Lorenzo Trombetta's Blog, page 30

April 11, 2014

Hersh, La Repubblica e l’attacco chimico. Qualche domanda

LiveLeak-dot-com-d4a_1392311132-afb5ea6c56b03483b6701345_1392311701(di Alberto Savioli) Questo pezzo è nato da una lettera scritta al quotidiano La Repubblica dopo la loro pubblicazione dell’articolo di Seymour Hersh “The Red Line and the Rat Line”  in cui si dichiara senza ombra di dubbio che l’attacco con il gas sarin avvenuto alla periferia di Damasco lo scorso 21 agosto sarebbe stato effettuato dai ribelli siriani, sostenuti dalla Turchia, al fine di scatenare l’intervento americano contro il regime del presidente Bashar al Asad.


Ho appreso della pubblicazione dell’articolo di Hersh da parte di La Repubblica sui social network fedeli al presidente siriano, nonché sui forum antimperialisti di estrema destra che sostengono Asad: per questi ambienti La Repubblica è diventata improvvisamente degna di fede in quanto ha pubblicato un articolo che condanna ribelli e Turchia, scagionando il regime.


Non penso che La Repubblica abbia sbagliato pubblicando un articolo di una prestigiosa e autorevole firma del giornalismo. Penso abbia sbagliato a pubblicare solo quest’articolo senza dare spazio a chi ha già confutato queste tesi. Pubblicare solo Hersh vuol dire, di fatto, sostenere la sua tesi, agli occhi di molti lettori questa diventerà la verità. L’unica verità possibile.


Sia ben chiara una cosa: qui non si vuole smontare la teoria di Hersh a favore di quella di Kaszeta, Higgins o di qualunque altro esperto di armi chimiche. Né si vuole scagionare i ribelli o la Turchia o qualunque altra potenza regionale o internazionale coinvolta nel conflitto siriano. 


Mi interessa piuttosto capire perché Hersh non consideri alcune questioni cruciali della vicenda e perché La Repubblica riprenda fedelmente l’articolo di Hersh, ignorando le altre versioni.


La tesi di Hersh si basa su sue personali fonti di intelligence. Ed era già stata proposta il 19 dicembre 2013 nell’articolo Whose sarin?” apparso sulla London Review of Books. La tesi, come già detto, era stata da più parti confutata. Infine è stata riproposta da Hersh con il recente articolo del 4 aprile 2014 ripreso da La Repubblica e di cui ampi stralci sono stati ribattuti, tra gli altri, da Rai News 24 e dall’Ansa


Notoriamente, Hersh opera in un mondo di contatti confidenziali e fonti anonime, di frammenti di informazioni attorno alle quali si costruisce un articolo. E’ un maestro del giornalismo investigativo. Ma nell’era di Internet è riduttivo escludere le informazioni della Rete come, ad esempio, dimostra il lavoro di Heliot Higgins (si veda di seguito) e di altri ricercatori ed esperti di armamenti.


Il problema principale con l’articolo di Hersh è che egli sembra aver trascorso così tanto tempo ad ascoltare le sue fonti segrete, da trascurare di osservare una ricchezza di informazioni sugli attacchi chimici che è liberamente disponibile su Internet. Il risultato? Il suo articolo pone una serie di domande importanti a cui altri avevano già risposto.


Questo può forse in parte spiegare perché l’articolo della prestigiosa firma fosse stato rifiutato dal New Yorker e dal Washington Post prima di venir pubblicato dall’altrettanto prestigiosa London Review of Books. C’è chi ha confutato con prove alla mano le affermazioni Hersh. Scendiamo nel dettaglio:


Eliot Higgins alias Brown Moses è un ricercatore britannico che dall’inizio del conflitto siriano ha monitorato le armi utilizzate e la loro provenienza fornendo un contributo importante nell’analisi del conflitto. Pur non essendo un giornalista professionista, le sue scoperte hanno permesso di individuare armi croate in mano a Jabhat al Nusra; The New York Times ha seguito la sua scoperta arrivando a sostenere che servizi di intelligence americani avevano aiutato alcuni governi arabi a procurarsi armi dalla Croazia.


Amnesty International ha dichiarato che il suo blog è stato fondamentale per dimostrare che il regime siriano utilizzava missili balistici. Con le informazioni di Higgins hanno inviato in Siria una missione di ricerca.


In un articolo in cui confuta Hersh appoggiandosi su fonti video e fotografiche raccolte in questi mesi, Higgins sostiene che i razzi Vulcano da 122 mm utilizzati nell’attacco del 21 agosto sono una chiara indicazione della colpevolezza del regime in quanto è l’unico a possederli (prove video). I razzi in questione inoltre sono ancora in dotazione alla marina russa.330mm_chemrocket_diagramNEWFINALFINAL


Una delle argomentazioni forti di Hersh invece è che si tratti di razzi artigianali, affermando implicitamente che le munizioni potevano solo essere state utilizzate dagli insorti.


Quest’affermazione si basa sul fatto che uno dei razzi che “portavano” le armi chimiche, individuato dagli ispettori delle Nazioni Unite nella loro relazione settembre, era una “munizione improvvisata che è stata molto probabilmente prodotta localmente”, secondo una delle fonti di Hersh. Tuttavia si parla di un razzo, Hersh non considerata tutti quelli rinvenuti di cui possediamo foto e filmati.


Inoltre, come sottolinea il giornalista Scott Lucas dell’EA WorldView in due articoli (1, 2), Hersh non tiene conto del fatto che più siti, non solo uno, sono stati colpiti con agenti chimici il 21 agosto. Circa 12 siti sono stati attaccati con agenti chimici quasi contemporaneamente. Chi, insomma, aveva la capacità di lanciare un attacco simultaneo con armi chimiche contro le aree insorte nella Ghouta dell’est (12 siti a Zamalka) e contro una città della Ghouta dell’ovest, vicino a Damasco? C’è da ricordare a tal proposito che questi attacchi sono stati immediatamente seguiti da bombardamenti con armi convenzionali molto pesanti.


Hersh inoltre non esamina in che modo i ribelli potevano sparare più testate chimiche sulle città controllate dall’opposizione come Muadamiyya (nella Ghouta occidentale). Quella cittadina è una delle prime località a scendere in piazza contro il regime nel 2011 ed è stata oggetto di un assedio durato oltre un anno: è stata letteralmente circondata da avamposti militari del regime. Si trova proprio vicino all’aeroporto militare di Mezzeh, a sud della base centrale della 4/a divisione corazzata dell’esercito, una delle forze d’elite a protezione del regime.


Hersh non si chiede quale sia stato lo scopo dell’attacco se fosse stato fatto dai ribelli. Perché mai gli insorti avrebbero dovuto sparare più armi chimiche a Muaddamiyya, un importante centro strategico controllato dall’opposizione che aveva resistito ad un assedio per quasi un anno prima degli attacchi del 21 agosto?


Dan Kaszeta (un consulente indipendente per la sicurezza ed ex ufficiale del Chemical Corps dell’Esercito degli Stati Uniti) invece sostiene che la presenza di esammina (esametilentetrammina) tra i campioni di terra della Ghouta contaminata con il sarin sia la “pistola fumante” che condanna il regime perché quest’ultimo ne era in possesso: come dimostrato dal fatto che le autorità di Damasco hanno consegnato agli ispettori Onu, incaricati nell’ottobre scorso di visitare siti di produzione di armi proibite, circa 80 tonnellate esammina.


Un dato significativo è contenuto nella relazione denominata “Request for Expression of Interest” per lo smaltimento di sostanze chimiche della Siria pubblicato dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) il 20 novembre 2013. Nel testo si descrivono i requisiti definiti dall’Opac per smaltire in modo sicuro varie sostanze chimiche provenienti dal programma per la consegna di armi chimiche del governo siriano.


L’elenco contiene 30 tonnellate di tricloruro di fosforo, che è una sostanza chimica utilizzata in molti metodi per la produzione di sarin. La lista comprendeva anche 80 tonnellate di esammina. Il dato è molto interessante poiché vi è esammina in tutto il campo di battaglia della Ghouta così come tra le sostanze stoccate dal regime siriano.


Secondi i cinque chimici consultati da Kaszeta, l’esammina può essere utilizzato come riduttore acido del sarin, sia da solo sia in combinazione con l’isopropilammina; poiché il suo uso nella produzione del sarin non è attestato precedentemente, potrebbe trattarsi del “marchio di fabbrica del regime siriano”.


Il sospetto nei confronti del regime siriano per l’attacco del 21 agosto era già stata avanzato il 18 dicembre scorso dalla giornalista Somini Sengupta direttamente dal The New York Times, proprio per la presenza del reagente esammina nei campioni della Ghouta.


Il rapporto degli ispettori dell’ONU elenca diversi luoghi in cui si è trovano esammina nella Ghouta: sul pavimento e sulla parete di una casa dove un razzo era caduto, su un pezzo di artiglieria e in un frammento di razzo.


I razzi Vulcano (rinvenuti anche dagli ispettori Onu) sono in dotazione esclusiva del regime siriano e sono stati usati fin dal 2012. Non sono di fabbricazione artigianale. Video e fotografie provenienti da fonti filo-governative hanno chiaramente dimostrato che il governo sta utilizzando i razzi Vulcano, che sono praticamente identici al tipo collegato ai presunti attacchi chimici.


Hersh non nega la presenza dei razzi Vulcano ma da per scontato che queste munizioni siano state acquisite dai ribelli, anche se il governo siriano non ha mai dichiarato che le munizioni sono state rubate dalle sue scorte.


overview_mapLa gittata stimata in due chilometri per gli attacchi della Ghouta, partendo dai siti di rinvenimento dei razzi vulcano, porta sempre in aree controllate dai militari siriani (per un’analisi in dettaglio della questione: 1, 2, 3).


L’articolo di Hersh sembra ignorare o fraintendere importanti dettagli tecnici. Le sue considerazioni sono fatte su un campione di sarin fornito dai servizi segreti russi. Anche nelle migliori circostanze, possiamo considerare i servizi segreti russi attendibili e obiettivi?


Riportare solo l’articolo di Hersh non citando tutti questi fatti, a mio avviso vuol dire suggerire ai lettori la tesi di Hersh: il regime non ha compiuto gli attacchi del 21 agosto, è stato tutto un complotto ordito dai turchi per scatenare l’intervento americano.


Per carattere ho l’allergia alle tesi del complotto, che quindi non voglio attribuire a La Repubblica. Ma esclusa l’ipotesi di faciloneria o svista per una testata di questa caratura mi sorge una domanda: perché solo La Repubblica nel panorama giornalistico italiano riprende un articolo appena pubblicato ma che riprende una tesi avanzata già da qualche mese e confutata da più parti, senza citare i punti deboli del pezzo che di fatto viene proposto come fosse uno scoop?


Ma la domanda a mio avviso ancor più interessante è: perché Hersh non avrebbe tenuto conto degli elementi di prova disponibili su Internet? Forse non ne era a conoscenza? Oppure, alla base vi è l’idea che la Rete contenga una marea di spazzatura e disinformazione? Ciò è vero ma solo fino a un certo punto. Vi sono molte notizie preziose e importanti e l’abilità sta anche nel distinguere le perle dalla spazzatura. Ma i lettori de La Repubblica avranno avuto maggiori probabilità di essere colpiti da un anziano premio Pulitzer che, apparentemente, ha avuto accesso a non meglio precisate fonti di intelligence.

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Published on April 11, 2014 10:52

April 9, 2014

Ti penso Abuna

p.paolo_


I giornalisti spagnoli sono stati liberati,

qualcuno ha obbligato i mostri a liberarli.

 

Ti penso Abuna.

Stavano scendendo dall’aereo,

ero contenta per loro e per i loro familiari

che li stavano aspettando.

 

Ti penso Abuna.

Già ero contenta per loro,

ma anche perché ci hanno ridato la speranza.

Possono darci notizie di te, forse ti hanno visto.

È possibile che anche tu Abuna venga liberato come loro,

come gli spagnoli, perché qualcuno ha obbligato i mostri a liberarli.

 

Ti penso Abuna.

Ero gelosa dei loro familiari che li stavano aspettando.

Immaginavo questa scena, Abuna:

tu che vieni liberato e trovi la tua gente che ti aspetta.

 

Ti penso Abuna.

Non sei ancora tornato a casa.

Invece gli spagnoli sono tornati

perché qualcuno ha obbligato i mostri a liberarli.

 

Ti penso Abuna.

L’hai voluto tu,

tu che hai deciso di essere anche siriano.

Ma i siriani sono soli, Abuna:

nessuno li cerca e nessuno ha voglia di discutere con i mostri per loro.

 

No, Abuna. Non ti ho pensato

quando ho sentito la notizia di padre Frans

ucciso dai mostri.

Non voglio né immaginare né pensare.

Voglio rimanere sulla notizia dei giornalisti spagnoli,

perché qualcuno ha obbligato i mostri a liberarli


Zanzuna

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Published on April 09, 2014 08:28

April 7, 2014

Ucciso Padre Frans, il gesuita che non ha voluto lasciare Homs

Gli occhi chiusi per sempre e lividi attorno alla tempia e sul viso: è l’ultima immagine di padre Frans van der Lugt, anziano gesuita olandese ucciso stamani a Homs, nella Siria centrale, nella parte della città semidistrutta e da due anni assediata dalle forze del regime di Bashar al Assad.


Non si hanno intanto ancora notizie di un altro gesuita, il romano Padre Paolo Dall’Oglio, da nove mesi scomparso nel nord della Siria dopo aver passato più di 30 anni nel Paese ed esser stato espulso dal regime nel giugno 2012.


Secondo la ricostruzione fornita dai vertici gesuiti olandesi, padre Frans (75 anni) è stato giustiziato sommariamente poco dopo l’alba da uomini armati, di fronte ad alcune donne cristiane all’esterno della chiesa di Bustan ad Diwan, quartiere di quella che un tempo era la terza città siriana, in larga parte e sin dall’aprile 2011 solidale con la rivolta anti-regime.


Per padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa vaticana e anch’egli gesuita, “muore un uomo di pace, che con grande coraggio ha voluto rimanere fedele in una situazione estremamente rischiosa e difficile a quel popolo siriano a cui aveva dedicato da lungo tempo la sua vita e il suo servizio spirituale”.


Prima di esser freddato con colpi di arma da fuoco da almeno un uomo – secondo fonti locali – incappucciato, l’anziano gesuita sarebbe stato trascinato fuori dalla chiesa e picchiato. L’agenzia ufficiale siriana Sana ha attribuito il crimine a non meglio precisati terroristi.


Interpellati dall’ANSA via Skype, attivisti di Homs hanno affermato che “l’uomo incappucciato non è stato identificato da nessuna delle donne cristiane presenti sul luogo del delitto”, che “gli insorti di Homs hanno dichiarato la propria estraneità al crimine” e che “sono in corso le ricerche per identificare il sicario”.


Frans van der LugtPadre Frans dal 1966 in Siria, era l’ultimo europeo a rimanere a Homs. Vestito con gli abiti talari, il suo corpo appare all’interno della bara appoggiata a pochi metri dall’altare della chiesa di Bustan al Diwan. Da quello stesso altare aveva tre mesi fa lanciato un accorato appello alla comunità internazionale perché mettesse in salvo gli abitanti intrappolati nell’assedio imposto alla roccaforte dell’insurrezione.


“Insieme ai musulmani viviamo in una situazione difficile e dolorosa e soffriamo di tanti problemi. Il maggior di questi è la fame”, affermava padre Frans in un video-messaggio registrato e diffuso da attivisti anti-regime con cui padre Frans era in contatto quotidiano.


“La gente non trova da mangiare. Niente è più doloroso che vedere le madri per strada in cerca di cibo per i loro figli”, aveva aggiunto il prete, che aveva esplicitamente chiesto di essere seppellito in Siria. “Non accetto che moriamo di fame. Non accetto che anneghiamo nel mare della fame, facendoci travolgere dalle onde della morte”, continuava padre Frans, che si era rifiutato di lasciare la Città Vecchia di Homs quando, tra gennaio e febbraio scorsi, l’Onu era riuscita a trovare l’accordo col regime di Damasco per l’evacuazione di un migliaio di persone dai quartieri assediati. La chiesa di fronte alla quale padre Frans è stato freddato era stata danneggiata dai cannoneggiamenti del regime. “Noi amiamo la vita, vogliamo vivere. E non vogliamo sprofondare in un mare di dolore e sofferenza”, aveva aggiunto.


Nell’evacuazione di febbraio, la maggior parte dei circa 60 cristiani aveva lasciato il centro storico. Padre Frans era rimasto. E a chi, fino a pochi giorni fa, lo interrogava sul perché si ostinasse a rimanere, aveva risposto: “Il popolo siriano mi ha dato tantissimo: tanto buon cuore, tanta ispirazione e tutto quello che ha. Adesso soffre. E devo condividere il suo dolore e le sue difficoltà”. (ANSA, 7 aprile 2014).

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Published on April 07, 2014 12:57

April 5, 2014

Putin sfida Obama mandando armi ad Asad

(di Henry Meyer, Stepan Kravchenko, Donna Abu-Nasr, per Bloomberg). President Vladimir Putin, condemned by NATO for annexing Crimea, is now defying the U.S. in Syria by sending more and deadlier arms to help Bashar al-Assad score a string of advances against insurgents, military experts say.


Assad’s army, seeking to end a three-year civil war that’s killed 150,000 people and displaced 9 million, started using longer-range Russian Smerch and Uragan rockets for the first time in February, according to Jane’s Defense Weekly and Stratfor, a U.S. geopolitical research company. Syria has also intensified the use of MiG-29 fighter jets with ground-attack capabilities, Stratfor said, citing analyses of video footage.


“Russia is now doing everything to ensure that Assad wins convincingly,” Alexei Malashenko, a Middle East analyst at the Moscow Carnegie Center, said by phone. “If Russia can show it’s capable of carrying out its own foreign policy, regardless of America’s wishes, it will be a major achievement for Putin.”


Putin, who last year averted U.S. airstrikes on Syria by brokering a chemical weapons accord, is seeking to prolong the rule of his closest Arab ally, ignoring U.S. and European Union calls for Assad to step down. The U.S. and EU hit dozens of Putin associates with travel and asset freezes last month to protest Russia’s seizure of Crimea from Ukraine and the U.S. Congress approved additional punitive measures this week.


“The Russian strategy has actually not changed, it’s just that they’re no longer hiding behind a diplomatic facade since Crimea,” Oubai Shahbandar, an adviser to the Syrian opposition, said by phone from Washington.


Russia is supplying a “lifeline” of ammunition and spare parts for tanks, armored vehicles and helicopters, said Ruslan Pukhov, an adviser to the Defense Ministry in Moscow and head of the Center of Analysis of Strategies and Technologies. Pukhov declined to comment on the rockets and upgraded jets, as did Vyacheslav Davidenko, a spokesman for Russian state arms exporter Rosoboronexport. The Syrian embassy in Moscow didn’t respond to a request for comment.


The U.S. has information about an increase in the “quantity and quality” of Russian arms flows to Syria, Assistant Secretary of State Anne Patterson said on March 26.


“The stability that Russia seeks in Syria will not be achieved by providing planes, tanks, bombs and guns for use against the Syrian people,” Patterson told a Senate Foreign Relations Committee hearing in Washington.


Syria’s constitution requires Assad, 48, to seek re-election to remain president before his second seven-year term runs out in July. He ran unopposed in 2007, winning 98 percent of the vote. Assad’s father, Hafez, who ruled from 1971 until his death in 2000, sided with the Kremlin during the Cold War and Russia still has its only base outside the former Soviet Union at Tartus on Syria’s Mediterranean coast.


It’s “impossible” for Assad to regain legitimacy to govern, Secretary of State John Kerry said today in Algiers.


The United Nations envoy to Syria, Lakhdar Brahimi, said the election, not yet officially announced, will derail peace talks brokered by the U.S. and Russia. President Barack Obama told King Abdullah in Saudi Arabia last week that the U.S. was committed to finding ways to strengthen Assad’s opponents without empowering extremists.


Syrian troops backed by fighters from Lebanon’s Hezbollah Shiite Muslim group in mid-March seized the strategic border town of Yabroud, a rebel smuggling hub. A week later, Syrian forces recaptured a Crusader castle near Lebanon known as Krak des Chevaliers, which had been in insurgent hands for two years.


After reclaiming areas near the capital Damascus and securing much of the frontier with Lebanon, Assad’s army is now aiming to re-establish control over the border with Turkey, where many rebel fighters are entrenched, said Alexander Zotov, a former Russian ambassador to Syria. The Foreign Ministry in Moscow said March 19 that commercial flights between Damascus and Aleppo, the northern financial hub that’s seen some of the fiercest fighting, had been resumed.


“Russia’s confidence in Assad’s hold on power has increased as the conflict has evolved in his favor,” Zotov said in an interview in Moscow. “No one is talking about Geneva III or IV now,” Zotov said, referring to the next possible rounds of talks after Geneva II collapsed in February.


The U.S. and Russia sponsored the peace process after reaching a deal with Assad last September to turn over his chemical weapons to international inspectors for destruction.


Deputy Foreign Minister Mikhail Bogdanov said on state television on March 27 that Russia remains committed to diplomatic efforts to end the war. A week earlier, the ministry said the U.S. had abandoned its role as mediator by expelling all Syrian diplomats apart from those at the UN.


While Putin has said repeatedly that only the people of Syria can decide Assad’s fate, his government has in fact abandoned all pretense of neutrality, said Fyodor Lukyanov, head of the Council on Foreign and Defense Policy in Moscow.


“Assad’s victory over insurgents will change everything in the Middle East for Russia,” Lukyanov said by phone. Putin, who has rekindled Soviet ties with Egypt’s new military rulers through multibillion-dollar arms contracts, railed against the North Atlantic Treaty Organization for using a UN-backed no-fly zone to oust the late Libyan leader Muammar Qaddafi in 2011.


Putin, first elected in 2000, the same year as Assad, saw his approval rating in Russia surge to 80 percent after incorporating Crimea, the highest level in six years, according to the independent polling group Levada Center.


Leonid Ivashov, a former head of the Russian General Staff’s international cooperation department, said Syria needs Russia’s military support to protect it against U.S. and Israeli interference. “Russia will definitely follow this through,” Ivashov said at a roundtable in Moscow on April 1.


Putin has gained the upper hand in Syria because Obama is reluctant to supply the opposition with advanced weaponry such as guided anti-tank and anti-aircraft missiles out of fear they may fall into the hands of radical Islamic groups linked to al-Qaeda, said Igor Korotchenko, a member of the Defense Ministry’s advisory council and the head of the Center for Analysis of World Arms Trade in Moscow.


“Because of that, the Syrian rebels are less active and dangerous than the mujahedeen were in Afghanistan,” Korotchenko said in an interview in the Russian capital, referring to the group of Islamic fighters who were armed by the U.S. Central Intelligence Agency in the 1980s in a successful campaign to force the Soviet Army to withdraw.


Foreign Minister Sergei Lavrov told reporters in Paris after talks with Kerry on the crisis in Ukraine on March 30 that he had received assurances that the U.S. won’t supply hand-held missile launchers to Syrian rebels. Kerry in February warned Russia to stop supplying weapons to Assad, saying the support was hampering the peace talks.


Russia was “surging military supplies” to Syria even as negotiators from both sides of the war met in Switzerland in February, according to Shahbandar, the rebel adviser.


The supply of Russian arms includes night-vision equipment, guided missiles, drones and vacuum bombs, Monzer Akbik, chief of staff for the opposition Syrian National Coalition, said by phone from Abu Dhabi.


Maritime records show regular shipments to Syria from the southern Ukrainian port of Oktyabrsk, which Russia uses for military exports, said Jeremy Binnie, a Middle East analyst at Jane’s Defense Weekly. Those supplies most likely consist of spare parts for T-72 tanks, Mi-24 attack helicopters and other equipment, Binnie said. Russia’s Black Sea Fleet is based nearby in Crimea, which Putin seized after bloody protests led to the ouster of Kremlin-backed President Viktor Yanukovych.


“You need constant supplies coming in on a daily basis to keep a sizable military functioning in the field,” Binnie said by phone from London.


Officially, Russia says it’s supplying only defensive weapons unsuitable for civil conflict. It has $3.5 billion of military orders from Syria, including for Yakhont anti-ship cruise missiles, MiG-29 fighter jets and Pantsir short-range air-defense systems, according to data compiled by the Center for Analysis of Strategies and Technologies.


The Stockholm International Peace Research Institute, or SIPRI, which studies the global arms trade, said Russia has also been supplying Syria with aerial bombs.


“When Russian officials say the weapons are for defensive use, or are ‘defensive weapons,’ they mean the weapons are to defend the Syrian government against ’insurgents’ or ’terrorists,’” Pieter Wezeman, a senior researcher at SIPRI, said by e-mail.


Putin’s support for Assad includes the deployment of a naval task force in the Mediterranean that makes it impossible for the U.S. to impose an arms blockade on Syria, said Pukhov, the Defense Ministry adviser.


“This is major support without which the regime would have collapsed,” Pukhov said in an interview.


Assad’s forces have suffered some reverses. Islamist rebels late last month seized control of the town of Kasab on the Turkish border, a gateway to the coastal province of Latakia, a stronghold of Assad and his Alawite minority. Government troops recaptured a key hilltop in Latakia on March 31, the state-run SANA news service reported.


A Putin envoy, Sergei Stepashin, met Assad in Damascus yesterday and delivered a message of support for his fight against terrorism, the Interfax news service reported.


“Despite some occasional victories by the rebels, it is already clear that the advantage is with Assad at this point, thanks in large part to the support he receives from Iran, Russia and Hezbollah,” Omar Lamrani, a military analyst at Austin, Texas-based Stratfor, said by phone from Bangkok.


“If the regime continues to receive substantial support from Russia and is able to continue to seize strategic ground around the Syrian core between Damascus and the coast, then the regime would have largely solidified its grasp in power even if it won’t be able to take all of Syria back,” Lamrani said. (Bloomberg, 2 aprile 2014)

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Published on April 05, 2014 03:53

Abounaddara, i “cecchini” delle immagini arrivano a Londra

Dall’aprile 2011 il collettivo Abounaddara, un nome che potrebbe tradursi come “l’occhialuto”, composto da film-makers anonimi basati a Damasco, carica ogni settimana un nuovo, brevissimo documentario sul suo sito Internet e lo diffonde attraverso i social network.


I membri del gruppo si paragonano a dei “cecchini”, in agguato dietro a dei cortometraggi all’apparenza innocui che circolano in Rete. Cinque dei loro film sono stati di recente proiettati a Londra nell’ambito del Human Rights Watch Film Festival e Andrea Cortellari ne ha scritto su Il Giornale.



(di Andrea Cortellari, per Il Giornale). Londra – Un gruppo di cineasti riuniti sotto il nome collettivo di Abounaddara racconta dal 2011 una Siria che trova poco spazio nella rappresentazione mediatica della guerra civile.


Costretto in una narrazione che oppone lealisti e ribelli, estremisti e “laici” e che comunque lascia al sangue il compito di spiegare e indignare, all’immagine del conflitto manca spesso una voce, quella della società civile.

Il concetto che più sta a cuore a Charif Kiwan, portavoce del collettivo Abounaddara, è la dignità umana. Convinti che non si possa ridurre la guerra di Siria alla lotta dei ribelli, un gruppo di registi ha provato a mettersi di traverso al flusso incessante di video proposti dai social network, con l’idea di ridare una dignità a uno strumento, l’immagine, che ritengono abbia perso credibilità e rilevanza.


Le decine di video caricati ogni giorno, le scene efferate a cui tutti possono assistere, svolgono certamente un ruolo nel racconto della guerra di Siria. Ma non per tutti sono sufficienti. Kiwan, a Londra per la proiezione di alcuni dei cortometraggi del collettivo, riassume in poche parole l’idea che guida il lavoro di Abounaddara: “Il sangue non è necessario”.


“Quello che ci lascia esterrefatti – dice il portavoce del gruppo – è la facilità con cui si trasmettono le immagini di siriani feriti, ammazzati. I media avrebbero fatto lo stesso con le vittime dell’11 settembre?”. Il ruolo che i cineasti del collettivo si sono ricavati non è quello di raccontare il conflitto, ma piuttosto i suoi effetti sulla popolazione, e di farlo attraverso il cinema.


“Non sono qui per ottenere un maggiore sostegno politico per l’opposizione”, spiega Kiwan alla platea del Human Rights Watch Film Festival. Neppure per mostrare i siriani come vittime da compatire, ma piuttosto come “individui che provano ad andare avanti, trasformati dalla guerra”.


Dal 2011 Abounaddara pubblica un nuovo cortometraggio ogni venerdì. Lo strumento privilegiato è un canale di Vimeo, a cui fa da megafono una pagina di Facebook. Brevi, talvolta della durata di pochi secondi, i video fanno a meno della violenza esibita, ma non per questo sono meno drammatici.


È il caso de I ragazzi di Halfaya, dove il racconto è affidato a un bambino, che parla con la sicurezza di un adulto di bombe e cadaveri. Ma pure di Prayer in The dark. Qui la telecamera sceglie di raccontare la città assediata di Homs, ricorrendo a immagini di protesta, fortemente connotate da una chitarra rock che accompagna lo slogan dei manifestanti: “Sii dannato, Hafez”, dove il riferimento è al padre di Bashar al-Assad, presidente siriano per trent’anni.



براعم حلفايا Children of Halfaya from abou naddara on Vimeo.


I lavori di Abounaddara lasciano da parte sangue e violenza, ma non scordano il contesto: una guerra appena entrata nel suo quarto anno, che ha causato – la stima è degli attivisti dell’Osservatorio siriano per i diritti umani – 146mila morti. Due milioni e mezzo, secondo l’Alto commissariato ONU per i rifugiati (UNHCR), i cittadini fuggiti dalla Siria a causa del conflitto.


La guerra è ben presente nei dodici minuti di Of god and dogs, corto di Abounaddara recentemente premiato al Sundance Festival. Un primo piano fisso raccoglie la confessione di un soldato dell’Esercito siriano libero, consapevole di avere ucciso un prigioniero innocente. (Il Giornale, 28 marzo 2014)

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Published on April 05, 2014 03:13

April 4, 2014

Anteprime imperdibili al Film Middle East Now

Siamo abituati ad aspettarci anteprime italiane assolute dal Film Middle East Now, il festival fiorentino che quest’anno compie cinque anni, ma questa edizione ne riserva ben più di una e non si tratta solo di film.


Dal 9 al 14 aprile a Firenze torneranno di scena i film premiati ai migliori festival internazionali di autori emergenti e cineasti affermati provenienti dai diversi Paesi dal Medio Oriente (e non solo).


Per la prima volta in Italia sarà proiettato il documentario Return to Homs (al-‘auda ila Homs) del regista Siriano Talal Derki, presentato lo scorso anno al Festival del documentario di Amsterdam e premiato all’ultimo Sundance Film Festival. Ritratto intimo di un gruppo di giovani rivoluzionari della città di Homs, incentrato in particolare sulla figura di Abdel Basset Sarut, portiere diciannovenne della nazionale di calcio giovanile e del Karama, la squadra della città, e di Usama, giovane attivista.


A Firenze saranno presenti il regista Talal Derki e il produttore Orwa Nyrabia, arrestato e trattenuto nell’agosto 2012 dai servizi di sicurezza del regime di Damasco e poi costretto a lasciare la Siria. (Sabato 12 aprile – Ore 20.45 Cinema Odeon)


Il Middle East Now ospiterà quest’anno anche il primo concerto italiano dei Mashrou‘ Leila, la band libanese diventata uno dei nomi di punta della scena rock mediorientale. Con oltre 170mila fan su Facebook e concerti sempre sold-out, il gruppo nato nel 2008 all’Università americana di Beirut (AUB) ha portato in tutto il mondo il suo stile eclettico, con influenze rock, jazz, elettroniche fuse con la musica tradizionale araba. I testi in arabo libanese dei Mashrou‘ Leila parlano di rivoluzione, di speranza e di amore, un amore sofferto in un Paese che impedisce a giovani di confessioni diverse di sposarsi tra loro e dove l’amore omosessuale è ancora un grande tabù. (Venerdì 11 aprile – Ore 22.00 Auditorium Flog)


Ma gli appuntamenti interessanti non finiscono qui.


Ancora sulla Siria, Oxfam presenta le Pillole di Oxfam dalla Siria. Realizzate dal regista Nicola Melloni, raccontano la tragedia umana che centinaia di migliaia di rifugiati siriani stanno vivendo in Libano e in Giordania. Queste pillole di due minuti ciascuna mostrano in presa diretta la vita quotidiana dei rifugiati siriani ospitati nei campi profughi.


Dal Libano, invece, arrivano due documentari che saranno proiettati sabato 12 aprile (ore 20.45 – Auditorium Stensen):


- Mondial 2010 di Roy Dib. Girato con una videocamera portatile, prende in prestito l’estetica del diario di viaggio ed è interpretato da due ragazzi innamorati, in un ambiente in cui l’omosessualità è un reato. Per far diventare normale ciò che sarebbe anormale, creando un universo di possibilità.


- E muet di Corine Chawi. La regista libanese Corine Chawi si fa raccontare da tre giovani donne di Beirut le loro storie d’amore. Le accompagna nell’arco di 5 anni di vita, per scoprire le loro verità sulle relazioni amorose, e raggiungere l’essenza della loro personalità. Per scoprire anche se stessa e nuove forme d’amore.


E il cortometraggio Abu Rami di Sabah Haider. Mona è una bella donna di 65 anni. Suo marito, Abu Rami, fa il tassista da una vita. Una mattina, il viaggio in auto per andare a trovare il figlio, diventa l’opportunità per un confronto sul loro matrimonio e sulla fedeltà. Il taxi si guasta, l’atmosfera si fa tesa, e poi un colpo di scena che profuma di vendetta. (Lunedì 14 aprile – Ore 21.00 Cinema Odeon).


Durante il Festival sarà inaugurata la mostra “The Comic City of Beirut”, che esporrà i disegni che Raphaelle Macaron, illustratrice libanese, in collaborazione con l’artista Joseph Kai, ha realizzato per descrivere i contrasti e i paradossi della vita quotidiana a Beirut (Giovedì 10 aprile – Ore 18.00 IED di Firenze)


La guida completa al festival si può scaricare a questo link.

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Published on April 04, 2014 11:14

April 2, 2014

Centri commerciali, nuovi spazi pubblici a Beirut?

In Libano i centri commerciali, i “mall”, sono diventati nuovi spazi di incontro e di scambio, una sorta di suq dei giorni nostri, luoghi di svago per tutte le età. Ma sono davvero dei luoghi di aggregazione trasversali aperti a tutte le classi sociali? Il testo che segue prende le mosse dall’intervento di Liliane Buccianti-Barakat sul tema: «Les aires commerciales: nouveaux espaces publics beyrouthins?» tenutosi nell’ambito dei «Rendez-Vous de l’IFPO» che dalla descrizione dello sviluppo di spazi commerciali a Beirut a partire dal XIX secolo è arrivato ai nostri giorni.


(di Liliane Buccianti-Barakat[1] per SiriaLibano). L’intérêt des grandes puissances européennes pour la soie produite sur le territoire va changer modifier progressivement le paysage urbain de Bayroût al-Qadimât et donner naissance à une bourgeoisie locale qui va faire construire des palais sur les collines environnantes. On passe des souks traditionnels à des zones commerçantes piétonnes (Souk el-Tawilé, Souk al-Franj…)


La puissance mandataire française (1920-1943) va détruire le vieux tissu urbain de Beyrouth et édifier un nouveau quartier des affaires dans un style architectural arabo-mauresque.


Dans les années 1960, un nouveau centre-ville va se développer : la rue Hamra qui très vite va devenir les Champs-Elysées du monde arabe. C’est l’époque des grandes galerie marchandes (magasins Byblos, Centre Sabbagh, Centre Picadilly…).


La guerre civile (1975-1990) va mettre un terme à ce développement. Le pillage du centre-ville transformé en zone d’affrontements, la scission de Beyrouth en deux secteurs antagonistes distincts et l’éclatement du territoire contrôlé par des miliciens vont provoquer des déplacements de population forcés (les réfugiés de la guerre) mais aussi une désertion de certains quartiers de Beyrouth ou de villages à cause de l’insécurité qui y régnait. De simples rues résidentielles vont être modifiées en artères commerçantes, de nouveaux pôles commerciaux ouvrent leurs portes dans les diverses banlieues de l’agglomération beyrouthine en pleine expansion.


Au terme de la guerre, la dynamique commerciale va dans un premier temps, se recentrer sur Beyrouth et son centre-ville reconstruit par une société privée Solidere (Société Libanaise de Reconstruction). En 1998, le premier BHV-Monoprix  est inauguré et on passe aux hypermarchés géants (Spinney’s, Galaxie Center…). Et en 2003, l’ouverture d’une aire commerciale de grand standing ABC Superstore en plein cœur d’Achrafiyé est le coup d’envoi de la multiplication d’aires commerciales de plus en géantes qui offrent sous un même toit une multitude de services et de prestations. Dans un pays stigmatisé par des guerres et impliqué dans les conflits voisins, les centres commerciaux sont devenus de nouveaux lieux de sociabilité et d’échanges. Les usagers perçoivent le « mall » comme un souk moderne mais c’est aussi un lieu de sortie et de détente à tous les âges.


Mais leur fréquentation demeure coûteuse et constituent de nouveaux espaces de ségrégation sociale au sein de l’agglomération beyrouthine.








[Show as slideshow]









Khan Antoun Bey (1852)









Place de l’Etoile en 1932









Souks de Beyrouth (2010)









Beirut city centre/Carrefour (Masjid al-Futtain) 2013









Maquette ABC Verdun prévu pour 2016















[1] Professeure, Coordinateur de la Commission Scientifique de Recherche du campus des Sciences Humaines, Déléguée de la Faculté des Lettres et des Sciences Humaines à l’Université Saint-Joseph de Beyrouth, rédacteur en chef de la revue Géosphères.

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Published on April 02, 2014 08:14

March 28, 2014

Banksy sulla Siria, parte seconda

È tornato a parlare di Siria Banksy, il celebre graffitista inglese che lo scorso ottobre aveva pubblicato un video sulla Siria che aveva sollevato varie polemiche.


Questa volta l’artista ha risposto all’invito di una serie di organizzazioni internazionali che il 15 marzo scorso hanno lanciato la campagna #WithSyria. Banksy ha rivisitato uno dei suoi stencil più famosi, una bambina con un palloncino rosso a forma di cuore, per ricordare il terzo anniversario dell’inizio della rivoluzione siriana.


Il disegno è stato proiettato sulla Torre Eiffel, sulla colonna di Nelson e su tanti altri monumenti internazionali, ed è rimbalzato sui profili degli utenti dei vari socialnetwork in tutto il mondo.


Anche questa volta però la posizione di Banksy sulla Siria ha suscitato diverse perplessità che Hisham Ashkar ha ben sintetizzato in un post apparso sul suo blog, dall’eloquente titolo: “Salvare la Siria attraverso l’Orientalismo” che riportiamo di seguito.


Ahead of the third anniversary of the Syrian uprising, a coalition of international organizations was formed, #WithSyria, urging people around the world to hold vigils on 15 March, with the aim to “show our leaders that we will not give up on the people of Syria, that they must act to bring an end to the bloodshed and to get aid to all those who need it.”


Among the organizations, we can find Amnesty International, Save the Children, Reporters Sans Frontières and the Church of England.


In their mobilization effort, they recruited Banksy, and indeed the famous anonymous British graffiti artist didn’t fail to impress us once again. He produced an original Banksy for the campaign, that Amnesty proudly twitted it.


This new Banksy reminds us of an old Banksy: A young girl losing a heart-shaped balloon to the wind. Behind her on the staircase is written “There is always hope.” The graffiti was made in 2007.



Banksy’s two girls: #WithSyria campaign (L) and “There is always hope” (R)


For #WithSyria campaign, the little girl was given a veil. Well yes, it’s very logical! Syria is a Muslim country. Muslim women are dotted with veils. So to be politically correct, and to take in consideration and not to offend the feeling of Muslims, the little girl wears a veil.


Maybe Banksy didn’t thought much of that while drawing his work. But this reveals an unbearable amount of ignorance, stereotyping and orientalism, not only from Banksy, but also from the organizations in #WithSyria camapign.


Also, the production and adoption of this graffiti, reveals the extent of (conscious or subconscious) arrogance, either from the internationally famed graffitistar who tours the world to spread his work and bring awareness to millions of people on issues of sufferance and inequalities, from the wall in Palestine, to Guatanamo, to vices of capitalism. Or from these humanitarian organizations that defend various kind of human rights. Both, Banksy and these organizations, have this thing in common: saving the world through awareness and (limited or soft) action. And in their quest, they both fell in the trap of elitism and first world egocentric perspective towards the world.


Before they assume the task of saving Syria, and promoting a veiled little girl as an icon for the campaign, at least they should know, that even in conservative Muslim families, girls at the age of Banksy’s painting (4 or 5 years old) are not veiled. Add to it that not all Muslims in Syria are conservative, nor all Syrian are Muslims.


I don’t know how much #WithSyria knows Syria.


It seems that saving the world is too important task to check details. It seems that saving the world condones stereotyping and orientalism (which by the way are another type of discrimination.)


Moreover, a quick comparison between the two girls reveal more aspects to this stereotyping and orientalism. While in “There is always hope,” the wind blows in the girl’s hair and skirt, in #WithSyria there’s nearly no wind, just a shy breath … even the wind became more conservative.


Muslim girls should not play with the wind.


However, this Banksy’s approach is neither surprising nor new. Already couple of months ago he posted a video on Syria (which was his first work on Syria, his second work on Syria is this girl.) The video entitled “Rebel Rocket Attack,” which is a spoof of videos uploaded by Syrians on YouTube (he also used the audio of this video.), shows rebels shooting down Dumbo the Elephant, and then celebrate around it. At the end, a child kicked a fighter. This video attracted wide criticism for its naivety, simplification and short sightedness. (you can read this article: “The awkward politics of Banksy’s satirical Syria video”)


Finally, as Banksy’s fame grew, we can notice that his work – both the content and how he displayed and used it – tends to be more mainstream, more reconciled with the System, and devoid of depth, trying to capitalize and benefit from his reputation.

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Published on March 28, 2014 04:58

March 17, 2014

Anche solo per una strofa che mi piace…

[image error](di Eva Ziedan). Sono trascorsi tre anni dall’inizio della rivoluzione siriana. Rivoluzione? Rivolta? Guerra civile? Conflitto?


Sono termini che si usano non solo sui mezzi di informazione internazionali, ma anche tra gli stessi attivisti siriani.


Alcuni di loro, da quando hanno cominciato la loro attività, hanno difeso e sostenuto il modo pacifico di manifestare. Il regime ha continuato ad arrestarli ripetutamente, limitando sempre più la loro attività e bloccando questo movimento pacifico, fino a costringerli a lasciare il Paese. Ora la maggior parte di questi attivisti lavora nei campi profughi in Turchia e in Libano, e alcuni di loro dicono di non voler sentire più palrare di “rivoluzione”, perché “la rivoluzione è morta”.


“Dovreste vedere le persone nei campi profugni come vengono umiliate, sono migliaia. Per non parlare di alcune Ong che ruotano attorno alla Siria e di quello che stanno incolpevolmente causando: scelgono gli attivisti più bravi sul campo e gli offrono asilo politico, borse di studio, stipendi più alti, anche venti volte superiori a quello che prenderebbero all’interno del Paese. In questo modo la Siria viene progressivamente svuotata della gente migliore che potrebbe ricostruire il Paese. Guardate come l’opposizione sta vendendo il Paese al miglior offerente. La gente è stanca. La gente che sta pagando questa rivoluzione è stanca”.


“Quale anniversario e quale festa dobbiamo ricordare? Dove? Fuori dal Paese o dentro al Paese, costretti tra il regime e l’Isis e tra la gente che muore?”


Jaidaa che è stata liberata da poco, dopo sei mesi trascorsi nelle carceri del regime, dice: “Non dobbiamo dimenticare che questa è una Rivoluzione, dobbiamo ribellarci contro quelli che non la chiamano così. Io festeggerò l’anniversario della rivoluzione!”.


“In base a quale criterio si può giudicare una rivoluzione dopo soli tre anni? Chi conosce il regime sa che questa rivoluzione continuerà a costare cara al popolo e durerà ancora molto”.


“La rivoluzione non è un angelo: ci sono stati molti errori e ora i siriani stanno imparando che devono occuparsi di se stessi, abbandonando la speranza di essere sostenuti dal mondo, che -  in modo consapevole o meno – sta alimentando sempre più le fiamme del fuoco siriano. La rivoluzione non è una fazione contro un’altra. La rivoluzione non muore perché è una idea e gli ideali non muoiono mai”.


Sabah di Aleppo dice: “Quale rivoluzione? Condoglianze! Siamo caduti in un gioco mondiale. Vivo nella preferia occidentale di Aleppo. Prima c’era l’Isis che ha ucciso molti di noi, distrutto ogni barlume di attività civile che avevamo costruito dopo la liberazione dal regime. Allora il regime non ci aveva mai bombardato. Ora L’Isis è uscito dalla periferia occidentale della città e il regime ha cominciato a bombardarci. Sono funghi velenosi che vivono uno sull’altro. E sono sempre loro i più forti”.


Juri di Daraa invece sostiene che “bisogna insistere sulle campagne per raggiustare la strada della rivoluzione e ricordare alla gente per quale motivo era uscita a manifestare”.


Sono attivisti che non vanno d’accordo tra loro. Dialogo con il regime? Ci vuole tanto per riuscire a farli dialogare tra loro! Tra chi è per l’anniversario della rivoluzione e chi è contrario. Però su un punto tutti sono d’accordo: non possono tornare indietro e non lo vogliono nemmeno. Tutti loro quando finiscono di litigare, piangono in silenzio, per l’odio che nutrono contro l’uomo seduto a Damasco, che non ha ancora disatteso le sue promesse: sta bruciando il Paese. E trasformerà la Siria in un nuovo Afghanistan, così come aveva predetto.


Alhareth un ragazzo di Deir ez Zor, quando mi ha salutato sul confine turco-sirano, mentre attraversava il fiume in un secchio, mi ha urlato: “Io la chiamo rivoluzione e la voglio festeggiare anche tra i morti. Succede spesso che ascolto molte volte una canzone lunga: la riascolto solamente per una strofa che mi piace”.

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Published on March 17, 2014 08:27

March 11, 2014

Darwish, ritratto di un uomo coraggioso

Mazen Darwish, archivio(di Yara Badr* per SiriaLibano. Traduzione dall’arabo di Filippo Marranconi). Mazen Darwish l’ho incontrato per la prima volta il 16 settembre 2009 al caffè Rawda di Damasco. Mi ero accomodata alla tavola di un amico comune, un giornalista, che sedeva con lui.


Quel giorno, il viso stanco e teso, con la quiete di un vulcano sul punto di esplodere, Mazen Darwish (foto) mi ha detto che la sede del “Centro siriano per l’informazione e la libertà d’espressione” [in inglese Syrian Center for Media and Freedom of Expression, SCM, N.d.T.], che aveva fondato e dirigeva, due giorni prima era stato chiuso per la seconda volta.


Durante quell’incontro, Mazen Darwish mi ha parlato dei progetti a cui stava lavorando, in particolare di quello sulla “censura delle libertà culturali in Siria”. Proprio il rapporto sulla censura, a cui ho contribuito, è stato requisito dai servizi di sicurezza dell’aviazione dopo la perquisizione del SCM – appena qualche giorno prima della sua pubblicazione, il giovedì 16 febbraio 2012.


Tra il settembre 2009 e il febbraio 2012 Mazen Darwish, con ferma determinazione, ha rifondato una nuova sede del SCM, ripreso i contatti coi vecchi colleghi e trovato nuovi componenti: per mia fortuna ero una di loro.


Mazen e io ci siamo sposati cinque mesi prima che lo arrestassero. Il suo arresto aveva per scopo la paralisi della sua attività – situazione che dura fino ad oggi- e ha costituito un passo decisivo nella trasformazione della Siria in un’arena di scontro militare e nell’esclusione di ogni pratica pacifica e in difesa dei diritti.


Oggi, dopo i due anni che ha passato in prigione, nove mesi dei quali trascorsi nel “buco della morte” [N.d.T. termine informale impiegato per definire celle speciali costruite sotto terra, a volte usate per l’isolamento totale dei prigionieri, spesso sovraffollate], i quattro anni e cinque mesi trascorsi dal nostro primo incontro ancora non mi sono sufficienti per poter dire di conoscere Mazen Darwish o per poter parlare di lui nel modo denso ed esaustivo che un articolo richiederebbe.


Quest’uomo, che con spirito fermo e con gioia ha cominciato in carcere il suo quarantesimo anno di vita, mi ha insegnato con pazienza e col sorriso a non tollerare gli insulti, e a lavorare ai rapporti con l’oggettività maggiore possibile. Mazen Darwish stima e tiene profondamente in considerazione coloro coi quali lavora, trattandoli sempre con rispetto. Suggerisce loro la necessità di riformulare questo o quel paragrafo, li guida verso gli schemi che aveva in testa fin dal primo momento, per poi passare alla fase seguente di lavoro sul materiale complessivo.


Mazen detesta la vanteria, ma parla con gioia estrema del giorno in cui il SMC ha lavorato con i bambini orfani di Damasco, dei disegni che i bambini hanno fatto di questa giornata, così come del film sul “lavoro minorile” che ha girato con gli alunni di una scuola. E con lo stesso orgoglio parla della formazione che ha tenuto per un gruppo di ragazzi sui mezzi di comunicazione tecnologici relativi all’informazione.


Oggi, più che allora, ripenso alle sue parole. Cresce il loro valore, mentre sono ormai parte del nostro presente. Nel 2009 Darwish diceva: “oggi non è possibile parlare di concetti come democrazia, trasparenza o pluralismo, senza parlare di libertà d’informazione. L’informazione libera e indipendente è una delle basi per il cambiamento ed è un elemento fondamentale per il lavoro di riforma. Essa non ne è un riflesso, né è un suo semplice risultato”.


Oggi in Siria l’informazione  alternativa è diversificata e numerosa; essa è soprattutto stampata e radiofonica. Tuttavia, è necessaria la professionalità di Mazen Darwish per studiare l’impatto reale di tale informazione alternativa, indipendente dallo stato siriano (una parte di essa si basa sul volontariato, mentre un’altra è legata ai finanziamenti di fondazioni europee e americane). E’ necessaria la sua professionalità, per vedere in che misura essa costituisca realmente uno strumento indipendente e un elemento attivo nel processo di cambiamento iniziato in Siria nel marzo 2011, o per capire se essa sia, invece, solo un riflesso o risultato di tale processo!


Oggi più che mai abbiamo bisogno di una mente come la sua, abile nell’ analizzare i nuovi meccanismi e nel ricercare competenze ed esperienza, capace di verificare le informazioni, valutarle e osservarne  gli effetti. Nel SCM fin da subito si è data importanza a ciò che ha detto Darwish al riguardo: “L’informazione oggi è una parte fondamentale nella costruzione dell’opinione pubblica.


Essa svolge un ruolo al contempo importante e rischioso, poiché influenza direttamente la formazione dell’opinione elettorale. Nel mondo, molti specialisti dei media e della libertà di espressione hanno già richiamato l’attenzione su tale ruolo, sottolineando al contempo la mancanza, all’interno della legislazione internazionale e nel campo dei diritti umani, di un quadro di riferimento e di procedure di controllo condivisi. Tale quadro risulta necessario, se si vuole stabilire il ruolo dell’informazione nei periodi elettorali”.


Il SCM è stato il primo al mondo a stabilire una metodologia specifica nell’osservazione imparziale e oggettiva dell’attività dei siti di informazione. Tale metodologia è stata applicata per la prima volta nel rapporto sull’ “Informazione siriana durante le elezioni legislative di ottobre 2007”.


In seguito essa è stata diffusa in diversi paesi: grazie a formazioni e osservazioni svolte in occasione delle elezioni del parlamento marocchino e giordano; attraverso il monitoraggio delle attività dei “Media siriani durante il periodo del referendum presidenziale del 2007” e il rapporto del 2008 sulla censura e sugli strumenti utilizzati dal governo siriano nella gestione di internet, intitolato “La domesticazione di internet”; attraverso il rapporto edito nel 2009 intitolato “Il divieto di viaggio”, nel quale il Centro ha monitorato il caso di 421 persone siriane vittime del divieto di viaggio.


Nell’articolo intitolato “Anche ai morti è vietato viaggiare” viene raccontato di casi di persone per le quali il governo siriano ha dichiarato il divieto di viaggio anche dopo la loro morte!!! Tutto questo, mentre a Mazen Darwish, dal 2007, è stato posto tale divieto da due servizi di sicurezza diversi.


Mazen Darwish mi ha detto qualche giorno fa: “Non sono una fondazione per la difesa dei diritti umani!!!”. Tra me e me, lo osservo con stupore, e non ho più parole. Lui, che ho visto lavorare come cinque persone insieme: solo, dalla lettura della notizia, alla redazione del rapporto e alla revisione dello studio, senza lasciarsi sfuggire nessun dettaglio, e addirittura portando avanti una ricerca sulla formazione e l’istruzione dei ragazzi; lui, che ho visto intristirsi nello stesso modo per l’uccisione di Shukri Abu Borghol, giornalista del quotidiano ufficiale “At-Thawra”, come per quella di Gilles Jacquier a Homs e quella di Mazhar Tayyara, e quella di ogni altra persona impegnata nel lavoro di informazione. Lui, che ha sollecitato, con il SCM, un’ inchiesta immediata, trasparente e pubblica, sulle circostanze di morte di tutti costoro, come di altri.


Durante questo periodo di assenza angosciante, da quando nell’agosto 2012 il governo siriano ha annunciato l’intenzione di sottoporre Mazen al giudizio del tribunale militare – un tribunale eccezionale in cui l’accusato non ha diritto di difesa, le udienze sono segrete, e la cui sentenza può arrivare alla pena di morte con esecuzione immediata-, e anche in seguito, quando le persone a noi vicine hanno provato a mettermi al corrente delle voci circolanti sulla morte di Mazen sotto tortura, non ho trovato alcun modo per consolare me stessa.


Nessun modo, se non quello di pensare che Mazen credeva fortemente nel fatto che “la parola è un diritto, e la sua difesa un dovere”; nessun modo, se non quello di credere che tutto ciò fosse una sua scelta, una sua convinzione e il significato della sua vita.


Nonostante  l’oppressione securitaria,  il soffocante assedio esercitato su di lui degli apparati di sicurezza e gli arresti e le minacce subite ripetutamente, Mazen Darwish è riuscito nel 2004 a fondare il SCM , un centro per lo sviluppo e il monitoraggio dell’informazione e l’osservazione delle violazioni compiute nei confronti dei lavoratori di questo settore.


Ma, per me e per molti altri, grazie al suo lavoro in Siria, egli ha fatto molto di più: è riuscito a divulgare i propri principi e a renderli proprietà di tutti, e a far sì che molti li adottassero; è riuscito nella diffusione degli strumenti di lavoro, delle applicazioni pratiche e delle strategie concrete per l’attuazione di tali principi. La prova tangibile di ciò è la comparsa, in Siria, del fenomeno del “cittadino giornalista” che, in forma molteplice e differenziata, dal marzo 2011 a oggi, pratica la propria cittadinanza per la difesa del diritto di parola e nel sacrificio della sua difesa.


In tal modo ho provato a lottare contro l’immagine di Mazen sotto tortura e contro l’idea di una morte vicina: mi dicevo continuamente che Mazen era un’idea, e le idee non muoiono. Qualche giorno prima di scrivere questo articolo, durante una conversazione somigliante a un litigio, che ora, mentre scrivo, mi sembra essere uno stupendo frammento di realtà rubata alla quotidianità della vita coniugale – realtà che non ci è accessibile, come non lo è per migliaia di siriani, Mazen mi ha detto: “non sono una fondazione per la difesa dei diritti umani, sono un essere umano”. Ma lui non sa che le sue idee in difesa dei diritti e la sua professionalità sono  la più grande verità che oggi possiedo.


Una verità che né i servizi di sicurezza siriani né gli estremisti islamici (tafkiruna jihadiuna) sono riusciti a togliermi. Una verità che è per me una profonda sicurezza, e che mi accompagna ogni giorno nella tensione dell’attesa, nelle inquietudini dell’ignoto. Anche perché io non possiedo né la forza di Mazen né la sua fede ferma nel fatto che “non vi sono prigioni grandi abbastanza da poter rinchiudere una parola libera”; non possiedo nemmeno il suo amore per la vita e per gli altri.


Dalla prigione in cui è richiuso, Mazen Darwish ha detto: “Forse il modo in cui si sono messe le cose in Siria oggi è peggiore dei nostri peggiori incubi, ma possiamo rinunciare al diritto di cambiare la nostra realtà? Alle nostre ambizioni legittime di libertà, dignità e cittadinanza? Al nostro dovere di ridurre la diseguaglianza e di portare più giustizia nella nostra società, perché questi slogan sono stati utilizzati in modo ideologico e strumentale da parte di regimi tirannici e autoritari e di movimenti violenti ed estremisti?”.


________


*Yara Badr è direttrice del SCM e moglie di Mazen Darwish.


Questo articolo è stato ripreso dal sito del SCM nella versione in italiano e in arabo.

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Published on March 11, 2014 06:35

Lorenzo Trombetta's Blog

Lorenzo Trombetta
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