Lorenzo Trombetta's Blog, page 28
May 21, 2014
Siria: ritorno a Maaloula
La città di Maaloula uno degli ultimi luoghi al mondo dove si parlava l’aramaico, la lingua di Cristo, è oggi ridotta a città fantasma. Case e chiese portano i segni degli scontri durati sette mesi; conquistata dai ribelli di Jabhat al-Nusra per la sua posizione strategica è stata “liberata”, secondo la terminologia usata dai media di Asad, dall’esercito governativo e dal potente alleato libanese, le milizie sciite di Hezbollah. I 5000 abitanti sono scappati altrove e prima di ritornare attendono la fine del conflitto in corso.
(di Rana Moussaui, AFP) Plus d’un mois après sa reprise par l’armée syrienne, Maaloula n’est plus que l’ombre d’elle-même, cette localité célèbre pour ses sites de pèlerinage chrétien aujourd’hui complètement abandonnée ressemblant davantage à une ville de garnison. Quelques soldats se prélassent sur la place principale où sont placardées des photos du président Bachar al-Assad ou peints des slogans à sa gloire.
Mais vidée de ses habitants qui parlent encore l’araméen, la langue du Christ, la localité montagneuse est plongée dans un silence absolu que vient interrompre par moments le gazouillis d’hirondelles tournoyant près des grottes troglodytes qui l’entourent et qui datent des premiers siècles du christianisme. “Les habitants viennent ici une heure pour inspecter leurs maisons puis s’en vont”, affirme un des soldats à l’équipe de l’AFP autorisée à visiter la localité située à une cinquantaine de km au nord-est de Damas.
Si les destructions ne sont pas de l’ampleur d’autres régions syriennes comme à Homs en raison du conflit qui fait rage depuis trois ans, les habitations portent les stigmates des combats de près de sept mois entre l’armée et les rebelles, dont des jihadistes du Front Al-Nosra, finalement chassés à la mi-avril: maisons incendiées, fenêtres brisées, portes défoncées et balcons effondrés. Maaloula avait été emportée dans le conflit en raison de sa situation stratégique dans les montagnes du Qalamoun, sur une route reliant Damas au Liban, avant d’être reconquise par l’armée et son puissant allié le Hezbollah chiite.
Le président Assad s’y est rendu le 20 avril à l’occasion de la fête de Pâques. Tout au long du conflit, son régime s’est posé en “protecteur” des minorités religieuses face à ceux qu’il qualifie de “terroristes extrémistes”, un discours qualifié de propagande par l’opposition. Mais malgré le retour de l’armée, la localité en majorité grecque-catholique mais abritant également une minorité musulmane et qui comptait 5.000 habitants avant le conflit, ne semble pas prête de renaître de sitôt.
“Il faut des aides car ici les gens ont tout perdu”, affirme Fassih, l’unique habitant que l’AFP a pu rencontrer près du célèbre monastère orthodoxe de Sainte Thècle, jeune païenne convertie par Saint Paul. Il est venu inspecter son magasin d’alcool, situé en contrebas du monastère construit autour d’une grotte, pour découvrir qu’il était entièrement incendié. Le réfrigérateur a été écrasé contre un mur. “La marchandise a elle seule vaut plus de 66.000 dollars”, dit cet homme. “Ma maison a également été incendiée et pillée, tous les meubles ont été volés”, lâche Fassih d’un air résigné. “Comment voulez-vous que les gens reviennent?” Le monastère de Sainte Thècle, fermé à clé par l’armée, a servi de position aux jihadistes.
A l’intérieur, sur la plupart des peintures et des icônes de la Vierge, de Jésus et des saints, à la place des yeux, des trous ont été creusés. Les chambres des 12 nonnes enlevées en décembre par Al-Nosra avant d’être libérées trois mois plus tard ont été incendiées, des livres pulvérisés et la porcelaine brisée. L’orphelinat situé dans le complexe offre un spectacle désolant de peluches, de dessins et de vêtements d’enfants empoussiérés. Sur la route montant vers le monastère Mar Sarkis (Saint-Serge), on peut apercevoir, à l’entrée des grottes troglodytes, des sacs de sable entassés par les rebelles. Ces derniers avaient pris position sur le haut des falaises au début de l’offensive et notamment dans l’hôtel As Safir, complètement dévasté par les bombardements.
Tout près, le monastère de Serge et Bacchus, endommagé par de nombreux obus, notamment sa chapelle encore couverte de remblais. Ce lieu fondé à la fin du Ve siècle est un des plus anciens monastère du Moyen-Orient et est dédié à deux officiers romains martyrisés en raison de leur foi sous le règne de l’empereur Maximien Galère (250-311). Plusieurs icônes rares y ont été subtilisées et dans le magasin de souvenirs, des évangiles en araméen gisent au sol. Au milieu de ce spectacle de désolation, “qui va rentrer maintenant?” s’interroge un chauffeur de taxi de passage dans sa localité natale. Et d’ajouter: “Probablement personne, les gens vont attendre que la guerre se termine”. (AFP, 19 maggio 2014)
May 19, 2014
Focus on Syria, Troppi falsi miti sulla Siria
Un recente contributo della redazione di Focus on Syria fa un’analisi della situazione sul terreno del conflitto siriano, ipotizza possibili scenari e richiama alla responsabilità la comunità internazionale.
Sparita improvvisamente dalle prime pagine dei giornali, la guerra in Siria continua il suo tragico corso con la stessa intensità degli ultimi tre anni. Il regime ha guadagnato terreno attorno a Homs e dopo una campagna di sei mesi è riuscito a riprendere il controllo della regione strategica del Qalamoun, alla frontiera tra Libano e Siria (vedi articolo).
Ma nonostante le sue dichiarazioni di vittoria l’opposizione ha ripreso l’iniziativa ad Aleppo, fino al punto di minacciare di nuovo l’accerchiamento totale dei quartieri ovest, ed è riuscita a conquistare alcuni villaggi vicino alla costa a nord di Latakya, in una regione di importanza simbolica per il regime.
È difficile dire se gli sviluppi militari degli ultimi mesi corrispondano a una ripresa di controllo da parte del regime, come certi analisti propongono sempre più insistentemente, o soltanto a una ristrutturazione e semplificazione delle forze in campo e dei fronti. L’Esercito Libero Siriano e gli altri principali gruppi d’opposizione sembrano dare priorità al fronte del nord (Aleppo e Idlib) e al fronte del sud (Deraa e Quneitra) e in entrambe le zone hanno riscontrato dei successi di recente. Il regime ha invece concentrato la maggior parte delle sue forze nel recupero e il consolidamento dell’asse strategico Damasco – Homs – Latakya. Un’eventuale battaglia decisiva, se mai avrà luogo, sembra ancora lontana.
Il regime ha una potenza di fuoco altamente superiore e il monopolio esclusivo dell’aviazione; ma gli mancano le forze di fanteria necessarie a ricatturare e mantenere i vasti territori nelle mani dall’opposizione. Può decidere di riprendersi qualsiasi zona del paese, ma solo una alla volta. Una sua vittoria puramente militare appare difficile e molto lontana nel tempo. Per questo motivo, negli ultimi mesi la vera offensiva del regime si gioca sul piano del morale. La riconquista di poche zone-chiave, altamente mediatizzata, dà l’impressione di un’inesorabile ripresa di controllo. La moltiplicazione delle interviste con la stampa estera e delle visite di delegazioni ufficiali crea un’illusione di ritorno alla normalità.
Va letta in questa chiave la tenuta delle elezioni presidenziali ai primi di giugno. Chiamare al voto la cittadinanza in un paese tuttora in guerra, con tre milioni di rifugiati all’estero, sei o sette milioni di sfollati interni e metà del territorio sotto controllo nemico, potrebbe sembrare solo un’inutile farsa. Bashar al Assad conta però su questo vacuo simulacro di democrazia, dal risultato già noto in partenza, per rafforzare il sentimento di ineluttabilità della sua presenza; per convincere definitivamente i suoi sostenitori e anche qualcuno dei suoi stanchi avversari che lui è lì per restare.
Tutti i commentatori della crisi siriana si sono affrettati a giudicare i negoziati di pace morti e sepolti. È risultato chiaro che il regime siriano non ha alcuna intenzione di fare concessioni reali e che punta a stroncare la ribellione e a pacificare il paese a modo suo. Una scelta di realpolitik facile da comprendere, visto l’appoggio incondizionato dei suoi alleati stranieri, Iran e Russia in primis. Ciò che invece non è assolutamente chiaro, né accettabile, sono l’indifferenza e l’abbandono del processo di pace da parte delle potenze occidentali. Un vero dialogo, delle concessioni mutue e un governo transitorio di unità nazionale, per quanto difficili e improbabili, costituiscono forse l’unica soluzione che potrebbe rassicurare e soddisfare un sufficiente numero di cittadini siriani di entrambi i campi. Solo su questa base condivisa, in cui nessuno sia considerato perdente e si senta quindi minacciato, potrà essere ricostruita una Siria unita e vivibile. L’alternativa sono ancora dei lunghi anni di guerra e in seguito molti altri anni di instabilità, terrorismo strisciante, attentati e insurrezioni.
Il politologo Ziad Majed sulle pagine de L’Express smentisce un altro falso mito: “L’analisi secondo la quale la situazione attuale presenta una scelta da fare tra Assad e i jihadisti è falsa, naïf, o addirittura deliberata per giustificare « l’opzione Assad ». La realtà sul terreno e l’evoluzione della situazione in Siria mostrano che siamo piuttosto di fronte alla seguente equazione: o Assad e i jihadisti insieme, uno giustificandosi grazie alla barbarie dell’altro con i due campi capaci di « coesistere » e d’occupare ciascuno una regione, o la caduta di Assad e poi quella dei jihadisti che perderebbero in questo modo ogni possibilità di reclutamento, isolati sul terreno e anche nella società.”
È insomma tempo che la comunità internazionale si assuma le sue responsabilità e metta un termine alla guerra civile siriana, attraverso un processo negoziato e una soluzione di compromesso che sia accettabile per gran parte della popolazione. Il prolungamento della crisi in Ucraina non deve far cadere la Siria nel dimenticatoio per altri lunghi mesi. I governi occidentali devono essere pronti a forzare entrambi i campi, se necessario, ad effettuare i compromessi necessari, con o senza l’approvazione della Russia. Accontentarsi di inviare degli aiuti umanitari, peraltro insufficienti, e assistere in silenzio all’autodistruzione di un paese è una vergogna di cui nel ventunesimo secolo il mondo non dovrebbe più macchiarsi. La priorità è terminare la guerra: non fra tre o cinque anni, ma adesso.
May 14, 2014
Homs e Yarmuk, immagini che rievocano la Nakba
(di Lorenzo Trombetta, ANSA) Le immagini dell’esodo di massa dei palestinesi dal campo di Yarmuk a Damasco e dell’espulsione di centinaia di migliaia di civili dalla regione di Homs sotto il fuoco della guerra civile siriana rievocano quelle della Nakba (‘catastrofe’), da 66 anni commemorata ogni 15 maggio in ricordo dell’espulsione e della fuga di massa dei palestinesi durante e dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948.
A suggerire questo accostamento simbolico è Simone Sibilio, docente di letteratura araba all’Università Ca’ Foscari di Venezia e autore di una ricerca (“Nakba. La memoria letteraria della catastrofe palestinese”, edizioni Q, 2013) dedicata alla produzione letteraria palestinese legata al tema della ‘catastrofe’.Per Sibilio, “il concitato tentativo di rielaborazione creativa del ricordo della Nakba dimostra la rilevanza di questo dramma nella vita quotidiana dei palestinesi”. E il “tormento senza fine” si ripete ancora oggi dentro e fuori i confini dei territori stretti tra il Mediterraneo e il Giordano.
“Penso a quel che avviene a Gerusalemme Est, al trasferimento coatto dei beduini del Neghev, ai palestinesi del campo di Yarmuk, anch’essi vittime di una Nakba”, afferma intervistato dall’ANSA via Skype.
In un editoriale apparso il 12 maggio scorso sull’autorevole quotidiano panarabo al Hayat, Hazem Amin, noto intellettuale libanese da sempre vicino alla causa palestinese, commentava le operazioni delle forze di Damasco contro i sunniti di Homs solidali con la rivolta anti-regime. E tracciava un paragone con la politica delle espulsioni di massa compiute dagli israeliani a danno dei palestinesi.
“Il parallelo con Homs è calzante a livello simbolico, ma al tempo stesso angosciante, per la portata inenarrabile della tragedia palestinese e delle sue conseguenze”, afferma Sibilio.
“Quello che accade in Siria è la continuazione di una politica dittatoriale, già avvenuta in altre parti del Mediterraneo, che resta impunita e che viene di fatto ignorata dai grandi media”.
Sibilio ha cominciato le sue ricerche universitarie sul tema nel 2008, quando ricorreva il 60/mo anniversario della Nakba. Uno degli aspetti più indagati nel suo lavoro è quello del ‘memoricidio’, l’uccisione della memoria come strumento di dominazione culturale e politica.
Per l’autore, il 1948 è un “evento cardine nella storia palestinese” ed “è ancora oggi il centro di una disputa non solo storiografica, ma anche politica, istituzionale, culturale e filosofica, che si traduce concretamente in una battaglia simbolica tra pratiche e atti di recupero e reviviscenza di esperienze e di vissuti da una parte e politiche di negazione e di oblio dall’altra”.
Per Sibilio, la letteratura ha il ruolo “di preservare la memoria culturale dei palestinesi e di riabilitare la loro narrazione storiografica sulla scena internazionale. Frammenti di storie sommerse e non riconosciute sono disponibili e riportate in vita dalla letteratura, sia in forma di finzione che di testimonianze reali, divenendo parte di una ‘contro-memoria’ palestinese di quell’evento”.
E se “parlare di Nakba vuol dire sempre più parlare della sofferenza quotidiana di uomini e donne privati dei più basilari diritti umani”, la letteratura palestinese più recente “prende parte al consolidamento della memoria collettiva degli eventi del ’48 per ‘reintrodurre’ i palestinesi nella storia”. (Ansa, 14 maggio 2014).
May 12, 2014
Siria, Aleppo senza acqua potabile
[image error](di Lorenzo Trombetta, Ansa). Aleppo è senza acqua potabile da oltre una settimana: l’antica metropoli siriana del nord, da quasi due anni divisa in quartieri controllati dal regime e altri in mano a miliziani sempre più radicali, rischia di essere presto il teatro di una catastrofe umanitaria a causa dell’interruzione dell’erogazione dell’acqua corrente a milioni di civili, già esposti a quotidiani bombardamenti aerei e di artiglieria e spesso privati per giorni dell’elettricità.
L’appello giunge disperato da un folto gruppo di attivisti della società civile aleppina, che chiede alle parti in guerra e alla comunità internazionale di intervenire quanto prima per salvare la popolazione locale dalla sete da epidemie di malattie dovute alla mancanza di igiene.
Otto giorni fa, miliziani qaedisti della Jabhat an Nusra, che dicono di combattere il regime del presidente Assad e che controllano assieme ad altri insorti radicali alcuni quartieri orientali della città, hanno chiuso le condotte della stazione di pompaggio d’acqua nel quartiere periferico di Suleiman al Halabi, che di fatto assicura il rifornimento idrico dal fiume Eufrate all’intera provincia.
“Il loro intento era quello di non far arrivare l’acqua ai quartieri occidentali, controllati dalle forze lealiste”, afferma Alaa as Sayyed, rispettato avvocato aleppino, capofila dell’iniziativa della società civile locale.
“La chiusura parziale – ha aggiunto Sayyed – ha danneggiato l’intera rete di distribuzione, lasciando a secco gran parte della città”.
I miliziani hanno inoltre impedito agli impiegati della società idrica locale di accedere alla centrale. “Senza gli esperti la rete idrica rischia di esser danneggiata in modo grave e di causare una catastrofe umanitaria”, afferma dal canto suo l’organizzazione Madani (Civile), che ad Aleppo e in altre regioni della Siria ha l’obiettivo di “sostenere la società civile verso una transizione democratica”.
Dopo esser stata per circa un anno fuori dal circolo della violenza scaturita con la repressione governativa delle proteste del 2011, nell’estate del 2012 Aleppo è stata travolta dalla guerra con l’arrivo dalle campagne di brigate di ribelli che hanno gradualmente preso il controllo della parte orientale della città.
Mentre il regime non cessa di bombardare con barili esplosivi e con missili balistici i quartieri residenziali di Aleppo solidali con la rivolta, l’opposizione armata in città si è sempre più radicalizzata in senso islamico fino a essere guidata ora dai qaedisti locali e da altri gruppi estremisti.
Testimonianze da Aleppo parlano di lunghe code di civili ai pozzi e alle fontane per raccogliere acqua pulita. “Ci sono già sintomi di malattie causate dall’assenza di acqua o dal contatto con acqua inquinata”, si legge nel comunicato diffuso da Madani.
“Con l’arrivo dell’estate il rischio è di un’epidemia di malattie cutanee”, anche a causa della scarsità di medici e di cliniche attrezzate, in particolari nella zona orientale di Aleppo. (Ansa, 12 maggio).
May 11, 2014
Homs. La celebrazione della pulizia confessionale
(di Lorenzo Trombetta, ANSA). Una bambina con un peluche rosso in mano di fronte alle rovine della “sua casa” a Homs distrutta, e due preti ortodossi in una chiesa danneggiata “dai terroristi” sono le immagini di maggior effetto fornite dai media ufficiali di Damasco per sottolineare “la gioia di centinaia” di abitanti di quel che rimane della terza città siriana nel giorno del loro “ritorno a casa”.
Un tempo primo polo industriale nel centro del Paese, Homs è stata sin dal 2011 la roccaforte della protesta popolare anti-regime, repressa nel sangue e in seguito trasformatasi in rivolta armata, alimentata dall’ingresso nel Paese di jihadisti sunniti stranieri e sedata in parte in questa regione dall’intervento decisivo dai jihadisti sciiti libanesi filo-iraniani.
L’assedio durato più di due anni portato dalle forze lealiste al centro storico della città e durante il quale sono morte – anche per fame e sete – oltre duemila persone, si è di fatto concluso solo ieri, dopo che gli ultimi irriducibili miliziani si sono ritirati fuori la città in base a un accordo che ha previsto, tra l’altro, la liberazione di 45 tra civili e militari siriani e un iraniano.
L’agenzia Sana e la tv di Stato hanno dato ampio spazio alla notizia del “ritorno a casa”, mostrando cortei di “abitanti di Homs”, tra cui intere famiglie che con macchine fotografiche alla mano e giocattoli sotto braccio “ispezionano le loro case distrutte” nel solo quartiere di Hamidiya. “Homs si scrolla la polvere del terrorismo e torna sicura nel grembo della patria”, titola l’agenzia Sana.
“La volontà della vita è più forte”, ripete il conduttore del telegiornale di Stato. Si esalta “la gioia per la vittoria” in una città per decenni abitata da una borghesia sunnita e cristiana, ma la cui presenza è stata – forse per sempre – cancellata dalla guerra e dalla pulizia confessionale a danno dei sunniti operata in modo sistematico in una regione chiave: cerniera tra Damasco e la zona costiera dominata dai clan alawiti – branca dello sciismo – a cui appartengono i clan al potere.
I resoconti ufficiali odierni sembrano indirizzati all’opinione pubblica occidentale, interessata alla sorte dei cristiani. E sono impregnati di confessionalismo, nonostante il regime si presenti da decenni come “laico”. I reportage della tv di Stato e della Sana esaltano “il ritorno dei cristiani”, mostrano la chiesa danneggiata di Santa Signora della Croce”, intervistano la cristiana Juliette Rahhal, il rappresentante del vescovato siriaco-ortodosso di Homs Padre Butros Qassis e il prete Zahri Khazul.
Si dà la parola al sunnismo ufficiale interpellando lo shaykh Issam al Masri e la sunnita Ghada al Akhrass (della stessa famiglia della first lady Asma), ma si ignora del tutto la distruzione della Moschea Khaled ben Walid, icona di Homs e pesantemente danneggiata dai bombardamenti del regime e dall’artiglieria di Hezbollah.
I media ufficiali non confermano né smentiscono le notizie del ritrovamento di fosse comuni a Homs, anche se nelle settimane e nei mesi scorsi più volte gli attivisti della città avevano denunciato simili scoperte. Il governatore Talal Barazi ammette che il quartiere periferico di al Waar, dove molti miliziani si sono rifugiati assieme a profughi della città, non è ancora bonificato.
Le sue parole sono raccolte mentre visita il convento dei gesuiti, proprio dove è sepolto il corpo di Franz Van Der Lugt, l’anziano prete olandese ucciso lì nelle settimane scorse in circostanze mai chiarite.
Il gesuita era rimasto sotto assedio assieme ai musulmani e cristiani di Homs e aveva denunciato l’indifferenza della comunità internazionale. Se non fosse stato messo a tacere per sempre, il suo racconto su Homs avrebbe arricchito la versione ufficiale fornita da Damasco. (ANSA).
May 9, 2014
A Homs la cucina della “resistenza”
“Il piatto di cui vi parleremo oggi è a base di foglie di gelso. Potete friggerle oppure lasciarle cuocere per mezz’ora nella pentola a pressione…”
Potrebbe sembrare l’inizio di una rubrica di ricette come tante, se non si trattasse di uno dei numerosi consigli per sopravvivere a Homs, la città della Siria centrale che per due anni è stata sotto l’assedio delle forze governative prima di capitolare qualche giorno fa. Sebbene la città non sia più sotto assedio al momento, non è detto che la gente ora riuscirà a trovare di che mangiare.
Tutti gli espedienti per resistere alla fame e alla mancanza di cibo e le ricette “alternative” che gli abitanti di Homs si sono inventati in questi anni – analoghi alle tante altre trovate culinarie inventate nel tempo dagli abitanti di altri assedi analoghi, a Muaddamiya, a Daraya, a Yarmuk, ad esempio – sono stati raccolti su una pagina Facebook, intitolata “I pasti dell’assedio” (Aklat al hisar).
Abu Omar, l’amministratore della pagina, racconta: “Quando la carne e i prodotti caseari sono spariti completamente, abbiamo incominciato a mangiare solo verdure. Poi anche le lenticchie e i piselli sono scomparsi, e così con alcuni amici ho incominciato a piantare quello che ci serviva. C’è stato un tempo in cui riuscivamo a comprare ancora riso e burghol al mercato, anche se erano molto cari…. Ma negli ultimi mesi anche il riso è scomparso e praticamente non è rimasto niente da comprare al mercato nero…”.
Così gli abitanti di Homs raccontano su Facebook di come si sono adattati a mangiare qualunque cosa riescano a trovare: erbe selvatiche, carne di tartaruga, foglie di alberi e persino insetti. Di come hanno imparato a fare la farina dai semi di coriandolo, dai chicchi di melagrana o con il timo essiccato per poter preparare il pane e persino quella che hanno ribattezzato come la “manqushe della tenacia” (foto), una variante della tipica pizzetta levantina, fatta con le scarse risorse disponibili. Così come hanno incominciato a ricavare lo zucchero per il loro tè dalla pasta venduta per la ceretta naturale.
I piatti cucinati vengono fotografati durante le varie fasi della preparazione e le foto poi condivise su Facebook, con i commenti e i consigli dello “chef” e degli oltre 10 mila fan della pagina.
E nonostante la fame, i siriani dimostrano sempre di riuscire a ridere anche nella tragedia. Accanto alle ricette, sulla pagina Facebook non mancano i commenti ironici. Uno fra tanti: “Eh, ci rimane ancora il Nescafé… Non guardatemi male… È vero che ci manca il riso, il burghol… ma possiamo fare a meno di tutto, tranne del Nescafé”.
May 8, 2014
Siria, la società civile alza la testa
(di Lorenzo Trombetta, Ansa). Un lavoro e un futuro dignitoso potrà convincere i miliziani siriani, impegnati nello scontro fratricida che ha finora causato più di 150mila morti, ad abbandonare le armi e a dedicarsi al lavoro civile: è solo uno degli ambiziosi obiettivi della più ampia piattaforma di organizzazioni della società siriana, nata a Beirut dopo tre giorni di riunioni tra decine di dissidenti e attivisti, in larga parte laici, provenienti dalla Siria e dall’esilio.
E’ la prima volta dopo decenni che varie componenti della società civile siriana si uniscono in maniera trasversale, lasciando da parte le loro posizioni politiche e prendendo le distanze dalle fazioni che dentro e fuori lottano per il potere a Damasco. “Per convincere i miliziani a gettar via il fucile bisogna prima di tutto offrire loro delle alternative concrete: un lavoro, una prospettiva per il domani”, afferma all’ANSA Rim Turkmani, siriana, co-ideatrice dell’incontro svoltosi a Beirut e ricercatrice alla London School of Economics.
“La maggior parte di quelli che oggi combattono lo fanno perché si sono trovati senza alternative” in un contesto di violenza generalizzata e prolungata.
Con questo spirito, nei giorni scorsi a Beirut è nata “Tamass” (in arabo: contatto), una piattaforma di oltre 50 organizzazioni siriane in patria e in esilio che condividono la priorità di tornare al “lavoro civile”: per “far sentire dentro e fuori la Siria la voce e le esigenze della società”, per “ricordare che in Siria non esistono solo miliziani” e per “coordinare meglio gli sforzi delle diverse sigle” dell’emergente società civile locale. Circa la metà dei partecipanti dell’incontro di Tamass erano donne.
In un contesto in cui “la violenza taglia la società trasversalmente”, i fondatori di Tamass vogliono presentarsi come equidistanti e rappresentativi di un attore non politico. “La soluzione immediata e definitiva al conflitto non esiste”, afferma Turkmani. “Ma possiamo dare alle varie componenti della società siriana gli strumenti per elaborare soluzioni dall’interno”.
E anche dal basso: “non esiste un unico mediatore – afferma in riferimento al fallimentare negoziato Onu – ma esistono più voci. Bisogna saperle ascoltare”. In questo senso, a esempio, lo sforzo di alcuni attivisti di Raqqa confluiti in Tamass, è quello di “studiare a fondo le ragioni che hanno spinto molti giovani” della città settentrionale ora dominata dai qaedisti “a unirsi alle formazioni jihadiste”.
“Molti di questi ragazzi come me – afferma Ibrahim Musallem – si erano convinti ad abbandonare le armi e a unirsi al lavoro civile che dava loro prospettive migliori della guerra. Poi sono arrivati i qaedisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) e non c’è stato più spazio per altro”.
Su questo punto si inseriscono alcune voci critiche ma comunque sostenitrici del lavoro di Tamass: “Io aderisco, anche se credo che fin quando saranno le armi a parlare sarà difficile applicare questa visione”, afferma Bassam Awil, ex docente di psicologia all’università di Damasco ma nel 1996 costretto all’esilio in Polonia per le sue posizioni politiche. (ANSA, 6 maggio 2014).
Dell’Utri. L’avvocato libanese,”deve essere rilasciato”
(di Alberto Zanconato, Ansa). Marcello Dell’Utri, detenuto dal 12 aprile a Beirut, deve essere rilasciato perché le autorità italiane “hanno violato il trattato bilaterale sull’estradizione” e “non avevano alcun diritto di chiederne l’arresto”.
E’ questa, secondo quanto ha anticipato oggi all’ANSA, l’istanza che l’avvocato libanese dell’ex senatore di Forza Italia, Akram Azoury (foto), presenterà domani al procuratore generale presso la Cassazione di Beirut.
La legge libanese non stabilisce una scadenza entro la quale il procuratore dovrà prendere una decisione. Non e’ quindi escluso che Dell’Utri, ricoverato dal 16 aprile nel reparto detenuti dell’ospedale Al Hayat, possa essere ancora agli arresti quando, il 9 maggio, la Corte di Cassazione a Roma dovrà prendere in esame la sentenza della Corte d’Appello di Palermo che lo ha condannato a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ma l’avvocato Azoury afferma che, anche nel caso in cui la sentenza venisse confermata, Dell’Utri deve tornare comunque in libertà. Secondo il legale, con la richiesta di arresto che le autorità libanesi erano obbligate ad eseguire in attesa di ricevere gli atti relativi alla richiesta di estradizione, l’Italia “ha violato l’articolo 20, punto C del trattato, secondo il quale l’estradizione non può essere concessa per reati prescritti in uno dei due Stati”.
“Poiché i giudici di Palermo hanno dichiarato il mio cliente innocente in merito ai reati che gli venivano contestati dopo il 1992 – ha aggiunto Azoury – quelli per cui e’ stato condannato risalgono ad almeno 23 anni fa. Ben più dei dieci dopo i quali in Libano e’ prevista la prescrizione, per qualsiasi reato”.
Azoury e’ un avvocato di primo piano in Libano. In passato ha difeso tra l’altro l’ex capo della sicurezza nazionale Jamil Sayyed dall’accusa di aver partecipato all’uccisione dell’ex primo ministro Rafiq Hariri e dopo la rivoluzione in Tunisia nel 2011 e’ diventato legale del deposto presidente Ben Ali.
Ora, oltre a chiedere la liberazione di Dell’Utri, annuncia anche che si batterà perche’ l’Italia “ritiri immediatamente la richiesta di estradizione”. “Chiederò ai miei colleghi italiani di fare una domanda in tal senso al ministero della Giustizia”, ha affermato Azoury, il giorno dopo che il Guardasagilli Andrea Orlando ha annunciato l’invio a Beirut della richiesta ufficiale, accompagnata dagli atti processuali tradotti in francese.
Richiesto di un commento, l’avvocato Massimo Krogh, uno dei legali italiani di Dell’Utri, non si e’ sbilanciato: “Al momento – ha detto – attendiamo l’udienza della Cassazione di venerdì. Nel frattempo le procedure faranno il loro corso”. Il materiale doveva arrivare entro 30 giorni dall’arresto, avvenuto nell’hotel Phoenicia di Beirut dove l’ex senatore aveva preso alloggio. Altrimenti il rilascio sarebbe scattato automaticamente.
Ma con l’istanza che presenterà domani Azoury vuole riaprire la partita. “Quando ha ricevuto la richiesta di arresto dall’Italia – afferma – il procuratore generale libanese doveva approvarla, non conoscendo nulla del caso. Erano gli italiani che avrebbero dovuto verificare in anticipo se vi erano gli estremi per la prescrizione, e non lo hanno fatto”. (ANSA, 6 maggio 2014).
“Crocifissioni di cristiani”, la nuova bufala
Non erano cristiani ma musulmani. Non erano stati uccisi per mezzo di crocifissione ma i loro corpi già senza vita erano stati esposti in quel modo barbaro. Il crimine è orrendo, al di là dell’appartenenza confessionale delle vittime. Eppure la “notizia” di “cristiani crocifissi in Siria” ha fatto il giro dei media occidentali, in particolare dei principali mezzi d’informazione italiani.
I due maggiori quotidiani italiani Corriere Della Sera (sopra) e Repubblica (in basso) hanno dedicato ampio spazio, richiamando le “notizie” in prima pagina con tanto di fotografie “di un crocifisso a Maalula”, la cittadina cristiana nei pressi di Damasco.
A spingere i direttori e i capi redattori verso una simile scelta editoriale è stata senza dubbio l’esternazione di Papa Francesco: “Ho pianto quando ho visto la notizia“.
Si sa, le affermazioni del Papa fanno sempre notizia. E un cristiano crocifisso in un Paese infestato da al Qaida è un piattino troppo ghiotto per non infilarci mani, faccia e piedi.
La bufala non è apparsa solo sulle piattaforme web pro-Asad seguite dai soliti islamofobi, “anti-imperialisti” a senso unico e reazionari “di sinistra”, ma sui giornali più venduti in Italia. E diffusa da numerose altre testate radio, televisive, online.
Chi crede ai complotti potrebbe addirittura pensare a una campagna di stampa pro-Asad per legittimare la sua elezione farsa del prossimo 3 giugno. Non sarà così. Ma allora perché? Solo ignoranza nella buona fede, dunque? Soltanto cattivo giornalismo, incapace di verificare le informazioni e le fonti?
I fatti: tra le sette persone uccise a Raqqa non vi erano cristiani, erano tutti musulmani e addirittura due dei crocifissi sembra fossero sostenitori o combattenti appartenenti ad altre fazioni ribelli, la loro accusa è quella di avere lanciato degli ordigni esplosivi e aver tentato di uccidere alcuni leader della formazione qaedista dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis).
A Raqqa, una città sull’Eufrate controllata dall’Isis, è in atto un’opera di resistenza da parte della società civile che tenta di opporsi all’imposizione di quella che i qaedisti dicono sia la legge islamica. Lo stesso Isis, accusato da più parti di essere altamente infiltrato da servizi di sicurezza stranieri e del regime di Damasco, è impegnato dall’inizio dell’anno in quotidiani scontri con gli altri gruppi ribelli riuniti sotto diverse sigle (Esercito siriano libero, Fronte Islamico, Jabhat al Nusra, ecc…), definiti takfiri e empi.
Non importa. Qualsiasi “notizia” che può presentarci il presidente Bashar al Asad come il salvatore della patria (O lui o al Qaida) va bene ed è autentica. In questo senso, un sito cattolico ha definito gli uccisori di Raqqa dei “miliziani anti Asad”, attribuendo ad altri l’opera di disinformazione: “Invano cercherete sui giornali italiani articoli sulla terribile vicenda: qualche breve cenno in qualche articolo, nulla più. È che in questa guerra ragioni di propaganda impediscono di dare conto dei crimini dei ribelli anti-Asad, mentre vengono enfatizzati, se non inventati, quelli di Asad…”.
Lo stesso sito citando un’altra fonte arriva perfino a dare il nome di uno degli uccisi: il cristiano Antoine Hanna, un nome che ricorre spesso in questa storia.
Ma sui forum jihadisti dell’Isis e in vari tweet di combattenti dell’Isis è possibile leggere la risposta di queste persone al pianto del Papa per i cristiani crocifissi: “Caro Papa Francesco, le persone di Raqqa non sono state crocifisse perché cristiani ma per l’applicazione del Corano versetto 5:33″. La sura in questione recita: “In verità la ricompensa di coloro che combattono Iddio e il Suo Messaggero e si danno a corrompere la terra è che essi saranno massacrati, o crocifissi, o amputati delle mani e dei piedi dai lati opposti, o banditi dalla terra…”. Questo è stato fatto secondo la ferrea applicazione – secondo l’Isis – della sharia, la legge islamica.
Se l’applicazione della sharia da parte dell’Isis fosse veramente coerente con il testo coranico letterale, gli “infedeli” non dovrebbero essere colpiti in quanto tali, nel versetto 2:62 è infatti scritto: “Ma quelli che credono, siano essi ebrei, cristiani o sabei, quelli che credono cioè in Dio e nell’Ultimo Giorno e operano il bene, avranno la loro mercede presso il Signore, e nulla avran da temere né li coglierà tristezza”. Già nel mese di marzo, l’Isis aveva ucciso e poi legato un uomo ad una croce di legno, con l’accusa di aver derubato e poi ucciso un altro musulmano.
Tornando ad “Antoine Hanna”. La notizia è che “una persona è stata uccisa e poi legata ad una croce nel villaggio di Meskene”, nella campagna di Aleppo. Strano: diverse fonti cristiane di Aleppo interpellate in questi giorni ricordano che nella campagna della metropoli siriana del nord i cristiani non ci sono mai stati.
Non importa. I siti pro-Asad titolano: “Un siriano di nome Antoine Hanna nelle zone rurali della città di Aleppo, ucciso davanti agli occhi dei figli con l’accusa di blasfemia. Ha rifiutato di rinnegare la sua religione e lo hanno crocifisso”. Oppure: “Giovane cristiano di nome Antoine Hanna, crocifisso dai terroristi takfiri sponsorizzati dagli Stati Uniti e dall’occidente, nella località Maskana… accusato di essere empio”.
Questa volta la notizia non è ancora stata ripresa dai siti cattolici. Speriamo non lo facciano perché il presunto cristiano ucciso a Meskene ha – guarda caso – lo stesso nome e cognome del presunto cristiano ucciso a Raqqa. Evidentemente questa volta la macchina della disinformazione si è inceppata. Si veda il comunicato dell’Isis sul crimine commesso a Meskene.
La fotografia dell’uomo crocifisso a Meskene è comparsa per la prima volta in un tweet di Dylan @ProSyriana, apparentemente un cristiano siriano sostenitore del Presidente Asad, con la seguente dicitura: “uno dei tre uccisi e crocifissi a Meskene (Aleppo) dopo essere stati accusati di essere infedeli dai ribelli”.
Non vi sono riferimenti al fatto che l’uomo fosse cristiano, forse ha indotto in confusione i supporter italiani di Asad la parola “infedele”, che però viene utilizzata dall’Isis anche verso gli altri ribelli musulmani, considerati takfiri e infedeli.
Una fonte presente a Meskene appena contattata conferma l’uccisione avvenuta nella località di Aneza, ma nega che si tratti di un cristiano. Sostiene fosse originario di Akraba, vicino a Sfera; un profugo di Meskene lo avrebbe riconosciuto come una persona che stazionava ai posti di blocco di Khanaser, quindi sarebbe un soldato o una persona che lavorava per il regime. Sarebbe stato crocifisso da membri dell’Isis per spaventare i combattenti ribelli che stazionano nella zona di Meskene e per indurli ad abbandonare l’area.
La storia dei cristiani perseguitati nel Levante arabo in guerra è un antico cavallo di battaglia di chi vuole mantenere il proprio controllo – politico, economico ma anche culturale – affidando le chiavi del potere al regime di turno. Non è dunque cosa nuova.
È comunque degno di nota l’accanimento dei siti italiani pro-Asad su questo tema. Su queste piattaforme si diffondono false notizie e fotografie spacciandole per verità. Una delle più clamorose era una fotografia di un gruppo di donne velate e incatenate accanto a un uomo barbuto con la spada.
Secondo quanto propagandato si trattava di donne di Aleppo vendute come schiave dai salafiti nei mercati, i più precisi le definivano donne sciite vendute come schiave dopo essere state violentate. Peccato che la fotografia risalisse al 2007 e rappresentasse delle donne sciite immortalate in una rappresentazione della festività dell’Ashura nel villaggio di Nabatiyeh in Libano.
Nel settembre del 2013 l’agenzia cattolica di informazione Fides era stata costretta a smentire la notizia che riguardava l’uccisione di 130 cristiani ad Aleppo: “È del tutto falsa la notizia di un massacro di 130 cristiani ad Aleppo, che sarebbe stato compiuto da gruppi dell’opposizione siriana, come riportato nei giorni scorsi da massmedia libanesi e alcuni siti web”.
Un sacerdote interpellato da Fides notava: Tali notizie servono a diffondere terrore, soprattutto hanno l’obiettivo di innescare una guerra settaria. Vorrebbero anche indurre i cristiani ad armarsi, facendo sì che il conflitto assuma un volto sempre più confessionale e una piega pericolosa, vicina a quella della guerra del Libano. Inoltre sembrano preparare il terreno a una parcellizzazione dello stesso territorio siriano su base settaria. Questo va contro la storia, la cultura e il reale volto della società siriana, da sempre caratterizzata da pluralismo e multiformità, nella convivenza”.
Nella rete di propaganda è finita anche “una donna lapidata dai fondamentalisti a Raqqa”. Della vittima si conosceva solo il cognome: al Jasim. Tuttavia la fotografia era un’immagine tratta dal film “The stoning of Soraya” in cui l’attrice iraniana Mozhan Marno viene lapidata.
Più di recente e all’indomani dell’attacco al villaggio armeno (quindi cristiano) di Kasab a nord-est di Latakia da parte di miliziani fondamentalisti, è stata diffusa in rete una fotografia di “Un bambino cristiano ucciso dai ribelli a Kasab”.
L’immagine mostrava un bambino di qualche mese con una cuffietta di lana circondato da uomini che puntano verso di lui dei vecchi fucili. Si tratta di una vecchia fotografia che non riguarda la Siria, ma lo Yemen. Su alcuni siti la didascalia della fotografia era la seguente: “Questo bambino è stato catturato dai terroristi perché è un bambino di un’altra religione, quindi un bambino infedele, ma soprattutto è un bambino di una famiglia pro governo siriano”. Come per miracolo questa foto è passata dai siti pro-Asad a un sito di informazione cattolico ed è stata usata come esempio del danno causato dai “fondamentalisti sostenuti dall’Occidente contro la Siria e i siriani”.
Da più di un anno, attivisti siriani a favore della rivoluzione ma contrari all’Isis, denunciano le sue violazioni nei confronti della popolazione tra il silenzio quasi generale dei media, dei siti pro-Asad e dei siti cattolici attenti alla notizia riguardante il cristiano o la notizia brutale, come se i continui bombardamenti degli aerei del regime sulla popolazione civile non fossero sufficientemente cruenti.
Ora l’Isis che è combattuto dagli altri ribelli, diventa il paradigma per rappresentare la rivoluzione, quindi garante della sicurezza e dei cristiani può essere solo il regime. Ma come diceva il sacerdote intervistato dall’Agenzia Fides “Tali notizie servono a diffondere terrore, soprattutto hanno l’obiettivo di innescare una guerra settaria”.
May 5, 2014
Siria, il pareggio che va bene ad Asad e ai suoi alleati
(di Lorenzo Trombetta, Europa) Si guarda il dito e non la luna quando si discute se scendere a compromessi o meno con il presidente siriano Bashar al Assad, come di recente suggerito dall’ex premier britannico Tony Blair, per questo esplicitamente criticato dal Financial Times in un editoriale in cui si afferma che il rais siriano deve esser invece condotto alla sbarra del Tribunale penale internazionale.
Con l’accordo russo-americano – stipulato con la benedizione dell’Onu nel settembre scorso sullo “smaltimento dell’arsenale chimico” dichiarato da Damasco – il consesso delle potenze occidentali è di fatto già sceso a compromessi con la Siria degli Assad, tenuta in piedi da una solida e coerente impalcatura innalzata dall’Iran e dalla Russia.
Sul terreno, i due alleati storici di Damasco stanno consolidando il controllo della cintura che dalla capitale risale verso Homs e si infila a ovest lungo la costa mediterranea. Solo nominalmente questa è la Siria di Assad, in realtà è la Siria russo-iraniana.
Ma la presenza di Assad e del suo regime è indispensabile per Mosca e Teheran: da una parte serve per mostrare l’esistenza di una formale legittimità politica (le elezioni presidenziali del 3 giugno servono a rafforzare quest’apparenza di normalità istituzionale); dall’altra è una carta negoziale da barattare in un futuro vero negoziato con le rivali potenze regionali e internazionali: “Noi vi diamo Assad, voi cosa ci date?”.
E se i confini della Siria moderna disegnati un secolo fa da francesi e britannici non saranno messi in discussione, perché tutti gli attori regionali e internazionali sono d’accordo nel non alterare lo status quo, gli altri territori siriani stanno entrando sotto influenze diverse: la regione meridionale di Daraa, in gran parte controllata dal variegato fronte di insorti, è al centro di un disegno americano-giordano-israeliano per la creazione di una fascia di sicurezza che protegga lo Stato ebraico e il regno hascemita dalla presenza di miliziani con agende troppo anti-sioniste e anti-Usa.
In questo disegno si inseriscono le notizie dell’addestramento in Giordania di “ribelli moderati” e del loro rifornimento di “armi sofisticate” da parte degli Stati Uniti. Eppure il fronte sud – che dista appena 60 km da Damasco – da mesi non avanza: la priorità a breve termine di Washington non sembra quella di far cadere Assad con una cavalcata da Daraa, ma assicurare la protezione dei suoi due alleati mediorientali.
A nord-est, la zona a maggioranza curda tenta con fatica di ritagliarsi lo spazio per un’autogestione all’ombra dell’ingombrante tutela dei “fratelli” dell’Iraq settentrionale. Ma la presenza dei qaedisti a sud, dei turchi a nord e di sacche di militari di Assad all’interno della stessa regione rimandano ogni reale progetto di autonomia curda.
Da est e fino al capoluogo settentrionale di Raqqa (dove pare sia rinchiuso da nove mesi il gesuita italiano Paolo Dall’Oglio), i qaedisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) sono la forza dominante. E ormai da tempo lavorano come forza di contro-insurrezione a danni dei ribelli – tra cui qaedisti locali – e dell’emergente società civile.
Quasi tutto il corso siriano dell’Eufrate e una fascia frontaliera con la Turchia sono tinte del nero di un gruppo criminale che si dice legato ad al Qaeda, ma che è invece sempre più in rotta col suo leader Ayman al Zawahiri (che ieri, in un messaggio video, ha nuovamente chiesto all’Isis di lasciare la Siria e impegnarsi piuttosto in Iraq) e con gli altri qaedisti siriani della Jabhat al Nusra. Se l’Isis non è al Qaeda, chi manovra l’Isis? In Siria si è diffusa da tempo la percezione popolare che questi criminali servano di fatto gli interessi del regime.
In questo gioco interpretato da barbuti tagliagole non si può escludere la ripetizione dello scenario algerino, con servizi segreti di vari paesi operativi dietro le quinte per delegittimare una ribellione che avrebbe finito per danneggiare gli interessi delle potenze della regione. Oltre all’eventuale coinvolgimento russo (i qaedisti caucasici hanno un ruolo significativo nell’Isis), anche la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar potrebbero aver usato alcune frange dell’Isis per perseguire i propri progetti egemonici.
In questo quadro di spartizione della Siria in zone d’influenza, il compromesso è già in corso: le potenze occidentali e i loro alleati mediorentali ragionano a breve e medio periodo, anche perché sono incalzate da scadenze politiche interne; i vertici russi e iraniani lavorano invece con maggior continuità e coerenza senza dover tener troppo conto dell’elettorato e dei propri media. A loro per vincere basta l’attuale pareggio: l’avversario che si trovano ad affrontare riesce a malapena a superare la linea di centrocampo e Assad rimane tranquillo tra i pali di una porta dove non arriva nessun tiro insidioso. (Europa Quotidiano, 4 maggio 2014)
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