia skaityti dvejopai: galima tiesiog mėgautis tik įtraukiančiu romanu, siužeto vingriais,  meilės istorijomis, vizualiai aprašytomis sekso scenomis, o galima žvelgti į viską giliau ir kiekvieno skyriaus gale su herojumi analizuoti gyvenimo pramės klausimus su minėtąja kvantine fizika. Ši knyga nepalieka abejingų ir sukelia diskusijas, vienus ji jaudina, kitus trikdo ir šokiruoja.

APSIPIRK

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Published on April 25, 2017 13:12

April 21, 2017

Storia di Pelo, il ragazzo che vinse la Milano - Sanremo



di Fabrizio Ulivieri
Piero Chechi era un ragazzino di quindicianni. Come il padre, come il nonno, come il bisnonno... faceva il boscaiolo. Nessuno lo chiamava Piero ma tutti "Pelo": Pelaccio il nonno, Pelone il babbo, Pelona la mamma, Pelina la sorella, Peluccio, Peletto, Pelino i tre fratelli.
Tutti i giorni estate o inverno inforcava la bicicletta e via per le viottole dei campi, per i sentieri scoscesi e impervi, con il biciclettone di ferro del nonno con tanto di gomme piene. Salite, discese, torrentelli, broti...e via su e giù per quei poggi accidentati. E quando pioveva via...con le ruote che affondavano dentro il pantano, ritto sui pedali per chilometri e chilometri con la pioggia che gli picchiava sugli occhi mezzi chiusi.
E quando passava per l'aie, tutti i ragazzini gli correvano dietro e gli facevano la pipinara. "C'è Pelo, c'è Pelo! Dài Pelo! Dài Pelo che sei il primo!"
E allora sì che ci dava dentro, Pelo. Pareva un fulmine su quelle stradine bianche, tutto impolverato. Partiva con il buio e tornava a casa con il buio.
Abitava in località i Sassi Bianchi, fra San Gemignano e il Castagno.
La sera gli piaceva andare all'osteria, perché lì c'era gente che aveva girato il mondo: chi era stato a Volterra, chi a Cècina; i più azzardosi a Livorno, qualcuno addirittura a Grosseto.
E lui ascoltava con gli occhi sgranati e la bocca aperta. Si parlava di tutto, ma soprattutto di bicicletta. Si parlava di Petit-Breton, di Girardengo, di Ganna, di Gerbi "il Diavolo Rosso". Della terribile Parigi- Roubaix, su quell'inferno di strada tutta pietra. Del Giro d'Italia, del Tour de Françe. Ma i racconti che più l'appassionavano erano quelli sulla Milano-San Remo. Perché era corsa quasi sempre con un tempo terribile, perché c'erano le mitiche salite del Turchino e della Cipressa. Perché si correva vicino al mare, che Pelo aveva visto solo una volta e ne aveva un ricordo impressionante.
Così cominciò ad andar matto per le corse in bicicletta. Si mise a seguire tutte le gare che si facevano nei dintorni. Prese ad allenarsi di brutto sui saliscendi tra San Gemignano, Certaldo, Gambassi e il Castagno: giro questo che faceva anche due volte al giorno.
C'aveva preso davvero gusto.
Il babbo, Pelone, cominciò però ad imbestialirsi con quel figliolo che invece di andare nel bosco a spaccar legna se ne stava tutto il giorno su e giù per quei poggi. E per di più mangiava come un pescegatto.
Ma Pelo non sentiva ragioni e, testardo com'era, continuava ad allenarsi. "Domani babbo vò a fare una 'orsa a Montignoso . E gliel'è la festa di' Patrono e fanno una 'orsa in bicirettta. Mi ci sono iscritto e ci vò.", disse una sera a cena Pelo al babbo.
"Tu' se' matto! T'ha dato di vorta i' cervello! E' l'ora di falla finiaa. E' l'ora che tu' metta i' capo a posto. Da lunedì si torna a' i' lavoro ni bosco e basta con questa storia della biciretta, che tutti mi pigliano pe' i' culo. 'Pelone, ho visto i' tu' figliolo ieri in biciretta...ma che vò ffa'? Un laora più con te...o che s'è messo a fa' i' cicrista?' "
Quella notte Pelo fece un sogno. Gli pareva di essere una locomotiva. "Com' è bello essere un treno !", pensava. Correva all'impazzata lungo la rotaia che gli sembrava infinita. Correva, correva lungo quella strada senza fine.
D'improvviso finì la rotaia e davanti vide una salita tutta bianca per il ghiaino, ritta e scoscesa da far paura.
D'un tratto si trovò a metà di quella salita. Guardò in giù e vide che veniva su pian piano un omino tutto nero. Sudicio, imbrattato di fango, con un biciclettone di ferro, nero anch'esso, enorme tanto che quell'omino vi pareva davvero piccolo lì sopra. Gli passò davanti a Pelo. Gridò qualcosa. Ma la voce gli mancò a Pelo. L'omino gli sfrecciò di fronte come un razzo. Pelo si girò e lo vide lassù in cima alla salita perso in mezzo a un chiarore che accecava a guardarlo.
La mattina Pelo si alzò presto che nemmeno si ricordava più del sogno.
A Montignoso vinse. Sull'ultima salita partì lui con il biciclettone del nonno e non ce ne fu per nessuno. Gli altri avevano tutti la bicicletta da corsa, ma non vi fu nulla da fare. Pelo parve un missile. Arrivò a Montignoso con venti minuti sui primi inseguitori.
Quel giorno fece anche amicizia con Giovannino.
Giovannino, che tutti chiamavano Giovannin senza paura, perché era ardito e amava ficcarsi nelle imprese più temerarie fu l'ultimo ad arrivare.
Pelo era sul palco, in attesa d'essere premiato, quando vide arrivare Giovannin senza paura. Pelo lo guardò: "Come dev'èsse triste arrivare utimo, da solo, quando gli attri son bell'arrivai!". E non si sentì più felice d'aver vinto.
Quando gli portarono i fiori per la premiazione Pelo disse: "I fiori un si mangiano. Portatemi piuttosto una bella pastasciutta a me e a qui' ragazzo laggiù!" , indicando Giovannin senza paura, e gli corse incontro.
Da quel giorno diventarono grandi amici. Si allenavano insieme, insieme andavano all'osteria.
Il babbo di Pelo, che sotto la scorza dura era tutt'altro che cattivo, a veder quel su'figliolo vincere, non vi dico che provava. Non stava più nella pelle, e fu il primo e il più accanito tifoso di Pelo: "I' mi' figliolo è davvero forte. Lo dicevo io! Diventerà un gran corridore!", andava dicendo a chiunque gli si parasse davanti.
Pelone non era molto alto, e poco più di lui lo era Pelo, il figliolo: 1;60 l'uno 1,55 l'altro. E qui viene il bello: a quel che si dice, un certo giorno Pelo prese uno di quei corbelloni da boscaiolo con le cinghie.Vi mise dentro il suo babbo, se lo caricò sulle spalle, e salì in bicicletta e via su e giù per quei saliscendi ad allenarsi.
Così faceva ogni volta che il babbo era libero. Quando invece il babbo non poteva nel corbello ci metteva dei mattoni. Oppure quando c'erano le fiere nei paesi vicini ci metteva le palle da bocce per noleggiarle alle dette fiere.
Pelo continuava a vincere una corsa dopo l'altra. Ormai Pelo era un vero corridore. Allora il babbo lo portò dal Gazzarrini a Volterra e gli comprò la sua prima bicicletta da corsa.
I suoi avversari facevano di tutto per fermarlo. Una volta un certo Pandolfo da Montaione, scommesse con Pelo che non ce l' avrebbe fatta a mangiarsi una gallina lessa intera, e che tantomeno ce l'avrebbe fatta a partire. "Vuoi scommettere Pelo?", gli disse Pandolfo. "Scommettiamo. Tanto vinco io!", gli rispose Pelo. E fu di parola. Mangiò tutta la gallina, e vinse addirittura per distacco.
Un'altra volta ci fu uno, Carletto da Castelfiorentino, che durante la corsa gli fece bere la famosa acqua purgativa di Pillo. Ma anche qui nulla da fare. Pelo vinse, come sempre. "Vi vò in culo a tutti!", gli rifilò a Carletto al traguardo
Lo picchiarono perfino. In una corsa di trecento chilometri, passando in località Asciano, all'inizio di una salitella - Pelo era da solo, in fuga, come spesso succedeva - lo aspettò una masnada di furfantelli che lo legnarono ben bene.
Già da un pezzo si mormorava che Pelo avesse un patto col diavolo.
Tutti cercavano di scoprire il segreto per cui lui andasse così forte. Qualunque cosa facesse prima, durante o dopo la corsa, subito tutti lo imitavano sperando di aver carpito il segreto della sua forma.
Si sapeva ad esempio che Pelo metteva nella borraccia un biberone d'acqua, vinsanto e tuorlo d'uovo sbattuto. Immediatamente molti, saputolo, lo imitarono. Risultato: tanti, s'era nel periodo del solleone, o per il gran caldo o per il vinsanto o per tutt'e due, si sentirono male e finirono all'ospedale.
Un giorno Pelo si presentò alla partenza di una corsa a tappe con un bel sigaro toscano in bocca; fumava che pareva un turco. Il giorno seguente così, alla firma prima della partenza, s'aveva la sensazione d'essere ai soffioni di Larderello. Metà del gruppo, o forse più della metà, fumava che parevano dannati. Andò a finire, al solito, che a mezzo della corsa più della metà dei corridori si ritirò, perché accusavano forti difficoltà respiratorie.
Ormai Pelo era un mito.
Ma una cosa in quei giorni lo preoccupava molto: il suo amico Giovannino.
"Giovannino sta' attento ai fascisti", gli diceva spesso Pelo. Ma quello duro, ostinato, sprezzante del pericolo continuava a parlar male del regime e a far propaganda comunista. Giovannino aveva più volte ricevuto avvertimenti. Un giorno gli avevano bucato tutt'e due le ruote della bicicletta; un' altra volta, durante una corsa - Giovannino s'era staccato dal gruppo - una macchina gli s'era avvicinata e aveva cercato di farlo finire in una fossa.
Uno di noi avrebbe cercato, a quel punto, di mettere la testa a posto, o quantomeno sarebbe stato più prudente. Figuriamoci Giovannin senza paura! Nulla. Sapete cosa fece? Una notte, saranno state le due o le tre di notte, piglia e va al Castagno; scassina la porta della sacrestia, sale sul campanile della chiesa e ci mette un grammofono e dài a tutta càllara "L'Internazionale", e via a gambe levate. Dopo neanche due minuti è lì una squadra di fascisti ("Dàgli al comunista! Dàgli al comunista!", urlavano), che per dieci minuti prende a fucilate la cima del campanile, finché alla fine non ne vien giù il grammofono e si rompe in mille pezzi.
Per sua sfortuna, qualcuno aveva visto Giovannino e fatta la spia ai fascisti. Giovannino, avvertito, si dette alla macchia.
I fascisti vanno a casa sua, non lo trovano e allora pigliano la sua bicicletta a martellate e gliela disfanno. Non contenti prendono il suo povero babbo e lo portano alla Casa del Fascio. E lì a bottiglioni d'olio di ricino lo purgano ben bene.
Quel pover'uomo del suo babbo per poco non ci lascia le penne e ci rimane secco: "Son bell'e morto! Son bell'e morto!", piagnucolava il poveraccio mentre tornava a casa, sbombardando quasi avesse mangiato fagioli per un mese.
Da quel giorno Giovannino la giurò ai fascisti. E quando poteva entrava nelle case dei più ricchi e gli rubava tutto, per poi darlo alle vittime del fascio.
Ma la passione della bicicletta era grande e Giovannino soffriva molto a star lontano dalle gare. Allora prese a travestirsi e a mischiarsi tra la folla per andare a vedere il suo amico Pelo. Pelo lo sapeva, gliel'aveva fatto dire Giovannino che andava sempre a vederlo vincere.
E ogni volta che Pelo saliva a prendere i fiori si guardava intorno ("Giovannino, dove sei?"), per vedere se riusciva a distinguerlo fra la gente attorno al palco.

E venne il giorno della Milano - San Remo
E venne il giorno della Milano - Sanremo. Il sogno di Pelo fin da bambino. L'aveva affascinato la vittoria di Ganna, che fuggito sul Turchino, sotto il nevischio, caduto in discesa e ripreso da Georget ne fu infine superato. Ma buttatosi caparbiamente all'inseguimento lo riacchiappò a Savona per poi proseguire da solo e vincere.
Se Ganna era il corridore di quegli anni, come poteva dimenticare il mitico "Diavolo Rosso", Gerbi, così chiamato perché indossava sempre maglia rossa, berretto rosso e scarpette rosse, con cinghietti rossi. Una specie di Mefistofele senza barba e baffi che, primo fra tutti, si depilò le gambe. Un matto da legare, un astuto, uno scaltro, duro e individualista afflitto da uno strano complesso di superiorità, che solo nella sete di fuga solitaria riusciva ad esaltarsi e ad appagare il suo senso mistico della corsa. Correre era vivere per lui. Correva quasi si trattasse di vita o di morte.
Una volta alla Corsa Nazionale, presso Asti - Gerbi era in testa - un ragazzo gli tagliò la strada e lui cadde a terra. Svenuto e sanguinante lo trasportarono in una farmacia. Qui gli suturarono la ferita alla bell'e meglio. Si mandò a prendere del ghiaccio per scongiurare la commozione cerebrale in attesa di essere trasferito all'ospedale. Gerbi si risvegliò, si ritrovò tutto fasciato - "E' morto, è morto il Diavolo Rosso !" si diceva fuori -; "Che è successo?" domandò lui .
Quando gli spiegarono che era caduto per colpa di un ragazzino e che nel frattempo erano già passati alcuni altri corridori, tutto malconcio, terreo in volto, risalì in bicicletta e pedalando raggiunse il gruppetto di testa e poi Gajoni che era al comando, in fuga solitaria. Lo staccò e fu primo a Milano.
Si scrisse allora che aveva pedalato come un incosciente, sudicio di sangue e di polvere; con la febbre martellante e mille faville davanti agli occhi; il profilo glabro e tagliente che spuntava a tratti fra le bende, come un diavolo. Le gesta di Gerbi, sentite all'osteria , gli erano rimaste fitte nel cuore a Pelo. Sentiva di assomigliargli al Diavolo Rosso, per temperamento e per coraggio. E se Gerbi si allenava con i mattoni legati alla sella della bicicletta, lui si allenava con il babbo nella cesta. Se Gerbi si era guadagnato il soprannome di Diavolo Rosso, Pelo si prese quello di Campione della Tripolitania. Correva con una bicicletta senza parafanghi, e all'arrivo era tanto sudicio e infangato da sembrare un africano.

"Babbo son emozionato. Mi tremano le gambe. Mi tremano le gambe solo a pensarci. Domani un ce la fò !", disse Pelo al suo babbo la sera prima.
"Ma và 'ia, coglione!", fu il commento del babbo.
Quella notte Pelo stette male.
Il sonno fu agitato. La notte rifece quello stesso sogno. Gli pareva di essere una locomotiva che filava all'impazzata sui binari. D'improvviso s'arrestò ai piedi di una salita impervia. Questa volta però c'era un bivio. A destra la strada saliva ampia e larga verso la cima del monte dove un bagliore accecante impediva la vista. A sinistra si dipartiva una stradicciola buia e nera.
Lui fece per prendere a sinistra. Ma un vento fortissimo cominciò a soffiargli sul fianco sinistro, costringendolo allora a prendere la strada di destra. Mentre saliva, vide giù Giovannino che solo solo aveva imboccato quella stradina buia. Era triste e gli pareva piangesse. Urlò. Non gli venne niente alla bocca. Stranamente non era più sulla bicicletta. Era a metà salita, in piedi, come un tifoso ai bordi della strada. Guardò verso il basso, ed ecco che di nuovo veniva su quell'omino tutto nero e sozzo, su quel biciclettone di ferro.
Guardò l'omino e poi guardò in basso verso la stradina. Giovannino non c'era più.
Il vento ricominciò a soffiare violento sul fianco sinistro, e gli piegò il volto verso la cima del monte, nell'attimo che l'omino spariva nella luce abbacinante.
Quando Pelo si risvegliò era tutto sudato e agitato. Fece per rizzarsi sulle gambe: non gli ressero e gli ronzava la testa. Sentiva di avere un febbrone da cavallo.
"Vatta! Vatta!", urlò.
Dalla camera accanto comparve il fido Vatta, massaggiatore.
"Aiutami, sto male. Ho la febbre."
"Ci penso io!", rispose Vatta, e andò di là in camera.
Ritornò con un boccettino in mano:"Bevi questo!", gli disse.
E Pelo senza far domande l'ingoiò:"Che è?", chiese.
"Nulla, una cosa che fò io con l'erbe! Bevi e starai meglio!".
Meglio lì per lì stette. Ma le gambe tremavano, e l'emozione gli tagliava il fiato.


Alla partenza il tempo era da tregenda. Erano in centocinquanta alla partenza. C'era Binda, Girardengo, Piemontesi, Guerra...
Milano era fredda e nebbiosa.
Si indossò la giacca. Cominciò a piovere. Verso Pavia smise di piovere ma il cielo era sempre minaccioso: riprende a piovere a Voghera. I corridori sono irriconoscibili per il fango, Ai centottantasei metri di Ovada ci sono i primi scatti, e va in fuga un gruppetto, tra cui Girardengo.
Si supera i confini del Monferrato e si entra nella collina ligure. Si attacca i cinquecentotrentadue metri del Turchino. Nevica. Tutto è gelato. La strada appare ricoperta di quindici-venti centimetri di neve ed è battuta da una bufera di fiocchi impazziti, che ferisce le carni dei corridori, che non sembrano più figure umane ma strani addobbi natalizi.
Pelo sta male. Le gambe non girano. Si sente gelato. Sbuffa. Sgrugna. Ansima. Ma sale con il biciclettone. Ma ormai sta per mollare. Le lacrime gli vengono agli occhi. Vede tradito il sogno di bambino. Guarda su in alto e vede la cima avvolta da un chiarore abbagliante, impossibile quasi a guardarsi. "E' Troppo lontana. Non ce la faccio più. Mollo!"
Ma d'improvviso sente una pacca, due pacche...sulle spalle. "Vài Pelo.Vài!Vài!", gli urla una voce familiare. Si gira. E' Giovannino. "Vinci Pelo!Vinci per me!": gli urla in faccia ancora.
Pelo fa appena in tempo a voltarsi che vede due figuri vestiti in abiti borghesi scuri scendere da una macchina che era dietro di lui, acchiappare Giovanni e a forza di legnate lo caricano sulla macchina. "Vai Pelo! Vai! Vinci per me!...", gli ribolle ancora nelle orecchie.
Il sangue gli sale alla testa, un calore improvviso gli entra nel corpo. Guarda in alto. Vede la cima chiara, ora, calma e placida. Ora la cima è più vicina.
S'alza sui pedali, Pelo. Scatta. Scatta. Scatta...scatta a ripetizione. Ora pare il Pelo di sempre. Riacchiappa il gruppetto, riacchiappa Girardengo in fuga e lo stacca e scollina da solo. Si butta giù a capofitto nella melma della discesa e zig-zagando sparisce fra le curve.
Tutti si aspettavano il crollo di Pelo sul Berta, ma i muscoli di Pelo non fanno scherzi e continua la sua fuga solitaria, e alla media straordinaria di 29,485 km all'ora taglia tutto solo il traguardo di Sanremo.
Quando Binda e Piemontesi arrivano sono già passati venti minuti. Girardengo a venticinque. Guerra a trentadue. Il gruppetto dei migliori a quaranta.
E Pelo?
Di Pelo allora si perdono le tracce.
A quel che si narra Pelo sparì. Alla premiazione uno gli mormorò in un orecchio che Giovannino era morto, ammazzato dai fascisti a suon di legnate. Allora si dice che pianse, buttò da una parte i fiori. Prese la bicicletta e se ne andò verso la Cipressa.
C'era uno strano chiarore lassù in cima alla Cipressa: forse vi nevicava. Qualcuno racconta di aver visto un omino nero, come un negro, tutto sudicio che saliva, con un biciclettone anch'esso nero, sù verso quel chiarore lontano lontano.

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Published on April 21, 2017 04:00