Fabrizio Ulivieri's Blog, page 129
November 27, 2017
STORIA DI PELO, IL RAGAZZO CHE VINSE LA MILANO-SANREMO (I parte)

a mia madre
Piero Chechi era un ragazzino di quindicianni. Come il padre, come il nonno, come il bisnonno, faceva il boscaiolo. Nessuno lo chiamava Piero ma tutti “Pelo”: Pelaccio il nonno, Pelone il babbo, Pelona la mamma, Pelina la sorella, Peluccio, Peletto, Pelino i tre fratelli.
Tutti i giorni estate o inverno inforcava la bicicletta e via per le viottole dei campi, per i sentieri scoscesi e impervi, con il biciclettone di ferro del nonno con tanto di gomme piene. Salite, discese, torrentelli, broti, e via su e giù per quei poggi accidentati. E quando pioveva via, con le ruote che affondavano dentro il pantano, ritto sui pedali per chilometri e chilometri con la pioggia che gli picchiava sugli occhi mezzi chiusi.
E quando passava per l’aie, tutti i ragazzini gli correvano dietro e gli facevano la pipinara. “C’è Pelo, c’è Pelo! Dài Pelo! Dài Pelo che sei il primo!”
E allora sì che ci dava dentro, Pelo. Pareva un fulmine su quelle stradine bianche, tutto impolverato. Partiva con il buio e tornava a casa con il buio.
Abitava in località i Sassi Bianchi, fra San Gemignano e il Castagno.
La sera gli piaceva andare all’osteria, perché lì c’era gente che aveva girato il mondo: chi era stato a Volterra, chi a Cecina; i più azzardosi a Livorno, qualcuno addirittura a Grosseto.
E lui ascoltava con gli occhi sgranati e la bocca aperta. Si parlava di tutto, ma soprattutto di bicicletta. Si parlava di Petit-Breton, di Girardengo, di Ganna, di Gerbi “il Diavolo Rosso”. Della terribile Parigi-Roubaix, su quell’inferno di strada tutta pietra. Del Giro d’Italia, del Tour de France. Ma i racconti che più l’appassionavano erano quelli sulla Milano-San Remo. Perché era corsa quasi sempre con un tempo terribile, perché c’erano le mitiche salite del Turchino e della Cipressa. Perché si correva vicino al mare, che Pelo aveva visto solo una volta e ne aveva un ricordo impressionante.
Così cominciò ad andar matto per le corse in bicicletta. Si mise a seguire tutte le gare che si facevano nei dintorni. Prese ad allenarsi di brutto sui saliscendi tra San Gemignano, Certaldo, Gambassi e il Castagno: giro questo che faceva anche due volte al giorno.
C’aveva preso davvero gusto.
Il babbo, Pelone, cominciò però ad imbestialirsi con quel figliolo che invece di andare nel bosco a spaccar legna se ne stava tutto il giorno su e giù per quei poggi. E per di più mangiava come un pescegatto.
Ma Pelo non sentiva ragioni e, testardo com’era, continuava ad allenarsi. “Domani babbo vò a fare una ‘orsa a Montignoso. E gliel’è la festa di’ Patrono e fanno una ‘orsa in biciretta. Mi ci sono iscritto e ci vò.”, disse una sera a cena Pelo al babbo.
“Tu’ se’ matto! T’ha dato di vorta i’ cervello! E’ l’ora di falla finìaa. E’ l’ora che tu’ metta i’ capo a posto. Da lunedì si torna a’ i’ lavoro ni bosco e basta con questa storia della biciretta, che tutti mi pigliano pe’ i’ culo. ‘Pelone, ho visto i’ tu’ figliolo ieri in biciretta, ma che vò ffa’? Un laora più con te, o che s’è messo a fa’ i’ cicrista?’ ”
Quella notte Pelo fece un sogno. Gli pareva di essere una locomotiva. “Com’ è bello essere un treno!”, pensava. Correva all’impazzata lungo la rotaia che gli sembrava infinita. Correva, correva lungo quella strada senza fine.
D’improvviso finì la rotaia e davanti vide una salita tutta bianca per il ghiaino, ritta e scoscesa da far paura.
D’un tratto si trovò a metà di quella salita. Guardò in giù e vide che veniva su pian piano un omino tutto nero. Sudicio, imbrattato di fango, con un biciclettone di ferro, nero anch’esso, enorme tanto che quell’omino vi pareva davvero piccolo lì sopra. Gli passò davanti a Pelo. Gridò qualcosa. Ma la voce gli mancò a Pelo. L’omino gli sfrecciò di fronte come un razzo. Pelo si girò e lo vide lassù in cima alla salita perso in mezzo a un chiarore che accecava a guardarlo.
La mattina Pelo si alzò presto che nemmeno si ricordava più del sogno.
A Montignoso vinse. Sull’ultima salita partì lui con il biciclettone del nonno e non ce ne fu per nessuno. Gli altri avevano tutti la bicicletta da corsa, ma non vi fu nulla da fare. Pelo parve un missile. Arrivò a Montignoso con venti minuti sui primi inseguitori.
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Published on November 27, 2017 06:24
November 26, 2017
Isole di felicità (Laimes salos) - trentacinquesima parte

In libreria, quella di Gedimino 9, trovò un libro. La colpì il titolo "The Sense of An Ending". Era di uno scrittore inglese: Julian Barnes.
Incuriosita dal titolo diede un'occhiata alle prime pagine. Di nuovo fu catturata da una frase "What you end up remembering isn't always the same as what you have witnessed".
- Vero - disse - ciò che ricordi è una deformazione di quello che hai veramente vissuto.
Provò a pensare al passato.
- Oh Dieve!
La gente che le era vicino si voltò verso di lei per la sua esclamazione a voce alta.
Si sentí imbarazzata . E posò il libro quasi fosse stata còlta a rubare un volume.
- Oh Dieve! - ripeté, ma questa volta solo dentro di sé e a debita distanza dal libro di Barnes come volesse rendere evidente che lei il libro non lo stava rubando.
Era sorpresa di ricordarsi così poco del suo passato. Per quello aveva avuto una reazione male interpretata dalle persone presenti.
Erano pochi i ricordi che aveva. Il padre, la madre, il patrigno, la malattia di Goda, l'uomo di Roma...era tutto qui il suo passato?Sí. Evidentemente sí, poiché non le veniva altro alla mente.
A fatica riuscí ad ammettere quella verità.
Come poteva aver dimenticato tutto?
La frase di Barnes le fece supporre che il presente si fosse sovrapposto in modo pressoché assoluto al passato.
Forse era troppo incentrata sul presente, che le toglieva ogni energia per riuscire a focalizzarsi sul passato.
In effetti, a pensarci ora, gli sforzi della sua vita erano tutti rivolti alla sopravvivenza quotidiana. E se non avesse letto la frase di Barnes nemmeno se ne sarebbe accorta.
Per quello anche Mino era passato come una meteora?
Poteva essere quella la ragione. Non trovava altra spiegazione.
Si diresse al bar. In fondo sulla libreria. Vi si trovava un caffè, Huracán caffè. Dalle finestre si vedeva la città innevata fino al colle del castello.
Pensò che in fondo Vilnius era una bella città e che poi vivere in Lituania non era poi così brutto come aveva pensato.
Sì, non c'era il sole ma vi era la neve. E quando cadeva la neve a Vilnius Rūta era in pace con se stessa.
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Published on November 26, 2017 09:04
November 24, 2017
"Storia di Pelo - il ragazzo che vinse la Milano-Sanremo"

Da oggi, dopo la riproposta di "Marco Pantani - la distruzione di un mito" che un ottimo successo ha incontrato, vogliamo ripresentare il nostro primo racconto sul ciclismo. "Storia di Pelo - il ragazzo che vinse la Milano - Sanremo". Breve racconto che fu inserito nel 2003 nel "Dizionario del ciclismo italiano", pubblicato dalla Bradipo libri e poi è stato ripubblicato su molti siti online, ultimo quello dello scomparso amico Matteo Patrone: Il Politico.
E che siti come Avanguardia Nazionale ha largamente ripreso per parlare di Pietro Chesi.
In toni da favola ripropone la vera storia di Pietro Chesi, che mia madre - nata dalle parti dove era nato e vissuto Pietro Chesi - mi raccontava in termini altrettanto favolistici.
Ma chi Era Pietro Chesi?
E' un eroe degli anni del ciclismo eroico, delle strade polverose e bianche, degli omini neri e sudici che con le loro gesta infiammavano gli animi degli italiani, della strade piene di fango in cui s' impantanavano quegli eroi dai neri biciclettoni con le ruote piene, che nasce la favola di un Carneade che sconosciuto a tutti beffa i campioni di allora rifilandogli un bello schiaffo, vincendo nientedimeno che la XX Milano - Sanremo del 1927.
Quel Carneade fu Pietro Chesi da Gambassi, in provincia di Firenze. Terra povera. Come povero era Pietro. Povero il babbo, boscaiolo di quella contrada toscana.
Pietro Chesi, classe 1902, che in quelle zone tutti conoscevano come Pelo, e che probabilmente fu un soprannome tramandato dal bisnonno al nonno e dal nonno al padre quasi appartenesse geneticamente alla famiglia, a giudicare dalle foto d'epoca ci appare non un gigante. Ma soprattutto sudicio, perché correva senza parafango. Quasi nero. Tanto che qualcuno, forse un giornalista di imperiali sentimenti, chiamò all'epoca "Il campione della Tripolitania".
A vederlo, nelle foto, sul biclettone non sembra certo l'airone Coppi dalle gambe lunghe e affusolate ma un modesto torello di quelli alla Vito Taccone o alla Vladimiro Panizza. Grandi polmoni e tutto muscoli. Dove la bicletta sembra più uno strumento da onesto lavoratore del pedale che prolungata estensione del corpo del grande campione con cui dialoga e sui cui danza.
Se Coppi aveva lo sterno carenato da leggero airone, Pelo (perché a Gambassi tutti lo conoscevano così, il Chesi) aveva un bel facciotto da torello di razza. Grande forza nelle gambe da far scoppiare i pedali. A ventidueanni vinse la sua prima corsa a Montignoso per la festa del patrono, con una bicletta normale. Tre anni dopo avrebbe vinto la Milano - Sanremo con una vera bicicletta da corsa.
Già da giovane, correndo per l'U.S. Castelfiorentino, si era messo in luce per essere un coraggioso, e uno scriteriato alla Gerbi: il famoso " Diavolo Rosso" , che si dice sia stato il primo, nella storia del ciclismo, a depilarsi.
Il torello da vero toscanaccio non scherzava né quando si allenava né quando era a tavola.
La diceria popolare racconta che per allenarsi sulle salite intorno a Gambassi mettesse il babbo dentro un corbellaccio da boscaiolo e caricatoselo in spalla inforcava il biciclettone e via su e giù per quei micidiali saliscendi che in Toscana chiamano "mangia e bevi".
E quando il babbo non poteva allora Pelo riempiva il corbellone di mazzi di bocce da pallaio, se lo metteva sul groppone e partiva per andare a noleggiarle alle fiere in Era o nei pressi di Volterra.
Quanto al mangiare Pelo era noto per la sua voracità da pescegatto. Dopo ogni vittoria quando gli si portava il mazzo di fiori rispondeva sempre poco garbatamente: "I fiori non si mangiano. Datemi piuttosto un piatto di pastasciutta!". Una volta, si dice, che per la festa di San Sebastiano il 20 di gennaio, giorno del Patrono di Gambassi, avesse divorato un'intera testa lessa di vitello.
Piemontesi, che si trovò a militare per un certo tempo con Pelo dopo che questi ebbe vinto la Milano-San Remo, racconta che il torello tutto muscoli e poca testa a tavola era altrettanto torello. Usava, dice sempre Piemontesi, riempirsi il piatto di tutti gli avanzi di tavola dei compagni e condirli con del buon olio d'oliva e sale e pepe e berci poi sopra un bel litro di Chianti.
La vittoria della Milano San Remo del '27 fu il capolavoro della sua vita. E se non fosse stato per questa sua vittoria alla maniera dei forti chi si sarebbe oggi ricordato del modesto torello di Gambassi?
Partiti in più di cento da Milano. Assenti Belloni, e Girardengo per via di certi dolori dovuti alla frattura del polso sinistro, si parte sotto un cielo plumbeo. L'andatura è subito di quella da stroncar le gambe. Prima di Tortona evadono Pelo, Porzio e un certo Tacchini, e pigliano subito un bel vantaggio. Sul Turchino Pelo attacca da campione di razza, dimenticando di essere solo un torello, e scollina con nientedimeno di diciotto minuti di vantaggio su un gruppetto che comprende i migliori: Suter, Binda, Piccin, Negrini, Piemontesi, Picchiottino, Battista, Giuntelli, Manthey e Brunero. Il gruppo è dietro allungato. In Riviera alle spalle dell'airone-torello Pelo si è formato un gruppetto di una ventina di unità. Ad Arenzano gli hanno rosicchiato un minuto. A Savona tre. Il gruppo più indietro è colto dalla sindrome del tira e molla e non riesce a riorganizzarsi per andar a riprendere i fuggiaschi.
Il torello ora vola come avrebbe volato l'airone Coppi con le sue cosce affusolate e il lungo collo dondolante. Pelo dondola invece le spalle e incassa il collo a mo' di tartaruga. Ma tiene. I maligni dicono che sarebbe stato aiutato da qualche macchina compiacente. Ma questa è la storia di Pelo. I maligni non fanno parte della sua storia.
Tutti ormai si aspettano il crollo di Pelo. Ma Pelo tiene. Ad Oneglia ha ancora 12 minuti di vantaggio.
Binda e Piemontesi partono troppo tardi alla caccia del fuggitivo torello. E con oltre duecentoquindici chilometri di fuga alle spalle, in 9 ore e 43 minuti alla media non indifferente di 29,485 l'eroico campione della Tripolitania nonché milite della I Legione della Milizia Ciclista, taglia il traguardo di San Remo.
La vittoria gli frutterà un gruzzolo di 13 mila lire! Quasi un regalo di nozze per sé e sua moglie che aveva sposato il 21 febbraio di quello stesso anno.
Binda e Piemontesi a nove minuti. Bresciani regola un gruppo che comprende il veterano Suter, Brunero, Picchiettino, Pancera, Gay e altri, a dodici minuti.
Partiti in 111 termineranno la corsa in 69.
Qualcuno racconta che all'arrivo Binda gli sia corso incontro e gli abbia gridato: "Scrivila questa vittoria. E' la prima e l'ultima: tu dovresti avere il mio cervello e io le tue gambe!"
E quella frase quasi predisse la fine di Pelo. Si piazzerà sesto alla XXI Sanremo del 1928 e decimo nel Giro d' Italia del 1928 .
Poi il torello Pelo si tramuta in cigno ed emette il suo ultimo triste canto che culminerà nel 1944 quando fu ucciso per mano degli antifascisti, che lo giudicarono colpevole di pratiche delatorie e collaborazionismo.
In memoriam di Pietro Chesi in primo luogo continuiamo a riproporre questo testo.
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Published on November 24, 2017 06:07
November 23, 2017
Marco Pantani - la distruzione di un mito LA FINE (undicesima parte)

La fine
Ormai il Male lo aveva completamente divorato. Aveva interamente devastato il suo corpo.
Se ne stava sdraiato sul letto respirando a fatica.
Da cinque giorni era chiuso lì in quella camera. Disteso sul letto.
Le sue gambe non ce la facevano più a camminare e la sua mente era incapace di pensare.
Gli venne in mente Ginevra.
Com’era bella quel giorno che l’ho incontrata.
Perché non ho ascoltato le sue parole?Chiuse gli occhi. Respirò profondamente. C’era ora un profumo diverso nella stanza. Non era più quell’odore di fetido, di marcio, che ormai da anni lo soffocava e con cui quotidianamente conviveva dopo quel maledetto giorno a Madonna di Campiglio.
Era un odore buono. Di pelle fresca. Morbida. Come i seni di una madre.
Di un alito caldo che gli respirava accanto.
Aprì gli occhi.
Ginevra! Sei qui!
Anche tu Abramo! Ci sei anche tu Abramo!“Sei contento di vedermi Marco?”Sì Ginevra. Tu sei stata l’unica buona con me, in questi ultimi anni.
L’unica che mi ha detto quello che avrei veramente dovuto fare.
Purtroppo non ti ho ascoltato. Ora è un po’ tardi. No?
Mi dispiace…ti ho deluso…
“Ormai non conta più Marco. Quello che è stato è stato. Riposati Marco.
Chiudi gli occhi ora. Dormi.
Io starò qui vicino a te. Non ti lascerò più. Dormi Marco! Dormi…”
E Marco chiuse gli occhi. E vide un campo, sotto il sole cocente di un agosto torrido.
L’estate più calda che avesse visto. Ma non sapeva dove andare.Un po’ d’ombra. Ho bisogno di un po’ d’ombra. Ho bisogno di sdraiarmi due minuti all’ombra. Non sopporto più questo caldo.
Si voltò a sinistra. In cima a un monte vide una querce. Alta. Enorme. Ai suoi piedi un’ombra fresca.
Prese allora la bicicletta e pedalò fino ai piedi del monte. Guardò su in alto. La salita era ripida, scoscesa. Sorrise. Sentì forza nelle gambe, come quel giorno all’Alpe d’Huez.
Attaccò la salita. L’attaccò fortissimo, in modo violento. Alla Pantani. A scatti. Scattava e rilanciava l’andatura. Scattava e rilanciava l’andatura.
Uno scatto. Poi un altro. Un altro ancora.
Delle rasoiate micidiali, da stroncare un toro.
Si voltò e vide il gruppo indietro, che si era staccato. Nessuno aveva retto alle sue accelerazioni, improvvise e violente.
Scattò. Scattò ancora. Scattò. Scattò senza fine…
Si voltò e vide il gruppo giù in basso. Un piccolo puntino colorato che arrancava, quattro cinque tornanti più sotto.
Era felice. Nessuno poteva resistergli. Quando lui decideva di andare via nulla e nessuno poteva stargli sulla ruota.
Arrivò in cima alla collina.
Solo.
Un profondo silenzio e un alito di vento.
Posò la bicicletta e andò verso l’ombra.
Era tutto sudato, e sotto quell’ombra si sentì meglio.Sì adesso riposo un po’. Ho tanto di quel vantaggio che posso riposarmi almeno cinque minuti.Si distese. Appoggiò la testa sull’erba verde e sentì un gran sollievo. Chiuse gli occhi e incrociò le mani sul petto.Mo’ sto bene…nonno!
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Published on November 23, 2017 06:20
November 22, 2017
Marco Pantani - la distruzione di un mito (decima parte)

Un’e-mail
Ogni tanto Marco quando tornava dagli allenamenti dava un’occhiata al suo sito.
Tra le tante email che aveva ricevuto lo colpì quella di un ragazzo di Firenze: Rocco.
Io faccio il cameriere Marco. Lavoro dodici/quindici ore al giorno qualche volta. Non ce la faccio più ad andare avanti col mio lavoro. Io ti ringrazio per quelle vittorie al Tour de France. Hanno ridato luce, senso alla mia vita. Tu sei stato un raggio di sole nel mezzo della mia vita buia. Tu devi continuare a vincere. A vincere per me, per la gente come me, che hanno il coraggio di alzarsi la mattina e fare una vita che non gli appartiene più. Che vivono nel buio di un mondo che non è più il loro.
Non scomparire Marco. Fallo per me…per noi che crediamo in te.Marco pianse. E tra le lacrime gli rispose.
Caro Rocco le tue parole sono bellissime. Ma io non me le merito. Voi vedete un mito in me. Ma io so di vivere sopra un profondo baratro. Io dovrei scendere in quel baratro. Dovrei andare là sotto. Affrontare quei demoni che si sono impossessati della mia vita. Dovrei andare lì e ucciderli. Allora potrei guardare in faccia te, e quelli come te che continuate a credere in un mito che loro hanno distrutto.
Ma ti sembra giusto che ci abbiano spiato, ci abbiano filmato, nudi, nelle nostre camere d’albergo. Ma perché?
Qualche volta ho la sensazione che il male mi stia divorando. Qualcosa mi brucia dentro e non so che sia.
A Cuba ho incontrato un coreano che mi ha detto che tutto nel mondo è una condizione del cuore.
Io non capivo e allora mi ha raccontato una storia di un monaco buddista, Samyong De Sa, vissuto 500 anni fa.
Lui organizzava la resistenza contro le incursioni giapponesi. E addestrava i monaci alle arti marziali. Quando fu catturato dai giapponesi fu chiuso, vivo, in un forno.
Si accese il fuoco. Si aspettò. Alla fine, si aprì di nuovo il forno, per prenderne i resti carbonizzati. Ma quando si aprì il forno trovarono Samyong De Sa completamente congelato. E ai suoi carnefici, aprendo gli occhi, disse: “Perché in questo luogo è così freddo?”
“Vedi” mi ha detto raccontandomi questo aneddoto ” tutto è una condizione di cuore. Una volta fu trovato uno morto congelato in una cella frigorifera. Ma perché era morto congelato? Per una condizione del cuore.
Si scoprì infatti che la spina della cella era staccata, e dentro la cella c’erano sì e no 16 gradi. Ma lui si era convinto di dover morire, perché uno che rimane chiuso in una cella frigorifera non può che morire congelato.”
Il cuore mi è stato strappato Rocco, e io farò come quello che è morto nella cella frigorifera. Qualcuno ha strappato il mio cuore e se l’è mangiato.
Qualcuno che è entrato profondamente dentro di me, un po’ per volta. E io non so perché. Ho solo fatto quello che sapevo fare. Ho sbagliato e non ho saputo reagire ai miei errori.
Un giorno qualcuno mi ha regalato della polvere bianca e da quel giorno non ho più avuto il cuore.
Ora è troppo tardi Rocco.
Tu non fare i miei errori. Io non sono il mito che tu vedi.
Il mito lo hanno distrutto.
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Published on November 22, 2017 05:58
Isole di felicità (Laimes salos) - trentaquattresima parte

Onestamente non capiva perché Mino continuasse a mettere dei "mi piace" alle sue foto su instagram e non si fosse più fatto vivo.
All'inizio soffriva ma poi dimenticò quella vaga speranza dei suoi occhi cupi e delle sue mani forti.
Se lui voleva così, così sarebbe stato. Ma perché quella sera le aveva detto che sarebbe tornato?
Ormai erano quasi passati due mesi e non le interessava neanche vederlo.
Era italiano. Forse bugiardo come tutti gli italiani? Forse aveva una moglie, una fidanzata?
Per questo non poteva chiamarla?
I giorni ripresero come prima. L'anno nuovo si stava avvicinando. Non vi erano novità. Sentiva solo che in qualche modo vi si stava preparando...
La più grossa novità furono le figlie.
Goda era sempre più brava con le foto e l'arte. Ora frequentava anche la scuola di teatro. Con il teatro si distingueva, a casa però era pigra e non faceva niente di quello che Rūta le chiedeva.
- Perché non hai lavato i piatti?
- Nenoriu mamyte (1)
- Perché non hai messo a posto la tua camera? Te l'avevo chiesto
stamattina - Nežinau mamyte (2)
Aveva solo imparato a pulire le scarpe la mattina prima di uscire per andare a scuola. Ma forse lo faceva perché Rebeka lo faceva.
La sera non voleva mai fare i compiti. Rūta allora si arrabbiava e cominciava a urlare.
- Li farò domattina. Mi alzerò presto
- No domattina no. Dabar! (3)
- Sei sempre nervosa mamyte. È meglio con il padre
- Vai con il padre allora - rispondeva esasperata
Rebeka continuava con la danza. Le piaceva molto. Mai una volta aveva detto che non voleva andare.
Purtroppo ci fu un giorno in cui lei non poteva accompagnarla e nemmeno Goda. Il padre aveva già preannunciato che non avrebbe potuto quel giorno. Almeno quella volta non era da biasimare. Lo aveva fatto sapere con molto anticipo e non all'ultimo momento come era suo stile.
All'inizio pensava di far prendere l'autobus a Rebeka: il 43, che l'avrebbe scesa davanti al Centras.
Le aveva spiegato tutto nei dettagli e sembrava che Rebeka fosse convinta.
Ma poi all'ultimo momento prese a lamentarsi che non ricordava bene.
Rūta decise di chiamare un taxi che la accompagnasse al Centras.
In taxi Rebeka si addormentò.
Per fortuna che si era addormentata in taxi e non sul 43!
Arrivata a destinazione il tassista la svegliò e tutto andò bene.
La vita in quei giorni non era facile ma neanche troppo difficile. Volava leggera e lasciava uno spazio sottile alle speranze mai sopite.
Lei ogni giorno andava nella pausa pranzo a prendere un espresso alla pasticceria di Vokiečiu gatvė. Si sedeva a un tavolo vicino al banco e in silenzio fotografava il bicchierino di vetro con il caffè. Aveva imparato a Roma a bere il caffè in vetro invece che nella tazzina di porcellana.
Era migliore in onestà.
(1) Non voglio mammina(2) Non lo so mammina(3) Ora!
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Published on November 22, 2017 02:31
November 21, 2017
Marco Pantani - la distruzione di un mito (nona parte)

Tour de France 2000, Mont Ventoux
Ce l’ha lì davanti. Lo guarda da dietro.Com’è possibile che uno scenda all’inferno e poi risalga?
L’inferno rigenera?
Potevo accettare anch’io quel giorno ad Agrigento?
Potevo scendere anch’io all’inferno e risalire?
Ma l’inferno mi ha buttato giù…L’americano allunga. Il gruppetto si assottiglia. Marco sente che le gambe tengono. Prende fiducia.
L’americano allunga ancora e stavolta fa male. Vede Ullrich alzarsi sui pedali, cosa strana per lui. Vede la smorfia di dolore di Virenque.
Ma tengono. Anche Marco tiene.
L’americano pedala su con un’andatura indemoniata.
Gli altri soffrono ma tengono.
Marco sente che quell’andatura non è più sostenibile.Perché deve sempre vincere il male?
Perché il male sembra sempre più forte del bene?
O salto io…o saltano loro!
Nonno ci sei?Marco comincia a perdere terreno.
Da dietro vede i culi di Virenque e Ullrich allontanarsi.
Quello è il momento più brutto per un ciclista: quando pedali e vedi gli altri che si allontanano da te e vanno via su, sempre più su.O salto io o saltano loro!
Nonno ci sei?Stringe i denti. Sbuffa. Si alza sui pedali. Stringe i denti.
Si alza ancora sui pedali.
E’ un boato.
Gente che gli corre di lato. Gli urla in faccia e non capisce cosa.
Vede le loro facce urlargli, alitargli sul volto.
Gli urlano. Ma che gli urlano?Ti urlano il loro amore Marco!Marco riconosce quella voce.Allora ci sei! Allora ci sei!
Allora io non salto, saltano loro!
Si alza ancora sui pedali.
Intorno è un nugolo di moto, di flash, di telecamere. Un inferno di gente che urla, salta. Gli dà pacche sulle spalle. Lo spingono, lo spingono con il loro amore!
Uno gli corre davanti con uno striscione: We want Pantani back!
Pantani is back!Ormai ha ripreso il gruppetto. Li passa e si mette in testa.
Vede la faccia sofferente di Ullrich. Vede quella di Virenque che è una maschera di dolore.
Vede l’americano sorpreso.Pantani is back!
L’inferno questa volta non ce la farà.
Imprime delle accelerate spaventose. Terribili. Micidiali.
Si volta e vede Ullrich che arranca a trenta metri. Virenque ormai lontano.
L’americano gli sta sulla ruota, ma è una sfinge.
Marco sente la gamba che gira. Si alza e questa volta la rasoiata è tremenda. L’americano vacilla. Tentenna. Arranca. Ha subìto. Comincia a perdere terreno. Si stacca.
Marco si volta. E’ sicuro di staccarlo.Non crede ai suoi occhi:
c’è qualcosa dietro la schiena dell’americano. Qualcosa si trasforma nell’americano.
Sente di nuovo quell’odore di marcio che lo perseguita da quel giorno.
E’ una cosa informe. Nera. Che avvolge il corpo dell’americano e sembra proteggerlo. E’ come un mostro che gli nasca di dentro. Che provenga da dentro, che gli fuoriesca dal sudore, dalla pelle, dalla carne…dall’anima.
Oggi il male non vincerà Marco. Oggi vincerai tu!
Oggi sono troppo pulito perché tu possa vincere maledetta bestia!
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Published on November 21, 2017 08:15
Marco Pantani - La distruzione di un mito (ottava parte)

Marco incontra il Demonio?
Marco quando stava male andava sempre a passeggiare in un giardino vicino casa sua. A lui piaceva andare lì perché c’era un laghetto. Si sedeva, chiudeva gli occhi e si rilassava…dimenticando tutto.
Quella sera era tardi, e già abbuiava. S’inoltrò nel boschetto.
A quell’ora cominciavano strani movimenti. Si vedevano uomini entrare e uscire da dietro cespugli. Si vedevano dei tizi in disparte accendersi una sigaretta e aspettare.
Ma lui nessuno l’avrebbe mai disturbato. Tutti lo conoscevano e lo lasciavano in pace. Era troppo noto per provarci. E poi tutti lì gli volevano bene. Nessuno l’avrebbe importunato.
Si sentiva tranquillo lì.
Si sedette su un muretto in riva del lago con le gambe penzoloni.
Guardava l’acqua ma con la mente era lontano.
Sentì un tonfo. Distrattamente rivolse gli occhi verso quel punto. Forse un pesce.
Guardò lontano in direzione del mare. Oltre i pini era tutto rosso. Una palla di fuoco stava calandosi giù nel mare.
Di nuovo un tonfo.
Che sarà?
Nell’aria si sentiva un odore forte di acqua marcia, come l’acqua che ristagna nei canali e nei porti e marcisce sotto il sole cocente.
Marco cominciò a sentirsi come osservato. Gli pareva che da sotto l’acqua qualcosa lo stesse osservando.
Come si può descrivere un presentimento?
Ma c’era un presentimento. Il presentimento che qualcosa stesse per uscire proprio da quell’acqua marcia.
Non si sentiva più un rumore. Né si vedevano più quegli strani movimenti di prima.
Tutto taceva.
Solo il presentimento che qualcosa stesse da un momento all’altro per uscire dall’acqua.
Cominciò a dolergli quella cicatrice che si era fatta quel maledetto giorno che aveva tirato un pugno in un vetro e si era profondamente lacerato le carni dell’avambraccio destro. La cicatrice gli faceva davvero male. Quasi gli bruciava.
Ciò lo inquietò ancor di più. Allora si alzò per andarsene.
Non capiva che stesse per succedere. Sapeva solo che voleva, doveva andarsene subito di lì.
Saltò giù dal muretto.Qualcosa stava per succedere.
Scese dal muretto e…“Ciao Marco”
Marco sgranò gli occhi impietrito.
“Mi riconosci”
Sì era proprio lui. Come avrebbe potuto non riconoscerlo. Come avrebbe potuto dimenticare quegli occhi sbarrati, che gli urlavano davanti
“La riconosci? La riconosci? E’ la tua provetta vero?”
Come avrebbe potuto dimenticare quel giorno in cui tutta la sua vita era cambiata!
Ora gli stava lì davanti e di nuovo gli sbarrava il cammino. Come quella mattina a Madonna di Campiglio.
“Pensavi che non mi avresti più rivisto?”
Come avrebbe voluto non rivederlo più quell’incubo!
Ma ora era lì di nuovo. Con quella faccia bianca come il ventre di una trota.
Alto quasi due metri gli stava lì davanti tutto sporco, coperto di fango e di erba del fondo del lago.
“Io sono qui per aiutarti, non per farti del male! Noi non vogliamo più farti del male. Abbiamo avuto quello che volevamo. Lui non è più vicino a te. La donna bionda è riuscita dove noi non siamo riusciti”
Marco sentì il suo cuore diventar piccolo come una noce.
Si sentì un verme. Un verme schifoso. Un vigliacco.
Abbassò il capo.
“Guarda Marco questo è per te. E’ un regalo. Prendilo. Lì dentro c’è una cosa che ti aiuterà. Tu prendila e la tua vita diventerà un paradiso. Prendila con la donna bionda. E sarete felici. Sarete sempre felici.”Ma lei se n’è andata. Non vuole più stare con me.
“Tu chiamala. Lei ritornerà. Lì dentro c’è una cosa che ha un grande potere. Anche lei non saprà resistere al suo potere. Prendila!”
Marco allungò la mano.
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Published on November 21, 2017 06:03
November 20, 2017
Marco Pantani - La distruzione di un mito (settima parte)

Ginevra
Marco in quei giorni si allenava in Toscana da solo, come sempre. Si allenava dalle parti di Grosseto.
Si era spinto verso S. perché aveva sentito parlare di una strega.
Una strega atipica. Una strega che gestiva un ristorante. Ma pur sempre una strega.
Marco anche lui era un atipico, soprattutto per quel mondo bigotto che era il ciclismo.
Che un po’ aveva contribuito a svecchiarlo. Ma a quanto pare gliel’avevano fatta pagare.
Aveva sofferto molto. Ma finalmente ora gli pareva di aver imboccato la strada giusta. Finalmente aveva ripreso la bicicletta e si allenava.
Aveva sentito tanto parlare di quella strega, in quei giorni che si allenava sulla costa della Maremma.
La voleva conoscere.
E se Marco diceva di fare una cosa non c’era niente da fare. Si doveva farla.
Dunque c’era una volta in un piccolo paese della Maremma una strega.A differenza di tutte le altre streghe lei era una bella donna, la cui bellezza dei quaranta l’aveva resa ancor più affascinante e intrigante. Abitava in una casa colonica della sperduta Maremma in un paesino il cui nome comincia per S.
La casa non era grande. Come tutte le case delle streghe il tetto era pieno di buchi. Il comignolo era storto e sul punto di crollare giù. Le persiane sgangherate.
E sul davanti, a destra della vecchia aia, v’era l’immancabile forno occultato alla vista da alti cipressi. Non vi cuoceva bambini, diciamolo subito. Non era quel tipo di strega. Lei era una strega speciale. Una strega che non sapeva di strega.
Non preparava pozioni o filtri magici, ma fantastici piatti.
Come tutte le streghe viveva da sola, in compagnia di un merlo. Un merlo parlante, naturalmente.
La cosa straordinaria del merlo era che il merlo, oltre a saper dire “Buongiorno”, “Buonasera”, “Buonanotte”, “Come stai?”, “Come ti chiami?” come si conviene ad un merlo parlante, era il depositario dei segreti culinari della bella strega.
Il merlo passava ventiquattrore su ventiquattro in compagnia della strega. Le stava sempre su di una spalla durante il giorno e le dormiva appollaiato sul bandone del letto la notte. Per cui, siccome Ginevra amava ripetere a voce alta gli ingredienti delle sue ricette e declamava ogni atto della sua preparazione nell’atto stesso, Abramo (il merlo) aveva imparato tutto a memoria. E se a Ginevra capitava, qualche rara volta, di dimenticare un ingrediente o saltava un passaggio nella preparazione, subito gracchiava: “Rafano!!!, Rafano!!!, Rafano!!!” oppure “Lasciare depositare cinque minuti!!! Lasciare depositare cinque minuti!!! Lasciare depositare cinque minuti!!!”
Ma anche se tutti preferivano pensare che fosse più cuoca che strega lei una strega lo era, eccome. A tutti gli effetti.
Marco arrivò davanti l’aia verso le una. Non c’erano macchine. Ancora non era iniziata la stagione. E poi era un lunedì.
Appoggiò la bicicletta alla parete vicino la porta d’ingresso.
Entrò.Dentro era piuttosto buio. Non c’era neanche un cliente. Sui tavoli dei lumini accesi davano un’atmosfera surreale.
“Oh che onore! Abbiamo il ciclista più famoso del mondo!” sentì una voce calda sensuale alle sue spalle. Marco si voltò trasalendo.
Dio quant’è bella!
“Vuoi davvero mangiare mio bel ciclista?”
“Sì certo. Ho fatto un bel po’ di chilometri per arrivare qui. E un po’ di fame ce l’avrei!”
“Bene siediti. Ci penso io. Io lo so che ti piace. A me i miei clienti basta vederli un attimo e già li ho capiti!”
Gli occhi di Marco incontrarono quelli di Abramo.
“Vuole mangiare! Ha fame! Ha fame il ciclista più famoso del mondo!” gracchiò Abramo
“Ehi ma parla!” disse Marco
“Ma parla! Ma parla! Ma parla…”
Marco scoppiò in una risata, ridendo come da tempo ormai non rideva più.
“Tu vivi in un mondo difficile”, gli disse quand’ebbe finito di mangiare “E hai bisogno di aiuto. Hai bisogno di qualcuno che ti spieghi quello che ti sta succedendo. Vero?”
“Vero! Io non ci capisco più nulla. Tutti ora ce l’hanno con me. Io sono diventato il capro espiatorio. Ma io ho fatto solo quello che hanno fatto tutti. Questo è un mondo schifoso. C’è una facciata. Ma poi c’è come un altro mondo parallelo. Un mondo che non si vede ma c’è. E che tutti sanno che esiste. Ma tutti fanno finta di non sapere. Come quel grassone di Immacolato Incannato che scrive su quel maledetto giornale viola. Ma tu l’hai mai visto quando arriva alle corse. Arriva con i suoi novanta chili di peso. Arriva in macchina, circondato da un codazzo di scagnozzi…e poi oggi ti osanna…e il giorno dopo, se le cose non girano come dovrebbero girare ti pugnala alle spalle…ma ti sembra giusto?”
“Ma questa è la vita Marco. E’ la vita di tutti i giorni…”
“E poi ho strane visioni…”
“Lo so Marco”
“Lo sai?”
“Vedi Marco non c’è un altro mondo.
Ci sono tanti mondi. Ma il più potente è quello di sotto. E quello non ti ama. Vedi, ancora tu non sei crollato…e sai perché?”
“Perché?”
“Perché vicino a te c’è qualcuno che ti vuole bene e ti sta vicino. E finché ce la farà a starti vicino tu non crollerai. Ma stai attento Marco. Stai attento perché qualcuno ne è geloso e farà di tutto per allontanarlo da te.”
“Chi?”
“La ragazza bionda!”
“No. Ti sbagli. Lei mi ama.”
“No Marco…lei non ti ama. Ti sfrutta. Lei non è l’angelo che pensi. Lei è stata mandata per tirarti giù. Laddove ha fallito il diavolo potrà il serpente. Il serpente cambia pelle ma non natura.”
“E come farà?”
“Nel tuo corpo Marco c’è una mappa. E’ come se ci fosse scritto in che modo si entra e in che modo si esce. E il Male ha già capito la strada. E tu gli hai aperto quella strada! Tanti anni fa, senza saperlo. Di lì il Male salirà su e stenderà il suo cancro. Non credere alle parole della bionda: lei ti dirà no ma sarà sì; ti dirà sì ma sarà no. E ti spingerà a non chiudere più quella porta che il male si è già aperto dentro di te. E tu l’aprirai, la spalancherai e allora sarà la rovina tua, e di quelli che hanno creduto in te! Non ascoltare le parole della bionda!”
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Published on November 20, 2017 06:49
Marco Pantani - La distruzione di un mito (sesta parte)

Firenze spogliatoio del ristorante la Grotta del Mare, ore 00,45
“Ah Fabbrì, l’ho dovuto fa’! Che altro potevo fa’. Io non ce la faccio più con questo lavoro. Io m’ammazzzo se non smetto. Ma ti rendi conto: cominci la mattina alle nove e mezzo, finisci se va bene alle quattro del pomeriggio. Alle cinque e mezzo ricominci…e guarda qua a che ora finiamo! Tutti i giorni è così. Poi il sabato e la domenica, quando tutti fanno festa tu dove sei? QUI!!! Natale? QUI!!! Pasqua? QUI!!! . E poi ‘sto stronzo di Uncino. Le mance se le prende tutte lui. Ma ti rendi conto un direttore che si prende tutte le mance! Non ce la faccio più Fabbrì…E poi anche Marco l’unico mito che c’era…anche lui ce l’hanno rovinato! Tutta colpa di quello stronzo del procuratore P. Dopato o no se non vai non vai…se non ti alleni tutti i giorni e ti fai un culo così non arrivi, né con i primi né con gli ultimi. Cazzo se ci faceva divertire! Cazzo quanto mi ha fatto divertire! Ma ti ricordi che spettacolo sull’Alpe d’Huez. Che sballo! Cazzo come andava! Ti ricordi quel corridore francese quando se l’è visto passare davanti che pareva in motocicletta e ha allargato le braccia come per dire ‘Madonna ma che è in moto questo?’. E De Zan? Ti ricordi che quando parlava di Marco gli scappava da piangere…Dio che mito! Ce l’hanno voluto rovinare! Ora Marco non va più una sega…ora non ho più nemmeno lui! Se non prendevo un po’ di roba come facevo ad andare avanti?”.
Gli occhi di Rocco quando parlava di Marco si erano illuminati, tutta la sua faccia si era illuminata, era ritornato il Rocco che Fabrizio aveva conosciuto diversi anni fa quando Rocco, giovanissimo, era venuto lì a lavorare…prima della “cura Uncino”.Che uomo quello! Che schifo d’individuo! Se ti faceva fare un extra ci prendeva addirittura una percentuale…
“Mah!… Rocco non so che dirti…Anch’io non ce la faccio più. Prima o poi mollo. Questo è davvero un lavoro di merda…Ti capisco. Anch’io sono incazzato con quel P. Ma perché cazzo ce l’ha tanto così con Marco? Non capisco. Quello lavora e lavora duro! Anch’io ho corso in bici. E so che è una fatica bestiale. Se non ti alleni tutti i giorni non arrivi. Stai dalle quattro alle otto ore in bici tutti i giorni, mica scherzi!
Cazzo ma hai visto come hanno trattato i corridori della TVM al Tour de France?…Boh? A un tossico lo trattano meglio! Ma un tossico è anche socialmente pericoloso…o no?”
“Ma che ci vuoi fa’ Fabbrì. Fanno come cazzo vogliono. Che ci possiamo fare.
Ce l’hanno rovinato…Ci vediamo domani Fabbrì. Sono fuso, vado a letto, non vado neanche al pub stasera. Sono stanco morto. E domani è sabato e ci aspetta una giornata di merda. Bona Fabri’!”
“Buonanotte Rocco. A domani”.
Città di T*** Palazzo di Giustizia“Dunque Lei che mi dice?”
Marco lo guardò. Quell’uomo aveva qualcosa di strano. Quell’uomo gli ricordava qualcosa, qualcuno. Quell’uomo non gli piaceva. La sua voce era artefatta. Troppo melensa. I suoi occhi verdi avevano qualcosa di sinistro.
Marco era venuto lì con le migliori intenzioni. Ma l’atmosfera in quell’ufficio non gli piaceva. Meno male che con lui c’erano i due avvocati altrimenti avrebbe avuto paura.
“Io sono pulito. Non so perché mi si perseguita. Proprio non lo so! Non capisco di che mi si accusi!”
“Di illecito sportivo. Molto semplice. Lei ha fatto uso di sostanze che hanno alterato i valori in gara…”
“Hanno alterato cosa?” lo interruppe Marco “Nel ciclismo non si altera proprio nulla. Se non ti alleni non arrivi. Dopato o non dopato chi va più forte va più forte. Sempre! Con il doping o senza doping. Io non avevo bisogno di doping. Andavo forte. Più forte degli altri. Tutto qua!”.
Il procuratore P. sorrise appena, compiaciuto. Scoprendo dei denti candidi.
“Allora come spiega che alla Milano – Torino del 199*** Lei aveva l’ematocrito al 60%?”
“Io non spiego proprio nulla. Io mi avvalgo della facoltà di non rispondere.”
Gli avvocati assentirono.
“Bene! Allora in tal caso non credo che io e Lei abbiamo altro da dirci. Ma ci rivedremo ne stia certo. Lei ha delle colpe e noi le colpe siamo usi a farle pagare.
Io credo che Lei abbia sbagliato tutto fin dall’inizio. Avrebbe potuto essere un grande campione. Ma ha fatto un’altra scelta. Avrebbe potuto venirci incontro e NOI L’avremmo aiutata. Ma Lei crede troppo nelle sue forze. Ha mai pensato che nel mondo possono esserci forze che hanno più potere delle Sue?”
Marco non capiva che gli volesse dire. Quale fosse il messaggio. Guardò perplesso gli avvocati. E quelli fecero finta di niente.
Il procuratore gli si avvicinò. Gli venne a pochi centimetri dalla sua faccia.
“Stia attento. Lei potrebbe prendere una brutta strada. Potrebbe anche non farcela più a riprendere a correre. Stia attento. Il serpente non tentò direttamente Adamo ma lo fece attraverso Eva. La Sua potrebbe essere una mela molto velenosa!”
Marco provò un senso di disgusto a sentirsi il fiato del procuratore in faccia.
Sapeva di marcio. Di un marcio che lo stava attanagliando da tutte le parti ormai.
Città di M*** carcere di SV***B. ha capito che deve parlargli. Gli fa cenno di sì con il capo. L’altro annuisce e lo aspetta fuori della cappella del carcere.
Finita la messa B. esce e cammina a diritto, l’altro lo affianca e tutt’e due camminano spediti facendo finta di niente.
“Dimmi!” fa B. “Su chi devo puntare?”
“B., lo sai che ti voglio bene. Senza di te qui dentro mi avrebbero aperto un culo così!” e fece il gesto con le mani “In tutti i sensi. Tu mi hai sempre protetto. Tu mi hai sempre voluto bene. Io ho un grosso debito con te. Tu sei un bravo ragazzo che merita tutto il mio rispetto non fosse altro che per il mare di galera che ti sei puppato. Quindi, vorrei farti un regalo… Se hai qualche milioncino da impegnare giocalo sul Giro d’Italia. Puntalo su Gotti, Jalabert o chi meglio credi. Non so dirti con certezza chi vincerà, ma certo non sarà il Pelato. Ho appena saputo che al Pelato andrà male. E tanto più forte pedalerà in questi giorni, tanto più potrai prendere scommettendo su un altro…”
“Ma chi vuoi prendere per il culo! Io l’ho visto quello lì l’altro giorno quando gli è saltata la catena …quello… l’unico modo per fermarlo è sparargli!”
“B. ma come cazzo puoi pensare che io ti prendo per il culo? Qui lo sanno tutti chi sei! Se io ti facessi uno sgarro…se tu ci rimettessi qualche milione…so bene come mi andrebbe a finire. Se ti do una dritta vuol dire che la dritta c’è. Lo sai com’è radio-carcere. Quando c’è la dritta vuol dire che la dritta c’è!”
B. lo guardò dritto negli occhi. A B. non si poteva mentire. L’ultimo che gli aveva mentito l’avevano trovato con le budella in mano.Che fosse vero? Ma chi poteva aver fatto tanto?
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Published on November 20, 2017 01:30