Lorenzo Trombetta's Blog, page 24

July 14, 2014

La storia di Dyar, fuggito da una prigione dell’Isis

Per l’Isil essere curdo è sinonimo di empietà. Per la sua tolleranza religiosa, la regione del Kurdistan, in tutti i paesi che tocca, è vista dal gruppo armato che sta mettendo sotto scacco gli eserciti di Siria e Iraq come un luogo di peccatori. “Sono rimasto sei mesi in una prigione degli estremisti sunniti solo perché sono curdo, questa è stata la mia unica colpa”.


ISIS(di Luca Pistone, per Pagina99). Erbil – Sono pochi quelli che hanno avuto la fortuna di uscire sani e salvi da un carcere dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil), che pochi giorni fa si è rinominato Stato Islamico (Is), proclamando come proprio un territorio che va dal nord della Siria alla provincia irachena di Diyala.


Tra questi c’è Diyar, che dopo sei mesi di prigionia in una cella di appena due metri quadrati, in compagnia di altre undici persone, ha riacquistato la libertà riuscendo a scappare dai suoi aguzzini.


Un’estate di due anni fa Dyar, allora ventiseienne, tornava da Damasco, dove era iscritto alla facoltà di giornalismo, a Qamshli, nel Kurdistan siriano, dove abitava con la famiglia. Il tragitto che divide le due città, circa ottocento chilometri, era, come oggi, costellato di check point di tutte le organizzazioni armate coinvolte nel conflitto siriano. All’altezza di Raqqah viene sottoposto all’ennesimo controllo dei documenti in una postazione con issata una bandiera nera, quella dell’Isil. Uomini armati di kalshnikov e col volto coperto dalla kefiah notano che Dyar è curdo e lo conducono dai loro superiori. “Non mi sono mai interessato di politica né tantomeno ho mai fatto parte di una milizia. Ero e sono contro Assad, ma a quei tempi certe cose le tenevo per me”, racconta Dyar, sorseggiando il suo chai bollente in un bar della periferia di Erbil, capitale del Kurdistan iracheno.


Prende fiato e riprende: “Mi hanno chiesto se fossi curdo. Era evidente, era scritto sulla mia carta d’identità. Mi hanno dato dell’infedele, del peccatore e del cane perché non ero un vero musulmano. Ho provato a spiegare che ero un buon musulmano, che recitavo le cinque preghiere, ma non è servito a nulla”. L’Isil non accetta che nel Kurdistan, sia esso siriano, iracheno, turco, iraniano o armeno, si pratichino altre correnti dell’Islam che non siano il sunnismo. Figurarsi altre religioni. Ai suoi occhi tutti i curdi, anche se sunniti, sono degli infedeli perché tollerano gli altri nuclei religiosi. Caricano Dyar su un pick-up e gli bendano gli occhi. Dopo un paio di ore si ritrova in un corridoio buio ed umido insieme ad altre undici persone, i futuri compagni di cella, ed un numero imprecisato di guardie. Fatti spogliare, rimangono solo con gli slip. L’ordine dei carcerieri è quello di inginocchiarsi e pregare.


“Tra di noi c’erano due cristiani, curdi anche loro, che al momento di genuflettersi hanno ammesso di non saper pregare come i musulmani. Quelli dell’Isil hanno iniziato a picchiarli selvaggiamente, prima con calci e pugni, poi con la cinghia. Più si raggomitolavano per proteggersi dai colpi, e più quelli si avventavano su di loro. La stessa sorte è poi toccata a noi. Il perché? Eravamo curdi, tutto qui”.


Terminata la fase del ‘benvenuto’, i dodici, con polsi e caviglie legati, vengono fatti entrare in una cella di due metri per due. Il caldo è asfissiante, e i dolori del pestaggio iniziano a farsi sentire. Non c’è spazio per sdraiarsi tutti insieme e, nonostante lunghi rompicapi, la soluzione è una sola: organizzare dei turni per far dormire un’unica persona alla volta. Il cambio avviene ogni dieci minuti.


“Nell’arco della giornata, l’unico momento in cui ci era concesso di uscire dalla cella era quando andavamo al bagno. Potevamo farlo una sola volta al giorno, e non per più di un minuto. Per la seconda, terza o quarta volta, dovevamo farla a terra”.

Dyar ha finito il suo chai e gioca con la tazzina decorata, facendola rotolare sul tavolo. Altro respiro profondo: “Mi rintanai nella preghiera, non potevo fare altro”.


Prega ininterrottamente, cosa che non sfugge all’occhio vigile dei suoi carcerieri. Si guadagna una ‘promozione’ sul campo, che consiste nello stare in cucina, dove per buona parte della giornata deve preparare i pasti per gli uomini dell’Isil e i detenuti del carcere. “Ero sorvegliato da un uomo armato, piazzato davanti ad una porta perennemente chiusa. Centinaia di piatti ogni giorno. Non ho mai avuto modo di vedere gli altri prigionieri, ma devono essere stati numerosi”.


Una notte, era ormai inverno, cinque suoi compagni vengono prelevati dalla cella, ammanettati, incappucciati e portati via. Non ha mai saputo che fine abbiano fatto. Alcuni minuti dopo, Dyar e i rimanenti sei uomini, tra cui i due cristiani, vengono scortati in cucina. La guardia incaricata di sorvegliare la preparazione del rancio indica a Dyar un sacco con dei vestiti ed esce dalla stanza. Con grande sorpresa, Dyar nota che per la prima volta la porta sempre difesa dalla guardia è aperta. Nella cucina cala il silenzio, nessuno ha il coraggio di avvicinarsi alla porta, che affaccia su un cortile. “C’era chi suggeriva di non muoversi di un centimetro e chi di tentare la fuga. La mettemmo ai voti. Ci vestimmo e fuggimmo”.


Attraversato il cortile, privo di guardie, si trovano nel deserto. Si gela, ma il sapore della libertà l’ha vinta sul freddo. Percorrono alcuni chilometri verso nord, fino a quando s’imbattono in un gruppo di uomini armati. È l’Esercito libero siriano, che dopo un lungo interrogatorio li scorta ciascuno alle proprie case. Dyar preferisce non soffermarsi troppo sull’incontro con i suoi cari. Si commuove: pensandolo morto, avevano recitato una preghiera funebre per lui.


“Continuo a chiedermi perché ci abbiano lasciati andare. Perché solo alcuni noi? Che fine hanno fatto gli altri? L’Isil avrà capito di aver commesso un errore? Siamo curdi, questa è stata la nostra unica colpa, se di colpa si può parlare. Non nego che nel Kurdistan si verifichino casi di discriminazione verso le altre religioni. I sunniti sono il gruppo più folto, ma verso le altre fedi regna una certa tolleranza. Può mai essere questo un crimine? Può mai questo giustificare tanti mesi di disumana prigionia? L’Isil dice di incarnare lo spirito del sunnismo. Anche io sono sunnita, un buon sunnita, ma rispetto gli sciiti, i cristiani e le altre minoranze religiose. Sunnismo non è sinonimo di integralismo e terrorismo. Curdo non è sinonimo di empietà”.


Oggi Dyar lavora come giornalista presso un quotidiano del Kurdistan iracheno. Si occupa di cultura, cultura curda. Non può tornare in patria perché è ricercato dalle milizie del Pyd (Partito dell’Unione Democratica), braccio siriano del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) turco. Dopo la fuga dal carcere, ottenuta la laurea in giornalismo a Damasco, volle indagare su un bombardamento ai danni di una caserma dei miliziani del Pyd da parte dell’Isil.


Accusato di spionaggio, venne arrestato. Ma anche in questa occasione riuscì a scappare.

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Published on July 14, 2014 07:29

July 12, 2014

La crisi irachena e le sue conseguenze in Siria

Pubblichiamo qui di seguito una breve analisi scritta da Focus on Syria sulla crisi irachena e le conseguenze per le regioni siriane. L’articolo è apparso in italiano e inglese. 


La presenza dello Stato islamico tra Iraq e Siria


(F.D., Focus on SyriaIraq is on the verge of disintegration. A coalition of Islamic militias and Sunni leaders – spearheaded by the Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL), an ultra-radical Jihadist militia – has conquered in June 2014 a series of cities in the north and west of Iraq, during a lightning advance that surprised the whole region. Mosul, the second city of the country with around one and a half million people, fell into Jihadist hands on June 10th.


Tikrit, a regional capital and the birthplace of Saddam Hussein, was conquered the following day. Around half a million people have fled their homes and taken refuge in Baghdad or in the autonomous region of Kurdistan, the safest area of the country. The rebels now control almost three governorates and threaten to attack Baghdad. The Iraqi army has collapsed and tens of thousands of soldiers have deserted. In order to organise the defence of the capital, the central government has been forced to launch the recruitment of civilian volunteers and allow the reorganisation of Shia militias.


We are facing a new, terrible crisis. Nobody had predicted its importance and gravity. The situation in the field is constantly changing and there are new developments every day. If the rebels consolidate their control over most of the Sunni areas of Iraq, we will assist to a de facto partition of the country and the ignition of a new civil war on confessional grounds. Without analysing the details of the situation in Iraq and its possible developments in the future, we would like to ask since the beginning a crucial question: what will be the consequences for Syria?


The two crises are closely intertwined for different reasons. First of all, ISIL controls vast stretches of land both in Syria and in Iraq and aims at erasing the current borders and establishing an Islamic caliphate in the Sunni-majority areas of both countries. On the other side, the regime of Bashar al Assad in Syria and the government of Nouri al Maliki in Iraq are close allies and are both part of the Iranian sphere of influence. Thousands of Iraqi Shia fighters have fought in Syria during the last two years to defend the Syrian regime. Finally, the efforts of the Kurdish minority for the establishment of an autonomous region in Syria replicate the experience of their Kurdish cousins in Iraqi Kurdistan during the last twenty years.


The new crisis in Iraq will undoubtedly have an influence on the military balance in Syria. For instance, many sources have reported in recent weeks of a decrease in clashes between ISIL and the Kurdish fighters of YPG. Probably ISIL has moved part of its troops from Syria to Iraq to strengthen the current offensive. The Islamic Front, the Free Syrian Army and other Syrian opposition groups could take the occasion to recover some territory from ISIL, particularly in the east of Aleppo governorate. On the other hand, ISIL has seized big quantities of cash, weapons and vehicles during its latest conquests. In the coming weeks, if the military situation in Iraq reached a standstill, ISIL could send part of its troops back to Syria and renew its fight with increased firepower. In this case the Syrian opposition could find itself in a very hard situation.


Secondly, part of the pro-regime Iraqi fighters is already travelling back to Iraq to participate in the defence of Baghdad. This movement will not weaken a lot the Syrian regime, but it could limit its capacity of conquering and holding new territory in the coming period. Furthermore, if the US and other international powers decided to intervene, directly or indirectly, to thwart the military expansion of ISIL, they could decide to act both in Iraq and in Syria. Apart from targeted bombings against Jihadi positions, this intervention could include an increased level of support for the armed groups that are fighting against ISIL, and in particular the mainstream opposition groups and the YPG.


We should also take into consideration that the Syrian regime – even though it declares itself as the only bastion against Islamic terrorism in Syria – has often avoided to fight against ISIL and bomb its positions, preferring instead to concentrate its forces against the mainstream opposition groups. The regime’s political calculus is clear: it aims at crushing the moderate opposition, in order to be left alone face to face against ISIL. At this point it would obtain the recalcitrant support of all the international community. Unfortunately, thanks to this strategy, ISIL and other radical groups have had a golden opportunity to grow and become stronger in Syria during the last two years.


In the mid-term though, the new crisis in Iraq could have a negative impact on the Syrian regime’s position. First of all, it is seriously weakening one of its few allies in the region. Second, it shows clearly the enormous potential of destabilisation of the Syrian conflict and it should push the whole international community to find quick solutions to solve the crisis both in Iraq and in Syria. Third, the revolt against Al Maliki’s government is again the proof that a discriminatory and authoritarian government cannot maintain an oppressed population under control, even with the use of force. If the Iraqi government – which has been enjoying for years the support of both Iran and the US – has not been able to control its country, even more so the Syrian regime will not be able to stabilise Syria, even in case of a military victory. There will not be peace in Syria without a political solution and a real compromise that is acceptable for all its confessional groups and for the regime supporters as well as for its opponents. (Focus on Syria).

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Published on July 12, 2014 01:49

Il lancio di razzi dal Libano, Hezbollah si tira fuori

Militari libanesi e dell'Unifil ispezionano il luogo del lancio dei razzi, The Daily Star


(di Lorenzo Trombetta, Ansa). “Il pericolo per Israele” non viene da Hezbollah, il movimento sciita filo-iraniano che controlla il sud del Libano, bensì dal “jihadismo sunnita”: è questo il messaggio recapitato nelle ultime dal Paese dei Cedri, da dove l’11 luglio sono stati sparati tre razzi verso la Galilea settentrionale da un reo confesso, talmente alle prime armi con i Katiuscia da rimanere ferito e subito identificato dalle autorità.


E’ lui – Hussein Atwe – l’unica vittima di un episodio dai lati ancora oscuri e che riceve gli onori delle cronache mediorientali perché inserito nel contesto dell’ennesimo sanguinoso round bellico tra Israele e Hamas. Dal canto suo, il movimento sciita libanese Hezbollah, sostenuto dall’Iran e arci-nemico dello Stato ebraico, si è tirato fuori dalla vicenda negando ogni coinvolgimento, pur ribadendo il sostegno “politico e morale alla resistenza palestinese”. Hezbollah controlla quasi del tutto la fascia di territorio a ridosso della Linea Blu.


Dei tre razzi, solo due hanno superato la Linea Blu che separa il Libano e Israele. I Katiuscia hanno raggiunto un’area a nord della città di Kiryat Shmona e l’artiglieria israeliana, come di consueto in questi casi, ha subito risposto, sparando colpi di mortai verso il punto da cui sono stati lanciati i razzi, nel settore orientale della Linea Blu, nell’area di Hasbaya. Anche in questo caso non si sono registrati danni o vittime.


Il sud del Libano è pattugliato dai caschi blu della missione Onu (Unifil) comandata dal generale italiano Paolo Serra. “E’ un serio incidente che viola la risoluzione Onu n.1701 e che va sicuramente a scuotere la stabilità della regione”, ha commentato Serra. Ma il sud del Libano, dove nel 2006 scoppiò la guerra tra Hezbollah e Israele, rimane paradossalmente l’oasi di relativa stabilità in tutto il Medio Oriente. In Siria infuria una guerra regionale a cui Hezbollah partecipa attivamente con migliaia di miliziani impegnati su più fronti.


In Iraq l’offensiva qaedista ha spinto circa “un milione di sciiti” – secondo i governatori di diverse regioni del centro-sud – ad arruolarsi in milizie filo-governative e quelle curde ad appropriarsi di importanti zone petrolifere contese con i vicini arabi. Così, quelle che nel 2006 erano le prime linee di Hezbollah contro Israele, adesso sono le retrovie di un movimento sciita che sembra avere tutto l’interesse a non portare l’incendio in casa propria.


Una fonte di Hezbollah interpellata dall’ANSA a Beirut non ha solo negato ogni coinvolgimento nel lancio di razzi, ma ha anche detto che il sostegno del movimento alla resistenza di Hamas contro Israele si limita all’aspetto “politico e morale”. E’ questo un modo implicito per non associarsi a Hamas, ala palestinese dei Fratelli musulmani e che nel 2012 ha rotto con l’asse Hezbollah-Iran schierandosi con gli insorti siriani anti-Damasco.


Hussein Atwa, NNALa tv al Manar del movimento ha fornito dettagli sul tipo di razzi sparati (“Katiuscia da 107 mm l’uno”), mentre la polizia libanese – che in quelle zone si coordina sempre con Hezbollah – ha arrestato dopo poche ore, fatto davvero inedito, il colpevole del lancio: Hussein Atwe (foto) ha confessato di appartenere a un non meglio precisato “gruppo estremista” e di esser stato aiutato da “due palestinesi”.


Ha fallito il lancio del terzo razzo ed è rimasto ferito alle gambe e al volto. Il riferimento al “movimento estremista” di Atwe è alla minaccia jihadista che Hezbollah e i suoi alleati – l’Iran e il regime di Damasco – dicono di poter fermare. In serata, due razzi sono stati sparati da ignoti contro un’area dominata da Hezbollah nella valle orientale della Bekaa, e al Manar ha accusato non meglio precisati “jihadisti”. (Ansa, 11 luglio 2014)


Successivamente alla pubblicazione di questo articolo, non meglio precisate fonti della sicurezza libanese hanno detto al The Daily Star che Atwe appartiene alla Jamaa Islamiya, escludendo sia membro dello Stato islamico o della Jabhat an Nusra.

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Published on July 12, 2014 01:14

July 9, 2014

Idlib, L’Isis si è ritirato ma la paura rimane

Foto di Zaina Erhaim per The Economist(Zaina Erhaim, per The Economist). Four masked men raided Fateh Rahmoun’s house in Ras al-Hussein, a village in Syria’s north-western province of Idleb. Heavily-armed and wearing belts of explosives, one shot the 13-year-old boy who opened the door while the others stormed into the house shooting at everyone.


This is how Abdo, a 24-year-old fighter with Jabhat al-Nusra, al-Qaeda’s affiliate in Syria, describes what happened on April 16th to Mr Ramoun, one of his group’s leaders. Locals say Mr Fateh and four others were assassinated by the Islamic State of Iraq and Greater Syria (ISIS), a jihadist group disavowed by al-Qaeda.


Since clashes erupted across northern Syria between ISIS and rebels including Jabhat al-Nusra in January, the former has withdrawn eastwards. The group no longer has an open presence in Idleb province. Ahmad al-Souad, a lieutenant-colonel who defected from Bashar Assad’s army and now heads the 13th division, a local rebel group that participated in the battle against ISIS, reckons ISIS is permanently gone. “Neither civilians nor us will allow them to come back,” he says.


But revenge operations are common. Mr al-Souad was held by ISIS for two weeks in December. There have been more than 12 car bombs in the local area, most targeting checkpoints run by the Islamic Front, a coalition of Islamist-minded groups. Fearing further attacks, residents pile up dirt to prevent cars from entering their areas. “They are just as criminal as the regime. They would do anything for power,” says Abu Jumaa, a fighter from Maarat al-Numan, a local town.


A new atmosphere


Since ISIS withdrew, Idleb’s markets no longer stock the facemasks and Afghani-style garb worn by ISIS fighters. On a recent morning in the towns of Saraqeb, Armanaz and Kafr Tkarem, shopkeepers openly smoked argileh (water pipes), something forbidden by ISIS. Cigarette-sellers, who vanished in December when ISIS set one of them on fire, are back. Female high school students who were forced to wear black abayas (long cloaks) are back in their usual attire.


Fighters are relieved too. The green flag of the Syrian revolution once again flies on many rebel barricades. Black flags with “No God but Allah”, associated with extremists, remain but without the ISIS logo. For the first time in months your correspondent heard rebels playing music rather than Islamic chants in their cars. People can once again talk openly.


Yet in some ways life has got harder. The regime has stepped up its attacks against Idleb, fuelling rumours that it is working with ISIS, albeit tacitly. “When they were here, we were targeted with couple of mortars,” says Salma, who works in a field hospital in Maarat al-Numan. “Now Assad’s diary has two air strikes a day scheduled for us.”  Um Khaled from the nearby town of Kafr Nabl, says the local economy has suffered since ISIS fighters left. But “as a mother of activist, I feel relief,” she says. “I was always waiting for them to raid my house to take him.”


ISIS has long targeted journalists. The Syrian Violations Documentation Centre, a local organisation, has tracked the cases of 71 journalists kidnapped in Syria, over 60 of whom are held by ISIS.


Still fearful


The activists’ fear of ISIS is now shared by some Syrians who used to fight with or support the group. Hassan, a 26-year-old student of French literature, says he was about to join ISIS when the conflict with rebel groups broke out. “I woke up,” he says. Before he says he saw them as “an organised, rich group that, unlike us, has endless ammunition and great funding”.  Two months ago Hassan would ask your (female) correspondent to wear an abaya; today he says “those who refuse to accept you are the ones who should change.”


Some fighters from Jabhat al-Nusra, which shares a similar ideology to ISIS, are more openly critical of those they used to call their “brothers”. One member of the group looked your correspondent in the eyes—such contact with women is considered sinful by devout Muslims—and asked why ISIS is carrying out so many crimes. Abdo, the young fighter, no longer leaves the room when your correspondent visits his family home and now describes ISIS as criminals.


Despite the general relief, residents fear ISIS members are lying low in sleeper cells. Many people who rose up against the regime three years ago still don’t dare to publically criticise the group.


Meanwhile, rebel groups continue to fight on two fronts. A third of the fighters from the 13th Division battle ISIS while the rest tackle the regime. Some locals reckon the battle needs to stop. “Although ISIS has made mistakes, the Free Syrian Army fighters took the revenge too far,” says Muhammad, a 21-year-old activist who used to run an internet café. “They are battling against all foreign jihadists, even those who just came to help us.”

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Published on July 09, 2014 00:39

July 7, 2014

Roma, Quali prospettive per la Siria?

syria_magnifier“La complessità dello scenario regionale e l’intreccio degli interessi internazionali non possono e non devono essere un alibi per rimanere spettatori passivi e non schierarsi al fianco del popolo siriano, nelle sua richiesta di libertà, dignità e democrazia”.


Partendo da questa premessa, l’associazione “Siria libera e democratica” organizza il 14 luglio prossimo un convegno dal titolo “Attualità e prospettive per il futuro della Siria”, un convegno per riflettere su quanto sta accadendo in Siria così da provare a dare una risposta agli interrogativi posti dai cambiamenti in atto nel Paese.


L’appuntamento è per il 14 luglio alle ore 16,00 presso la Sala Protomoteca del Campidoglio. Il programma completo dell’incontro è disponibile a questo link.


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Published on July 07, 2014 07:31

July 5, 2014

Yarmuk, Vivere sotto assedio

Una bambina in abito tradizionale, una coppia che si abbraccia sullo sfondo delle macerie, scene insolite per un campo profughi che da lunghi mesi è sotto assedio e dove si muore di fame. Il fotografo Rami Al Sayyed per unrwa.org ha documentato la vita quotidiana all’inferno.


L’ultima volta che l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi, è riuscita a entrare a Yarmuk per distribuire aiuti alimentari è stata il 23 maggio scorso. Il campo alla periferia sud di Damasco è sotto assedio da un anno e mezzo e i 18 mila civili intrappolati all’interno devono lottare ogni giorno per poter soddisfare i loro bisogni primari.


Chris Gunnes, portavoce dell’Unrwa, dichiara che l’agenzia continua a domandare – finora senza successo – la ripresa delle proprie attività umanitarie, in seguito all’accordo del 21 giugno raggiunto tra le autorità siriane e i gruppi armati presenti all’interno del campo.


“I giorni sono diventati settimane e le settimane stanno diventando mesi. Ci siamo trasformati in testimoni silenziosi di una catasfrofe umana a Yarmuk” – ha scritto Gunnes sul suo profilo Twitter.


Per vedere le altre foto di Rami Al Sayyed, si può seguire l’hashtag su Twitter #YarmoukLife.


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Published on July 05, 2014 05:16

Oltre il buio di ieri e di oggi, la luce dell’altro ieri

Hani FahsDal centro culturale iracheno di Beirut, il sayyid Hani Fahs  , membro del Supremo comitato sciita libanese una delle figure intellettuali di spicco della capitale libanese, ricorda il clima di apertura e tolleranza che negli anni ’60 si respirava nella città santa di Najaf. Un’occasione per fare il punto sulla crisi irachena e sulle sue cause. 


(di Meris Lutz, The Daily Star) Sayyed Hani Fahs remembers the city of Najaf fondly as a place where atheists and believers engaged in regular, friendly debate and religious education was not considered an antidote to humor.


“Najaf is where I read Darwish, Dostoyevsky, Sartre and Simone de Beauvior,” Fahs told a small audience at a recent Ramadan event held discreetly at the Iraqi Cultural Center in Beirut. The Nabatieh native thrilled his mostly Iraqi audience by slipping easily in and out of their dialect, evidence of the years he spent there as a young religious scholar.


Outside, about a dozen Lebanese security personnel kept watch over the entrance to the center, which, as a branch of the Iraqi Culture Ministry, is considered a potential target of militants linked to the Islamic State of Iraq and Greater Syria.


Strengthened by its gains in Syria, ISIS recently captured huge swaths of northern Iraq and announced the establishment of a caliphate headed by Abu Bakr al-Baghdadi. The success of their military offensive took many observers by surprise, although Iraqis in Lebanon who spoke to The Daily Star considered it the inevitable result of accumulated political and military failures, especially the American invasion and its aftermath.


Fahs lamented the loss of Iraq’s diversity and tolerance in recent years, although he did not speak directly to either the American invasion or ISIS’ recent gains. Instead, he told stories of the Iraq he knew in the 1960’s, a cultural melting pot where secularism and faith lived side by side and students from all over the Arab and Muslim world came to study.


“As students of Islamic jurisprudence, when there was a teacher we didn’t like, we would write poems [mocking] him … transforming the technical terms of Islamic jurisprudence into modern poetry,” he recalled. “This is Najaf. If you didn’t joke with the religious people, they would joke with you.”


Many of the religious scholars even wrote love poetry and khomoriyat, odes dedicated to spiritual and physical intoxication.


“Life without any mischief becomes heavy,” he said, deriding the wave of conservatism that turned “women into something mythological and hidden that cannot be named or addressed directly.”


The Iraqis in attendance brushed off security concerns, with some expressing resignation while others voiced determination to return and build their country.


“[Recent events] are affecting us directly, because it’s our country,” said longtime Iraqi exile Mohammad Hadi, who works in the publishing industry in Beirut. “But even when the situation was better than it is today, I wasn’t able to return. I feel like that’s it, I’ve created a home for myself here.”


Sundus al Khalisi, 37, came with her husband and teenage daughters, despite the threat.


“Something could happen, but as Iraqis we are used to this,” said Khabousia, who works for a human rights organization. She and her family have lived in Lebanon for three years and still plan to return to Iraq.


“We were born in a country afflicted by wars,” she said of the latest developments in Iraq. “We have lived through the Iran- Iraq war and then the war with Kuwait and then Bush’s and the Americans’ war, and then 14 years of siege, so we have grown up under war.”


The center’s director, Ali Aweid al-Abadi, admitted that security was a concern, but put his faith in the cultural mission of the center.


“Of course the security situation affects the cultural and social scene, whether in Lebanon or Iraq, which is why today we made preparations because we have an important guest,” he said, referring to Fahs. “We are continuing [with our activities] despite the conditions and the security situation.”


Other precautions included limited publicity, with word going out to Iraqis who are active with the center over the Internet and the messaging service WhatsApp.


Ahmad Darwish, 45, a merchant, was similarly unfazed by the uniforms stationed outside the center.


“Extremism is not limited to Iraq; it’s a global phenomenon,” that has taken root in Iraq due to the political and security breakdown in the country and neighboring Syria, he said.


Darwish said the gains made by ISIS only encouraged him to return.


“Remember, during the first round of elections in Iraq, the situation was also very unsafe,” he said. “We would pray before we went out [in case we died]. This was a sort of challenge to death. We are alive and we are defending our right to vote for freedom.”


Nearby in the Hamra neighborhood, Al-Baghdadi restaurant is one of several Iraqi eateries that have cropped up near the American University of Beirut Hospital in the past few years to cater to visiting Iraqis seeking medical treatment.


Its proprietor, Baghdad-native Thaer Hamed, 35, who also owns a restaurant back home, laughed off the suggestion that ISIS’ gains had affected his plans for the future.


“Baghdad is fine, Baghdad is stable, although there are militias on the streets,” he said, referring to government-linked Shiite paramilitary groups operating in the capital. “All the media is focused on ISIS, ISIS, ISIS. ISIS is just one of many armed groups.”


“Beirut, for Iraqis, is a point of transfer, most of them are traveling to the U.S., Australia, etc.” he said, adding that he’s noticed a slight increase in new arrivals since fighting intensified in northern Iraq. Overall, however, “nothing has changed … Iraq has been living through war since 2003.”


A UNHCR representative told The Daily Star no new Iraqi arrivals had applied for refugee status since ISIS took Mosul and several other northern Iraqi cities last month. (The Daily Star, 5 luglio 2014).

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Published on July 05, 2014 01:53

July 3, 2014

Darwish rimane in carcere. Nonostante l’amnistia

Mazen Darwish Slide


Rimane in carcere, nonostante l’amnistia presidenziale del 10 giugno scorso, il noto giornalista siriano Mazen Darwish, presidente e fondatore del Centro siriano per i media e per la libertà di espressione (Scm).


Lo riferiscono gli avvocati incaricati della difesa di Darwish. Le fonti precisano che il tribunale speciale per il terrorismo ha rinviato al 21 luglio prossimo la seduta per valutare il dossier di Darwish e altri due suoi colleghi, arrestati nel febbraio 2012 e per mesi torturati dai servizi di sicurezza dell’aeronautica.


Lo scorso 10 giugno, il presidente Bashar al Assad aveva decretato una nuova amnistia che in teoria prevedeva la liberazione di “tutti coloro che hanno commesso crimini prima del nove giugno 2014″.


Darwish, il blogger Hussein Ghreir e il docente universitario Hani Zaytani, sono giudicati dal tribunale per il terrorismo, incaricato di fatto di giudicare i dissidenti politici e tutti coloro che commettono reati di opinione.


Darwish e i suoi due collaboratori erano rimasti nove mesi nelle celle dei servizi di sicurezza dell’aeronautica a Damasco senza che venisse loro imputato alcun crimine. Solo nel novembre 2012, erano stati portati di fronte all’autorità giudiziaria e trasferiti nel carcere di Adra, nei pressi della capitale.

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Published on July 03, 2014 02:29

Baghdadi come Grillo, colpire Roma!

roma


(di Lorenzo Trombetta). Roma, il centro della cristianità, torna nel mirino retorico di estremisti islamici: conquisteremo Roma e il mondo intero, è il messaggio attribuito oggi ad Abu Bakr al Baghdadi, “il nuovo Bin Laden” a capo di un esercito di miliziani che in appena un anno hanno messo a ferro e fuoco parte dell’Iraq e della Siria.


Le parole, pronunciate da una voce che i seguaci dello “Stato islamico” affermano sia quella del loro “califfo”, ricordano quelle già pronunciate diverse volte negli ultimi dieci anni da leader di spicco o da gregari dell’internazionale del terrore fondata da Bin Laden.


Lo scorso maggio, un miliziano russo dello Stato islamico in Iraq e in Siria (Isis), ripreso in un video propagandistico circolato per settimane sui siti qaedisti, giurava di voler conquistare non solo Roma ma anche Gerusalemme e la Spagna, in riferimento all’al Andalus islamica d’epoca medievale.


Baghdadi, descritto dalla stampa occidentale come “il terrorista più pericoloso al mondo”, secondo analisti gode di una crescente popolarità presso milioni di giovani musulmani disadattati in Asia, Africa, Europa e Nordamerica perché è stato capace, in poco tempo, di fare quel che il capo di al Qaida, Ayman Zawahiri, non è riuscito a fare in tanti anni: tradurre le minacce in azioni concrete.


Lo Stato islamico, che ha apertamente rifiutato di sottomettersi alla volontà di Zawahiri, è oggi presente in un territorio grande quanto l’Ungheria: tra la seconda città irachena, Mosul, e la seconda città siriana, Aleppo. Se la Via della seta fosse ancora aperta ai commerci, è agli uomini di Baghdadi che andrebbe pagato il dazio.


Nell’audio messaggio a lui attribuito, si esortano tutti i musulmani al mondo a “emigrare nello Stato islamico” perché “la Siria non è per i siriani e l’Iraq non è per gli iracheni. È la terra per i musulmani, tutti i musulmani”.


Per questo, Baghdadi – un signore di 43 anni, di cui si sono perse le tracce da tempo e su cui gli Usa hanno posto una taglia di 10 milioni di dollari – consiglia ai “musulmani” di proteggere il califfato e di lanciarsi in futuro in nuove conquiste: “Se Iddio vorrà, conquisteremo Roma e il mondo intero!”.


Tre anni fa, un comunicato di al Qaida indicava Papa Benedetto XVI come un “obiettivo facile da colpire”. Sempre il pontefice, e quindi il Vaticano e dunque Roma, avevano ricevuto le attenzioni di Zawahiri e compagni nel settembre 2006, dopo le controverse dichiarazioni di Benedetto XVI circa la presunta superiorità morale del cristianesimo sull’Islam nell’ormai celebre discorso di Ratisbona.


Nel 2005, Bin Laden tracciava un parallelo tra “l’imperialismo americano” e “l’imperialismo” dell’antica Roma, chiedendo ai seguaci di “resistere alla nuova Roma”. Più modestamente, ma non certo meno minacciosi, presunti terroristi islamici fermati a Cremona nel 2004 erano stati trovati in possesso di alcuni scritti in cui si affermava che “Roma sarebbe stata presto conquistata con la forza delle armi”.


Un’eco assai maggiore hanno avuto l’anno scorso le parole di Beppe Grillo, che durante un comizio ha provocatoriamente invocato un attacco missilistico di al Qaida su Roma, spingendo tifosi della Fiorentina a intonare, sugli spalti della Fiesole, cori contro i rivali romanisti: “Osama bin Laden sgancia un missile su tutta Roma / distruggila per noi!”, gridavano inviperiti i supporter viola dopo la sconfitta casalinga rimediata il 4 maggio del 2013.

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Published on July 03, 2014 00:56

July 2, 2014

Intellettuali del Mashreq contro lo “Stato islamico”

Beirut, lungomare, '60


Un pericolo imminente per i popoli dell’Oriente arabo: così oltre 250 tra intellettuali, giornalisti, professori universitari iracheni, siriani, palestinesi e libanesi, molti dei quali musulmani, hanno definito l’avanzata in Siria e Iraq dei miliziani qaedisti dello Stato islamico, descritti come “il nuovo volto del dispotismo”.


In un appello pubblicato nelle ultime ore dalla stampa panaraba (al Hayat) e occidentale (Le Figaro), illustri intellettuali dei Paesi arabi stretti tra il Mediterraneo e la Mesopotamia mettono in guardia dal pericolo di veder trasformato il Medio Oriente in una “vetrina mondiale del fallimento degli Stati, delle società e della stessa religione”.


Tra i firmatari spiccano i nomi di scrittori, poeti, attivisti per i diritti umani, editori affermati, drammaturghi, ricercatori e docenti universitari residenti nei loro rispettivi Paesi d’origine o all’estero: Zakaria Tamer, Hazem Saghiye, Yassin Hajj Saleh, Husam Itani, Zouheir al Jazairi, Youssef Bazzi, Sadek al Azm, Gilbert Achkar, Farouk Mardam-Bey, Dima Wannous, Ziad Majed, Maha Hassan, Faraj Bayraqdar, Hala Omran e altri ancora.


Secondo loro, lo Stato islamico “per principio si pone contro la libertà, le donne, la bellezza, l’educazione moderna”. I qaedisti guidati dall’autoprocalmato “califfo” Abu Bakr al Baghdadi, vogliono “rendere schiavi gli abitanti delle regioni, appropriandosi delle terre e delle ricchezze”. Vogliono imporre “con la forza una visione estranea alle popolazioni locali che possono scegliere solo tra la sottomissione e la morte”.


Gli autori dell’appello sottolineano il fatto che lo Stato islamico si sta radicando proprio nei territori per decenni governati dai regimi autoritari baatisti di Damasco e Baghdad, da più parti descritti come “laici”.


Lo Stato islamico, si legge, “non avrebbe potuto estendersi in ampie zone dell’Iraq e della Siria senza la lunga esperienza di sradicamento sociale e culturale operato prima di tutto dai regimi baatisti e, poi (in Iraq), dal regime che è succeduto a Saddam Hussein, creando un vuoto politico e morale e imponendo la segregazione e la repressione delle popolazioni”.


In Siria invece, prosegue l’appello, “il regime schiavista si comporta come il proprietario del Paese e dei suoi abitanti… e si ostina a uccidere i cittadini che si sono rivoltati e a distruggere da 40 anni il loro contesto sotto gli occhi del mondo intero”. (ANSA).

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Published on July 02, 2014 01:59

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Lorenzo Trombetta
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