Fabrizio Ulivieri's Blog, page 128

December 3, 2017

Da "Isole di felicità" - Laimės salos


Foto Živilė Abrutytė

Sí fermò a guardare quel cielo, il cielo sopra Vilnius e per la prima volta pensò che era il più bel cielo del mondo.  Forse per la prima volta amò quel paese martoriato di ipocrisia dove sembrava non succedere nulla perché tutto era già successo.
Strinse la testolina bionda di Rebeka al suo seno. La strinse forte fino forse a farle male. Sentì il suo sangue fluire in quello di Rebeka.
Ma Rebeka dormiva...

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Published on December 03, 2017 08:22

December 2, 2017

Isole di felicità - Laimes salos (trentottesima parte)


Quell'anno la neve era arrivata presto. Anche il freddo. L'autunno si era accorciato per l'arrivo del gelo e delle nevicate e Ruta ne era stata contenta.
Ma quel freddo polare si era portato dietro una gripas (influenza) quasi epidemica che aveva riempito gli ospedali. Soprattutto aveva colpito i bambini.
Addirittura alcuni casi meno virulenti venivano respinti dai pronto soccorso, perché gli ospedali non avevano più posto. In tre giorni più di seicento bambini erano stati ricoverati. E la piaga sembrava non calmarsi anzi pareva aumentare la sua forza infettiva.
Cominciò a temere per le sue figlie. Le teneva a casa e non le faceva più uscire. Per una settimana le tenne chiuse in casa. Solo quando la violenza del virus cominciò a diminuire permise loro di andare a scuola.
Era sicura che le sue figlie non si sarebbero ammalate. Dall'inizio dell'autunno aveva ogni giorno dato delle capsule di cordyceps, per innalzare loro le difese immunitarie. E parve che avessero funzionato perché non si ammalarono.
Nel condominio i bambini erano pressoché tutti malati, le sue figlie no. E questo era un suo punto di orgoglio.
Amava le sue figlie, ogni giorno di più. Ogni giorno di più diveniva iperprotettiva. Non lo era mai stata ma ora lo era. Erano il suo mondo. Non aveva un altro mondo. Abitava in quello e non voleva uscirne.
La madre preoccupata l'aveva chiama.
- Come stanno Goda e Rebeka
- Bene madre
- Non si sono ammalate?
- No
- Com'è possibile? Hai sentito la televisione? Quanti bambini all'ospedale...
- No, loro stanno bene

Non disse alla madre del cordyceps e che per una settimana non le aveva mandate a scuola. Non avrebbe approvato.

- Jezus Marija! - esclamò la madre - sono bambine davvero forti. Il signore le ama

Ruta credeva meno alle storielle religiose raccontate dalle chiesa. Per lei se un Dio esisteva non era certamente quello raccontato dalla chiesa cattolica...ma dal momento che non voleva discussioni inutili con la madre disse che sì, Dio le amava.

- Molte cose sono tristi in questo mondo ma per fortuna esiste una giustizia divina - insistette la madre
- Per fortuna - volle concludere in modo empatico Rūta per non compromettere la buona relazione finalmente ritrovata con la madre dopo il disaccordo con il suo viaggio in Austria e la conseguente finta malattia della madre messa in opera con la complicità del suo compagno.
La sera del Kūčios (vigilia di Natale) era ormai prossima.
- Che farai per il Kūčios? - le chiese la madre - verrete a Utena da noi?
- Non so, ancora non ho deciso
In realtà aveva già deciso.
Non aveva voglia di ascoltare sua madre. Avrebbe voltuo in realtà colorarsi i capelli di viola e farsi spuntare le orecchie come uno Zuikis (coniglietto). Assomigliare più a un'aliena che essere dello stesso mondo di cui era la madre.
Era stanca di quel mondo senza respiro.

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Published on December 02, 2017 19:08

December 1, 2017

IL MAGO DI GOXIAN (favola coreana buddista - IV parte)





Parabola terza
Dove si parla di Paolo e il serpente

I maghi, è noto a tutti, hanno spesso rapporti privilegiati con animali particolari come gufi, aquile, pipistrelli, serpenti, topi.
Paolo Nha aveva predilezione (oltre che per le locuste, come abbiamo già raccontato) per i serpenti.
Quando aveva cinque anni correva già per i campi e i prati della montagna di Goxian alla ricerca di quel potere istintivo che lo avrebbe invaso per il resto dei suoi giorni.

Un giorno spinto dalla sete si avvicinò ad un ruscello per bere. Si inginocchiò ai bordi del fiumiciattolo, e cominciò a bere. D’un tratto si sentì osservato. Volse la testa alla sua destra e vide due occhietti vispi sgusciare fuori da una testolina appuntita: un serpente!

Quello, a quanto mi è dato sapere, fu la sua prima prova.

Guardò il serpente negli occhi. Qualcosa di prodigioso sentì salirsi su dal centro del cuore e uscirgli dagli occhi: come una potenza di luce.
Il serpente rimase immobile, ammaliato. Lo prese con una mano. Cominciò a gridare come impazzito roteando il serpente in aria. E corse a spaventare i suoi amici che giocavano davanti all’aia di casa. Vi fu un fuggi fuggi generale. Alla fine rimase solo. Con il serpente che penzolava a testa in giù, come morto, dalle sue mani.
Finalmente andò in cima alla collina dove era una foresta che sovrastava la pianura, e sull’albero, una querce plurisecolare, appese ad un ramo l’atarassico serpente, legandolo ad un filo di refe.
Come sempre giunse tardi a casa. Dove la mamma e le sorelle lo aspettavano con il rosario in mano per l’orazione vespertina. Gli toccò un bello scapaccione da parte della zia, perché Paolo non voleva pregare.
Durante la cena Paolo raccontò del serpente alla mamma.
La mamma fu molto sorpresa.

"Perché non l’hai ucciso?" gli chiese "Forse questa notte il serpente verrà a cercarti e finirà nel vaso di soia."

Paolo dice che lui è un numero Uno. Lui vive secondo la teoria dell’enneagramma, secondo la quale nel mondo ci sono nove tipi di personalità classificate dal numero Uno al numero Nove. Il numero Uno è un perfezionista.
E poiché lui è un numero Uno non poteva dormire (perché un numero Uno deve sempre finire ciò che ha principiato).

Così, da solo, a cinque anni sgattaiolò via di casa, uscì e andò sulla collina. Lì era tutto buio. Andava a tastoni, toccando tutti gli alberi per cercare il serpente. Gli alberi erano umidi per la notte e sembravano viscidi serpenti. Per la paura e la tensione nervosa era tutto sudato.

Finalmente trovò il filo ma senza serpente.

"Subito ho pensato che il serpente stesse già andando verso il vaso di soia, sperando di mordermi"mi raccontò Paolo
"Sono corso verso casa mia, zigzagando per paura che il serpente corresse dietro a morsicarmi. Arrivato a casa ho cercato in ogni vaso di soia il serpente. Ma non l’ho trovato. Dopo ho preso un bastone per cercarlo, perché forse ancora non era entrato nel vaso della soia.

La luna era piena.

Mi sentivo molto stanco.

Così sono di nuovo andato a letto.

Di giorno, quando mi sono alzato ho aperto di nuovo il tappo del vaso per cercare il serpente. Ma ora no! ora non lo faccio più!

Perché ora so che il serpente non va nel vaso di soia. Anche dopo ho cercato il serpente, non nel vaso di soia ma nel mio cuore. Ho eliminato tutto dal mio cuore e dal mio corpo; e dopo sono stato fortunato, finalmente il serpente è stato eliminato dalla mia anima".

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Published on December 01, 2017 07:09

November 30, 2017

IL MAGO DI GOXIAN (favola coreana buddista - III parte)



Parabola Seconda
Dove si parla della scuola e della montagna


Il mistero più grande e incomprensibile per tutti quelli che conoscevano Paolo Nha era il suo vagare per la montagna. Paolo si alzava la mattina faceva colazione e poi tranne qualche ora a scuola la mattina non rientrava a casa fino all’ora di cena.
Che faceva fino all’ora di cena ? Che faceva tutto il giorno?
Vagava sulla montagna di Goxian.
Che ci facesse nessuno lo sapeva. Chi diceva che parlasse ai serpenti. Chi diceva che ammaliasse gli uccelli. Qualcuno narra di averlo visto volare su di un grosso uccello, che aveva il suo stesso volto.
A me personalmente ha confidato di essersi ispirato al Vangelo, alla figura di Giovanni il Battezzatore: perché si deve sapere che Paolo non era buddista come la maggioranza dei koreani, ma cattolico grazie a un’amica di famiglia di 40 anni, di cui, lui, - 6 anni – si era innamorato e seguiva dappertutto. Dappertutto… beh! la seguiva a tutte le funzioni religiose a cui lei partecipava. La tallonava continuamente, peregrinava come lei di chiesa in chiesa, di funzione in funzione.
In quel modo, così, divenne cattolico.
Comunque, dicevo, aveva letto nel Vangelo di Giovanni il Battezzatore, che viveva nel deserto e si vestiva di pelli di cammello, e mangiava locuste e miele selvatico.
In tutta amicizia credo di essere stato uno dei pochi a cui Paolo ha confessato di aver, anche lui, mangiato locuste, vive per di più, e miele selvatico.
Andava per i campi a smuovere i favi. Ne carpiva il miele e poi fuggiva inseguito da uno sciame di api. E più volte fu punto.
La cosa straordinaria però fu che una volta fu punto così tante volte alla testa, che questa gli si gonfiò all’inverosimile, e per tre notti non poté dormire dal fuoco che aveva nella testa.
Ma lui che aveva sofferto sempre di emicrania da quel giorno non ne ha più avuto il minimo sentore (a bassa voce mi confessò inoltre che questo incidente, secondo lui, gli avrebbe anche aumentato il suo IQ, di cui parleremo più avanti ).
Come ho prima detto mangiava locuste. Errava per la campagna. Ispirato da Giovanni il Battezzatore.
Ma perché?
Con gli occhi bassi quasi inchinandosi in quel modo sottomesso e dolce che solo il mite popolo koreano sa fare ha osato dire: "Per svuotarmi "
Per svuotarti? gli ho chiesto. Ma lui come sempre non mi ha risposto direttamente ma ha continuato con un racconto.
"Quando mio padre, il prode Han Hi Son si trasferì da Goxian a Seoul, anch’io dovetti cambiare scuola. Mi presentai alla nuova maestra. Quella con modi bruschi e altèri, dopo aver letta la mia pagella, mi squadrò e urlò: non voglio nella mia classe uno con un livello così basso come questo pavimento! E se ne andò."
Il giorno dopo Paolo si presentò a scuola. Con la cartella in spalla si piazzò davanti alla porta d’ingresso dell’aula, con il sacchetto dei sandali (in Korea, infatti, non si può entrare in classe con i sandali e tutti i bambini li mettono dentro un sacchetto che appendono al loro banco).
L’insegnante non arrivava e Paolo era dritto davanti alla porta.
Gli altri bambini vedendolo lì fermo come un palo tolsero i sandali dal sacchetto e cominciarono e tirarglieli in testa. Il povero Paolo dové fuggire e ripararsi dietro una vetrata.
Ma indomito, cessata la grandinata, si rimise davanti alla porta. E via un’altra grandinata e un'altra fuga.
Alla fine quando vide arrivare la maestra Paolo uscì dal suo riparo, le si parò innanzi a testa bassa (che come dice Paolo è il modo, in Korea, per dire "Ciao"). La maestra lo oltrepassò senza neppure guardarlo. Chiuse la porta dell’aula e iniziò la lezione.
Paolo stette così in quella posizione per 50 minuti (in Korea nelle scuole elementari ogni cinquanta minuti c’è una pausa di 10 ). La maestra uscita per la prima pausa gli passò davanti e non lo degnò neppure questa volta del minimo sguardo. Poi sparì nella sala professori. A quel punto Paolo beneficiò di un’altra amorevole grandinata di sandali da parte dei nuovi compagni.
Ogni ora la maestra usciva e rientrava e Paolo lì, stoicamente impalato a testa bassa a sopportare l’ira della maestra e il benvenuto dei compagni.
Alla terza ora quando finalmente la maestra uscì per il terzo intervallo si fermò davanti a Paolo e gli disse:
"Ah ! Tu sei il nuovo studente. Vieni dentro."
Lo presentò ai nuovi compagni, di cui finora ne aveva apprezzato i soli sandali.
"Quello è il tuo banco." gli disse "e lui è il tuo nuovo compagno: Li Nang Yun"
Paolo lo guardò e vide una luna piena sorridergli. Era così grasso, quasi come la luna piena.
Il giorno dopo, quando ritornò a scuola invece dei sandali gli toccarono le frustate. Li Hang Yun (il demonio appare sotto molte forme) aveva infatti legato insieme alcuni cordini dei sacchetti dove si tenevano i sandali e con quelli gli diede delle belle sferzate.
Ma chi ha un grande futuro, si sa, è capace di sopportare anche le offese più grandi e di vincere.
Paolo quel pomeriggio, dopo la scuola, sparì sulla montagna dietro l’edificio scolastico. Scavalcò il filo spinato di recinzione che i contadini avevano messo a protezione del raccolto dei loro campi, e si inoltrò nel bosco. Di lì non ne uscì che la mattina,
Che vi avesse fatto non è dato saperlo. Quel che si sa è solo che per tutta la notte in montagna si vide un gran chiarore filtrare fra gli alberi.
Quella stessa mattina a scuola c’erano le prove di disegno e di canto. La maestra aveva dato da copiare una foto che ritraeva il mare. Paolo la fissò per 10 minuti senza batter ciglio.
Poi la dipinse uguale.
Tutti erano meravigliati: "Impossibile! Ma come hai fatto Paolo?"
La maestra lo fece sedere vicino a sé. E Li Hang Yun, lo guardava rodendosi d’invidia.
Vennero poi le prove di canto. Quando toccò a Paolo e aprì bocca, un suono celeste ne uscì. E incantò tutti. Paolo da quel giorno divenne eroe della scuola.
Il suo segreto?Ancora una volta la montagna.
Ma qual era il lato magico di questo luogo?
Come influiva su Paolo?


Non so esattamente. Tutto quello che ho potuto capire è che lui in montagna si focalizzava su ciascuno dei suoi pensieri e ad uno ad uno li estirpava dalla sua mente, sgombrandola, svuotandola.
Si svuotava così di ogni cura e affanno e assorbiva tutta l’energia positiva coperta dai peccati e dalle energie negative della gloria del mondo (secondo Paolo, se ho ben capito, per esaltare la sua gloria il mondo ci ruba tanta energia positiva, ce la nasconde per dominarci). Riacquistava così tutta la sua energia; Si rafforzavano e raddoppiavano, triplicavano le sue capacità: penetrava quel 90% della nostra coscienza che Freud dice – così si esprime Paolo- non siamo normalmente in grado di usare.
Più volte mi sono domandato e gli ho domandato se avesse avuto un Maestro. Su questo per molto tempo ha taciuto.

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Published on November 30, 2017 07:27

Isole di felicità - Laimes salos (trentasettesima parte)


Forse, forse, cominciò a sospettare che era innamorata di quella vita, dei suoi eventi quotidiani, di quell'incolore trascorrere del tempo. L'aveva sospettato da tempo ma ora sentiva che poteva confermarlo.
Doveva avvertirlo quale un pericolo?
Forse.
Ma non lo percepiva come un pericolo, in verità.
Eppure capiva che alla fine lei, Rūta, finiva per essere perennemente innamorata di se stessa.
Come potevano trovare spazio altri nella sua vita? Nei suoi eventi?
Semplicemente, non potevano.
Marijonas era uscito dalla casa e dalla sua esistenza e lei aveva avuto ciò che aveva sperato alla fine. Si era costruita una vita fatta di piccoli eventi, di cui lei e le figlie, Inga e la fotografia erano i gestori.
Una volta aveva letto una frase: non smettere di cercare ciò che ami o finirai per innamorarti di ciò che hai trovato. Doveva ammettere che era vero. Si era innamorata di ciò che aveva trovato perché aveva dimenticato ciò che amava o avrebbe voluto amare.
Ma che avrebbe voluto amare?
In onestà non lo ricordava.
Forse nemmeno da piccola aveva mai sognato qualcosa di suo per il futuro.

Era arrivata al portone di casa. Scosse le scarpe coperte di neve fino alla caviglia. Fece la combinazione 64 - simbolo della chiave - 2896. Il portone emise un suono metallico e si apri. Le figlie avrebbero sentito il Bip di allarme e avrebbero capito che la mamma era arrivata.
L'avrebbero attesa sul pianerottolo gridando "mamyte!". Poi avrebbero richiuso la porta e il caldo le avrebbe rianimato il corpo reso rigido dal gelo. Forse avrebbe bevuto un bicchiere di vino rosso. Il Rioja che aveva comprato il giorno prima a Panorama.

Cominciò a salire le scale.
Si sentiva un po' stanca e le girava la testa.
Non aveva fame anche se in tutto il giorno aveva mangiato solo un panino.
"Oh dieve!" sospirò dopo la prima rampa.

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Published on November 30, 2017 00:23

November 29, 2017

Isole di felicità - Laimes salos (trentaseiesima parte)

Foto Zivile Abrutyte
Fu in riferimento a quei pensieri e agli ultimi eventi che prese a chiedersi se erano i fatti a creare lei o lei a creare i fatti. Se era lei a cercare la felicità o la felicità a cercare lei. Qualche volta propendeva per il primo caso ma sempre di più per il secondo.
Era come se una commedia di vita quotidiana che si svolgeva a Vilnius in Lituania si imponesse al suo essere, che le rimbalzasse addosso e deflagrasse dentro sé e desse vita a un nuovo mondo.
Alla fine il suo non era un dramma doloroso. O almeno non troppo doloroso. Incolore forse. Anodino. Ma non doloroso. In fondo in quel dramma quotidiano ci erano anche attimi di felicità che lei chiamava isole.
Qualche volta non sapeva decidersi se lei giocava con questi eventi quotidiani che parevano pazzamente veri o se lei inventava questi eventi perché paressero pazzamente veri.
Era a un bivio. Nulla di ciò con cui pareva impegnarsi in questo dramma quotidiano sembrava mai concludersi definitivamente ma aprirsi di nuovo all'infinito.
Eppure era ciò che la rendeva viva e la differenziava dalla morte o da un'esistenza nulla.
In fondo era lei che inventava se stessa, che si dava un esistenza attraverso la sua vita di tutti i giorni? Eppure senza quei fatti che la distinguevano da una pietra o da un albero, da un gatto o da un cane neppure sarebbe esistita.
Si rese conto che in quei giorni erano tutti i piccoli eventi che potevano di solito colorare la sua vita: la scuola di arte, di fotografia e teatro di Goda; la danza di Rebeka; le lezioni di fotografia con Inga. L'estetista da cui andava almeno una volta al mese per le unghie e le sopracciglia.

E infatti aveva quasi l'idea che il suo solito mondo non esistesse. Era quasi in un universo estraneo, piatto, senza passione e vita.
Vegetava in quei giorni.
Era più simile a una pietra e a un albero che a un gatto o a un cane.
Eppure trattava bene l'idea di novità.
Non vi si sottraeva mai. L'accarezzava, la coccolava, cercava di comunicare con essa. Si sforzava di comprenderla in anticipo.
Le guardava con occhi nuovi rispetto al passato ma poi non sapeva capacitarsi perché avesse sempre il rammarico della delusione rispetto al l'aspettativa.
E Mino era stato una grande delusione. Una delusione che nonostante tutto non passava.
Ne provò vergogna mentre con i suoi pensieri si inoltrò lungo il viale alberato ostruito di neve. 


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Published on November 29, 2017 09:39

STORIA DI PELO, IL RAGAZZO CHE VINSE LA MILANO-SANREMO (III parte)


Uno di noi avrebbe cercato, a quel punto, di mettere la testa a posto, o quantomeno sarebbe stato più prudente. Figuriamoci Giovannin senza paura! Nulla. Sapete cosa fece? Una notte, saranno state le due o le tre di notte, piglia e va al Castagno; scassina la porta della sacrestia, sale sul campanile della chiesa e ci mette un grammofono e dgài a tutta càllara “L’Internazionale”, e via a gambe levate. Dopo neanche due minuti è lì una squadra di fascisti (“Dàgli al comunista! Dàgli al comunista!”, urlavano), che per dieci minuti prende a fucilate la cima del campanile, finché alla fine non ne vien giù il grammofono e si rompe in mille pezzi.
Per sua sfortuna, qualcuno aveva visto Giovannino e fatta la spia ai fascisti. Giovannino, avvertito, si dette alla macchia.
I fascisti vanno a casa sua, non lo trovano e allora pigliano la sua bicicletta a martellate e gliela disfanno. Non contenti prendono il suo povero babbo e lo portano alla Casa del Fascio. E lì a bottiglioni d’olio di ricino lo purgano ben bene.
Quel pover’uomo del suo babbo per poco non ci lascia le penne e ci rimane secco: “Son bell’e morto! Son bell’e morto!”, piagnucolava il poveraccio mentre tornava a casa, sbombardando quasi avesse mangiato fagioli per un mese.
Da quel giorno Giovannino la giurò ai fascisti. E quando poteva entrava nelle case dei più ricchi e gli rubava tutto, per poi darlo alle vittime del fascio.
Ma la passione della bicicletta era grande e Giovannino soffriva molto a star lontano dalle gare. Allora prese a travestirsi e a mischiarsi tra la folla per andare a vedere il suo amico Pelo. Pelo lo sapeva, gliel’aveva fatto dire Giovannino che andava sempre a vederlo vincere.
E ogni volta che Pelo saliva a prendere i fiori si guardava intorno (“Giovannino, dove sei?”), per vedere se riusciva a distinguerlo fra la gente attorno al palco.

E venne il giorno della Milano-Sanremo. Il sogno di Pelo fin da bambino. L’aveva affascinato la vittoria di Ganna, che fuggito sul Turchino, sotto il nevischio, caduto in discesa e ripreso da Georget ne fu infine superato. Ma buttatosi caparbiamente all’inseguimento lo riacchiappò a Savona per poi proseguire da solo e vincere.
Se Ganna era il corridore di quegli anni, come poteva dimenticare il mitico “Diavolo Rosso”, Gerbi, così chiamato perché indossava sempre maglia rossa, berretto rosso e scarpette rosse, con cinghietti rossi. Una specie di Mefistofele senza barba e baffi che, primo fra tutti, si depilò le gambe. Un matto da legare, un astuto, uno scaltro, duro e individualista afflitto da uno strano complesso di superiorità, che solo nella sete di fuga solitaria riusciva ad esaltarsi e ad appagare il suo senso mistico della corsa. Correre era vivere per lui. Correva quasi si trattasse di vita o di morte.
Una volta alla Corsa Nazionale, presso Asti – Gerbi era in testa – un ragazzo gli tagliò la strada e lui cadde a terra. Svenuto e sanguinante lo trasportarono in una farmacia. Qui gli suturarono la ferita alla bell’e meglio. Si mandò a prendere del ghiaccio per scongiurare la commozione cerebrale in attesa di essere trasferito all’ospedale. Gerbi si risvegliò, si ritrovò tutto fasciato – “E’ morto, è morto il Diavolo Rosso!” si diceva fuori – ; “Che è successo?” domandò lui.
Quando gli spiegarono che era caduto per colpa di un ragazzino e che nel frattempo erano già passati alcuni altri corridori, tutto malconcio, terreo in volto, risalì in bicicletta e pedalando raggiunse il gruppetto di testa e poi Gajoni che era al comando, in fuga solitaria. Lo staccò e fu primo a Milano.
Si scrisse allora che aveva pedalato come un incosciente, sudicio di sangue e di polvere; con la febbre martellante e mille faville davanti agli occhi; il profilo glabro e tagliente che spuntava a tratti fra le bende, come un diavolo. Le gesta di Gerbi, sentite all’osteria, gli erano rimaste fitte nel cuore a Pelo. Sentiva di assomigliargli al Diavolo Rosso, per temperamento e per coraggio. E se Gerbi si allenava con i mattoni legati alla sella della bicicletta, lui si allenava con il babbo nella cesta. Se Gerbi si era guadagnato il soprannome di Diavolo Rosso, Pelo si prese quello di Campione della Tripolitania. Correva con una bicicletta senza parafanghi, e all’arrivo era tanto sudicio e infangato da sembrare un africano.
“Babbo son emozionato. Mi tremano le gambe. Mi tremano le gambe solo a pensarci. Domani un ce la fò!”, disse Pelo al suo babbo la sera prima.
“Ma và ‘ia, coglione!”, fu il commento del babbo.



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Published on November 29, 2017 07:17

IL MAGO DI GOXIAN (favola coreana buddista - II parte)





Parabola Prima
Dove una grossa tigre bianca preannuncia la nascita di Paolo Nha.

Se la nascita di Buddha fu preannunciata dal sogno di un elefantino bianco che indolore penetrò nel corpo di sua madre, la regina Mahamaya, così una notte la madre della tigre di Goxian (il nostro Paolo) sognò di scendere da un'alta montagna.A un certo punto si volse indietro e vide che un'enorme tigre bianca la seguiva dappresso.Ma come la madre del Buddha, non ebbe né pena né paura. Si trovò in mano un bastone e con quello cominciò a colpirla sulla testa.Ma la tigre, come avesse le zampe legate, non reagì; e come quando un gattone riceve delle pacche sulla testa, si limitava ad abbassare la testa e a chiudere gli occhi.La tigre, nel sogno, seguì la donna fin sulla soglia di casa. Nonostante la donna continuasse a colpirla perché non entrasse, la tigre voleva entrare.In quel momento comparve la zia che gridò: "Perché non vuoi farla entrare?"A quell’interrogazione nacque la tigre bianca di Goxian, che mai si ribellò alla madre sua, che sempre seguì docile il suo volere come avesse le mani legate per non graffiare.Privilegio dei predestinati è  fin da piccoli manifestare segni prodigiosi che ci invitano a gioire, perché un grande destino li accompagnerà.Si narra che Kala Devala fosse il primo a vedere il giovane Buddha. E quando vide il piccolo Siddharta prima rise e poi pianse."Perché piangete? Mio figlio sarà forse colpito da gravi sventure?" gli chiese allarmato il re Suddhodana, padre del bimbo."No" rispose Kala Devala "Ho sorriso perché ho avuto il privilegio di vedere un essere che, come percepisco da segni particolari del suo corpo, è destinato a divenire un Illuminato, un Buddha. Ma se guardo al mio futuro. scopro amaramente che non vivrò abbastanza per sentire i suoi insegnamenti. Ecco perché ho pianto. Gioisci o re poiché tuo figlio diventerà il re più grande del mondo!"Anche Paolo quando aveva un anno manifestò i segni di un grande avvenire. Ebbe uno sfogo di febbre ombelicale sulla testa. Lui dice forse a causa delle bastonate che sua madre aveva dato alla tigre.E per il gran prurito continuamente si grattava la testa.
A impedimento di ciò sua madre gli legò le mani con una corda. Lui era solo in camera. Cominciò a cantare una specie di ninna nanna e nel mentre le croste magicamente scomparivano. Ritornò la zia, e lo trovò avvolto in quell’incantesimo. Lo prese fra le braccia e lo sollevò alto in cielo mentre versava copiose lacrime e un sorriso di gioia le illuminò indubbiamente il volto.
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Published on November 29, 2017 00:31

November 28, 2017

IL MAGO DI GOXIAN (favola coreana buddista - I parte)



Un giorno ho conosciuto un grande mago. Un mago bambino. Paolo Nha.
Oggi i maghi non vivono più nei castelli o nelle foreste. Ma qui tra noi. Magari a prima vista  gente comune. Ma a parlarci, a conoscerli, ti aprono a grandi segreti.
Paolo Nha ne ha fatta tanta di strada per arrivare qui per insegnarmi i suoi segreti.
Paolo ha tanti anni. Ma fuori è rimasto bambino e questo è il suo segreto. Lui viene dalla Korea. Da Seoul.
Prima ha vissuto sulle montagne. Lì ha imparato i segreti per rimanere giovane. Ma io pensavo da sempre di parlare con un bambino. E invece lui aveva tanti anni.
Lui mi ha sempre taciuto di essere così vecchio. Finalmente quando l'ho capito, io gli ho chiesto come avesse fatto.
Lui mi ha risposto con tante parabole.


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Published on November 28, 2017 10:09

STORIA DI PELO, IL RAGAZZO CHE VINSE LA MILANO-SANREMO (II parte)



Quel giorno fece anche amicizia con Giovannino.
Giovannino, che tutti chiamavano Giovannin senza paura, perché era ardito e amava ficcarsi nelle imprese più temerarie fu l’ultimo ad arrivare.
Pelo era sul palco, in attesa d’essere premiato, quando vide arrivare Giovannin senza paura. Pelo lo guardò: “Come dev’èsse triste arrivare utimo, da solo, quando gli attri son bell’arrivai!”. E non si sentì più felice d’aver vinto.
Quando gli portarono i fiori per la premiazione Pelo disse: “I fiori un si mangiano. Portatemi piuttosto una bella pastasciutta a me e a qui’ ragazzo laggiù!” , indicando Giovannin senza paura, e gli corse incontro.
Da quel giorno diventarono grandi amici. Si allenavano insieme, insieme andavano all’osteria.
Il babbo di Pelo, che sotto la scorza dura era tutt’altro che cattivo, a veder quel su’figliolo vincere, non vi dico che provava. Non stava più nella pelle, e fu il primo e il più accanito tifoso di Pelo: “I’ mi’ figliolo è davvero forte. Lo dicevo io! Diventerà un gran corridore!”, andava dicendo a chiunque gli si parasse davanti.
Pelone non era molto alto, e poco più di lui lo era Pelo, il figliolo: 1,60 l’uno 1,55 l’altro. E qui viene il bello: a quel che si dice, un certo giorno Pelo prese uno di quei corbelloni da boscaiolo con le cinghie. Vi mise dentro il suo babbo, se lo caricò sulle spalle, e salì in bicicletta e via su e giù per quei saliscendi ad allenarsi.
Così faceva ogni volta che il babbo era libero. Quando invece il babbo non poteva nel corbello ci metteva dei mattoni. Oppure quando c’erano le fiere nei paesi vicini ci metteva le palle da bocce per noleggiarle alle dette fiere.
Pelo continuava a vincere una corsa dopo l’altra. Ormai Pelo era un vero corridore. Allora il babbo lo portò dal Gazzarrini a Volterra e gli comprò la sua prima bicicletta da corsa.
I suoi avversari facevano di tutto per fermarlo. Una volta un certo Pandolfo da Montaione, scommesse con Pelo che non ce l’ avrebbe fatta a mangiarsi una gallina lessa intera, e che tantomeno ce l’avrebbe fatta a partire. “Vuoi scommettere Pelo?”, gli disse Pandolfo. “Scommettiamo. Tanto vinco io!”, gli rispose Pelo. E fu di parola. Mangiò tutta la gallina, e vinse addirittura per distacco.
Un’altra volta ci fu uno, Carletto da Castelfiorentino, che durante la corsa gli fece bere la famosa acqua purgativa di Pillo. Ma anche qui nulla da fare. Pelo vinse, come sempre. “Vi vò in culo a tutti!”, gli rifilò a Carletto al traguardo
Lo picchiarono perfino. In una corsa di trecento chilometri, passando in località Asciano, all’inizio di una salitella – Pelo era da solo, in fuga, come spesso succedeva – lo aspettò una masnada di furfantelli che lo legnarono ben bene.
Già da un pezzo si mormorava che Pelo avesse un patto col diavolo.
Tutti cercavano di scoprire il segreto per cui lui andasse così forte. Qualunque cosa facesse prima, durante o dopo la corsa, subito tutti lo imitavano sperando di aver carpito il segreto della sua forma.
Si sapeva ad esempio che Pelo metteva nella borraccia un biberone d’acqua, vinsanto e tuorlo d’uovo sbattuto. Immediatamente molti, saputolo, lo imitarono. Risultato: tanti, s’era nel periodo del solleone, o per il gran caldo o per il vinsanto o per tutt’e due, si sentirono male e finirono all’ospedale.
Un giorno Pelo si presentò alla partenza di una corsa a tappe con un bel sigaro toscano in bocca; fumava che pareva un turco. Il giorno seguente così, alla firma prima della partenza, s’aveva la sensazione d’essere ai soffioni di Larderello. Metà del gruppo, o forse più della metà, fumava che parevano dannati. Andò a finire, al solito, che a mezzo della corsa più della metà dei corridori si ritirò, perché accusavano difficoltà respiratorie.
Ormai Pelo era un mito.
Ma una cosa in quei giorni lo preoccupava molto: il suo amico Giovannino.
“Giovannino sta’ attento ai fascisti”, gli diceva spesso Pelo. Ma quello duro, ostinato, sprezzante del pericolo continuava a parlar male del regime e a far propaganda comunista. Giovannino aveva più volte ricevuto avvertimenti. Un giorno gli avevano bucato tutt’e due le ruote della bicicletta; un’ altra volta, durante una corsa – Giovannino s’era staccato dal gruppo – una macchina gli s’era avvicinata e aveva cercato di farlo finire in una fossa.

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Published on November 28, 2017 03:19