Lorenzo Trombetta's Blog, page 31
March 8, 2014
Fayez Sara, Hanno torturato a morte mio figlio
(di Fayez Sara, per al Nahar. Traduzione dall’arabo di Khouzama Reda). Per molti, sono solo numeri. Numeri crescenti di morti, feriti, torturati, detenuti, e sfollati. Le cifre rivelano orrori estremi. Orrori che non potevamo immaginare quando siamo scesi in piazza nel 2011 per chiedere la libertà in Siria.
La settimana scorsa quegli orrori hanno colpito la mia famiglia. Abbiamo ricevuto una lettera dal regime: mio figlio era morto. Wissam era un damasceno come tanti di 27 anni. È stato arrestato a un chekpoint del regime mentre andava a un appuntamento con alcuni amici. Non apparteneva a nessun gruppo politico o militare. La sua storia, però, è molto familiare ai siriani: è stato torturato a morte in una delle prigioni del regime.
Lette da un occidentale, queste parole sono difficili da capire. La macchina del regime è andata oltre ogni limite nel praticare arresti arbitrari, torture, ed esecuzioni. Il tutto con un unico scopo: costringere i siriani ad abbandonare la loro battaglia. Nei primi giorni della rivoluzione il regime ha diffuso video di torture per mettere in guardia i giovani attivisti su cosa li aspettava se avessero scelto di intraprendere quella strada.
Questo programma sistematico segue due prassi principali: la paura e il dolore. La paura della brutalità del regime, sia attraverso l’esperienza personale dell’arresto e delle torture, sia mediante campagne di bombardamenti con i barili esplosivi che colpiscono intere comunità. Il regime si serve poi del dolore per costringere la gente a lasciar perdere gli obiettivi della rivoluzione. È questo il modus operandi che è stato adottato a lungo dai regimi dittatoriali nel corso dei secoli.
L’uccisione di Wissam è la tragedia più grande che abbiamo mai vissuto. Non si può descrivere il dolore che si prova per la perdita di un figlio. Ma la mia tragedia è solo un piccolo frammento di una tragedia più grande: quella della Siria; e io sono uno delle decine di migliaia di genitori che hanno perso i loro figli e continueranno a perderli. Mentre a questo regime è consentito condurre una guerra feroce contro il popolo siriano solo perché ha osato rivendicare la propria libertà.
Da oltre quarant’anni scrivo della libertà in Siria. Sono stato due volte in carcere per due anni. I concetti di cui ho scritto hanno contribuito alla nascita della rivoluzione in Siria. Al pari di tanti altri, nei miei scritti ho detto alla gente che può essere libera. Poi ho portato questi principi nel mio lavoro con Ahmad Jarba, il presidente della Coalizione nazionale siriana delle forze dell’opposizione. La rivoluzione è ancora viva, ma il prezzo che stiamo pagando è maggiore di quanto avrei mai potuto immaginare.
Mentre a Ginevra ascoltavo con amarezza le menzogne propagandistiche del regime sul “terrorismo”, ho ricevuto la notizia della morte di Wissam per mano del terrorismo di stato praticato da quello stesso regime. Il mondo deve rendersi conto che il regime di Asad sta terrorizzando i siriani e sta infliggendo loro un dolore più grande di quello che possono sopportare persino i popoli più civilizzati.
La mia famiglia ha ingoiato questo calice amarissimo e migliaia di famiglie siriane saranno costrette a fare altrettanto se il mondo resta fermo a guardare Asad che continua a commettere impunemente crimini di guerra. (al Nahar, 26 febbraio 2014)
Damasco, c’era una volta il lunedì letterario
Esce sul Bulletin d’Études Orientales, rivista dell’Istituto francese del Vicino Oriente (Ifpo) di Beirut, la pubblicazione dei Lundis littéraires, una serie di incontri con alcuni tra i maggiori scrittori siriani che si sono svolti a Damasco dall’autunno del 2008 alla primavera del 2011. All’epoca la sede damascena dell’Ifpo era aperta e attiva e non era stata ancora trasferita a Beirut.
Dall’autunno del 2008, dall’iniziativa di un gruppo di ricercatori arabisti, nasce il progetto “Les lundis littéraires”, volto a creare dei momenti di incontro e scambio tra la figura dello scrittore, del critico e, soprattutto del pubblico.
Ogni lunedì uno scrittore era invitato a discutere una tematica legata alla sua personale esperienza della scrittura, nel quadro della macrotematica “Esperienza della scrittura, scrittura dell’esperienza”
. L’iniziativa ha coinvolto 24 scrittori e scrittrici siriani – tra i quali Zakariya Tamer, Samar Yazbek, Khaled Khalifa, Rosa Yasin Hasan – che hanno analizzato questioni di carattere socio-letterario al centro del dibattito letterario arabo.
Nel febbraio 2013 un’altra équipe di ricercatori arabisti riprende in mano le registrazioni audio e video degli incontri e decide di organizzarle tematicamente per renderle fruibili al pubblico. Questa pubblicazione elettronica multimediale è stata concepita per dare risalto all’esperienza e alle parole di questi scrittori e scrittrici, che portano testimonianza di una Siria culturalmente e intellettualmente vivace.
Sono state selezionate delle tematiche principali, spesso affrontate da più scrittori, come il posto dell’intellettuale arabo nel contesto internazionale, censura e autocensura, la scrittura del corpo, l’autobiografia, scrittura e impegno politico. Dalle registrazioni audio-video degli incontri, sono stati estrapolati i passaggi più significativi relativi a ciascuna tematica.
Spesso più voci di scrittori interagiscono, rappresentando punti di vista diversi. Lo studioso arabista – ma anche l’appassionato – può in questo modo accedere comodamente al materiale multimediale organizzato tematicamente visitando il sito della rivista a questo indirizzo.
Siria, l’economia di guerra che perpetua la guerra (audio)
La guerra in corso in Siria sta portando a un mutamento importante della composizione socio-economica della popolazione. La classe media e imprenditoriale ha abbandonato il Paese e ciò comporterà ulteriori difficoltà quando arriverà il momento della ricostruzione. Intanto si afferma un ceto imprenditoriale che trova il fondamento della propria ricchezza nell’ economia di guerra e nelle speculazioni annesse.
E’ in sintesi il pensiero di Jihad Yazigi, economista siriano e creatore del portale di notizie e approfondimenti sull’economia siriana, Syria Report. Secondo Yazigi, intervenuto a Beirut lo scorso 18 febbraio all’Istituto francese di studi sul Vicino Oriente (Ifpo), le forme del conflitto stanno contribuendo alla creazione di un’economia di guerra particolare, la cui tendenza appare essere quella della riproduzione della guerra stessa. ** ASCOLTA L’AUDIO INTEGRALE **
In generale, Yazigi ha tentato di rendere conto della situazione economica siriana al giorno d’oggi e delle fasi che essa ha attraversato durante gli ultimi tre anni, mettendo in particolare rilievo i legami economico-politici che legano i vari attori ai loro alleati, e situandoli storicamente.
Un’analisi compiuta della situazione attuale, secondo lo studioso, è difficile da fare: oltre al susseguirsi degli avvenimenti e al mutamento dei contesti, il problema fondamentale rimane quello della reperibilità dei dati e della fondatezza delle fonti. Ciononostante, egli ci propone un tentativo di lettura delle tendenze che, a suo avviso, si possono intravvedere.
I dati e gli esempi portati da Yazigi nel corso dei 50 minuti di intervento sono molteplici, e ci danno un’idea della complessità di ciò che accade sul terreno. Gli interessi dei vari attori in conflitto, sembrano spesso convergere, e forse solo apparentemente in modo contingente. ** ASCOLTA L’AUDIO INTEGRALE **
Da Daraya ai qaidisti, la fabbrica dell’estremismo
(di Iyad Sharbaji, al Hayat. Traduzione dall’arabo di Camilla Matarazzo). Nei primi anni Novanta, a qualche chilometro dal centro della capitale siriana, un gruppo di giovani ragazzi si riuniva nella moschea di Anas b. Malek, a Daraya, nella Ghuta damascena.
L’occasione venne durante i nuovi corsi di memorizzazione del Corano resi possibili dopo che le autorità, in seguito alla caduta dell’Unione Sovietica e alla prima diffusione della corrente islamista, avevano permesso la ripresa di alcune attività religiose.
Dopo alcuni anni di studio sotto la guida dello shaikh riformista Abdul Akram Sakka e del pensatore musulmano e teorico della non violenza Jawdat Said, il gruppo, conosciuto come “Gruppo dei giovani di Daraya”, oltrepassò i limiti impostigli dalle autorità, e addirittura dalla società, invitando al cambiamento democratico, senza però arrivare a uno scontro diretto con il governo.
A livello sociale, i membri del gruppo si scontrarono presto con l’intellighenzia religiosa e tradizionalista di Damasco e dintorni. Le ricerche condotte da alcuni studenti, che provavano l’esistenza di imprecisioni nelle più importanti raccolte di hadith dell’Islam sunnita, quelle di al Bukhari e Muslim, destarono le ire di alcuni shaikh tradizionalisti che li attaccarono pubblicamente.
A suscitare questa reazione furono anche altre coraggiose provocazioni, come l’introduzione di uno schermo televisivo nel cortile della moschea e la proiezione di film cult come “Gandhi”. Inoltre, il gruppo promuoveva concetti estranei all’ambiente religioso, come la democrazia pluralista e il diritto di cittadinanza per tutti a prescindere dall’appartenenza religiosa. Per non parlare della promiscuità tra uomini e donne sia negli incontri che si tenevano all’interno della moschea che durante l’attività al di fuori della stessa.
Per quanto riguarda i servizi segreti siriani, fu a partire dagli ultimi anni Novanta che questi cominciarono a infastidire i membri del gruppo convocandoli periodicamente per degli accertamenti. Tuttavia, in quella fase il regime politico siriano aveva bisogno di tranquillità, e ciò concorreva direttamente a vendere Bashar al Assad come futuro leader riformatore che credeva nelle libertà, nell’apertura e nella giustizia.
Nel 2000, dopo la salita al potere di Bashar al Assad e il discorso di giuramento in cui prometteva di cambiare il presente e il futuro della Siria nel senso di una maggiore apertura e modernità, il gruppo osò uscire pubblicamente allo scoperto. Per cominciare, inaugurò nel centro città la biblioteca “Subul as salam” (i sentieri della pace), che ospitava una grande raccolta di libri di critica contemporanea.
La biblioteca divenne ritrovo per i giovani che volevano discutere e dialogare in un modo che era sconosciuto alla società patriarcale e protezionista. Inoltre, alcuni appartenenti al gruppo, come Ziyade Radwan e Usama Nassar, parteciparono a diversi incontri politici tenutisi in seno a quel movimento di intellettuali e dissidenti noto come Primavera di Damasco (2000-01).
Dopo breve tempo, però, Bashar al Assad svelò la reale natura del suo regime. La Primavera di Damasco venne rovesciata, decine di persone furono arrestate e numerosi membri del gruppo, perseguitati, si videro costretti a cercare rifugio all’estero.
Ciò nonostante continuarono a portare avanti il loro impegno, seppure in maniera più circoscritta. Fu così che furono lanciate una serie di campagne volte a combattere la corruzione (che presumibilmente corrispondeva a un indirizzo procedente dalle autorità) e organizzate delle iniziative per ripulire le strade.
Armati di scope, scesero per le vie di Daraya e cominciarono a raccogliere in silenzio l’immondizia, attirando l’attenzione di centinaia di abitanti. Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Nel febbraio 2003, nello stesso giorno in cui cadde Baghdad, tutti i membri del gruppo, accusati di aver dato vita a un’organizzazione islamica segreta, vennero arrestati dai servizi segreti dell’aereonautica e rinchiusi in carcere per un periodo compreso fra i tre e i cinque anni. Di fatto, il gruppo aveva deciso fin dall’inizio di rivelare le identità dei suoi appartenenti e rendere pubbliche le proprie opinioni, evitando di agire segretamente. L’essenza del loro richiamo si basava sulla trasparenza di metodi e intenti, e puntava a raggiungere in maniera diretta la popolazione.
Allo scoppio della rivoluzione siriana nel 2011, il gruppo era pronto a cogliere al volo il movimento rivoluzionario civile, del quale era anzi uno dei promotori a livello nazionale. Tra i suoi leader c’erano ragazzi come Yahya Sharbaji, Usama Nassar, Amer Doko, Mutaz Murad, Muhammad Shehada, Muhammad Kraitem e molti altri che hanno fatto di Daraya un eccezionale modello di riferimento per il movimento civile, un movimento ben organizzato, propositivo e che si oppone al ricorso alle armi.
La maggior parte degli appartenenti al gruppo sono stati ripetutamente arrestati e alcuni di loro si trovano tutt’ora in carcere. Tra questi Muslim Kholani, Yahya e Maan Shurbaji, Islam Dabbas e Majd Kholani. Altri, come Muhammed Kraitem, Muhammed Shehada e Abdul Rahman Sharbaji sono stati eliminati in vari modi dal regime. Mentre altri ancora, come Amer Doko e Akram Kholani, si sono rifugiati all’estero. A guidare il Consiglio locale di Daraya, uno dei maggiori esempi dell’azione civile nella rivoluzione siriana, è rimasta una stretta minoranza.
Tutto questo è accaduto nel momento in cui le autorità siriane hanno scarcerato diversi feroci jiihadisti islamici, come Zahran Allush, capo del Jaysh al Islam (Esercito dell’Islam) locale, e centinaia di altri reduci del jihad iracheno.
L’equazione la conosciamo. E il risultato anche. La comparsa di tagliatori di teste come Daesh [lo Stato islamico dell'Iraq e del Levante, Isis, n.d.t.] e Nusra non sembra gratuita all’interno di questa visione d’insieme. Il resto è lasciato a intendere. (al Hayat, 6 febbraio 2014)
February 27, 2014
Il sorriso di Rim e Lilan
Da tre anni Rim non vede suo padre. Lilan ha invece perso il padre, morto in circostanze mai chiarite dopo lo scoppio della rivolta nel 2011. Sono compagne di scuola e vivono a Saraqeb, nella Siria nord-occidentale.
Il fotografo Ghazal Rihawi, autore di questi scatti, ha ripreso Rim e Lilan mentre giocavano con altri amici al Luna Park di Saraqeb. “Non c’era elettricità ma ci si divertiva ugualmente”, racconta Ghazal.
Le due ragazzine hanno chiesto insistentemente a Ghazal di essere fotografate: “Così nostro padre ci può vedere”, ha detto Rim.
Saraqeb, nella regione di Idlib, è liberata dalle forze del regime ed è controllata dagli insorti. L’amministrazione locale è gestita da un consiglio municipale e i servizi essenziali sono stati ripristinati. Ma continua a essere obiettivo dei raid aerei del regime.
“Appena mi hanno visto con la macchina fotografica sono scoppiate a ridere”, ricorda Ghazal. ”E ogni volta che scattavo una foto ridevano”.
February 17, 2014
Un saluto a Homs
(di Elias Khury, per al Quds al arabi. Traduzione dall’arabo di Giacomo Longhi). Cosa sarebbe, dunque, questo accordo con cui si è deciso di evacuare alcuni abitanti dal centro storico di Homs?
Le immagini che ci arrivano mostrano qualcosa di ben più grave di uno scandalo morale: viene concesso agli uomini che hanno più di cinquantacinque anni di lasciare la città, mentre la strage e lo sterminio continuano!
Le forniture alimentari hanno raggiunto la città assediata? Chi può dirlo. Il cessate il fuoco viene rispettato? Nessuno può garantire niente. E intanto l’evacuazione di vecchi, donne e bambini procede a singhiozzo.
Ma l’apice dello scandalo e dell’abiezione è stato raggiunto dai raggruppamenti “spontanei” di shabbiha, stanziati nei quartieri di Akrama e al Nuzha, che impedivano l’ingresso degli aiuti umanitari in città!
Questa storia è un campo minato. La vita, come se fosse un pallone, viene sbalzata da un piede all’altro mentre le persone sono ridotte a relitti.
Un simile accordo mi lascia senza parole. Sarebbe questo il risultato di Ginevra 2? Sarebbe questo il massimo sostegno offerto dal mondo intero ai siriani, i quali vivono nel silenzio la loro catastrofe?
Questa storia, cari miei, ha un solo nome: strage e sterminio di esseri umani. Da teatro di una guerra imposta dal regime per sopprimere la rivoluzione, la Siria è stata trasformata in un campo di sterminio di massa. La dittatura ha intrapreso un cammino che, dai massacri di manifestanti pacifici fino all’uso delle armi chimiche e dei barili esplosivi, si può chiamare in un solo modo: sterminio.
Il piccolo Asad è andato oltre il proposito di distruggere la Siria, minacciato fin dall’inizio della rivoluzione ed è passato a un vero e proprio piano di sterminio ed epurazione nel senso letterale del termine. Le scene che vediamo svolgersi a Homs o ad Aleppo non sono altro che la sua messa in atto.
“Sterminio” è l’altro nome della ferocia. Chi lo compie abbrutisce se stesso mentre abbrutisce le proprie vittime. Un campo di battaglia dove non vige nessuna regola né morale, dove qualsiasi valore è stato cancellato e dove uccidere è diventato al tempo stesso il mezzo e lo scopo.
Gli arabi non hanno mai vissuto niente di simile in tutta l’epoca moderna. Siamo di fronte a dei nuovi Mongoli sostenuti, questa volta, da un regime oppressivo modellato sull’esempio del totalitarismo nordcoreano: una trinità formata da famiglia, servizi segreti e mafia. La quale è stata capace di creare una dinastia che governa sulla base di un solo principio: la trasformazione degli individui in schiavi. E il regime schiavista, ora, si fonda sul loro totale annientamento. La vita delle persone, come la loro morte, non ha nessuna importanza. Devono gioire di non valere niente se non vogliono aggiungersi alla conta dei morti.
Un regime a capo di schiere completamente asservite, dove non esiste neppure, come nell’antica Roma, una classe di uomini liberi ai quali è permesso di sfruttare gli schiavi. Dalla cima al fondo della piramide tutti sono schiavi. All’interno del sistema qualunque discussione è bandita. Se si alza una sola voce, questa in fretta viene soffocata e fatta sparire. Questo regime non ammette che un solo signore, il quale appartiene alla famiglia che tutto governa e possiede.
La Palestina del Nord, ovvero la Siria, assomiglia solo alla Corea del Nord. Un popolo ridotto in schiavitù, costretto a ringraziare e glorificare senza sosta i propri signori. Se gli schiavi dovessero mai ribellarsi e alzare la voce, sarebbero destinati alla croce, al fuoco e allo sterminio.
Il clan degli Asad è stato capace di rendere carta straccia qualunque slogan politico e di trasformare la lingua in un discorso vuoto. Neppure il lessico della resistenza e del dissenso, importato dall’Iran dei mullah, ha potuto salvare gli Asad dall’idiozia della loro retorica. Eppure sono lo stesso riusciti ad annullare la fraseologia dei loro alleati islamici iraniani, integrandola in quel lessico confessionale e dottrinale che sarà sempre e solo uno strumento per abbrutire e annientare le società dei Bilad al Sham.
L’unico a porre l’accento sul fenomeno della “coreizzazione” era stato il regista siriano scomparso Omar Amiralay, nel film Inondazione nel paese del Baath. Ma le sue riflessioni sono passate in sordina, non hanno suscitato reazioni tra gli orientalisti occidentali. Questi esperti, oggi, contemplano compiaciuti lo scorrere del sangue siriano, gustando il silenzio che circonda la tragedia.
Finora non ho descritto se non il silenzio. Ma mi chiedo se il silenzio sia altrettanto possibile da descrivere senza silenzio.
Le siriane e i siriani non affrontano soltanto la morte, devono anche affrontare i muri di silenzio che li circondano.
Sono questi i “tradimenti della lingua”, come ha scritto il poeta Faraj Bayraqdar dall’inferno di Palmira. Tradimenti della lingua che minacciano di trasformarsi anche in tradimenti del silenzio.
La domanda è come poter rompere il silenzio imposto alle sofferenze delle siriane e dei siriani. Come possiamo ripristinare l’uso della parola, in un mondo non più interessato al valore dei diritti umani?
Non è esattamente così. Non è vero che l’Occidente non si interessa più ai diritti e alla dignità umana. Soltanto, non lo fa quando si tratta del nostro Paese, o a quanto pare non gliene importa. Tutto qui: siamo stati esclusi dalla sua sfera d’interesse. Ha rispolverato la vecchia ipotesi sulla nostra natura barbara. E tratta la nostra morte, oggi, come se fosse un evento puramente virtuale che fa giusto capolino sui social network, come se fosse un lungo film intriso di sadismo.
La verità è che siamo stati esclusi dalla famiglia delle nazioni e gettati ai margini insanguinati della storia. Siamo stati sacrificati a un gioco di forze internazionali, il quale non tiene in nessun conto il nostro destino, ma si preoccupa soltanto di rattoppare l’ormai debole impero americano e indennizzare quello russo, che, invece, non si riduce più a una presenza meramente simbolica?
La dittatura della Corea del Nord, subissata dalla fame e dalla miseria, si regge in piedi solo perché si trova sulla linea di confine tra l’influenza americana e cinese. Una linea che nessuno si permette di destabilizzare, altrimenti sarebbe guerra certa.
La Siria, invece, seguita nella tragedia della sua distruzione perché si trova all’incrocio tra due imperi inetti, che l’hanno trasformata in un laboratorio di morte.
La domanda non è rivolta a nessuno, se non a noi stessi. Noi stessi dobbiamo reinventare il linguaggio della cittadinanza e dei diritti prima che la nostra capacità di parlare si estingua del tutto e le nostre anime si dissolvano.
Per questo Homs sopravvive.
La città dalle pietre nere e dai cuori bianchi, la città che si è fatta beffa dei Mongoli e di Tamerlano fa sapere al mondo che resterà un simbolo finché noi non ritroveremo la capacità di creare simboli, resterà un emblema di dignità finché non riporteremo il linguaggio della nostra dignità fuori dal pantano della fame, della paura e della morte.
Un saluto a Homs.
February 14, 2014
Ribelli contro Asad e fondamentalismi
Un fronte di circa 30mila ribelli siriani, in contrasto con i fondamentalisti islamici e i qaedisti, si è unito nelle ultime ore nel sud del Paese in nome dei principi di “libertà”, “rispetto dei diritti di tutti i siriani” e “protezione delle minoranze” confessionali ed etniche, e contro “la dittatura” e “l’estremismo” religioso.
Quarantanove sigle dell’insurrezione armata delle regioni di Homs, Damasco, Daraa, Qunaytra e Suwayda hanno pubblicato nelle ultime ore il documento fondatore del “Fronte meridionale”, che “non ha un unico vertice” ma nel quale “i comandanti delle 49 brigate hanno autonomia d’azione nel quadro della condivisione di principi comuni”.
Nessuno può dire adesso se è una manovra di facciata destinata al fallimento ancor prima di vedere la luce, se si tratta di un donchisciottesco tentativo di qualche ingenuo ribelle siriano, oppure se è una decisione che avrà ripercussioni reali negli equilibri del conflitto in corso.
Nessuno al momento conosce il grado di indipendenza da agende straniere di questa piattaforma, che appare unitasi non tanto in termini di risorse e logistica quando in termini di principi. Ed è questo il punto che rende degno di nota il comunicato del “Fronte meridionale”: esso esprime dei valori nettamente contrari al qaidismo e all’asadismo e lo fa con un discorso politico trasversale, quasi di altri tempi.
“Noi siamo i combattenti del sud della Siria che si sono uniti per una Siria libera, indipendente e stabile”, si legge nel comunicato, pubblicato su Internet assieme alla lista completa dei gruppi ribelli che hanno aderito. “Noi siamo la voce della moderazione e lo scudo forte per il popolo siriano. Combattiamo per liberare la Siria dalla dittatura e dall’estremismo e per difendere il diritto del popolo siriano di scegliere un governo che lo rappresenti”.
Il testo prosegue: “ci rifiutiamo di rimanere in silenzio mentre il regime uccide i suoi figli. Noi siamo i contadini, gli insegnanti, gli operai che voi vedete ogni giorno. Molti di noi erano soldati che hanno disertato dal regime quando questo ha rivolto le sue armi contro i figli del suo Paese”, afferma il testo in riferimento alle diserzioni verificatesi dall’estate del 2011 durante la prima ondata di sanguinose repressioni delle proteste anti-regime.
“Noi rappresentiamo diverse classi sociali con l’obiettivo di far cadere il regime degli Assad e dare al Paese la possibilità di un futuro migliore”. In tal senso, il “Fronte meridionale lavora perché si arrivi a un governo che rappresenti il popolo e che rispetti le minoranze dopo la caduta di Assad” e che assicuri il “rispetto delle convinzioni e dei diritti degli altri, al di là dell’appartenenza religiosa ed etnica”.
February 13, 2014
Yarmuk, Il miracolo di Khaled
Il corpo innaturalmente gonfio, gli occhi scavati e tristi. Khaled a 14 mesi “è stato testimone di una sofferenza che la maggior parte di noi non sperimenterà probabilmente nell’arco di tutta la propria vita”. Riportiamo qui la sua storia, così come l’ha diffusa via e-mail il portavoce dell’Unrwa, Christopher Gunness, nella nostra traduzione.
Queste foto scioccanti dello stesso bambino “prima” e “dopo” riassumono in modo esemplare il miracolo della giovane vita del piccolo Khaled. Sono la prova che l’Onu può salvare vite se gli viene data la possibilità concreta di arrivare ai civili in Siria.
Khaled è nato proprio nel momento in cui il conflitto spietato in Siria ha inghiottito il suo quartiere, il campo di Yarmuk dei rifugiati palestinesi di Damasco. Ha vissuto sotto assedio sin dalla nascita, un figlio della guerra, intrappolato con i suoi genitori e quattro fratelli. Nei suoi quattordici mesi di vita è stato testimone di una sofferenza che la maggior parte di noi non sperimenterà probabilmente nell’arco di tutta la propria vita.
Molto probabilmente Khaled sarebbe morto, se il dottor Ibrahim Mohammad dell’Unrwa non gli avesse somministrato cure per guarirlo da una grave forma di malnutrizione, nota come kwashiorkor, causata da un’assenza prolungata di proteine. “Quando ho visto Khaled per la prima volta sembrava avesse cinque mesi, non quattordici”, racconta il dottor Mohammad. “Stava per morire. Era sopravvissuto per due mesi ingerendo solo acqua e quasi niente di solido”.
“Abbiamo mangiato erba” – Quando le viene chiesto come si vive a Yarmuk, sua madre, Nur, 29 anni appare sconvolta. “L’inferno è meglio”, dice. “Bollivamo spezie nell’acqua che poi bevevamo. Abbiamo mangiato erba, finché non è finita anche quella”.
Quando ha partorito Khaled in casa, ha iniziato ad allattarlo, ma poi – a causa della sua scarsa alimentazione – dopo due mesi non aveva più latte. Il latte fresco fatto entrare di nascosto nel campo era troppo costoso, fino a 20$ al litro, e il latte in polvere non era disponibile.
“La morte era dovunque” – “Tutti davamo per scontato che saremmo morti presto, per la fame o per le bombe”, racconta Nur. “La morte era dovunque. Una vicina è morta di parto. Mentre partoriva, la levatrice è stata chiamata ad assistere un’altra donna. Quando è tornata, la mia vicina era morta dissanguata”.
“Esci o muori” – “Alla fine ho deciso di lasciare Yarmuk con i miei figli. Temevo saremmo morti tutti”. Ma Nur non aveva il permesso di lasciare il campo. È andata da un checkpoint all’altro con i suoi cinque bambini e alla fine i soldati hanno avuto pietà, dal momento che si sono resi conto che Khaled stava per morire.
“Unrwa può ancora salvare i bambini dalla fame” – “La squadra di medici dell’Unrwa può ancora salvare tante vite di bambini, se solo potessimo raggiungerli”, dice il dottor Mohammad. “Crediamo ci siano tanti neonati e bambini sul punto di morire all’interno del campo di Yarmuk. Abbiamo bisogno di poterci entrare e i nostri medici e infermieri hanno bisogno sia garantita la loro sicurezza”.
Nel frattempo, Khaled si è trasformato dopo solo qualche giorno di cibo e cure mediche. Il suo volto privo di vita adesso è sorridente e il suo corpo rigonfio appare in salute.
Ci sono ancora tanti Khaled. Mentre questi bambini vengono privati della loro dignità di esseri umani, l’umanità di ciascuno di noi risulta diminuita. Khaled incarna quello che potrebbe essere. Crediamo che in un ambiente che si prende cura di lui, potrà raggiungere il suo pieno potenziale umano, che è il nostro obiettivo per la futura generazione in Siria. Khaled è un simbolo vivente di speranza e del nostro impegno nei confronti dei civili in tutta la Siria. È la prova vivente che l’Onu può salvare vite, se gli è dato modo di entrare.
February 12, 2014
Linee intrecciate di sangue
(di Lorenzo Trombetta). Lungo intrecciate linee confessionali tra sunniti e alawiti, branca dello sciismo a cui appartengono i clan al potere da quasi mezzo secolo in Siria, sono stati commessi negli ultimi giorni nella regione centrale di Hama (si veda cartina più in basso) tre diversi massacri di civili, giustiziati sommariamente da miliziani fondamentalisti e da loro rivali lealisti.
Secondo i bilanci non verificabili in maniera indipendente forniti dal regime, dalle opposizioni armate e da altre piattaforme di monitoraggio delle violenze, nella regione di Hama tra sabato e domenica scorsa sono state uccise 116 persone, compresi uomini armati.
Il Centro di documentazione delle violazioni in Siria (Vdc) ha fornito la lista delle generalità di 35 persone uccise l’8 febbraio a Sawran, a nord di Hama. Le vittime sono tutti maschi ed erano residenti del villaggio a maggioranza sunnita. Undici vittime sono state uccise in “scontri tra ribelli e forze lealiste”, mentre 24 sono stati giustiziati sommariamente dalle stesse milizie filo-regime che hanno assaltato il villaggio.
All’indomani, secondo l’esercito del regime siriano (si veda il primo video qui sotto), 42 persone sono state massacrate da “terroristi” della formazione qaedista Jabhat an Nusra e da altre brigate di insorti fondamentalisti nel villaggio di Maan, a maggioranza alawita.
Maan si trova a nord di Hama e a circa sei km nord-est da Sawran. I video amatoriali pubblicati sul web mostrano miliziani che innalzano i vessilli di gruppi locali di fondamentalisti: Ahrar ash Sham, Jund al Aqsa e Liwa al Umma (si veda il secondo video qui sotto). Finora la Jabhat an Nusra, nei suoi profili sui social network, non ha rivendicato l’operazione.
Informato dalla delegazione del regime siriano impegnata nei colloqui internazionali di Ginevra, il segretario generale dell’Onu Ban ki-moon si è detto “scandalizzato” dalla notizia del massacro di Maan. Comitati di cittadini alawiti della regione di Masyaf, a est di Hama, hanno dal canto loro pubblicato su Facebook la lista “completa” delle vittime che risultano 21 e non 42.
Tra queste figurano otto donne e 11 membri di una stessa famiglia. Ieri, l’agenzia ufficiale Sana pubblicava la notizia dei funerali delle vittime del massacro di Maan, mostrando una foto di sole sei bare, e un’altra di un corteo funebre in cui apparivano ritratti di due “martiri” militari. Il bilancio di una ventina di uccisi a Maan era stato riferito anche dall’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) – piattaforma vicina alle opposizioni che dal 2007 monitora le violazioni commesse nel Paese.
Secondo il Vdc, sempre domenica 9 febbraio, le milizie filo-regime hanno ucciso sul posto, con colpi di arma da fuoco alla testa e tramite fucilazione, 16 persone ad al Jamala, località sunnita nei pressi di Hama, e a pochi km a ovest di Sawran. Dal canto suo, il governatore di Hama, Ghassan Khalaf, citato dalla Sana ha smentito l’uccisione di civili ad al Jamala e ha affermato che “la gente del villaggio continua a vivere tranquillamente”. Secondo la lista dettagliata del Vdc, le vittime di al Jamala sono tutte civili, tra cui sei donne, tre bambini di età compresa tra i due e i quattro anni, e un ragazzo di 15 anni. (Ansa, 12 febbraio 2014).
Lorenzo Trombetta's Blog
