Lorenzo Trombetta's Blog, page 8

October 30, 2015

Un mese di raid russi, un primo bilancio

Russians soldiers in Berlin, 1945 (Internet)


(di Lorenzo Trombetta, Ansa). In un mese di campagna aerea russa in Siria sono stati compiuti più di mille raid aerei, eseguiti in larga parte su posizioni diverse da quelle dello Stato islamico (Isis).


Il gruppo jihadista è riuscito ad avanzare nel nord del Paese, a danno sia dei governativi sia degli insorti. Questi sono invece il bersaglio preferito dai caccia russi, che offrono copertura aerea all’offensiva lealista e iraniana tesa a rafforzare le linee del presidente Bashar al Assad.


Secondo l’Onu sono ormai oltre 120mila i civili siriani in fuga dalle regioni centro-settentrionali di Aleppo, Idlib, Latakia e Hama investite dai bombardamenti russi iniziati il 30 settembre scorso. Si tratta di sfollati che presto potrebbero prendere la via per il mare verso l’Europa.


Il ministero della difesa di Mosca fornisce ogni giorno il numero di operazioni aeree a partire dalla base aerea di Hmeimim sulla costa e condotte contro “i terroristi”. Questo è un termine usato dal governo siriano e dai suoi alleati per indicare chiunque si oppone ai clan al potere in Siria da mezzo secolo.


Solo ieri, secondo la Russia, sono stati compiuti 71 raid e 118 posizioni di “terroristi” sono state distrutte. Secondo esperti di questioni militari autori di un’inchiesta realizzata per la rivista di giornalismo investigativo Bellingat, più del 90% delle bombe sganciate dai 34 caccia russi sono cadute lontano dall’Isis.


Il fuoco di Mosca si è concentrato lungo i confini dell’area sotto controllo governativo a Hama, Idlib, Latakia e Aleppo. Organizzazioni umanitarie internazionali e numerose testimonianze dal terreno riferiscono dell’uccisione di oltre cento civili nei raid russi e nella distruzione o nel danneggiamento di ospedali nelle zone controllate dalle opposizioni.


Mosca, che si coordina con gli Usa, Israele e la Giordania, ha finora descritto simili notizie come una montatura. Finora le truppe lealiste sostenute da soldati iraniani e da miliziani sciiti filo-iraniani provenienti da vari Paesi non sono riusciti a sfondare le linee di insorti, tra cui figurano qaedisti.


L’Isis è invece avanzato a nord e a sud di Aleppo, dove si combatte anche in queste ore. Le forze anti-Damasco sostenute in primis da Qatar, Arabia Saudita e Turchia hanno risposto all’offensiva riempiendo i propri arsenali di missili anti-carro.


Il conflitto sembra andare verso una radicalizzazione e non verso una soluzione politica. Questa è auspicata, a parole, da tutti gli attori regionali e internazionali coinvolti. Assad, che è stato ricevuto nei giorni scorsi a Mosca da Putin, assicura però che non intende indire elezioni presidenziali – primo passo formale per avviare la transizione – “fino a quando il terrorismo non sarà sconfitto”. (Ansa, 29 ottobre 2015).

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Published on October 30, 2015 00:45

October 28, 2015

Comunista, alawita, non violento: nemico del regime

Le autorità governative siriane hanno arrestato a Damasco un anziano dissidente politico e leader del movimento di protesta non violento, in passato rimasto a lungo nelle carceri del regime per la sua appartenenza all’ala clandestina del partito comunista siriano.


Sono circa 200mila i detenuti politici in Siria e 20mila quelli scomparsi nelle carceri del governo. Lo riferisce l’Osservatorio per i diritti umani in Siria (Ondus).


Secondo l’Ondus, Muhammad Saleh, di un clan alawita della costa, è stato arrestato lo scorso 24 ottobre a Damasco dai servizi di sicurezza dell’aeronautica, una delle quattro agenzie di controllo e repressione del potere in piedi in Siria da circa mezzo secolo. I clan che dal 1963 si spartiscono il potere nel Paese appartengono alla comunità alawita.


Saleh, nipote dell’illustre eroe nazionalista siriano Salih al Ali esaltato dalla propaganda di regime, era finito dietro le sbarre già nel 2011 quando aveva preso parte al movimento non violento di protesta anti-governativo represso nel sangue dal regime. Membro del partito di azione comunista, era finito in carcere nel 1987 e vi era rimasto 13 anni, fino al 2000.

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Published on October 28, 2015 10:04

October 17, 2015

L’Iran si compra Damasco. Mosca interviene


(di Ibrahim Hamidi, al Hayat. Traduzione dall’arabo di Claudia Avolio). Usama è figlio di un ex-funzionario siriano. E’ un ingegnere laureato all’università di Damasco. Lavorava nel suo campo e con la moglie era riuscito a comprare una casa a Qudsaya, un sobborgo fuori città.


Dall’inizio della rivoluzione, Usama ha scelto il grigio. Ha continuato a seguire la rivoluzione, malgrado le minacce subite. Si è sempre divincolato però ogni volta che la politica si accostava a lui e a suo fratello, o all’eredità di suo padre, ex ministro. Usama si è sempre divincolato anche ogni volta in cui i politici toccavano la sua gente.


Usama è rimasto al centro, ben saldo e in silenzio. Si è messo il cotone nelle orecchie, passando tra i posti di blocco a Damasco. Ignorava le allusioni rivoltegli dai membri della sicurezza, dopo che vedevano la sua carta d’identità e sapevano dov’era nato. Ha sopportato questa condizione per anni. Aveva paura di spostarsi fino a Beirut. Finché una sera si è presentato a casa del fratello più grande, sorprendendolo: “Ho venduto la casa di Qudsaya. Ho deciso di lasciare il Paese”.


Muhammad. Docente universitario. Anche lui ha scelto il grigio, ma la tonalità “buona”. Nota come “neutralità positiva”. Provenendo dalle zone dei “terroristi” nel sud, gli serviva una dose in più di lealtà. Da casa al lavoro. Dal lavoro a casa. La regione costiera è il punto più lontano dove si era spinto.


Portava la moglie e i due figli al mare. Questo due anni fa. Poi non ha più potuto fare gite fuori porta. Il suo stipendio mensile e quello di sua moglie bastavano appena per mangiare. Non è stato costretto a vendere la casa, ma ad affittarla.


La casa si trova a Mezze Giardini, dietro l’ambasciata iraniana. Ha chiamato un amico benestante. Gli ha chiesto “il favore della vita”. Ha chiesto diecimila dollari per l’affitto. Di fronte allo stupore dell’amico per la decisione di avventurarsi per mare insieme alla famiglia, col rischio di annegare, ha risposto: “Se mi dai i soldi, mi dai la vita”. Ha aggiunto: “dietro di me c’è solo la morte”.


Ghalib ha quasi cinquant’anni. Politicamente è fedele al regime. Anzi, fa parte del cosiddetto  zoccolo duro. E’ sunnita. Da generazioni la sua famiglia vive a Damasco, nel cuore della città.  Ma i figli sono andati all’estero. Ghalib è anche stato tra quelli che hanno sopportato con fermezza il rombo degli aerei nei cieli di Damasco e i colpi di mortaio che vi cadevano, soprattutto su Bab Tuma, il rione cristiano.


Musulmano in una zona cristiana, tra la moschea degli Omayyadi e il santuario sciita di Sayyida Ruqiyya, un giorno Ghalib è andato dal vicino: “Ho deciso di raggiungere i miei figli”. Dopo insistenti domande, Ghalib ha spiegato: “Sono un fedelissimo del regime… ma il regime lo sa che lo sono?”. Ghalib viveva nella costante paura che gli agenti della polizia segreta, sempre più numerosi in città, mettessero in dubbio la profondità delle sue lealtà e sincerità.


Ali è giovane. Il nome (più frequente tra gli sciiti e gli alawiti, N.d.T) non sempre tradisce l’appartenenza politica e comunitaria, ma nel suo caso sì. Ali si è laureato a un’università privata, creata nel quadro “dello sviluppo e della modernizzazione” del primo decennio del governo del presidente Bashar al Asad.


Ali ha studiato su testi occidentali che – come affermava il padre – gli “hanno corrotto la mente”. Al padre invece è stata inculcata la lealtà e l’ideologia nelle scuole del Baath. La lealtà di Ali non equivale alla lealtà del padre, ufficiale dell’esercito del regime.


Ali aveva scelto di trascorrere tutti i fine settimana a Beirut. Suo padre, quando aveva possibilità di scegliere, trascorreva invece le vacanze sulla costa. Ali era riuscito a “svignarsela” dal servizio militare di riserva. Non voleva essere ucciso. E forse non voleva neppure uccidere.


Non male allora avere la conoscenza giusta per evitare la naja. Anche grazie all’aiuto del padre, Ali ha messo da parte migliaia di dollari e ha deciso di partire: da Tartus in Libano. E poi verso l'”Europa sicura”.


Quando un giorno suo padre si era incaponito di sapere perché tanti giovani lasciavano il Paese, l’amico, da dietro lo sportello e sommerso di telefonate, gli aveva risposto: “Il Paese oggi è messo così. Per chi non gli sta bene la porta è aperta. E tanti saluti… che se ne vadano dove vogliono!”.


Un giorno, non tanto tempo fa, un anziano parlava al telefono con un amico e lo rassicurava sul suo stato di salute appena tornato da una visita medica. “Tra due giorni vado a far esplodere il calcolo (in arabo bahsa, N.d.T.)”. Il giorno dopo, l’anziano era sparito dalla circolazione. Ed è tornato a casa solo ore dopo. La polizia segreta lo aveva fermato perché chi aveva ascoltato la sua telefonata aveva pensato che il signore volesse far esplodere una bomba a Bahsa, che è un quartiere di Damasco poco lontano dal centro culturale iraniano.


In questa stessa città, nella “zona verde” della sicurezza, si trovano due uffici turistici. Usama, Muhammad e Ghalib si sono incontrati in uno dei due uffici. Entrambi gli uffici organizzano viaggi dalla mattina alla sera da Damasco a Tripoli, nel nord del Libano. A Tripoli, i tre hanno incontrato Ali, diretto in Turchia e altri Paesi stranieri.


Damasco si lascia a bordo di un pullman. Tra i quaranta passeggeri ci sono persone in fuga, profughi e migranti. Al confine libanese di Masnaa, dove i controlli sui siriani si sono intensificati, c’è chi scende e chi no per mostrare i documenti di viaggio. Arrivati a Tripoli, in Libano, ci sono due possibilità per raggiungere Mersin, in Turchia: nave o barcone.


Secondo le statistiche del porto di Tripoli, 27mila siriani sono partiti nel luglio scorso e 30mila ad agosto. In tutto il 2013 ne erano partite 30mila. E nel 2014 50mila. Ogni giorno dalle otto alle 15 barche partono da Tripoli per la Turchia, e due navi salpano verso i porti turchi di Mersin e Smirne.



Ingegneria iraniana, emorragia siriana


Muhammad e Ghalib sono tra quelli colpiti da due progetti edilizi avviati a Damasco. Il primo è informale il secondo è ufficiale. Nei mesi scorsi il governo ha dato il via alla riorganizzazione della zona di Mezze Giardini, tra l’ambasciata iraniana e l’ospedale Razi, lungo l’autostrada per Beirut.


Le autorità hanno intimato lo sgombero ai 200mila abitanti della zona, investita dal progetto di costruzione di alti edifici residenziali, cliniche mediche, scuole e centri commerciali. Il progetto è stato diretto da un consulente in pensione della regione di Damasco.


L’area da ridisegnare va da Daraya (sobborgo teatro di proteste pacifiche anti-governative dal 2011 e dal 2012 assediato e parzialmente distrutto, N.d.T.), controllato dall’opposizione e sotto tiro dall’aeroporto militare di Mezze, fino alla sede del consiglio dei ministri, della sede diplomatica iraniana e di uffici della polizia segreta.


Con un post apparso sulla pagina Facebook del progetto, si afferma che proprio la popolazione locale “ha chiesto la ristrutturazione dell’area” e che la zona di Giardini e dell’ospedale Razi “era tra le più care ancor prima del decreto” che ha dato il via al progetto. E che ancora oggi è tra le più care. “Quando il progetto sarà realizzato a metà – si legge nella nota – i prezzi saliranno ancora rendendo l’area una delle più costose non solo di Damasco ma di tutta la Siria”.


Nel gennaio 2014 l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch (Hrw) ha pubblicato  un rapporto intitolato “Rasato al suolo. Demolizioni illegali siriane di un sobborgo tra il 2012 e il 2013″. Hrw si riferisce a sette zone, tra cui Kafr Susa e l’area di Mezze che circonda il già citato aeroporto militare. Il rapporto parla di tutta la zona demolita: sette aree estere per 140 ettari.


Hrw accusa le autorità siriane di voler “deliberatamente” distruggere zone residenziali e rendere sfollati chi le abitava. Il governo ha invece risposto affermando che la distruzione è avvenuta a causa delle battaglie con le opposizioni armate, e sostenendo che la zona non è in linea con la struttura della capitale.


Le opposizioni hanno chiesto perché questa zona è stata inserita nel piano di innovazione mentre ciò non è avvenuto per Mezze 86, un quartiere abitato da famiglie di funzionari dell’esercito e delle forze di sicurezza.


Dietro l’ambasciata iraniana e ai margini della periferia meridionale di Damasco si erge un edificio enorme. E’ parte della sede diplomatica iraniana, trasformata in una fortezza inespugnabile che ha ingurgitato metà dell’autostrada di Mezze. E’ un palazzo più grande di qualsiasi altra ambasciata della capitale, persino di quella americana. Alcuni lo chiamano il Palazzo dell’Ambasciata dell’Impero iraniano.


Inoltre il governo iraniano aveva negli anni ’80 comprato sedici ettari nella zona di Yafur come indennizzo della vendita al governo siriano di petrolio iraniano a prezzi di favore deciso dopo che Damasco si era schierata a fianco di Teheran nella guerra Iran-Iraq. Gli agenti immobiliari si aggiravano per i palazzi della zona, comprando appartamenti e affittandone altri. E si dice che i funzionari dell’ambasciata iraniana conoscano oggi tutti quelli che abitano nelle case del quartiere.


Preoccupato dall’espansione immobiliare iraniana, Ghaleb ha lasciato Bab Tuma. Un avvocato gli ha detto che gli agenti che lavorano per l’Iran stanno comprando gran parte delle proprietà attorno alla moschea [sciita, n.d.t.] di Sayyida Ruqayya, dietro la moschea degli Omayyadi, nella città vecchia, proprio dove i prezzi delle case sono solitamente inarrivabili.


Un altro avvocato ha detto che degli agenti immobiliari hanno detto a un proprietario di una casa di fronte alla Banca Centrale che “loro [gli iraniani, n.d.t.] vogliono questo palazzo e sono pronti a pagare qualsiasi cifra”. Secondo l’avvocato, il “piano iraniano” prevede la creazione di un complesso simile a quello che circonda il mausoelo di Sayyida Zaynab, a sud di Damasco: ristoranti, mercati, alberghi attorno alla moschea. Il nuovo complesso dovrebbe invece estendersi dall’area attorno alla moschea degli Omayyadi fino al centro moderno della capitale, nell’area della Banca Centrale e del Parlamento.


A Homs la storia è un po’ diversa. A metà dell’anno scorso un funzionario iraniano aveva convinto funzionari della sicurezza siriana che era necessario giungere a un accordo che avrebbe previsto l’evacuazione delle opposizioni armate dalla città vecchia e l’ingresso delle forze del regime in uno dei più importanti quartieri della “Capitale della rivoluzione”. Adesso, tutti i quartieri di Homs, eccetto al Waar, sono sotto il controllo delle forze del regime e delle milizie filo-iraniane delle Forze di difesa nazionale.


A Homs è stato intanto avviato un “progetto di ricostruzione e riorganizzazione di Bab Amr” e di altri quartieri teatro delle operazioni militari che hanno portato alla presa da parte del regime di queste zone e l’espulsione dei loro abitanti. Il progetto per Bab Amr comprende 217 ettari e 465 settori residenziali, oltre a scuole e ospedali.


Secondo documenti ufficiali trapelati alla stampa tramite attivisti e oppositori Bab Amr e Abbasiya sono delle periferie degradate da far rinascere. In un incontro a porte chiuse, il governatore di Homs, Talal Barazi, ha detto – secondo quanto riportato da un attivista – che “il progetto (di Bab Amr) tutela i diritti dei proprietari degli immobili e di chi vi abita prevedendo un alloggio alternativo o un risarcimento in denaro”.


Bisogna ricordare che la maggior parte degli abitanti di Bab Amr sono da tempo fuggiti fuori dalla Siria e che due anni un incendio ha distrutto l’ufficio del catasto di Homs. In molti affermano che i loro certificati di proprietà sono ormai andati perduti. E c’è chi afferma che “Homs è diventata un’altra città”.



La Russia interviene per limitare l’iranizzazione


Qusayr, a sud-ovest di Homs, e i quartieri di Homs passati sotto il controllo del regime sarebbero dovuti essere ripopolati dagli abitanti di Fuaa e Kafraya, due cittadine sciite nella regione di Idlib. Gli iraniani erano coinvolti in un negoziato per una tregua che ha poi coinvolto Zabadani, a ovest di Damasco, e Fuaa e Kafraya. Gli iraniani avevano suggerito di evacuare gli oppositori armati di Zabadani e le loro famiglie verso Idlib, a maggioranza sunnita.


In cambio, decine di migliaia di abitanti sciiti di Fuaa e Kafraya sarebbero state evacuate nelle zone sciite a sud di Damasco, come Sayyida Zaynab. In attesa dell’avvio dei progetti residenziali in queste zone. [L’accordo, che non prevede però il rilascio di un numero di prigionieri politici nelle carceri del regime, come richiesto dalle opposizioni armate, è stato concluso il 25 settembre scorso. I civili di Fuaa e Kafraya non sono però stati ancora evacuati. Mentre i pochi insorti di Zabadani sono stati trasferiti a Idlib, n.d.t].


Intanto, dall’8 agosto scorso sono i servizi di sicurezza siriani a dover fornire un consenso scritto per ogni operazione di compravendita di immobili (abitazioni o terreni) nelle zone del regime. Pare che quest’ultimo non abbia ancora dato il suo consenso alla stipula di contratti di iraniani che avevano acquistato terreni a Homs città e regione. Questo avviene in un momento in cui i rappresentanti siriani di imprenditori iraniani in Siria attendono forse l’esito dell’accordo sul nucleare iraniano. Questo potrebbe avere l’effetto di facilitare le trattative finanziare.


Mentre si scrive, le bandiere russe e le foto del presidente Vladimir Putin competono o superano ora i segni e i simboli iraniani nelle aree del regime. Soprattutto a Damasco, in cui le merci hanno etichette in persiano. Sempre a Damasco hanno cominciato ad arrivare artigiani, medici e ingegneri… Tra gli oppositori si dice che sarebbero diecimila i medici siriani ad aver lasciato il Paese, di cui  quattro sui seimila totali solo ad Aleppo.


Il rifiuto da parte di Mosca dell'”ingegneria sociale” iraniana significa rifiutare il cambiamento delle amministrazioni politiche dall’esterno e il rispetto della sovranità siriana e delle sue istituzioni. E’ un rifiuto russo rispetto al cambiamento dall’alto, in un momento in cui avviene un tentativo di cambiamento della società dal basso.


C’è chi lascia il Paese per scappare dai barili-bomba, le armi chimiche, lo Stato islamico o il carcere. Il numero dei rifugiati nei Paesi vicini è salito a cinque milioni. Ma la vera novità è che ad andarsene sono anche gli esponenti della classe media e i ricchi.


La paura di essere rapiti, l’assenza di speranza, la sfiducia nel fatto che il regime riesca a governare e il calo del tenore di vita hanno spinto chi è lontano dalla politica ad andarsene dalle zone controllate dal regime o dalla “Siria utile”. Come se ci fosse chi vuole la Siria “utile per il terreno e per il popolo”. Fino a che punto si spingerà il coinvolgimento militare russo prima di fermare l’emorragia dei siriani? (al Hayat 23 settembre 2015).

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Published on October 17, 2015 14:01

October 16, 2015

Guerra civile? Parliamone

Piazza Riad Solh, 1968 (OldBeirut.com)Guerra civile, guerra degli altri, guerra religiosa, guerra economica. Il conflitto libanese scoppiò formalmente 40 anni fa. E, sempre formalmente, è terminato da un quarto di secolo.


Ma in Libano e altrove giustamente si discute ancora dei termini, delle cause e degli effetti delle violenze che hanno lacerato il Paese dal 1975 al 1990.


Mentre la vicinissima Siria è sulla via della distruzione a causa di un conflitto che in molti non esitano a definire “guerra civile”,  che per altri è una “guerra santa” e per altri ancora è l’ennesima pagina della secolare “guerra per il potere” in Medio Oriente, la settimana prossima si riuniscono a Beirut accademici, studiosi e giornalisti per discutere, tra l’altro, di cosa è stata la guerra libanese.


L’Istituto francese per il Vicino Oriente (IFPO) a Beirut è il capofila di una cordata di istituzioni autorevoli che hanno organizzato l’evento. Il programma in formato PDF è consultabile a questo indirizzo.

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Published on October 16, 2015 09:54

October 12, 2015

Home, la rivoluzione dentro di sé

Home(di Raed Rafei, per al Modon).

Quando l’idea di nazione è sfuocata e i concetti di appartenenza, libertà e ribellione si confondono negli spazi dell’incertezza, degli interrogativi e delle contraddizioni, il viaggio di ricerca della “verità” della rivoluzione diventa simile a un giro sulle montagne russe al luna park. Sentimenti potenti e inattesi nascono nell’essere umano e lo portano nei luoghi sepolti dentro di sé.


Home, il film dell’artista siriano Raafat al Zaqut, è uno dei nuovi documentari siriani che scavano a fondo sotto le rovine dei conflitti e delle battaglie quotidiane in Siria, alla ricerca dell’essenza della trasformazione cui si assiste oggi nel Paese. Secondo al Zaqut, il film è “un’opera di documentazione dei sentimenti e delle relazioni che nascono nel momento della rivoluzione”. È un film che attinge in modo poetico al bagaglio di amicizie, lavoro e sensazione di pericolo condiviso che gli eventi in Siria hanno prodotto.


Il film, proiettato per la prima volta a luglio durante il Festival internazionale del cinema di Marsiglia, prende l’avvio da un desiderio. È il desiderio del regista che vive la condizione di esilio in Libano di entrare nel cuore degli eventi, dove la rivoluzione plasma un nuovo modo di vivere. al Zaqut si dirige con la sua telecamera a Manbij, una cittadina vicino Aleppo liberata dalla presenza delle forze del regime siriano, per scoprire la nuova realtà alla luce della rivoluzione.


Sin dall’inizio l’interesse di al Zaqut sembra indirizzarsi alla categoria degli artisti rivoluzionari che trovano nell’espressione artistica e teatrale uno strumento per costruire una nuova società siriana in un’operazione di liberazione da tutti i vincoli politici, sociali e intellettuali.


Nello stile dei documentari tradizionali lo vediamo incontrare personaggi che si distaccano dalle loro esistenze comuni ed entrano nel processo di produzione della rivoluzione. Fa domande sui loro sentimenti e aspirazioni e condivide con loro il senso di euforia perché qualcosa è accaduto all’interno della Siria che non può essere distrutto.


“Manbij era come una scatola chiusa e all’improvviso si è riempita di tanti fori attraverso i quali può aprirsi al mondo”, dice al Zaqut.


Dopo quel primo viaggio di ricognizione, al Zaqut, che ha lavorato per lunghi anni nel mondo del teatro e delle marionette, decide di tornare una seconda volta a Manbij per essere stavolta parte degli eventi con la sua telecamera.


Sceglie di unirsi a un gruppo di artisti isolati in una casa di campagna mentre preparano spettacoli di teatro popolare che si servono delle marionette per addentrarsi nelle questioni della rivoluzione e della politica.



Qui la telecamera di al Zaqut prende un’altra dimensione che trascende il ruolo documentaristico per diventare strumento quasi terapeutico che riporta le discussioni intorno al cambiamento e alla rivoluzione.


In una scena nel cortile che i suoi occupanti decidono di chiamare “Home” − che in arabo può essere tradotto come nazione e come casa − i ragazzi si mettono in cerchio per dire la propria opinione agli altri in un’atmosfera di libertà d’espressione che rappresenta una novità nella loro vita. Questo cerchio sembra quasi una terapia psicologica di gruppo contro i cumuli del passato oppressivo che hanno vissuto.


Home sembra cercare le cornici, gli spazi e i confini concreti e fisici della rivoluzione. Da subito si avvertono le procedure di entrata e uscita dentro e fuori dalla zona liberata con i suoi abitanti e la sua realtà. In una fase successiva il film passa dal luogo reale a un luogo simbolico che appare come uno spazio vuoto o uno spazio utopico in cui tutto è possibile.


Questa “Home” con le sue pareti e il suo giardino è lo spazio virtuale che contiene tutti i significati immateriali della liberazione e della rivoluzione e li avvolge e li protegge per permetter loro di crescere. La sensazione di isolamento al suo interno è rafforzata dall’audio e dalla luce soffusa e intima del film.


In particolare, ciò che al Zaqut sceglie di evidenziare nel film, è la rivoluzione interiore o la rivoluzione su di sé che si manifesta nel giovane artista Ahmad. L’esperienza all’interno di “Home” lo spinge a lasciar andare gli aspetti emotivi e femminili del suo essere. Lo vediamo scrollarsi di dosso la polvere della tradizione e del conservatorismo della società per mostrare a se stesso e agli altri le sue caratteristiche interiori che erano nascoste prima della rivoluzione. In una scena lo vediamo fare danza classica da solo nel cortile di “Home” in uno stato di liberazione di sé.


L’esperienza di “Home” che prende le mosse dal generale per finire al particolare è un’esperienza che i suoi personaggi portano dentro di loro. Quando a “Home” viene negato il luogo materiale e i personaggi partono in esilio, si rendono conto che il vero luogo rivoluzionario è riposto nel loro profondo. (al Modon, 3 ottobre 2015)


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Published on October 12, 2015 08:54

October 11, 2015

Padre Murad torna libero

Padre Murad (Internet)(di Lorenzo Trombetta, per ANSA). Per cinque mesi è stato nelle mani dell’organizzazione dello Stato islamico (Isis) in Siria ma dall’11 ottobre 2015 è tornato in libertà: padre Jacques Murad, già priore del monastero siri-cattolico di Mar Elian, a Qaryatayn, “sta bene” e ha persino celebrato messa a Zaydal, località cristiana a sud-est di Homs.


Padre Murad fa parte della comunità monastica di Mar Musa fondata dal gesuita italiano Padre Paolo Dall’Oglio, scomparso nel nord della Siria nel luglio 2013 e secondo diverse fonti in mano proprio all’Isis. Fonti vicine a padre Murad non hanno voluto fornire indicazioni sulle circostanze della sua liberazione.


Nelle mani dell’Isis rimangono però oltre 200 cristiani di Qaryatayn, rapiti nell’agosto scorso quando i jihadisti avevano preso, senza colpo ferire, la cittadina crocevia tra l’oasi di Palmira, anch’essa in mano all’Isis, e l’autostrada Damasco-Homs. Padre Murad era stato catturato nel maggio scorso.


Secondo fonti di Qaryatyan si era trattato di un avvertimento da parte dei jihadisti rivolto alla comunità cristiana. Dopo il rapimento di Murad, moltissimi cristiani della zona erano fuggiti. Ma non tutti. Quando ai primi di agosto l’Isis è entrato nella cittadina, lasciata sguarnita dall’esercito governativo di Damasco, ha deportato 270 persone, in larga parte cristiani.


Ai primi di settembre, l’Isis aveva poi diffuso alcune foto, forse scattate a Raqqa, in cui si mostrava il momento della firma dell’accordo tra il capo locale jihadista e la comunità di cristiani di Qaryatayn: a questi si risparmiava la vita ma in cambio accettavano totale sottomissione allo Stato islamico. Nelle foto di settembre era apparso anche Padre Murad: dimagrito ed emaciato, in prima fila tra i cristiani prigionieri.


Alla fine di agosto, l’Isis aveva diffuso immagini della parziale distruzione del monastero di Mar Elian, che Padre Paolo Dall’Oglio aveva contribuito a far restaurare nei primi anni 2000. Il monastero, come altri luoghi della comunità, servivano da decenni a iniziative di dialogo islamo-cristiano.


Secondo le fonti interpellate oggi, padre Murad è deciso a rimanere in Siria e a riprendere la sua attività pastorale nella zona di Homs, al confine tra la zona controllata dalle truppe governative e quella in mano all’Isis. (ANSA, 11 ottobre 2015).

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Published on October 11, 2015 14:59

Zakaria Tamer, «l’indomabile»

zaktam1(di Valentina Viene*). Paul Blezard, il giornalista che ha presentato la recente serata in onore di Zakaria Tamer a Londra, l’ha definito “indomabile”, riferendosi al fatto che lo scrittore, nonostante la sua veneranda età, non ha perso la sua presa sull’opinione pubblica.


Dal 1957 Zakaria Tamer ha pubblicato undici antologie di racconti brevi, libri per bambini e articoli satirici. Ha lavorato come giornalista per numerosi giornali e riviste, tra cui al Quds al arabi e al Mawqif al adabi. Tamer è anche uno dei fondatori dell’Unione degli Scrittori arabi, istituita in Siria nel 1969 e Banipal, la celebre rivista britannica di letteratura araba, gli ha dedicato il suo ultimo numero monografico.


Tamer è sempre stato un grande oppositore della tirannia ed è per questo che è conosciuto a livello internazionale, ma non ha mai risparmiato le sue critiche alla società (siriana e araba) e alla follia umana in generale. Chi conosce la storia della Siria troverà oggi i racconti di Tamer più che mai rilevanti. Le sue storie erano pertinenti negli anni Sessanta e lo sono ancora. “Una storia ben scritta tiene conto del tempo”- dice Tamer, soddisfatto che la sua produzione letteraria abbia superato la prova del passaggio degli anni.


Il racconto breve, e non il romanzo, sembra essere la forma letteraria più adatta a comunicare le idee di Zakaria Tamer. Ma lui, nonostante sia considerato un maestro del racconto breve, dice di sentirsi ancora come un contadino che ha solo iniziato a lavorare il primo pezzo di terra. Non è un grande appassionato di romanzi arabi e ritiene che alcuni concetti siano espressi meglio nella forma del racconto breve nella quale, secondo lui, è più difficile cimentarsi.


“Per me”- dice – “il racconto breve è come un coltello: un cattivo scrittore lo usa per pelare patate, mentre un bravo scrittore lo usa per uccidere una tigre”.


“La nostra nazione”, riportato di seguito, è un esempio di racconto brevissimo:



C’è una nazione che ha lasciato gli storici frastornati. Ogni volta che uno dei suoi governanti si convince che occuperà il trono per sempre, questi prende il volo, dal suo palazzo alla tomba, un volo simile a quello di aquile e falchi, e al suo funerale nessuno prenderà parte, se non il suo invidiato assassino.



Il lettore resta perplesso: prima la storia incantata di re e palazzi, poi, da una posizione di potere, la caduta in picchiata direttamente nella tomba. Al lettore non rimane che un’immagine inquietante di un assassino e, al tempo stesso, falchi e aquile, simboli di regalità e rapacità.


Nonostante viva nel Regno Unito dagli anni Ottanta, Tamer continua a seguire gli eventi in Siria, di cui coglie chiaramente le cause. È sul punto di piangere quando racconta cosa lo ha spinto a scegliere l’esilio volontario: viveva in via Rawda, a Damasco. Un giorno c’è stata un’esplosione: un membro della polizia segreta si era fatto saltare in aria. Uscendo di casa, ha trovato brandelli del suo corpo sparsi per strada e alcuni bambini li stavano prendendo a calci, come un pallone. In quel momento si è reso conto che la Siria non era più sicura.


Dal 2012 scrive sulla sua pagina Facebook al Mihmaz (Il pungolo) e lo fa con tale regolarità che tutti i suoi commenti messi insieme potrebbero formare un libro di tre o quattrocento pagine – dice lui stesso. Una persona che legge le sue riflessioni potrebbe pensare che non abbia mai lasciato la Siria. “L’esercito arabo siriano è il primo pericolo per la Siria, e il nemico numero due è il Presidente”, afferma. E questo, mentre l’attenzione dei media è tutta rivolta al fenomeno dell’Isis.


Lo scrittore esprime anche la sua frustrazione nei confronti di quei traduttori che scelgono di tradurre libri che sono una via di mezzo tra “folklore e letteratura”. A suo parere, non si traduce la letteratura araba perché è di buona qualità, ma perché introduce i lettori al “mondo arabo”, come se i libri fossero semplici guide turistiche. “Se vuoi conoscere la Siria, leggi questo libro! È sbagliato”- incalza e poi continua dicendo di non voler essere un biglietto da visita per la Siria.


Eppure, nonostante nelle sue opere realtà e surrealismo si confondano e i toponimi siano rari, non si può fare a meno di associare la Siria a Tamer e viceversa.


Si potrebbe pensare che sia disilluso nei confronti della vita, molte delle sue storie non hanno un lieto fine, e invece l’autore damasceno si considera una persona che vive in bilico tra speranza e angoscia. Ne è una prova la perseveranza che ha dimostrato negli anni come intellettuale. Sebbene costretto a lavorare per giornali controllati dal governo, perché non c’era alternativa in Siria, ha sempre cercato di trasmettere il suo messaggio. Pur sentendosi completamente libero di discutere di “argomenti proibiti”, Zakaria Tamer è consapevole che non vi sia immunità per gli scrittori, neanche per autori di grosso calibro come lui.


Negli anni Ottanta fu licenziato da al Ma‘rifa, una rivista pubblicata dal ministero della Cultura siriano, perché un articolo era stato considerato troppo audace da Hafez al Asad, che mandò la polizia segreta a casa di Tamer. Per fortuna non lo trovarono, perché, avvisato da sua moglie, se ne era scappato in Libano. Tutte le copie della rivista furono confiscate, ma quelle ritirate dalle edicole non erano che un numero minimo di copie, se paragonato alle migliaia che quel numero di al Ma‘rifa aveva già venduto.


Superati gli ottanta, Zakaria Tamer è uno scrittore ancora molto attivo: ha appena pubblicato una raccolta di articoli satirici, Ard al wayl (La terra della sventura) e ha annunciato la prossima pubblicazione di una nuova antologia di racconti.


__________


* Una prima versione di questo articolo è apparsa in inglese sul sito Arabic Literature (in English) con il titolo ‘Untamed’ : An Evening with Zakaria Tamer. L’autrice stessa l’ha poi tradotto e adattato in italiano per SiriaLibano.

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Published on October 11, 2015 03:12

October 10, 2015

Poi è tutta Europa

(di Elisabetta d’Ortu, per SiriaLibano). Ho passato una notte accanto a Fadi, a mettere puntini su una mappa di Google. I puntini erano location condivise tramite WhatsApp. Arrivavano dalla Turchia e lentamente si muovevano da una città all’altra passando per il buio fino ad arrivare alla costa, lì, vicino alle isole greche.


pin mediterranean seaDurante la notte, Fadi fissa il vuoto attraverso uno schermo di cellulare che non si illumina.

E io penso a quello che mi ha raccontato il giorno prima, tornato dall’aver riabbracciato i fratelli che la Siria per anni aveva diviso.

Non aveva pianto, né nel rivederli né nel risalutarli.

Amal, invece, piangeva. Con la faccia magra di chi ha passato gli ultimi anni a dormire cullata dal rumore delle esplosioni, a tratti sorridendo di un sorriso triste, felice di poter riabbracciare il fratello maggiore, malinconica per la separazione imminente.


Tra una sigaretta e l’altra, rompo ogni tanto il silenzio chiedendo “Novità?” e ricevo sempre la stessa risposta. Fadi continua a guardare il vuoto. I suoi occhi si spostano dallo schermo del cellulare a quello del computer.

Un fratello e una sorella, Amir e Amal, hanno deciso di partire, via mare. I fratellini, invece, resteranno in Turchia col padre, vedranno come ricongiungersi in un secondo momento.


Fadi non li vedeva da anni, da quando era stato costretto a lasciare la Siria. La sua famiglia era rimasta lì, fino a due giorni fa, quando sono riusciti a trovare la forza di lasciare tutto e partire. “Sai, quando sono arrivati non li ho riconosciuti. Li ho lasciati grassocci e sorridenti. E non erano più loro. I bambini erano magri, mi hanno abbracciato, loro mi hanno riconosciuto, ridevano. Te lo immagini? Sono i miei fratelli. E dopo pochi anni non erano più loro”.


Non so cosa dire, accendo un’altra sigaretta e mormoro un verso incomprensibile. Un assenso silenzioso. Un invito a parlare, che però muore in un sorso di tè e in un sospiro.


Quando ormai sta per albeggiare un pin di location dalla costa. Ci siamo, stanno arrivando al punto di partenza.

Dopo mezz’ora arriva una foto, si vedono loro con dei sorrisi stanchi e forzati imbragati nei giubbotti salvagente economici che nelle città turche si trovano come fossero giochi da spiaggia per bambini. Sullo sfondo, altre persone. Altri siriani che hanno deciso di prendere la via del mare. Mi colpisce una donna che non conosco: con un sorriso sta mettendo un giubbotto salvagente troppo grande a un bambino che non ha nemmeno un anno. Amir ci dice che non partiranno immediatamente: gli smugglers, i trafficanti, stanno preparando i gommoni. Ne vogliono far partire tre tutti insieme, un centinaio i siriani.


In attesa, ci addormentiamo, svegliandoci a intervalli di mezz’ora per aggiornare la mappa e per avere notizie. Ci dicono che stanno bene, in questo limbo. Ascoltano Fairouz e Sabah, aspettano. Alle 11 del mattino, dopo diversi caffè a stomaco vuoto, un messaggio vocale: “Yallah, stiamo partendo”.


Ma il telefono si spegne subito dopo, disobbedendo alle indicazioni di non disattivare mai il GPS. Dopo quindici minuti che sembrano un’ora, un pin nell’azzurro di Google Maps con un messaggio di spiegazione: “Il telefono si era bagnato, ma ora funziona”. Respiriamo. Fadi raccomanda loro di mandare location a intervalli regolari.


Sa che hanno abbastanza batteria nei cellulari. Quando ha saputo della loro decisione di partire, è volato in Turchia e ha parlato a lungo con loro; hanno comprato batterie di riserva, schede sim con abbonamenti internazionali, benzina in bottigliette di plastica, toppe per i gommoni, giacconi per il freddo del mare.


Fadi e due altri fratelli, in tre stati diversi, si mandano messaggi freneticamente tra di loro. Scrivono sui social network, monitorano i gruppi Facebook di supporto ai rifugiati che intraprendono la via del mare.  Dopo venti minuti un altro pin.  Sempre nel mare, in linea retta perfetta: i trafficanti sanno la loro via. Calcoliamo distanze percorsi e tempi: forse un’altra ora, ora e mezza e poi le coste greche. Inshallah, se Dio vuole.


Dopo mezz’ora, nessun segnale. Eppure sembra che siano andati online pochi minuti fa, perché non ci contattano? Iniziamo a chiamare, minuti di panico mentre nessuno risponde. Fadi controlla il meteo nell’area, preoccupato. Pochi minuti dopo, un tweet di uno sconosciuto annuncia quattro gommoni arrivati in Grecia, nella loro stessa presunta destinazione di arrivo. Iniziamo a crederci. Poi sul telefono di Fadi arriva un messaggio.


È il broker siro-turco, il contatto che in Turchia fa da mediatore tra i rifugiati e i trafficanti; dice che sono arrivati. Eppure, finché non sentiamo la loro voce “Sì, siamo fradici, parliamo dopo ma ce l’abbiamo fatta”, la tensione non si scioglie. Sorrisi e respiri liberatori.


Qualcuno su Twitter ha caricato anche i video dell’ultimo sbarco, cerchiamo le facce familiari a Fadi tra i salvagente che i rifugiati non si tolgono nemmeno scesi a terra. Non li troviamo, ma riconosco la donna che nello sfondo della fotografia metteva il giubbotto al bambino. Ce l’ha fatta anche lei. Finalmente Fadi sorride.


Non è finita, ora devono andarsene in cerca di un asilo che non è considerato un diritto innegabile. Se la parte del viaggio dove la loro vita era in pericolo è terminata, ora inizia quella dove la loro dignità è a rischio.


Ci richiamano dopo una decina di minuti e ci dicono “Ci stiamo incamminando!”.


Verso dove?


Verso la strada principale. Poi è tutta Europa.


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Published on October 10, 2015 01:39

October 7, 2015

Diala, disegni per raccontare la Siria

[image error](di Caterina Pinto). C’è un prima e un dopo nella vita artistica (e non solo) di Diala Brisly e – come è facile immaginare – il punto di demarcazione è rappresentato dallo scoppio della rivoluzione siriana nell’ormai lontano marzo 2011.


La rivoluzione ha cambiato il suo modo di disegnare: a una fase più realistica è subentrato uno stile legato invece al mondo dei fumetti e ai libri per bambini. “Con la rivoluzione – racconta in un’intervista con SiriaLibano − ho iniziato a disegnare per il solo scopo di raccontare quanto accade, per necessità, per veicolare un’idea, per esprimere il dolore. I miei lavori erano pieni di sentimenti che non avevo mai provato prima”.


Diala Brisly è un’artista e illustratrice siriana nata in Kuwait. È diventata famosa quando nel luglio 2013 il suo disegno a sostegno delle detenute nel carcere di Adra in sciopero della fame si è diffuso sui social network in modo virale.


“Prima della rivoluzione mi sforzavo per trovare un’idea per disegnare, dopo, invece, le idee hanno cominciato a balzarmi nella mente”, racconta.


“Per esempio, quando ho disegnato la donna con il cucchiaio annodato per raccontare lo sciopero della fame nella prigione femminile di Adra, stavo facendo colazione e non ne avevo alcuna voglia. A un certo punto ho guardato il cucchiaio e l’ho visto annodato. Allora ho lasciato la colazione e mi sono messa a disegnare in solidarietà con le donne coraggiose in prigione”.


All’inizio della rivoluzione Diala Brisly ha aiutato a disegnare e distribuire volantini. È stata catturata e picchiata durante le manifestazioni, ma ha avuto la fortuna di non essere mai arrestata. Nel 2013 ha deciso di lasciare il suo Paese perché si sentiva impotente e incapace di fare qualcosa di utile. Prima si è trasferita a Istanbul e poi in Libano, dove ha iniziato a lavorare nei campi profughi in progetti artistici con i bambini. “L’arte è una finestra nuova per loro”, dice. Attraverso i disegni, i bambini hanno modo di dare espressione alle loro paure, ai loro sogni, alla loro tristezza e ai loro bisogni. Per alcuni di loro, senza elettricità, senza la scuola, senza televisione né Internet, senza alcun confort della modernità, i libri e le riviste illustrate rappresentano l’unico lusso che hanno.


Bambini e figure femminili dagli occhi grandi e i capelli fluenti sono i protagonisti quasi assoluti dei suoi disegni, accanto ad animali e mostri fantastici. I pennarelli, le matite colorate, e gli acquerelli contribuiscono a un risultato che ricorda molto lo stile dei cartoni animati. “Non amo le opere realistiche prive di immaginazione – spiega − perché assomigliano troppo alla fotografia. Il mio pittore preferito è Gustav Klimt, perché ha uno stile particolarissimo, tra il reale e il surreale”.


Diala Brisly è una dei tanti siriani che elude la classificazione polarizzata propagandata dal regime, secondo cui l’alternativa ad Asad è la violenza dell’Isis. Considera il suo lavoro di illustratrice come strumento dell’attivismo pacifico contro ogni forma di violenza, un modo per gettar luce su quanto accade in Siria. “Chi guarda un’illustrazione poi prova a capire cosa c’è dietro” – dice.


E continua: “È vero, l’arte non può liberare un Paese, come mi ha detto una volta un ragazzo dell’Esercito libero, e non può fornire una soluzione. Mostra, però, i problemi in modo diverso e non necessariamente documentaristico e fa arrivare la nostra voce umana e politica all’esterno”.


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Published on October 07, 2015 00:59

September 23, 2015

Nessun hashtag per chi sparisce

Il carcere di Palmira, distrutto dallo Stato Islamico (foto: Isis, Wilayat Homs, Internet)


(di Budur Hassan, per al Jumhuriya. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). È stato arrestato insieme a sei dei suoi compagni il 30 dicembre 2013, in un raid delle forze di sicurezza siriane nella loro casa a Damasco. È stato il suo secondo arresto nel giro di altrettanti anni.


Tra i membri fondatori della Gioventù siriana rivoluzionaria, un collettivo di sinistra non-violento della capitale siriana, Imad è stato arrestato la prima volta nel novembre 2012. Quasi tre mesi di detenzione, 37 giorni in cella di isolamento, e torture continue possono portare molti a capitolare. Imad, allora ventiquattrenne e con poca esperienza politica prima della rivolta siriana, è rimasto ben saldo e non si è piegato sotto interrogatorio.


Poco dopo essere stato rilasciato, è partito dalla Siria per l’Egitto. Ma non riusciva a stare lontano dal suo Paese e così ha deciso di tornare.


In quel momento Damasco era in una morsa ancora più stretta di prima: se fare o organizzare azioni di protesta era stato difficilissimo nel 2011 e nel 2012, nel 2013 era diventato praticamente impossibile.


Durante il primo arresto di Imad, i suoi amici hanno creato una pagina Facebook per chiedere la libertà per lui e per i suoi due compagni attivisti della Gioventù rivoluzionaria imprigionati con lui.


Aprire pagine Facebook per chiedere il rilascio di detenuti era una pratica abituale durante i primi due anni della rivolta. L’atto stesso della loro creazione illustrava un cambiamento significativo per un Paese in cui le detenzioni politiche prima della rivolta erano coperte dalla massima segretezza e censura. Ma attestava anche dove erano riusciti ad arrivare i siriani e le varie crepe che erano riusciti ad aprire nel muro di paura del regime un tempo impenetrabile.


E invece la pagina Facebook creata in seguito al secondo arresto di Imad (avvenuto stavolta insieme a sei dei suoi amici) è stata presto rimossa su richiesta dei familiari dei detenuti. Questa volta dicevano di non volere che si facesse rumore né pubblicità. Un dettaglio che sembra piccolo mostra, invece, un nuovo cambiamento di rotta in Siria.


Mentre la rivolta lasciava infine il passo alla guerra civile, le iniziali scintille di speranza e ottimismo sono state represse e si sono tramutate in disperazione assoluta. Quelle crepe che i siriani avevano aperto nel muro impenetrabile erano quasi del tutto svanite, lasciando il passo a una paura ancora più grande: paura persino di dire soltanto che un figlio o una figlia erano stati arrestati, paura di chiederne il rilascio, paura anche soltanto di pronunciare i loro nomi.


Notizie della morte sotto tortura di ognuno degli amici di Imad sono iniziate a trapelare, uno dopo l’altro. In effetti, sei dei sette arrestati quella notte, tra cui lo stesso Imad, sono stati uccisi così.


Non è inusuale che ci sentiamo impotenti quando veniamo a sapere che dei detenuti sono stati torturati a morte in un altro Paese, consapevoli che questo è stato il destino di migliaia di civili dal 2011. Ma l’impotenza assume un significato del tutto nuovo quando le nostre labbra si saldano l’una all’altra per la paura, al punto che siamo incapaci di parlare di quelli che sono stati uccisi, non possiamo onorarne la memoria, piangerne la perdita, rendere loro omaggio, raccontare le loro storie, condividere le loro foto…


****


Qui in Palestina, abbiamo l’opportunità di scendere in strada in solidarietà con i prigionieri politici, urlare a squarciagola per loro mentre nel frattempo veniamo raggiunti dai lacrimogeni, ci sparano addosso e veniamo picchiati. Abbiamo anche la possibilità di condividere le storie dei nostri “martiri” e tributar loro l’omaggio che meritano.


In Siria, un Paese governato dalla tirannia della paura e del silenzio, avere un nome è una maledizione da vivi e da morti, e anche condividere le storie e i nomi della maggior parte delle vittime non è mai dato per scontato. Ciò spiega perché non abbiamo potuto scrivere il cognome di Imad e perché così tanti detenuti in Siria, vivi e morti, restano senza nome. Non solo perché sono troppi per essere documentati, ma anche perché a molti anche solo nominarli fa paura.


In tal senso, la sparizione forzata in Siria non prende di mira solo i corpi delle persone, ne colpisce anche i nomi, il ricordo e l’eredità. Priva centinaia di migliaia di persone del loro nome, quasi annichilendo la loro stessa esistenza e strappando ai loro cari ogni prova tangibile cui aggrapparsi dopo la loro morte.


Nel suo saggio su “The New Inquiry”, Genna Brager spiega che la sparizione forzata non è solo un eufemismo per l’omicidio di Stato, ma una “creazione necropolitica di classi usa e getta la cui eliminazione è intrinseca al capitalismo”. La decostruzione che fa Brager dell’apparato di sparizione così come è stato usato in America Latina nel corso degli anni ’70 e ’80 riecheggia nella Siria di Bashar al Asad.


In Siria l’apparato di sparizione forzata non cerca solo di coprire le prove, scagionare i colpevoli e intimidire i sopravvissuti. Funziona anche per sovvenzionare il complesso industriale carcerario del regime siriano. I numerosi servizi di sicurezza e intelligence usano le informazioni di cui sono in possesso come merce di scambio, sviando i famigliari e sfruttandone i bisogni, l’impotenza e la vulnerabilità, obbligandoli infine a pagare milioni di lire siriane per una prova che non arriverà mai.


Paura, silenzio, sfruttamento e intimidazione divengono essenziali al perpetuarsi delle sparizioni forzate come arma efficace nell’arsenale dello Stato contro la gente, contro la classe usa e getta “non desiderata”.


Diventa più che una misura punitiva per ingabbiare dissidenti e reprimere il dissenso. Porta con sé un impatto assai più distruttivo e collettivo, aleggiando costantemente su intere comunità.


Nel contesto siriano, parlare di “detenzione arbitraria” è una stravaganza legale e perfino comparire a un processo-farsa è un lusso.


Non sorprende, dunque, che molti siriani dicano di preferire morire uccisi da un missile o da un colpo di mortaio, piuttosto che finire in carcere. Non solo perché è molto più tollerabile e indolore della morte lenta e quotidiana in prigione, ma anche perché, perfino quando il razzo fa a pezzi il corpo delle vittime, lascia alla famiglia – a differenza della morte sotto tortura – qualcosa da piangere, una prova materiale da afferrare e una bara da seppellire.


Far sparire in modo forzato centinaia di migliaia di persone, ucciderne migliaia sotto tortura e poi telefonare con non curanza ai genitori per dire di andare a prendersi le carte di identità, senza neppure permettere loro di vedere il corpo, è il paradigma di una disumanizzazione sistematica e deliberata. Disumanizzare i detenuti facendoli svanire nel nulla, trasformarli in numeri e scaricarne i corpi in fosse comuni. E al contempo, disumanizzare i loro cari, strappando loro il diritto a compiangerli, a gridare, a dare un ultimo addio, a vedere e conoscere la verità e a porre una fine – per quanto straziante – alla loro agonia.


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Alcuni giorni dopo che Maria è stata arrestata dalle forze di sicurezza siriane, un amico di famiglia ha condiviso la sua foto su Facebook e fatto appello per il suo rilascio. In qualunque altro Paese, si tratterebbe di un atto semplice e inoffensivo. Ma non in Siria. All’amico è stato presto chiesto di rimuovere la foto, perché la sua famiglia aveva paura che anche un post tanto banale potesse avere qualche ripercussione negativa su di lei. Maria è stata per fortuna rilasciata, ma centinaia di migliaia di Maria ancora languiscono nelle prigioni siriane mentre i loro cari non osano neppure chiederne il rilascio.


Un pensiero deve andare a loro ogni volta che scriviamo un hashtag con i nomi di prigionieri. Perché in Siria per le centinaia di migliaia di persone vittime di sparizione forzata non ci saranno mai hashtag e neppure per le loro tragedie.


Nella Siria di Assad le famiglie sono stanche di sperare che i loro cari saranno liberati. Tutto ciò che possono dire, dopo che si stima che 20 mila persone sono state uccise sotto tortura, è “Salvate quelli che rimangono!”. Già sanno che nessuno ascolterà le loro voci spezzate e i loro appelli. (al Jumhuriya 17 settembre 2015).

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Published on September 23, 2015 02:59

Lorenzo Trombetta's Blog

Lorenzo Trombetta
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