Lorenzo Trombetta's Blog, page 29
May 5, 2014
Archeologia siriana, chi fa cosa e come per salvarla
Cosa si sta facendo per salvare il patrimonio archeologico siriano dalla distruzione? A questa domanda tenta di rispondere in modo dettagliato Silvia Perini dell’Università di Edibungo.
Con la collaborazione di Emma Cunliffe, anch’essa dell’ateneo scozzese, e in associazione con l’Heritage for Peace, Perini ha elaborato un rapporto - Towards a protection of the Syrian cultural heritage: A summary of the international responses - che offre una sintesi delle azioni intraprese da enti e organizzazioni nella tutela e conservazione del patrimonio culturale e materiale nei primi tre anni di rivolta e violenze in Siria (marzo 2011 – marzo 2014).
Il patrimonio siriano soffre danni e distruzioni. Sul tema sono stati pubblicati molti articoli e sono state pubblicate fotografie online per informare e documentare e ogni contributo che mira anche solo alla documentazione dei danni arrecati è di estrema importanza.
Secondo il lavoro di Perini è necessario fornire una sintesi di queste azioni di sensibilizzazione internazionale, rafforzare le collaborazioni tra gli studiosi e stabilire contatti tra le persone, le organizzazioni e le parti interessate in questa materia.
April 30, 2014
Le “pluralistiche” elezioni presidenziali, Asad fino al 2028
(di Lorenzo Trombetta, Europa). Il contestato raìs siriano Bashar al Assad, emerso ormai come il più potente signore della guerra in un paese sempre più devastato dal conflitto in corso, si appresta a esser confermato “presidente della Repubblica araba di Siria” per altri sette anni, fino al 2021. E formalmente potrebbe rimanere capo di stato fino al 2028. Il portavoce del governo siriano, Umran Zubi, ha infatti annunciato che il prossimo 20 aprile si aprono le candidature per le elezioni presidenziali, previste per giugno. Il secondo settennato di Assad (2007-2014) scade a luglio.
A metà marzo, gli organi legislativi siriani avevano messo a punto una nuova legge elettorale che di fatto escluderà gran parte dei dissidenti e oppositori – in patria e all’estero – dalla possibilità di candidarsi in quelle che il regime pubblicizza come le prime consultazioni presidenziali pluralistiche. L’assemblea legislative siriana, eletta nel 2012, è dominata da una schiacciante maggioranza di deputati del partito Baath, al potere da mezzo secolo, e da altri “indipendenti” vicinissimi al regime.
Formalmente, la nuova legge conferma l’abolizione, decisa tre anni fa, della supremazia del Baath. Nell’ambito delle riforme – cosmetiche – avviate da Assad per mostrare all’opinione pubblica interna e internazionale la sua volontà di rispondere alle richieste di cambiamento espresse per la prima volta in modo massiccio nella primavera del 2011, nell’agosto di quell’anno era stata promulgata una nuova legge elettorale seguita agli inizi del 2012 da una nuova costituzione.
Nelle legislative del 2012, il Baath ha comunque stravinto e ha ottenuto una maggioranza ancor più schiacciante del passato. Difficile parlare di “elezioni libere”, anche perché – come avverrà per le prossime presidenziali – le consultazioni tenutesi due anni fa per il rinnovo del parlamento sono state dominate da un clima di intimidazione, violenza e radicalizzazione del conflitto armato.
Citato dall’agenzia ufficiale Sana, il presidente del parlamento Jihad Lahham aveva precisato lo scorso 11 marzo che, per evitare contraddizioni tra la nuova costituzione e la legge del 2011, quest’ultima andava modificata. L’attuale costituzione prevede l’elezione del nuovo capo dello stato al massimo due mesi prima lo scadere del mandato. Nel caso specifico, il settennato di Assad si conclude il 17 luglio e quindi entro la metà di maggio bisognerà tenere elezioni. Sempre secondo il testo costituzionale, queste saranno aperte ad altri candidati e non si svolgeranno come in passato.
Secondo la precedente costituzione, promulgata nel 1973 ed elaborata dal regime di Hafez al Assad, padre dell’attuale raìs, il capo dello Stato non veniva eletto né dal parlamento né dai cittadini ma giungeva in cima alla piramide istituzionale attraverso tutto un altro processo.
Prima di tutto, i vertici del Baath, al potere dal 1963, proponevano all’assemblea legislativa di unico un candidato (sempre e solo Hafez al Assad, poi dal 2000 sempre e solo Bashar al Assad). Quindi, l’assemblea approvava la candidatura e indiceva un referendum popolare confermativo. Infine, i cittadini venivano chiamati a esprimere il loro consenso o il loro dissenso alla nomina parlamentare. Nel 2000 Bashar al Assad è stato così nominato presidente con il 97,29 per cento dei sì e sette anni dopo ha migliorato la sua prestazione assicurandosi il 97,63 per cento dei consensi (+0,34).
L’articolo 88 della nuova costituzione prevede l’impossibilità del presidente di presentarsi per più di due mandati, ma l’articolo 100 afferma che questa norma vale solo a partire dalle prossime elezioni: il conto comincia dunque solo dal 2014 e Bashar al Assad può così presentarsi, almeno sulla carta, per altri due mandati e rimanere presidente fino al 2028.
Le prossime elezioni saranno però diverse dal passato: ci potranno essere più candidati e questi saranno votati direttamente dai cittadini. Ma chi ha diritto di candidarsi? È su questo punto che stanno lavorando alacremente le istituzioni del regime. Con un unico obiettivo: escludere ogni possibile candidato in grado di insidiare la posizione di Assad.
Secondo la legge del 2011 e la costituzione del 2012, il candidato deve avere almeno 40 anni; deve avere la nazionalità siriana di nascita e da parte di entrambi i genitori, anch’essi siriani alla nascita; non deve avere accuse pendenti; non deve esser sposato con una non siriana (il testo parla solo al maschile, quindi sono escluse le donne); deve risiedere in Siria in maniera continuativa da almeno dieci anni.
Nella bozza di legge elettorale approvata dal parlamento a metà marzo ci sono inoltre delle note aggiuntive non secondarie: il candidato deve avere già compiuto 40 anni all’inizio nell’anno della candidatura; non deve aver alcuna altra nazionalità e deve avere pieno diritto di voto (così si escludono tutti i siriani che non possono rinnovare i propri documenti di identità, emessi secondo nuove regole e in un contesto in cui numerosi registri anagrafici sono andati distrutti).
Gran parte dei membri della Coalizione delle opposizioni in esilio, dei dissidenti storici presenti in Siria o all’estero, degli esponenti del Comitato di coordinamento nazionale (la cosiddetta opposizione tollerata interna) sono così tutti esclusi dalla possibilità di candidarsi: o perché vivono all’estero, o perché sono sposati con non siriane, o perché su di loro pendono condanne per “terrorismo” o perché i loro fondi in patria sono stati congelati dal regime.
Un altro sbarramento alle candidature di persone non gradite al regime è costituito dalla norma che prevede che il candidato sia sostenuto, in modo scritto, da almeno 35 deputati (su un totale di 250 deputati). Ciascun parlamentare può esprimere il suo appoggio solo a un candidato. Tenendo conto che il Baath e i partiti satelliti controllano l’assemblea legislativa, sarà di fatto impossibile a un candidato indipendente, a un vero oppositore o dissidente raccogliere i consensi di 35 deputati.
Questo mentre da settimane nelle città ancora sotto il controllo del regime sono cominciate le attività “popolari”, promosse dalle sedi del Baath e da altri organi del regime, per esprimere il sostegno alla candidatura di Bashar al Assad alle prossime elezioni. Ufficialmente il Baath non ha presentato nessuna candidatura, ma a breve e una volta che sarà stata votata la nuova legge elettorale, il processo comincerà a tappe serrate e si concluderà con la vittoria di Assad nelle “prime elezioni presidenziali pluralistiche” avvenute nel paese dal 1958. (Europa Quotidiano, 13 aprile 2014).
April 20, 2014
Khaled Khalifa, il coraggio di chi rimane
A pochi giorni dalla cerimonia in cui si assegnerà il Premio internazionale della narrativa araba, nella cui sestina finale è incluso il suo ultimo romanzo, pubblichiamo la prima parte di un’intervista a
Khaled Khalifa, i
l celebre romanziere siriano, nato ad Aleppo.
(al Hayat. Traduzione dall’arabo di Caterina Pinto). Lo scrittore Khaled Khalifa si trasferisce da un posto all’altro, muovendosi tra i quartieri di Damasco in quella che definisce “una migrazione borghese” perché crede di non meritarsi l’onore di condividere la sofferenza dell’esodo con gli emigrati veri, costretti a trovare rifugio nei campi profughi.
Khalifa, autore di numerose opere letterarie, è diventato famoso a livello mondiale con il suo romanzo “Elogio dell’odio” che racconta gli eventi degli anni ’80 in Siria ed è arrivato tra i finalisti del Premio internazionale della narrativa araba (Ipaf) del 2008.
Durante i tragici eventi siriani è apparso il suo romanzo “Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città” che è attualmente nella short list dell’Ipaf del 2014 con altri cinque romanzi.
Nonostante non parli direttamente della rivoluzione, dal momento che si riferisce a un altro periodo temporale e delinea la vita in Siria all’“avvento del Baath” − passando per la morte di Hafez al Asad e la paura che si è in seguito “annidata” fin nelle ossa dei siriani − il romanzo riflette indubbiamente la posizione di Khaled Khalifa nei confronti della rivoluzione siriana che egli considera una scelta legittima per contrastare l’ingiustizia.
Lo scrittore – come è capitato ad altri artisti – ha subito un’aggressione da parte delle forze di sicurezza, mentre nel maggio 2012 partecipava alle esequie di un suo amico oppositore al regime. Eppure quest’esperienza non gli ha impedito di rimanere a Damasco. Khalifa non ha voluto lasciare la sua città e da uno dei suoi quartieri si mette in contatto con al Hayat. Qui di seguito la sua intervista.
[image error]Dopo aver vinto la Medaglia Nagib Mahfuz per la letteratura, il Suo romanzo “Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città” è ora tra i finalisti dell’Ipaf di quest’anno. Considera questo successo un riconoscimento delle Sue capacità e della Sua unicità nel caratterizzare la complessa struttura politica e sociale siriana?
Non so il motivo per cui sia stato candidato e il mio romanzo sia ora nella short list, a parte il fatto che è un’opera che ha avuto fortuna per arrivare a questo risultato ed è stata fortunata anche con la giuria della Medaglia Mahfuz di quest’anno. Si sa che ogni commissione giudicatrice ha criteri, gusti e chiavi di lettura che si uniscono per assegnare il premio a uno scrittore piuttosto che a un altro. Del mio successo e della mia unicità, invece, non ne sono ancora sicuro.
Probabilmente molti se lo domandano: dove trova questo coraggio per scrivere della rivoluzione e criticare le istituzioni dello Stato senza lasciare Damasco?
Non sono mai stato un codardo, né un connivente. Ma neppure un temerario, né uno che voleva fare il combattente. Dopo quello che è successo, però, non mi importa più nulla. Qualunque prezzo possa pagare, non sarà mai pari al dolore di un detenuto ignorato, o di chi ha pagato con la propria vita il prezzo della libertà del suo popolo. Inoltre, rimanere all’interno dà un corggio di tipo diverso diverso rispetto a quello di chi è in esilio o vive all’estero. Io temo l’esterno del Paese più che il suo interno e non so giustificare, né spiegare questa sensazione.
Ci piacerebbe conoscere meglio la posizione dell’autorità siriana in questa fase nei confornti della lettaratura critica. Le autorità Le hanno creato problemi dopo la pubblicazione di “Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città”? E come si sono comportate con Lei dopo “Elogio dell’odio”?
Le autorità non mi hanno molestato, ma hanno reagito a “Elogio dell’odio” ignorandolo. Fanno così da lungo tempo in Siria con i libri che danno fastidio. Credo che loro siano diventate maestre in questo campo, così come noi adesso siamo degli esperti nel gestire il divieto, l’esclusione e l’ignorazione. Anche adesso non credo che le autorità abbiano cambiato il loro modo di procedere, nonostante non abbiano più molto tempo per seguire cose di questo tipo. Quel che accade nel Paese è più pericoloso del preoccuparsi di un romanzo che secondo loro dev’essere proibito.
Aleppo, lo scenario del Suo ultimo romanzo, sta soccombendo sotto i barili bomba assassini. Cosa Le viene in mente quando segue le notizie che provengono da lì?
Sicuramente quanto accade ad Aleppo è per me un dolore immenso. Non mi basta una telefonata per sapere come stanno i miei amici, la mia famiglia e la mia città lì e tranquillizzarmi. Mi sento impotente e sogno di svegliarmi un giorno e scoprire che tutto si è fermato a questo punto. Continuo a sperare che Aleppo tornerà più bella di com’era prima di marzo 2011. Così insegna la sua storia e spero che non ci deluda neppure questa volta. È proprio difficile vedere i luoghi in cui hai vissuto andare in rovina, senza poter fare nulla per fermare la distruzione.
(continua…)
April 19, 2014
Si trasferisce a Erbil il ristorante preferito di Bashar
Pare che sia il ristorante preferito di Bashar al Asad e che il presidente adori il burghol, il grano saraceno, preparato con la carne, secondo la ricetta del famoso chef Talal Nizam.
Eppure il Naranj, apertosi nel 2007 a Damasco sulla via recta nella città vecchia, ha visto diminuire il suo fatturato del 70% dall’inizio del conflitto e così i gestori hanno deciso di trasferirsi a Erbil, nella regione del Kurdistan iracheno.
Nei sette anni d’attività il ristorante può vantare la presenza di trentasette capi di stato: la regina Sofia di Spagna, l’ex presidente Nicolas Sarcozy, e tanti altri personaggi eccellenti hanno mangiato al Naranj durante le loro visite ufficiali e private in Siria.
La nuova sede non è stata scelta a caso. Il ristorante si trova in una zona di Erbil abitata dall’alta società locale e dai numerosi espatriati che vivono in città e beneficerà del boom economico e turistico che sta registrando la regione: nel giro di un anno si sono aperti 250 nuovi alberghi ed Erbil è stata designata capitale del turismo arabo per il 2014.
La sede damascena non ha chiuso i battenti, anche se lo chef Talal si è trasferito con buona parte del suo staff.
E se i tempi d’oro sono ormai andati, il ristorante sulla via recta può sempre contare sulla presenza di Bashar al Asad: ancora adesso, nonostante il conflitto in corso, il presidente ci torna puntuale due volte alla settimana per non rinunciare al suo piatto preferito.
April 15, 2014
Ritorno alla normalità in alcune zone della Siria?
(di Anne Barnard, The New York Times).
The change of atmosphere here in the Syrian capital is unmistakable. The boom of shelling no longer dominates the days and nights. Tensions over security are draining from the city like air from a balloon. Checkpoints remain ubiquitous but sentries are relaxed, even jocular, teasing strangers, “Any bombs?”
As government forces seize the last insurgent strongholds along the Lebanese border, securing the strategic corridor from Damascus to the coast, President Bashar al-Assad’s home region, the message from the government is clear: It is winning, and it can afford to be magnanimous. It is offering what it calls reconciliation to repentant opponents, and some are accepting.
But the relative tranquillity may be deceptive. Beneath a calm imposed by military force, siege and starvation, the stage appears set for an unstable period of prolonged conflict that could explode again months or years on. Resentment and distrust smolder on all sides. The country remains divided between government areas and the insurgent-held north. In the capital, the ferment seems clamped down, rather than soothed.
Though the government is reasserting control in the crucial center of the country and striking cease-fires in long-blockaded Damascus suburbs, it has resolved none of the deep political grievances that continue to tear at the national fabric. Its opponents, armed and unarmed, are pulling back and accepting defeat in some areas — for now. Yet many say they have not given up, but are merely reassessing their plans and goals with an eye to the future.
Dozens of interviews, in government-controlled areas in Damascus, the central city of Homs and the remote town of Palmyra, reveal that many Syrians — government supporters and opponents alike — doubt official assurances that life is returning to normal. Many among the nine million forced from their homes remain unsure when, or whether, they will go back.
In Sayeda Zeinab, outside Damascus, a woman who fled a Shiite town blockaded by Sunni insurgents said she hoped her son would join the government fighters on his 15th birthday — in 2027. Nearby, another Syrian Shiite buried her husband, a pro-government militiaman killed in battle. She vowed never to return to her mostly Sunni village, just blocks away, after insurgents, including former neighbors, burned her family’s shop “because we are Shiites.”
“It’s over,” she said.
In the heart of the capital, even behind shop security gates newly and uniformly painted with the official Syrian flag, the government’s opponents say they are simply keeping their heads down. They say that few refugees trust promises of a safe return to once-rebellious areas.
Some vow to continue the struggle peacefully; others say fighters are giving up for lack of arms, or to spare their towns more destruction and starvation, but not generally from a change of heart.
“Now there is no point, no money, no weapons,” said one shopkeeper, who like many others asked not to be identified for his safety. “But I am sure there are thousands of young men who are just waiting for their chance to fight.”
Officials insist Syrians will soon return to living quietly together, and many on all sides fervently hope so. But the complaints about repression, corruption and inequality that set off protests in 2011 remain unaddressed. So do grievances that have grown exponentially during a war that has killed 150,000 people, deepened sectarian and political rifts and left seemingly every family with members killed, wounded, detained or kidnapped.
The scars are more widespread than those from the bloody Muslim Brotherhood insurgency that peaked in 1982, and its repression by security forces that killed tens of thousands and leveled the old city of Hama. Those wounds festered in silence for decades, helping fuel the current conflagration.
In a shift, the government now routinely acknowledges that many Syrians, not just foreigners, are fighting it. But whether to justify amnesties or to avoid making concessions, officials take the position that most Syrian insurgents are not politically motivated, but bribed, deceived, brainwashed or coerced — simple, illiterate people who will be welcomed back like wayward children.
Mr. Assad’s opponents say any reconciliation must be a two-way street. The government, they say, has to acknowledge that it systematically bombarded neighborhoods and arrested, tortured and killed peaceful protesters.
“They have to admit their wrongs and apologize to the Syrian people,” said another Damascus businessman. “There will be no political solution without transitional justice. Everyone on both sides who committed crimes must be tried.”
But some officials in charge of reconciliation say the state has nothing to apologize for. Major Ammar, a political security officer in Homs, his face partly paralyzed by an insurgent’s bullet, said he had forgiven his assailant, for Syria’s sake. But abuses and war crimes by security forces, he said, are “rumors” that “didn’t happen.”
He presides over a school building where former insurgents are held for security checks as they trickle out of the blockaded Old City in exchange for laying down their arms.
Hundreds have been released, but scores remain, some with families. In the courtyard, the major draped his arms around young Syrians’ necks, calling them new friends who join him for games of chess and soccer.
The men said they had fought for money or misguided beliefs. Echoing testimony over Skype from fighters inside, they said some rebel commanders had hoarded cigarettes, weapons and food while they starved.
“We ate cats,” said one. “We were about to eat people.”
He added, as the officer listened, “May God protect the army.”
Later, another whispered, “Not all we said was true.” After his evacuation, he said, “the heart is relieved, but the mind wonders what will happen to us.”
The government’s supporters in Homs were troubled by its decision to allow evacuations, grant amnesties and provide the limited food aid allowed in January into the Old City.
“They are empowering terrorists,” said Jamila Ali, 42, on a street divided by concrete barriers shielding pedestrians from insurgent snipers, whose bullets, she said, her young daughters narrowly escaped.
What few dispute is that the insurgents, at least in central Syria, are struggling.
“We will kiss the revolution in Homs goodbye in the next couple weeks,” one evacuated fighter, Abu Abdo al-Homsi, said by phone after his release from the school. Just 600 of what had been a force of 1,500 fighters remain in the Old City, he said, with a dozen leaving daily.
Mr. Assad has decisively defied President Obama’s two-year-old prediction that his days were “numbered.” He capitalized on strong support from his Syrian base and from Hezbollah, Russia and Iran; the disarray of domestic and international foes; and the rise of extremist insurgents who drained sympathy for the revolt among Syrian fence-sitters and many early supporters.
Now, he looks ahead to re-election and beyond. New posters depict him as a long-shot victor over a global assault. In Homs, one reads, “Resistance, steadfastness, victory, reconstruction.”
Yet in the city’s Bab Sbaa neighborhood, reclaimed from insurgents in 2012, entire blocks still lie gutted. Residents said they could not yet rebuild, or trust former neighbors, because fighting could surge again.
In Damascus, bustle has returned to the Old City, but merchants say customers are broke and sales anemic. The new cease-fires are widely seen as fragile, coerced or insincere.
For now, exhaustion, fear and shock at the steep costs of revolt seem to have central Syria battened down.
A shop owner who favors the insurgents said that a painter recently appeared with a government militiaman, offering to adorn his door with the official flag for $30.
“So I said yes,” he said, giggling. “And if they come with the TV, I too will say, ‘Bashar is the greatest.’ ”
April 14, 2014
Ciò che al Qaida non è più
(di Lorenzo Declich, per Pagina99*). Il 23 febbraio scorso una delle più importanti formazioni jihadiste siriane, Ahrar al-Sham, ha annunciato la morte di uno dei suoi leader, Abu Khalid al-Suri. A ucciderlo tramite attacco suicida sono stati, secondo Ahrar al-Sham, i combattenti dello Stato Islamico di Iraq e Levante (SIIL, poco importa se questi ultimi neghino il loro coinvolgimento).
Abu Khalid al-Suri era un jihadista della prima ora, era fra i cosiddetti “afghani-arabi” che, “migrati” in Afghanistan per combattere contro i russi, si misero poi a portare il proprio jihad contro gli americani o i loro alleati in quel paese e più tardi iniziarono a vagare sui teatri più diversi, dal Sudan alla Cecenia ai Balcani. E che, dopo le turbolenze del 2011, si sono spostati di nuovo là dove c’è pane per i loro denti.
Abu Khalid, al secolo Muhammad al-Bahaya, poi ribattezzatosi in Siria con un nuovo nome di battaglia, Abu Umayr, non era un jihadista qualunque. Conosceva tutte le stelle del firmamento qaidista – Osama bin Laden (di cui dicevano fosse stato il “postino”), Ayman al-Zawahiri, Abu Mus’ab al-Zarqawi – ma ha pubblicamente negato, siamo nel 1999, la sua affiliazione ad al-Qaida (sembra che nella disputa fra il mullà Mohammed Omar, il capo dei talebani afghani, e Bin Laden avesse preso le parti del primo), così come d’altronde ai giorni nostri fa Ahrar al-Sham.
SIIL, da parte sua, ha affermato nei fatti di far parte dell’organizzazione ma, nell’aprile del 2013 il suo leader, Abu Bakr al-Baghdadi, “lancia un’OPA” su l’altra formazione siriana che in quei giorni si dichiarava apertamente qaidista (o meglio riconosceva l’autorità del suo capo, Ayman al-Zawahiri), Jabhat al-Nusra (Fronte di protezione), cambiando nome (prima si chiamava Stato islamico dell’Iraq, SII) e attestando che la Jabhat al-nusra da quel momento si scioglieva nel SIIL. A questo punto interveniva Abu Muhammad al-Julani, il leader della Jabhat al-nusra, negando la fusione delle due formazioni.
Entrava allora in scena Ayman al-Zawahiri, il capo di al-Qaida “centrale”, l’”organizzazione ombrello” titolare del brand, che prima dà ragione a Julani e poi, non ricevendo alcun feedback da Baghdadi, nomina un “arbitro” nella contesa, il suddetto Abu Khalid al-Suri. A questo punto il SIIL se ne va per fatti suoi, non riconosce l’autorità dell’arbitro e anzi il 23 febbraio probabilmente l’ammazza – motivo per cui Jabhat al-nusra qualche giorno dopo “dichiara guerra” a SIIL – laddove una ventina di giorni prima il “comando centrale” di al-Qaida, ossia al-Zawahiri e i suoi sodali, aveva espulso SIIL dall’organizzazione.
Un evento che sancisce una dissidenza interna i cui prodromi ritroviamo dal 2006, quando la futura SIIL, stanziata e bombardata dagli americani in Iraq, diviene Stato islamico dell’Iraq (SII) abbandonando il vecchio nome, che rinviava immediatamente ad al-Qaida (Tanzim Qaidat al-Jihad fi Bilad al-Rafidayn, Organizzazione della Centrale del jihad nel paese dei due affluenti, cioè il Tigri e l’Eufrate). Dal 2008 SII non aveva fatto altro che prender batoste dalla Sahwa, una coalizione di tribù sunnite della provincia di al-Anbar messa in piedi dagli americani con il preciso obiettivo di combattere il SII. Ora i combattenti del SIIL chiamano “sahwa” tutti gli altri jihadisti operanti in Siria, compresi gli “ex-fratelli” qaidisti della Jabhat al-nusra, affermando implicitamente il loro irriducibile “anti-americanismo”.
Fuori da al-Qaida
Di espulsioni ce n’è stata una sola ma più volte è accaduto il contrario, ossia vi sono state prese di distanza di singoli e di organizzazioni nei confronti di al-Qaida, come nel caso dei talebani afghani al tempo delle Due Torri. E Abu Khalid al-Suri non è l’unico afghano-arabo ad aver negato la propria affiliazione ad al-Qaida. Per trovarne altri potremmo spostarci in Libia, durante i giorni della guerra. Lì incontriamo ad esempio Abd al-Hakim Belhaj, leader e membro fondatore della Jamaat al-islamiyya al-muqatila bi-Libya, Gruppo combattente islamico in Libia (conosciuto con l’acronimo inglese, LIFG) una formazione che negli anni ’80 combatté contro Moammar Gheddafi e che, dopo la disfatta, andò a riparare in Sudan e in Afghanistan, fornendo anche alcuni quadri alla neonata al-Qaida ma rimanendo, essenzialmente, un’organizzazione il cui obiettivo era deporre il tiranno di Tripoli.
Anche il LIFG aveva rapporti con al-Qaida in Afghanistan e Sudan e anche il LIFG, stavolta nel 2007, chiarì di non farne parte. Stessa cosa vale per Abd al-Hakim Belhaj che d’altronde – sembra – aveva ottimi rapporti con il mullà Omar. La storia del jihadismo è costellata di liti, controversie sulle strategie da adottare, distinguo e ritorni all’ovile. La domanda che sorge spontanea è dunque: perché Ayman al-Zawahiri ha designato proprio un “non-qaidista” per un arbitrato fra organizzazioni qaidiste? La risposta la troviamo, al di fuori o al di là del brand qaidista, nelle biografie di queste persone e nelle esperienze che li legano.
Cosa è cambiato
L’espulsione di SIIL da al-Qaida non ha precedenti e segna un punto di svolta rilevante se la coniughiamo con la situazione sul campo di battaglia siriano: da una parte c’è il Jaysh al-Islam, una formazione fortissima nel campo anti-Asad, formata da diversi gruppi jihadisti fra cui la qaidista Jabhat al-Nusra, dall’altra la non-più-qaidista SIIL. Più in generale la situazione siriana fotografa un mondo in mutamento, quello dei gruppi jihadisti e delle organizzazioni che, ideologicamente o logisticamente, danno loro supporto. Un mondo in cui al-Qaida “centrale” avendo perso appeal e mordente non fa più sempre da “ombrello”, tagliando i rami secchi e partecipando da “entrista” a una rete più vasta. Un fatto che dovrebbe far riflettere chi, nei media, continua a far confusione – talvolta soltanto per agitare lo spauracchio di al-Qaida – fra jihadismo e qaidismo.
Per certi versi si ritorna all’antico, alla fine degli anni ’80, quando al-Qaida era solo una delle espressioni del movimento jihadista degli afghani-arabi. E quando invece di spedire uomini bomba in giro per il mondo si faceva la guerriglia. È una situazione “piena di opportunità” con l’apertura di nuovi fronti sui quali piombano jihadisti di due o tre generazioni diverse (compresi gli ex di Guantanamo, molti dei quali appena liberati si sono rimessi in circolo). Fioriscono sigle (si vedano ad esempio un po’ ovunque gli Ansar al-sharia) che, con metodi vecchi e nuovi (ad esempio pescando nelle immense periferie delle grandi città), funzionano spesso da agenzie di reclutamento per il jihad lavorando in quella immensa “zona grigia” fatta di contrabbandieri professionisti, reti di approvvigionamento mafiose e paramafiose, infiltrati dei servizi segreti di paesi con interessi inconfessabili.
Ci sono rapporti fra gruppi, a volte buoni a volte cattivi, e le posizioni possono essere convergenti ma ogni gruppo ha la sua agenda, chi “globale” (al-Qaida “centrale”), chi locale (SIIL nella striscia di terra in mezzo alla quale passa la frontiera fra Siria e Iraq) chi “nazionale e/o patriottica” (i jihadisti libici o siriani), chi meramente economica (i jihadisti che scorrazzano in lungo e in largo per l’Africa subsahariana diventando quasi soltanto tramite o terminale del contrabbando di armi e droga).
Alcuni di questi gruppi per motivi di brand, cui si lega “l’offerta jihadista” in fase di reclutamento, sono ancora parte di al-Qaida (ad esempio gli Shebaab somali, che hanno un sostenuto afflusso di combattenti dall’estero, o “al-Qaida nella Penisola Araba”), altri no (Jaysh al-islam, ad esempio, non ha problemi di reclutamento – i suoi combattenti sono principalmente siriani, motivati dalla distruzione provocata da Asad – e nemmeno di finanziamento, visto il ricco mix fra servizi segreti e finanziatori privati proveniente dal Golfo). Molto spesso rapporti e legami sono determinati da contigenze stringenti, spesso di tipo economico, e mutano in base a esse. Ciò che conta sono appunto le agende e la loro “compatibilità”: c’è chi non può esistere in presenza di uno Stato – ad esempio SIIL, che fiorisce nella “divergenza parallela” con il regime siriano che senza il caos nel quale si inserisce SIIL avrebbe ben poco da argomentare sul piano delle relazioni internazionali – e chi invece potrebbe addirittura trovare posto, in politica o nella polizia o nell’esercito, in un futuro Stato sufficientemente “islamizzato” (Abd al-Hakim Belhaj, ad esempio, si presentò alle elezioni libiche con una formazione politica finanziata dal Qatar, perdendo).
In mezzo c’è l’ingombrante variabile geopolitica che, in molti casi, determina gli assetti: si guardino ad esempio i rapporti di forza fra gruppi in Siria, dove è pesantissimo l’intervento dei paesi del Golfo sia a livello di appoggio ufficiale che sul piano dei ricchi finanziamenti di “privati cittadini” che fanno il loro “jihad economico” scegliendo i propri referenti nei teatri di conflitto. E anche, ovviamente, il “lavoro” di tutti i servizi segreti del pianeta, si guardi all’ascesa di un gruppo combattente come Ansar al-sharia, nato in Mali in una notte e rifornito di armi e bagagli da qualcuno nel Golfo, o anche – sempre in quell’area – agli ambigui rapporti dell’intelligence algerina con alcuni storici leader di al-Qaida nel Maghreb Islamico.
Si aggiunga, last but not least, la variabile delle politiche nazionali, prima fra tutte quella egiziana che, mettendo fuori legge e dichiarando “terrorista” una compagine non certo jihadista come i Fratelli Musulmani, ha regalato immensi spazi di manovra al rinascente jihadismo locale. Mentre, nell’ombra mediatica provocata dall’esplosione del jihadismo sunnita, si rafforzano o rinascono in Iraq, Libano e Siria – stavolta in maniera estremamente più ordinata – jihadismi di matrice sciita.
Di seguito il video in cui Ayman al-Zawahiri fa il necrologio di Abu Khalid al-Suri:
_____
* L’articolo è comparso in una versione ridotta sull’edizione cartacea di Pagina99.
April 13, 2014
Siria, Hanno ucciso l’uomo magro
Abu Maryam, l’attivista di Bustan al Qasr, il suo quartiere ad Aleppo, è morto. L’uomo magro con i baffi neri che ha manifestato contro il regime e poi non è rimasto zitto di fronte alle bande islamiste è morto. Dall’agosto dell’anno scorso era prigioniero dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis).
Suo fratello racconta:
La mamma è andata a Raqqa per vedere mio fratello Abu Maryam. Le hanno detto che era ad al Bab ed è andata ad al Bab:
- Voglio vedere mio figlio. – ha detto – So che è da voi.
– Come si chiama?
– Wael Ibrahim.
– Quale crimine ha commesso?
– Non lo so.
– Ce l’hai una sua foto con te?
– Sì.
Gli ha dato la foto e lui è andato dall’Emiro. Dopo mezz’ora è tornato e le ha detto:
- Tuo figlio è a favore della democrazia, del secolarismo e ha partecipato a manifestazioni contro di noi. Ci sono molte accuse contro di lui.
– Solo perché ha detto in faccia al ladro che è un ladro, è un criminale?
– Insomma è un apostata. Sai qual è la punizione per un apostata?
– No, non lo so.
Allora le ha detto:
- Il giudice l’ha condannato alla pena di morte per apostasia.
Abu Maryam è stato ucciso. È stato ucciso come il suo amico Abdullah Yassin, un altro aleppino che non ha voluto accettare la dittatura dello Stato islamico. Li ricordiamo entrambi con parole dell’uomo magro:
Se pensate che siamo stanchi, sbagliate. Noi sappiamo che la rivoluzione vera non è ancora cominciata. E se mi dite che siete “l’autorità legittima”, vi dico no, siamo noi l’autorità legittima. E se mi chiedete chi siamo noi, vi rispondo: “Noi siamo il popolo siriano libero!”
Siria, La lingua tradita
(di Elias Khury, Internazionale*). Le parole potevano ferire. La lingua era un mezzo per comunicare, lottare, ragionare. Ma da quando abbiamo scoperto che la rivolta siriana è stata tradita e che il suo smisurato tributo di morti rischia di essere inutile, ci chiediamo se le parole siano ancora in grado di incidere sulla realtà. Perché la rivoluzione è stata tradita.
Sembra assurdo, ma dopo questi tre anni in cui i siriani hanno lanciato una grande rivolta popolare, siamo scivolati in un intrigo che ha fatto spargere inutilmente il loro sangue ai piedi dei dittatori. E la lingua è la seconda vittima di questo tradimento.
Non sappiamo con sicurezza cosa succede davvero in Siria perché le notizie sono contraddittorie. La città di Yabrud è caduta o si è arresa? Il castello crociato Krak dei cavalieri è stato espugnato o i ribelli sono stati traditi? Chi combatte, e con che mezzi?
Sappiamo, invece, fin troppo bene quale bugia sta prendendo piede. Si dice che, siccome i manifestanti uscivano dalle moschee, in Siria la rivoluzione è stata un grosso errore ed era inevitabile che degenerasse in uno scontro tra i fondamentalisti armati e il regime, aiutato da milizie sciite altrettanto fondamentaliste.
Questa non è una bugia innocente, anche se si vorrebbe spacciarla per tale. Per non parlare di certi intellettuali – a cui va tutto il mio disprezzo – che in pubblico negano le loro colpe, tremando di paura. No, l’attuale corso della rivoluzione non era inevitabile, non è una conseguenza dell’inesperienza dei siriani con la democrazia, ma è stato il risultato di una serie di fattori a cui si può dare un solo nome: tradimento.
L’occidente ha tradito la rivoluzione. Contare sul sostegno degli Stati Uniti è stata un’idiozia: l’imperialismo statunitense non si è mai interessato alla libertà dei popoli, specialmente in Medio Oriente. D’altra parte la vecchia Europa continua a rimpiangere il passato coloniale: quello che le interessa è dimostrare che le indipendenze nazionali sono servite solo a fermare la sua missione civilizzatrice di popoli arretrati.
Due tradimenti. Ma vorrei soffermarmi in particolare su due tradimenti: il primo è l’illusione, ben radicata nelle teste di molti, che prima o poi ci sarà un intervento straniero e che in Siria si ripeterà lo scenario libico. Quest’illusione ha contribuito a indebolire i leader dell’opposizione e ha impedito di capire fino in fondo quanto la rivoluzione fosse una lotta popolare. Sul piano politico e organizzativo, l’ha relegata alle dipendenze dei regimi del Golfo, che sfruttano i siriani per vendicarsi dell’Iran. Farsi illudere non è stato solo un errore politico, ma è stato anche un tradimento, perché ha fatto nascere aspettative che sono state deluse. Tutto ciò ha logorato l’iniziativa popolare, da cui erano nati i Comitati di coordinamento locale e l’Esercito siriano libero.
Il secondo è stato un tradimento regionale, arabo e turco, sotto forma di vuote promesse di aiuto. I paesi della regione non hanno mai superato i limiti imposti dagli Stati Uniti. Il loro interesse era solo infiltrarsi nella rivoluzione per scompaginarne le file e soffocare il sogno democratico. Così hanno smantellato l’Esercito siriano libero per creare una forza militare fondamentalista islamica.
Questi tradimenti sarebbero stati meno amari se le élite laiche, di sinistra e liberali, avessero capito l’importanza del loro ruolo nella fase di passaggio da una rivoluzione pacifica a una rivolta armata. Invece la loro incapacità è stata un ulteriore tradimento. Il ricorso alle armi non è stato la conseguenza di una decisione consapevole, ma una reazione popolare e spontanea contro una repressione estremamente violenta. Questa è la realtà. Invece le tesi complottiste hanno contribuito a gettare fango sulla lotta del popolo siriano. La sconfortante assenza delle élite progressiste ha lasciato un vuoto enorme, in cui si è fatto strada il fondamentalismo di Al Qaeda e dei regimi del golfo Persico.
Quest’assenza può avere molte giustificazioni. Si può dire che quarant’anni di dittatura in Siria sono riusciti a sopprimere qualunque forma di organizzazione politica indipendente, o che i servizi segreti erano talmente ben organizzati da stroncare sul nascere ogni iniziativa, o che il nucleo iniziale dell’Esercito siriano libero era a corto di aiuti finanziari e logistici. In un certo senso è tutto vero, ma non sono giustificazioni sufficienti. La sinistra araba – e non solo quella araba – deve emanciparsi da un approccio alla realtà dove abbondano le chiacchiere e scarseggia l’impegno pratico. I valori di una nuova cultura, dopo il collasso dei Comitati di coordinamento locale sotto i colpi della repressione, ritroveranno spazio solo nelle iniziative dal basso.
Anche se i tradimenti sono tanti, sono convinto che non si può tornare indietro, poiché indietro c’è solo morte. La dinastia degli Assad non può rimanere al potere, a prescindere da quelli che saranno gli sviluppi futuri. Su queste certezze rifonderemo la nostra lingua, che ormai, dopo tanto sangue, distruzione e lacrime, è sempre più vicina al silenzio.
____
* Traduzione dall’arabo di Giacomo Longhi.
Non solo Dell’Utri… Libano rifugio di bancarottieri e spie
Dissidenti politici arabi e stranieri, bancarottieri, leader guerriglieri e spie doppiogiochiste sono tutti prima o poi passati e, in alcuni casi anche rimasti, a Beirut: crocevia del Medio Oriente e oasi dove trovare protezione da persecuzioni e mandati di arresto o dove godersi una pensione dorata lontano da sguardi indiscreti.
Tra gli italiani, il nome più noto è Felice Riva, l’industriale lombardo che nel 1969 fuggì proprio a Beirut per sfuggire alla giustizia italiana. Come Dell’Utri, ‘Felicino’, ex presidente del Milan e protagonista di uno dei primi scandali finanziari che negli anni Sessanta misero a soqquadro Milano, arrivò in quella che ancora poteva esser definita ‘la Parigi del Medio Oriente’ attraverso un itinerario non lineare: Nizza, Parigi, Atene e infine Beirut. Rino Gaetano, nel 1975, gli dedicò addirittura un verso (“… c’è chi scappa per Beirut e ha in tasca un miliardo…”) nella sua celebre ‘Il Cielo è sempre più blu’.
Ambienti della magistratura libanese affermano che l’accordo sull’estradizione tra l’Italia e il Paese dei Cedri fu siglato nel 1970 proprio in seguito al caso di Riva. Che rimase però a lungo in Libano, tanto da acquisire la cittadinanza, prima di fuggire di nuovo a causa della sanguinosa guerra civile (1975-90).
Proprio all’ombra del conflitto intestino libanese trovò rifugio e persino un lavoro Ilich Ramiréz Sanchez, meglio noto come Carlos, mercenario marxista-leninista che ha firmato numerose operazioni terroristiche e omicidi mirati in giro per il mondo. A metà degli anni ’70 collabora assiduamente con il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) e fa di Beirut una delle sue basi operative.
A Beirut giunse ai primi anni ’70 Kozo Okamoto, membro dell’ Armata rossa giapponese e seguace dei movimenti di resistenza palestinese. Okamoto figura tra gli attentatori dell’attacco all’aeroporto israeliano di Lod nel 1972 organizzato sempre dal Fplp. Dopo aver scontato 13 anni nelle carceri israeliane fu liberato in uno scambio di prigionieri e, dopo varie peripezie, dal 1997 è tornato in Libano per sfuggire alla giustizia giapponese.
Assai più nota è la fuga a Beirut di Yasser Arafat e dei vertici dell’Olp tra il 1969 e il 1970, in corrispondenza con l’offensiva giordana contro le milizie palestinesi asserragliate nel nord del regno hascemita. Arafat e i suoi lasceranno Beirut Ovest sotto i pesanti bombardamenti israeliani nel 1982, prima verso Tripoli, nel nord del Libano, e quindi verso Tunisi.
Prima della guerra civile libanese, la spia britannica Kim Philby operava a Beirut con la copertura di giornalista ma fu in seguito assoldato dal Kgb russo e per anni vestì il doppio abito della spia ai tempi della guerra fredda muovendosi abilmente tra le montagne e le spiagge di un Libano che a quell’epoca era descritto come ‘la Svizzera del Medio Oriente’.
Meno noti in Occidente ma molto famosi nel mondo arabo figurano decine di dissidenti politici siriani, iracheni, yemeniti, libici, algerini, che sono passati e rimasti al sicuro a Beirut in fuga dalle varie dittature che dagli anni ’50 fino a oggi hanno dominato le società arabe dall’Atlantico al Golfo. (Ansa, 12 aprile 2014)
April 11, 2014
Dell’Utri come Felicino Riva?
L’ex senatore italiano Marcello Dell’Utri, ricercato in Italia, secondo alcune fonti è fuggito a fine marzo 2014 a Beirut. Il 12 aprile, il fratello gemello di Dell’Utri, Alberto, afferma che l’ex senatore non è latitante ma “è un evaso. Perché negli ultimi 20 anni è stato come in carcere, dietro le sbarre di accuse assurde come quelle di connivenza mafiosa. Accuse lontane anni luce dalla sua mentalità”, “è perseguitato”.
Contro di lui, sostiene il fratello, “non ci sono prove. Ci sono solo racconti di pentiti che hanno sentito altri pentiti di contatti tra mio fratello e ambienti mafiosi”.
Sull’ allontanamento all’estero del fratello, Alberto Dell’Utri spiega: “Non è scappato, è andato in Libano per affari, per il commercio dei cedri. Poi ha avuto problemi di salute e quindi è stato costretto a rimanere fuori per curarsi”, ma se sia ancora in Libano “non lo so, era a Beirut fino a martedì 8 aprile, ultimo giorno in cui l’ho sentito”. E dice di non sapere se tornerà prima martedì prossimo: “a me, martedì scorso, ha detto di sì, che sarebbe tornato. Ma tanto non cambia niente, perché qualsiasi sia l’esito della sentenza gli hanno comunque rovinato la vita”.
La presunta fuga di Dell’Utri in Libano ricorda quella di Felice Riva (foto), bancarottiere italiano scappato a Beirut nel 1969. Qui di seguito un resoconto che nel 1984 apparve su La Repubblica circa la storia di ‘Felicino’ Riva e a cui Rino Gaetano dedicò un verso (“chi scappa per Beirut e ha in tasca un miliardo…”) nella sua celebre il Cielo è sempre più blu.
RIVA, L’EX RE DEL COTONE ORA E’ CITTADINO LIBANESE, I GIUDICI LO ASSOLVONO
MILANO – Fino a ieri non lo sapeva nessuno, tranne gli avvocati e i parenti stretti: ma il biondo Felice Riva, detto Felicino, ragioniere (sia pure a prezzo di faticosi studi), ex consigliere delegato e presidente del Cotonificio Vallesusa, ex presidente del Milan Football and Cricket club, protagonista di uno dei primi scandali finanziari che negli anni sessanta misero a soqquadro la Capitale morale, di milanese ha ormai solo l’accento.
Perchè il rag. Felice Riva, simbolo quasi parodistico dell’ industriale lombardo degli anni del boom, è un cittadino libanese, costretto all’ esilio per via della guerra civile.
Che Felicino sia cittadino della agitata e sfortunata repubblica mediterranea lo ha stabilito ieri la quarta sezione del tribunale penale di Milano. E così ieri il passaporto “nuovo” lo ha salvato da una probabile condanna per infrazione valutaria: se l’è cavata perchè i giudici lo hanno ritenuto “non punibile” in quanto cittadino straniero.
Felice Riva era stato rinviato a giudizio perchè, essendo possessore all’ estero, di un pacchetto di azioni del valore di un miliardo di lire non aveva provveduto al rientro dei titoli entro i termini fissati dalla legge. Ma ieri i giudici lo hanno dovuto dichiararlo non punibile in quanto dal 1974, due anni prima che la normativa sul rientro dei capitali entrasse in vigore, aveva in tasca il passaporto del Libano. L’ex re del cotone era fuggito a Beirut per evitare sei anni di carcere per bancarotta e ricorso abusivo al credito.
L’industriale era già stato arrestato a Milano la sera del 4 febbraio 1969 all’ uscita di un cinema del centro. Ma la Cassazione annullò il mandato di cattura per vizio di forma. Invece di andare in tribunale e rispondere dei suoi reati (il passivo del crack era stato valutato nel ’65 ad oltre 46 miliardi di lire e 8 mila lavoratori restarono a casa), Felicino preferì la strada della fuga.
Nizza, Parigi, Atene, infine Beirut. Tanto, non se la filava via a mani vuote: i quattrini esportati non mancavano e – come si è visto – nemmeno le azioni. Capitali legalmente esportati. Ma la legge cambiò: chi aveva titoli, azioni e depositi in contanti all’estero doveva riportarli in Italia. Riva non ci pensò nemmeno un minuto: di rientro non se ne parlò affatto. Era già diventato cittadino libanese.
Certo, non sono state tutte rose e fiori gli undici anni di soggiorno in Libano per il nostro ragioniere in fuga: a Beirut venne incarcerato per cinquanta giorni. La moglie Luisella Stabile lo abbandonò dopo un anno di vita in piscina e nelle hall dei grandi alberghi libanesi.
In Italia il suo nome era additato a pubblico disprezzo, vita esemplare di un arrogante “tycoon”, tipico rappresentante di quella categoria dei “cutunat”, i cotonieri esibizionisti e disinvolti, ingombranti e volgari.
Quando era scappato, aveva lasciato un impero industriale in dissesto. Lo aveva ereditato alla morte del padre Giulio, uno che si era fatto da sè e che aveva vissuto da protagonista PAGE 0 gli anni d’ oro della Milano “capitale morale ed economica d’ Italia”. Lo chiamavano il “mangiafuoco della Borsa”. Felicino, invece, era soltanto ambizioso.
Al momento del trapasso fratello e sorella lo denunciarono per sottrazione di gioielli, sottrazione di eredità e furto. Beghe di famiglia, nero anticipo di quello che sarebbe stato il più grosso crack finanziario ed industriale degli anni Sessanta.
Le fabbriche agonizzavano e lui se la passava a Forte dei Marmi sullo yacht e i tre motoscafi, i suoi operai che da bambino lo avevano chiamato “figlio del sole” perchè era bello e biondo ora gli buttavano sul palco della Scala volantini che non lasciavano perplessità: “Rag. Felice Riva, il tuo posto non è alla Scala, è a San Vittore”.
Sul proscenio, “la Forza del destino”… E poi, il ritorno in patria. Misterioso, oggi, per via del passaporto libanese. Siamo nel 1982. Nel Libano infuria la guerra. I grandi intoccabili alberghi del lungomare di Beirut cominciano ad essere bombardati.
In Italia, grazie a condoni e amnistie, il curriculum giudiziario di Riva si riduce a zero. La questura milanese concede il nulla osta per il rilascio del passaporto (così si legge nelle cronache di quel maggio) su sollecitazione dell’ ambasciata italiana di Beirut. Il passaporto italiano che Riva aveva al momento della fuga è infatti scaduto ed è privo di validità. Per riottenerlo, si disse, Riva si era rivolto all’ambasciata. Perchè, se in tasca aveva fin dal 1974 un legittimo passaporto libanese?
Lorenzo Trombetta's Blog
