Lorenzo Trombetta's Blog, page 26
June 13, 2014
Giallo Padre Paolo, Hezbollah ha buone fonti nell’Isis
(di Lorenzo Trombetta, ANSA) Padre Paolo (foto) è vivo. Sappiamo dove si trova. Sappiamo che una “delegazione italiana” lo ha incontrato: così uno dei megafoni in Libano dell’asse siro-iraniano ha contribuito oggi al supplizio di voci che, in modo sempre più insistente e contrastante, si accavallano da mesi sulla sorte del gesuita italiano scomparso nel nord della Siria quasi un anno fa.
L’origine della presunta notizia è il quotidiano libanese al Akhbar, portavoce delle istanze del movimento sciita filo-iraniano Hezbollah, che dice di combattere i qaedisti in Siria a fianco delle truppe del regime del presidente Bashar al Assad.
Quest’ultimo, dopo esser stato “rieletto” nei giorni scorsi, si propone ora con maggior forza di prima come il più affidabile protettore dei cristiani in Medio Oriente e come il miglior pompiere dell’incendio qaedista che investe ormai un’ampia zona dalla Mesopotamia all’Oronte. Il giornale di Beirut, senza citare alcuna fonte, afferma che un mese fa “una delegazione italiana ha incontrato” il religioso alla presenza dei suoi rapitori e ha avuto con lui un colloquio di circa due ore. Alla Farnesina e all’intelligence italiana un tale incontro non risulta.
La famiglia di Dall’Oglio e la Curia generalizia dei gesuiti affermano di non poter né confermare né smentire perché non hanno alcuna novità sulla vicenda del prete romano. Da più parti si afferma che dal 29 luglio 2013 Dall’Oglio sia nelle mani di miliziani qaedisti che controllano la regione settentrionale di Raqqa. Da allora, diverse voci si sono rincorse sulla sua morte o sulle sue buone condizioni di salute.
Secondo al Akhbar, l’incontro tra la “delegazione italiana” e il gesuita romano è avvenuto nella regione settentrionale di Raqqa al confine con la Turchia, nei pressi del valico frontaliero di Tal Abyad. Proprio a Raqqa, controllato da milizie qaediste, Padre Paolo si era recato, poco prima di scomparire, per tentare una delicata mediazione con lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) per la liberazione di alcuni attivisti siriani.
Fonti qualificate dei servizi di sicurezza italiane fanno notare che al Akhbar “non è attendibile” e affermano che in ogni caso proseguono le attività per riportare a casa il religioso. Eppure ad al Akhbar sembrano avere contatti privilegiati con i qaedisti dell’Isis: nei giorni scorsi lo stesso giornale libanese aveva affermato che due vescovi ortodossi siriani Yohanna Ibrahim e Bulos Yazigi, scomparsi nel nord-ovest della Siria nell’aprile 2013, si trovano proprio a Tal Abyad nelle mani degli stessi qaedisti che tengono prigioniero Dall’Oglio.
Un dettaglio non marginale visto che nella ricostruzione di al Akhbar tornano, non a caso, i nomi dei due alti prelati ortodossi. Il giornale di Hezbollah afferma – come a suggerire una possibile soluzione – che la “delegazione italiana” ha discusso con i rapitori varie opzioni, tra cui quella di inserire nell’accordo anche la liberazione dei vescovi siriani. (ANSA, 11 giugno 2014).
June 11, 2014
Arte “sott’aceto”, Humam Alsayed in mostra a Beirut
“Un uomo che lavora con le mani è un operaio” – ha notato una volta lo scrittore e avvocato statunitense Louis Nizer. “Un uomo che lavora con le mani e il cervello è un artigiano; ma un uomo che lavora con le mani, il cervello e il cuore è un artista”.
Le mani compaiono in modo preminente nella recente mostra dello scultore e pittore siriano Humam Alsayed che sembra esemplificare la definizione di artista data da Nizer”.
Così India Stoughton presentava sul The Daily Star l’ultima mostra di Humam Alsayed tenutasi a Beirut nel 2012. Tra qualche giorno Alsayed tornerà a presentare i suoi lavori nella capitale libanese dove ormai vive da qualche anno.
In mostra ci saranno sculture in bronzo, schizzi e quadri con quelle figure surreali con indosso kefiya e berretti di panno così caratteristiche di Alsayed. Non sono ritratti verosimili i suoi: deformando in modo grottesco alcuni particolari del volto, ingrandendo le mani, coprendo gli occhi dei personaggi delle sue opere, Alsayed intende rivelarne l’interiorità, l’energia, le passioni e debolezze nascoste.
Kabis (Pickles) – questo il titolo della mostra – sarà inaugurata il 13 giugno alla galleria Mark Hachem e resterà aperta fino a fine mese. Di seguito la locandina con tutte le informazioni.

June 8, 2014
Le mille e una vita dell’Holiday Inn
Sarà messo all’asta: dopo 24 anni dalla fine convenzionale della guerra libanese (1975-90), l’edificio dell’ex albergo Holiday Inn (foto), uno dei simboli della Beirut ferita, conoscerà forse presto il suo destino: la demolizione, voluta dal suo comproprietario kuwaitiano, o la rinascita desiderata dall’altro comproprietario libanese.
La Public National Radio americana ha realizzato un interessante servizio (qui sotto) sulla vicenda, ancora non conclusa, dell’Holiday Inn.
Per chi desiderasse approfondire, può leggere gli studi che la ricercatrice italiana ha dedicato al tema.
To check into Beirut’s Holiday Inn these days, you need a permit from the army and the stamina to climb 26 flights of decaying stairs to the concrete carcass of a restaurant at the top that used to rotate.
This towering edifice may not look it today, but it was once the toast of Beirut, the most glamorous city in the Middle East before the 1975-90 civil war turned the Lebanese capital into a byword for urban dystopia.
Unlike the U.S., where the Holiday Inn chain has a reputation for value, the one that opened in Beirut in the early 1970s quickly joined other upscale landmarks in the city, which lured the rich and powerful from throughout the Middle East and Europe. (continua…)
A piedi per Beirut, per alleviare le ferite
Beirut è il luogo dove ci si allena a vivere con l’altro. E’ una frase che non ha mai ancora veramente convinto.
Chi la pronuncia viene dall’Italia, sempre più chiusa e provinciale. Certo, rispetto alle città italiane, Beirut è assai più aperta all’altro.
Ma è davvero un vivere con l’altro? E’ davvero un con-vivere? Piuttosto che un con-dividere?
Quanti ghetti ci sono a Beirut? Quanti villaggi uno accanto all’altro, separati a volte da muri tanto invisibili quanto tangibili?
A queste domande ancora si deve dare una risposta. Non ci sono però dubbi che Beirut continua a essere un laboratorio per l’incontro. Incontri d’amore, personali. Incontri di gruppi, di comunità.
Incontri e scontri, certo, come avviene nelle coppie più affiatate. Scontri drammatici e prolungati. Guerre, per molti più facilmente catalogabili come guerre civili.
E mentre in Siria le violenze in corso sono ormai inserite in un contesto di guerra civile, a Beirut il drammaturgo e regista teatrale Roger Assaf ha diretto una rappresentazione inusuale: Watch Your Step, realizzata nel quartiere popolare di Khandaq al Ghamiq di Beirut e associata a un tour aperto al pubblico interesso alla riscoperta della memoria del rione e degli eventi della guerra libanese (1975-90).
Di seguito un estratto dell’articolo scritto da India Stoughton per The Daily Star del 5 maggio scorso. Qui invece il link all’iniziativa realizzata dall’American University of Beirut (Aub) col sostegno dell’International Center for Transitional Justice (Ictj).
Il percorso fisico e virtuale intrapreso da Assaf e dai suoi attori, dalle guide e dai ‘turisti’ potrà forse ispirare analoghi percorsi inter-siriani per superare i traumi di un conflitto in corso.
(…) An exercise in resurrecting past trauma, “Watch Your Step” is likely one of the most fascinating and least comfortable performances to take place in Beirut in recent years.
“The inspiration of the text was a play by [Argentine playwright] Griselda Gambaro,” Assaf explains. “She wrote a play in the ’70s entitled ‘Information for Foreigners,’ which is also a sort of promenade performance … basically pointing the finger at audiences as accomplices to the state terrorism in Argentina at that time.
“When I read the play, I thought of our Civil War: ‘This would make a great project for the students.’ So we read it together. We started brainstorming and I started to look for a location …
“I passed through Khandaq al-Ghamiq and the first thing that struck me was that the moment you’re in the area you automatically think of the Civil War … You go down to Downtown it’s as if you’re in a different country – there’s no trace of the war. Here it’s like the whole area is a monument.”
Assaf came up with the idea of contrasting a manifestation of the post-war amnesia – the tour guide’s shallow, fabricated rhetoric – with dramatic moments based on stories residents shared with her or gleaned from research conducted by the International Center for Transitional Justice.
The wailing woman, she explains, is based on a lady whose son disappeared during the conflict. Three decades on, she still prepares two plates of food every night, refusing to leave the house for fear he might return.
“I wanted to make a play about our memory of the Civil War,” says Assaf, who timed the performances to coincide with the 39th anniversary of the conflict’s beginning, “to just say simply that we must remember. We have to look back, we have to step back in history in order for there to be a peaceful present and a peaceful future.
“We had 15 years of Civil War that ended overnight when all the fighting parties came together and decided to end it, like it was a football match or something … They rehabilitated all of the buildings, but they’ve done no rehabilitation for the human beings – all the people who disappeared, all the people who lost their houses, lost their future, lost everything.”
Perhaps the most disturbing aspect of the performance was the audience’s reluctance to intervene in scenes of violence, and willingness to passively witness strangers’ suffering.
“The guide is an accomplice, [a manifestation] of Lebanese amnesia,” Assaf says. “Like in Gambaro’s play, the audience becomes an accomplice to what’s happening. You see that he’s lying, but what do you do? Nothing. You just nod and move on.”
A thought-provoking performance, “Watch Your Step” is amusing, enlightening and deeply sad. Allowing audiences a rare opportunity to explore the interiors of some war-ravaged Beirut buildings, it simultaneously provides an insight into the human cost of the conflict and the passive mentality that allows atrocities to happen.
Far more than a simple trip down memory lane, “Watch Your Step” was a chilling wake-up call.
June 6, 2014
Insieme, Il ‘revisionismo storico’ della campagna di Asad
Amal Hanano analizza la strategia mediatica dietro la recente campagna elettorale di Bashar al Asad, improntata sul motto Sawa (insieme).
La giornalista di origine siriana fa notare come il regime si sia servito delle immagini della rivoluzione per capovolgerle e utilizzarle per la propria propaganda: bambini che scrivono sui muri della scuola, gruppi di persone che uniti abbattono il muro dell’oppressione sono finiti nei video della campagna per sostenere la candidatura di Bashar al Asad.
“Sembra che il presidente della Siria stia invitando a una rivoluzione.” – annota Hanano – Ma quella rivoluzione è già avvenuta. E quella rivoluzione è stata uccisa”.
Inoltre – prosegue – le storie raccontate nei video sembrano fluttuare in una realtà idealizzata priva di concretezza storica: “Perché innalzare una bandiera siriana all’interno della Siria è considerato un tale atto di sfida? Perché la Siria ha bisogno di essere ricostruita?”
Di seguito il testo integrale della sua analisi. Da leggere tutta.
(di Amal Hanano, per Vice News. Traduzione dall’inglese di Caterina Pinto). Una bambina siriana è sgomenta di fronte ai tetri muri della scuola, grigi e chiazzati. Si sveglia nel bel mezzo della notte, va a scuola con una torcia e un pennarello e comincia a disegnare. Presto altri bambini si uniscono a lei con torce e pennelli. Insieme dipingono un murale colorato per ricoprire le chiazze di vernice.
Un uomo è seduto con la sua famiglia in una stanza illuminata da una candela. L’unica finestra è bloccata da un grosso muro ricoperto di slogan politici. Decide che ne ha avuto abbastanza. Si dirige con un martello e una scala a pioli verso il muro che si erge all’esterno e inizia a picconare il cemento. Una folla si unisce a lui con scale più lunghe e strumenti migliori. Insieme buttano giù il muro e fanno entrare la luce del sole nelle camere buie.
Questi scenari metaforici non sono storie ispirate alla rivoluzione siriana, ma invece sono scene tratte dai video ufficiali della campagna elettorale di Bashar al Asad del 2014. Il tema della campagna è Sawa, “insieme”. (Il referendum precedente su Asad del 2007 ruotava attorno allo slogan molto più egocentrico: “Ti amiamo”). Gli slogan della campagna giocano sul concetto di unità in tutti i settori: “Insieme siamo più forti”, “Insieme ricostruiremo”, “Insieme resisteremo”, “Insieme renderemo di nuovo bella la Siria”, “Insieme la lira siriana diventa più forte”, “Insieme torna la sicurezza” e – naturalmente – “Insieme contro il terrorismo”.
Secondo Asad, le elezioni – previste per il 3 giugno – sono le prime elezioni della storia moderna della Siria. Quest’anno le persone possono scegliere tra Asad e un pugno di candidati semi-sconosciuti vagliati e approvati dal regime perché “concorrano” contro il presidente che ha ereditato il potere nel 2000 da suo padre Hafez che aveva governato dal 1971.
Nel mezzo della violenza incessante, il bombardamento aereo continuo delle città siriane da parte del regime e con quasi metà dei 24 milioni degli abitanti del Paese che sono stati costretti a lasciare le proprie case, l’idea di poter “scegliere” o persino di poter tenere le elezioni non è nient’altro che una rozza presa in giro del paesaggio insanguinato di perdita reale.
L’immagine del presidente è assente nei video se non in una firma incorporea di sostegno che appare nel finale. Una collettività fotogenica agisce in nome del leader. Con un messaggio politico scaltro basato sulla gente piuttosto che sul dittatore, i video della campagna confezionati da professionisti si appropriano in modo surrettizio proprio della narrativa della rivolta che il regime ha schiacciato: bambini che scrivono sui muri della scuola nel mezzo della notte e cittadini che letteralmente abbattono il muro della paura. Azioni che hanno portato la gente a essere torturata, arrestata e uccisa in massa.
I video, tra l’altro, ignorano la realtà presente per concentrarsi su un futuro idealizzato privo di una piattaforma politica o di un piano visibili. Cosa c’è sotto le chiazze di vernice grigia sul muro della scuola? Perché c’è una barriera di cemento che incombe e deve essere rotta? Perché innalzare una bandiera siriana all’interno della Siria è considerato un tale atto di sfida? Perché la Siria ha bisogno di essere ricostruita? Così come l’assenza del volto di Asad nella campagna, c’è un sentimento inquietante di amnesia deliberata che non tiene conto dell’attuale clima disastroso e neppure del numero devastante di vittime, delle persone fuggite o della distruzione.
In questi tre anni ho incontrato e letto storie strazianti di ex detenuti politici siriani. Tra le varie esperienze brutali che hanno vissuto nelle prigioni di Asad c’è l’imposizione di una benda da portare sempre sugli occhi all’interno delle celle affollate. Anche durante il sonno. Ai prigionieri è imposto di non vedere. Uno dei motivi per cui sono stati gettati in prigione è in primo luogo perché hanno visto troppo. Vedere troppo e – quel che è peggio – protestare per questo è un crimine nella Siria di Asad.
Oggi la Siria è divisa tra le persone che non riescono a ignorare gli orrori che hanno visto in questi tre anni, e quelli che sono più che mai desiderosi di stringere di più la benda che hanno sugli occhi.
Il regime insiste a confezionare revisioni insultanti della storia persino mentre i barili bomba cadono giù da aerei siriani su quartieri residenziali. Insinua che il sangue di bambini siriani torturati può essere semplicemente ricoperto da una mano di vernice e dimenticato. Dichiara che tutto ciò di cui abbiamo bisogno è lavorare insieme e ricostruire una nuova Siria sotto il vecchio regime.
La visione propugnata dalla campagna Sawa è una Siria che non è per tutti i siriani. Promuove il contrario dello stare “insieme”. È una Siria fatta per chi desidera rimanere con la benda sugli occhi e la bocca tappata. È questo il futuro che attende chi continua a interpretare i ruoli che gli sono stati assegnati, a disegnare quello che gli è permesso disegnare, a cantare le parole che gli vengono dettate, a innalzare la bandiera che è stato autorizzato a sollevare. Questi siriani saranno sani e salvi.
Il 3 giugno 2014 non ci sarà possibilità di scelta per la maggioranza dei siriani. Proprio come non v’è stata scelta nel 1971, 1978, 1985, 1992, 2000 e 2007.
Un movimento senza leader
Un movimento senza leader, spinto solo dalla volontà della gente; il coraggio di bambini che di notte hanno disegnato sui muri delle loro scuole; l’audacia della moltitudine che ha picconato un muro per far entrare la luce; la folla che è salita per le scale dei propri monumenti storici per ammainare una bandiera che sventola in segno di sfida su una terra chiamata Siria. Sembra che il presidente della Siria stia invitando a una rivoluzione. Ma quella rivoluzione è già avvenuta. E quella rivoluzione è stata uccisa.
Nonostante gli errori di calcolo fatali della rivolta, il brancolio immaturo dell’opposizione, i crimini dei ribelli armati, nonostante il prezzo salato pagato dai siriani, le rivendicazioni di libertà e dignità della rivoluzione sono tuttora valide e giuste. Non importa quanto sia viscida la propaganda, non si può produrre e consumare l’errato come giusto.
Se il regime e i suoi sostenitori avessero semplicemente guardato fuori dalle loro finestre in quei mesi fatidici della primavera e dell’estate 2011, avrebbero visto scene reali di unità e di coraggio, anziché riproduzioni insensibili. Folle di giovani siriani visionari determinati che tiravano giù i muri dell’oppressione con le loro voci e le loro bandiere. Avrebbero visto attivisti, cittadini, giornalisti e medici combattere con le loro penne, le loro macchine fotografiche e i loro bisturi per proteggere la verità e il ricordo di coloro che hanno sacrificato le loro vite per raccontarla. E li vedrebbero ancora adesso.
Se solo avessero riconosciuto le scene che scorrevano al di là dei loro muri isolati, ci sarebbero probabilmente oltre 160 mila siriani ancora in vita e 9 milioni di siriani ancora nelle loro case. Probabilmente il 3 giugno in Siria ci sarebbero elezioni storiche e legittime.
E invece siamo costretti a guardare il teatrino della propaganda vendere ai siriani false scelte e sogni di un futuro impossibile. Il vero messaggio è scritto dalla mano invisibile di un tiranno sicuro di sé che ricorda alla Siria e al mondo che l’oppressione feroce governa, la forza senza limiti vince e la paura conquista.
Il 3 giugno la metà dei siriani voterà con la benda sugli occhi e l’altra metà guarderà con gli occhi spalancati. E noi tutti saremo testimoni della morte lenta del nostro Paese. Insieme.
Damasco, La paura di chi non ha votato
Alcuni siriani hanno deciso di boicottare le elezioni presidenziali ed evitare di andare a votare: alcuni si sono finti malati, altri invece si sono rintanati in casa e negati al telefono. Ma il giorno dopo l’annuncio del trionfo del presidente Bashar al Asad, che cosa può accadere a quelli che sono gli unici tra i colleghi a lavoro a non avere l’inchiostro sul polpastrello?
(Reuters, Damasco). Two days after Syria’s presidential election, there are signs of anxiety among those who boycotted the vote – and who don’t have the ink stain on their finger that would show they played their part in Bashar al-Assad’s victory.
Assad won Tuesday’s election with nearly 89 percent support, according to officials, triggering celebrations in some government-controlled parts of Syria where voting took place.
Authorities said 73 percent of eligible Syrians cast their votes – a remarkably high figure in a country devastated by a conflict which drove 3 million people to flee abroad – dipping their finger in permanent ink to show they had taken part.
“Let’s see whose finger has no ink,” the host of a local radio show said on Thursday, playing half-jokingly on fears that those who did not vote could face consequences.
On election day, some people tried to find an alternative to the official polling station ink. “Can’t we use regular ink from the stationery store?” asked a young man who didn’t want to vote but feared he could be arrested for boycotting the election.
“Are they going to flag down me at checkpoints and ask for my army papers?” he said, referring to his mandatory military service which he has postponed by purposely failing the final two parts of his university engineering course.
Another Damascene, who works in a health club, said he stayed at home with his wife for 48 hours to avoid punishment for not voting. “And I don’t know if I should go into work later today. What if they all have ink on their finger and they ask how come I don’t?” he said.
He said that when family and friends called him on election day to ask if he had voted, he lied and said he had.
“I don’t want any headache, especially not on the phone. Those who know how much I oppose Assad already know that I didn’t go, and those who don’t know can keep their illusions,” he said.
“I haven’t been able to do anything for the rebels, because I live here and everything is under tight control and I worry about my family. So on election day, not voting was the least I could do,” he added.
“OBITUARY OF THE CONSPIRACY”
Assad’s international allies, including Iran, Russia and the Lebanese militant group and political movement Hezbollah, all praised the election.
“The election of Bashar al-Assad is the obituary of the conspiracy which aimed at destroying (Syria),” Mohammad Raad, leader of Hezbollah’s parliamentary bloc, was quoted as saying by Hezbollah’s Al Manar television.
Russia said a team of parliamentary observers from countries mostly sympathetic to Assad had found the poll fair, free and transparent, and criticized nations that denounced the vote.
The European Union said the election had been illegitimate and undermined efforts to find a solution to a civil war which has killed 160,000 people, while U.S. Secretary of State John Kerry described the vote as a “great big zero”.
Yasin Aktay, head of the foreign affairs department of Turkey’s ruling AK Party, said elections in Syria and Egypt – where former army chief Abdel Fattah al-Sisi got 96.9 percent of votes in a low turnout – were both “a complete comedy”.
“In Syria there was an election without ballot boxes, nobody could see where they put the ballot boxes. In Egypt there was an election without voters,” Aktay said.
Many Syrians voting this week appeared to be motivated less by politics and more by a yearning for stability.
For minority Alawite, Christian and Druze communities, the Alawite president offers a defense against Islamist insurgents and the promise – however remote – of a return to stability.
The official figures also suggest that many majority Sunni Muslims turned out to vote for Assad, whether out of weariness with the conflict or fear of retribution if they did not vote.
Many of Assad’s opponents also ended up voting.
“We live here, and we have to perform in this theater,” said a mother of military-age sons. “If voting means we stay off the radar and no one bothers us, no one bothers my kids, then it’s worth it. Besides, it’s not as if my vote made a difference anyway. He was going to win no matter.” she said.
“Having the ink mark matters. I feel I did the right thing,” she said, showing her inked index finger.
(Additional reporting by Gulsen Solaker in Ankara and Gabriela Baczynska in Moscow; Editing by Dominic Evans and Giles Elgood)
June 5, 2014
Siria, La “rivoluzione” di Asad
(di Lorenzo Trombetta, Limesonline). È tutta racchiusa in quei 9 punti percentuali in meno rispetto a 7 anni fa la “rivoluzione culturale” del regime siriano degli Asad. Il “dottor Bashar” è stato rieletto presidente con l’88,7% delle preferenze lo scorso 3 giugno. Nel referendum del 2007 aveva ottenuto il 97,6% dei voti.
Allora, l’unica foto con cui i quotidiani di regime aprivano la prima pagina del giorno del voto era quella di Bashar al Asad che si recava alle urne con la moglie Asma. Oggi, lo stesso spazio è diviso in tre: un quadrato per ciascun candidato. Asad non è nemmeno al centro.
Roba da far impallidire il defunto padre Hafez, che in ben 5 referendum, dal 1971 al 1999, ha sempre avuto tutte per sé le prime pagine, inanellando tre 100% (1985, 1991, 1999) e due 99% (1971 e 1978).
La sicurezza che ora, con maggior forza, appare sul sorriso di Bashar al Asad non è ostentata. È sentita. E per questo il suo consenso può scendere sotto il 90% e concedere spazio a due “sfidanti”, regalando loro rispettivamente un 4,3% e un 3,2%. “Altro che riforme… è questa la vera rivoluzione siriana”, è il fumetto dipinto sulla testa di molti sostenitori degli Asad.
A Damasco ci si è accorti, dopo decenni, che si può far finta di concedere spazio a delle voci dissonanti, mantenendo ugualmente il potere. Anzi, si è più forti e credibili proprio perché si domina in un contesto di “pluralismo”. Una svolta non scontata per chi è cresciuto all’ombra dei dettami del Baath.
Poi tutti sanno, anche se agiscono come se non sapessero, che questo “pluralismo” funziona solo in un contesto di prolungata e incessante repressione poliziesca e militare sostenuta con tutti i mezzi dai propri protettori regionali e internazionali.
Questo inedito “pluralismo” funziona anche in un contesto di marcata polarizzazione e di emergenza di un qaidismo che spaventa assai più dell’asadismo. Molti di coloro che nel 2000 e nel 2007 sono andati ad apporre il loro “sì” per la conferma di Asad al referendum presidenziale lo avevano fatto perché non era contemplato fare altro. Perché così va il mondo.
Nel contesto attuale, molti siriani sono andati a votare “convinti” che Asad sia davvero la soluzione migliore. O almeno la meno peggiore di fronte alla catastrofe in cui si trova il paese.
La Siria è distrutta: oltre 160mila uccisi documentati, ampi territori urbani rasati al suolo e milioni di siriani costretti ad abbandonare le case. Asad è invece ancora lì.
Tutte le sue previsioni – guarda un po’ – si sono avverate: “Volete un nuovo Afghanistan infestato da qaidisti?”, chiedeva nel novembre 2011 ai “nemici” occidentali. “Fate attenzione, perché i jihadisti che combattono in Siria poi ve li troverete in Europa”, aveva affermato nel 2012.
Coincidenza: Mehdi Nemmouche, accusato di aver compiuto l’attacco al museo ebraico di Bruxelles lo scorso 24 marzo, è un jihadista francese che ha combattuto in Siria. Anche i jihadisti sciiti di Hezbollah combattono in Siria, ma in Europa non sono percepiti come una minaccia quanto i loro rivali sunniti. Nonostante l’attentato di Burgas, in Bulgaria, compiuto contro turisti israeliani nel luglio 2012 e dalle autorità di Sofia attribuito proprio al movimento sciita libanese filo-iraniano.
Asad-profeta aveva anche previsto che lui e le sue forze avrebbero combattuto fino a “bruciare il paese” pur di rimanere al potere. La gigantografia di Asad che si staglia su un palazzo in rovina di Homs è la sintesi di questa strategia: “ricostruiamola insieme”, è la scritta che campeggia sul poster, in riferimento alla “Siria che vince”.
June 4, 2014
Storia di una percentuale ‘bulgara’
Bashar al Asad rimane formalmente presidente della Repubblica araba di Siria fino ad almeno il 2021, ottenendo l’88,7% dei voti alle “elezioni” svoltesi il 3 giugno 2014. L’affluenza alle urne è stata del 73%.
Secondo i conteggi ufficiali non verificabili in maniera indipendente, sono undici milioni i siriani che hanno votato. Lo stesso numero di siriani aveva detto “sì” nel 2007 al referendum confermativo per la rielezione di Asad.
Per la prima volta dopo decenni, non è più un nove la prima cifra delle decine della percentuale della vittoria di un Asad ai vertici del regime.
L’altra novità di queste “elezioni” è stata rappresentata dalla presenza di altri candidati: Maher Hajjar (4,3%) e Hasan Nuri (3,2%) si sono prestati a interpretare il ruolo di “sfidanti” per assicurare quel pizzico di “pluralismo” alle consultazioni.
Andando a ritroso nella storia delle “vittorie elettorali” degli Asad, al potere dal novembre del 1970, si scopre che fino a oggi la percentuale più bassa si era registrata sette anni fa: per Asad c’erano stati ‘solo’ il 97,6% dei “sì”.
Nel 2000, il novantanove-virgola-sette-per-cento. Quella era però la “prima” di Asad figlio dopo la morte del padre Hafez (foto in alto), il “duce immortale”. Difficile pensare a una percentuale più bassa.
Ma Hafez era stato confermato presidente solo un anno prima, nel 1999, con la cifra tonda del 100%. Così andò anche nel 1991 e nel 1985. Mai sotto il cento-per-cento dal 1985 al 1999: non male.
Per registrare una leggera inflessione bisogna tornare al 1978: 99%. Un altro ‘imperfetto’ 99% si registrò nel marzo del 1971, quando Asad padre si presentò per la prima volta al “popolo” per chiedere la conferma della decisione del Baath e del parlamento. Era solo l’inizio.
June 3, 2014
Il premio Samir Kassir a una tunisina, un egiziano e un siriano
(ANSAMed). Ha studiato in Italia e scrive anche in italiano una dei tre vincitori del premio giornalistico arabo-mediterraneo per la libertà di stampa Samir Kassir finanziato dall’Unione Europea: la tunisina Hanene Zbiss si è aggiudicata la prestigiosa onorificenza nella categoria inchieste, mentre l’egiziano Mohammed Abol Gheit ha vinto come miglior articolo di opinione e il siriano Orwa Moqdad è stato premiato come migliore autore di documentario.
Quest’ultima categoria è stata introdotta per la prima volta nell’edizione del 2014 e la cui premiazione si è svolta a Beirut nella suggestiva cornice del giardino dell’antico palazzo Sursock alla presenza inedita del rappresentante speciale dell’Ue per i diritti umani Stavros Lambrinidis.
Zbiss, 34 anni, ha vinto partecipando con un’inchiesta, realizzata per il periodico tunisino Realités, sugli “asili nido coranici”, apparsi nel paese nordafricano dopo la deposizione nel gennaio 2011 del contestato presidente Ben Ali e la comparsa, tra gli altri, di formazioni islamiche radicali.
La giornalista tunisina si è formata all’università di Pavia e per anni ha scritto sul giornale in italiano “Il corriere di Tunisi”, prima di approdare come corrispondente dal suo paese per l’autorevole quotidiano panarabo al Hayat.
Il premio Samir Kassir è intitolato all’omonimo giornalista e intellettuale beirutino ucciso il 2 giugno del 2005 da un attentato dinamitardo compiuto contro di lui. Il crimine è stato da più parti attribuito al regime siriano della famiglia Assad, che all’epoca aveva da poco ritirato le sue truppe dal Libano dopo 29 anni di tutela politica-militare.
Kassir era stato per anni esplicitamente critico dell’ingerenza di Damasco negli affari di Beirut e lui, come altri intellettuali e politici libanesi, sono stati uccisi in una lunga catena di omicidi mirati apertasi nel 2004 e non ancora conclusasi.
Durante la premiazione di quest’ultima edizione, la vedova di Kassir, la giornalista libanese Jiselle Khoury, ha fatto riferimento esplicito a tutti i giornalisti arabi e stranieri scomparsi nel buco nero del conflitto siriano, “finiti nelle mani di estremisti o dei servizi di repressione”.
Khoury ha anche ricordato la scomparsa di Paolo Dall’Oglio, il gesuita romano da quasi un anno nelle mani di qaedisti nel nord della Siria.
Proprio dalla Siria è giunto a Beirut il giovane documentarista Orwa Moqdad, vincitore del premio come autore di un reportage sui musicisti siriani che si esibiscono nelle strade della capitale libanese. “Lavoravo a un documentario sui bombardamenti del regime ad Aleppo quando a Beirut mi sono imbattuto in questi ragazzi… ho pensato di dover raccontare anche questo lato della storia”, ha detto ritirando il premio.
Dal canto suo, il giovane giornalista egiziano Abol Gheit, autore – secondo la giuria mista araba ed europea – del miglior articolo di opinione, ha denunciato tutte le “violazioni ai giornalisti egiziani: nonostante la transizione politica seguita alla caduta del presidente Hosni Mubarak nel 2011, gli operatori dell’informazione “si trovano presi “tra l’incudine islamista e il martello dei militari”. (ANSAMed).
June 2, 2014
Da Ramesse ad Asad, propaganda di regime
Sugli antichi rilievi egiziani appare ancora oggi celebrata come una strabiliante vittoria sul nemico, ma la campagna militare in terra “siriana” condotta da Ramesse (XIV-XIII sec. a.C.) si concluse invece con un nulla di fatto.
Da Ramesse ad Asad poco è cambiato. Nel giorno in cui in Siria si aprono i seggi per le “elezioni presidenziali”, SiriaLibano propone una galleria di alcuni manifesti esposti nelle zone siriane controllate dal regime e in alcune regioni del Libano. Lo slogan è “Insieme” (Sawa).
Ufficialmente i candidati sono tre, ma non vi è alcun dubbio che Bashar al Asad sarà confermato presidente per la terza volta consecutiva dal 2000, gli altri due “sfidanti” – Maher Hajjar e Hassan Nuri - sono personaggi vicini a gruppi che di fatto sostengono il regime.
I manifesti elettorali esposti a Damasco non lasciano praticamente spazio ad altri candidati eccetto Asad. Nel suq al Hamidiyyeh della capitale un’immagine di Asad in divisa militare e occhiali da sole troneggia dal soffitto della volta: “Dio ti ha creato per essere presidente della Repubblica araba siriana”. Un altro manifesto esposto al di fuori di una famosa pasticceria damascena recita: “La vita è più dolce insieme a te”.
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