Lorenzo Trombetta's Blog, page 22
August 25, 2014
La guerra di Obama all’Isis. Storia di una strategia
(di Lorenzo Biondi, Europa). È passato senza grande clamore il primo anniversario della strage di Ghouta, periferia di Damasco. Quella delle armi chimiche, che stava per innescare una reazione militare degli Stati Uniti. Chi la ricorda, oggi, lo fa per un motivo. Attaccare Barack Obama, le sue scelte dell’ultimo anno. Che avrebbero portato al dilagare dello Stato islamico in Siria e di là dal confine, in Iraq. L’adagio suona così: se l’America fosse intervenuta, le cose sarebbero andate diversamente. Assad sarebbe caduto, i ribelli “moderati” avrebbero avuto la meglio, l’ascesa dell’Isis sarebbe stata interrotta sul nascere. È un adagio suonato anche da interpreti autorevoli: da ultima Hillary Clinton, impegnata a tracciare un solco tra sé e Obama in vista della candidatura presidenziale.
Ci sono almeno due obiezioni possibili a questa tesi. Sulla prima obiezione si sta sviluppando un consenso molto diffuso tra gli esperti di cose mediorientali: anche se Obama avesse deciso di bombardare la Siria, l’intervento americano non sarebbe stato risolutivo. Al contrario – scriveva il 19 agosto Christopher Phillips di Chatham House, think-tank britannico non certo tenero nei confronti di Assad – «la Siria ricorda il genere di guerra civile che un intervento esterno può solo prolungare, piuttosto che risolvere». Pensare che le bombe americane contro Assad avrebbero imbrigliato l’Isis è illusorio.
Siamo nel campo delle ipotesi: cosa sarebbe successo se… La seconda obiezione è fattuale. Si contesta a Obama di non avere una strategia per il Medio Oriente. Di non aver previsto l’emergenza dello Stato islamico. Di essere saltato da un crisis management all’altro, costretto a ribaltare decisioni prese in passato. Non è così. Le vicende dell’ultimo anno sono costellate di sconfitte del presidente americano in Medio Oriente, impossibile negarlo. Ma la strategia di Obama – che piaccia e meno – esiste, eccome. È la strategia che ha guidato tutto il secondo mandato obamiano, quello con John Kerry alla guida della diplomazia americana. E nella sua forma attuale è maturata proprio un anno fa, dopo quel massacro in un sobborgo di Damasco.
Bisogna allora tornare a quel 21 agosto del 2013, ai mesi precedenti e alle settimane successive. Dal momento il cui John Kerry era entrato in carica come segretario di stato, all’inizio di febbraio, s’era messo al lavoro a un’ipotesi ambiziosa: una conferenza di pace sulla Siria, che riprendesse il lavoro fatto l’anno prima a Ginevra, ma portasse al tavolo tanto i ribelli quanto Bashar al Assad, i sauditi e l’Iran, sotto l’egida dell’America e della Russia. La chiamano Ginevra 2, la data d’inizio viene rinviata più volte, ma in estate pare che la convocazione sia ormai imminente.
L’attacco chimico scombina tutti i piani. Molte dita si puntano immediatamente contro il governo di Bashar al Assad. Per Obama è la «linea rossa», il punto di non ritorno verso un intervento. Il presidente sa di dover mantenere la parola data. Ma è riluttante. I vertici del Pentagono – il segretario alla difesa Chuck Hagel e il capo di stato maggiore Martin Dempsey – sono perplessi. Quale sarebbe l’obiettivo dell’attacco? Distruggere un arsenale chimico, senza soldati sul terreno, è una missione improba. I bombardamenti mirati sarebbero la prima mossa, ma dove si andrebbe a finire? L’amministrazione ha sempre escluso di voler mandare altri soldati a combattere in Medio Oriente. Si può pure lavorare a un’ipotesi massimale: rovesciare Assad. Ma cosa succede dopo la caduta del raìs?
Anche il presidente è perplesso. Un attacco stravolgerebbe la strategia del negoziato perseguita fino a quel punto da lui e da Kerry. Soprattutto, sarebbe una marcia indietro colossale rispetto a una delle bussole del secondo Obama: non ripetere gli errori del passato. Non ripetere l’errore di Bush in Iraq, ma neppure l’errore commesso nel 2012 in Libia: distruggere a suon di bombe l’infrastruttura istituzionale e militare di un paese, senza preoccuparsi del dopo. Lasciando il campo a gruppi terroristi organizzati (come in Iraq dopo il 2003, coi sadristi) o a bande di predoni come in Libia. Faticando a trovare un partner affidabile per il governo del paese (vedi alla voce Maliki).
Obama non è isolato. C’è mezzo G20 a chiedergli di pensarci bene prima di mandare alle ortiche Ginevra 2. C’è papa Francesco. C’è pure la Gran Bretagna, alleato storico, dove un voto del parlamento blocca la foga interventista di David Cameron. La svolta arriva il 9 settembre. Rispondendo a una domanda in conferenza stampa John Kerry ammette che, in linea puramente teorica, se Assad consegnasse le sue armi chimiche non ci sarebbe bisogno di bombardare.
La Russia di Vladimir Putin non si lascia perdere l’occasione per evitare che la furia americana si scateni sul suo alleato siriano. Preme su Assad, che accetta la proposta. Il 14 settembre si arriva all’accordo per la distruzione dell’intero arsenale chimico di Damasco. Il percorso verso Ginevra 2 può ripartire. Obama rientra nei binari della strategia decisa a inizia mandato.
Nel frattempo però è la situazione sul terreno, in Siria, che sta cambiando. Tra la primavera e l’estate del 2013 una milizia jihadista è emersa sulle altre. È lo Stato islamico dell’Iraq e del levante, originariamente branca irachena di al Qaeda, cresciuta dall’altra parte del confine e trapiantata in Siria grazie alla guerra civile. L’Isis ha strappato alle altre fazioni ribelli la città simbolo della rivolta, Raqqah, e sta spandendo il suo controllo su una vasta regione nota comeJazeera.
L’intelligence americana ha individuato la minaccia dell’Isis. Nel momento in cui si riavvia il percorso verso Ginevra 2, gli Stati Uniti pongono la questione ai ribelli con cui dialogano e ai loro alleati: Turchia e Arabia Saudita in primis. Qualunque soluzione per la Siria deve affrontare il pericolo rappresentato dall’Isis.
Torniamo alla strategia obamiana. Il presidente democratico ha un’idea chiara sulla politica globale, e mediorientale. La soluzione delle questioni interne di un paese spetta ai cittadini di quel paese – fatta salva la difesa degli interessi americani. Con una conseguenza rispetto al caso siriano: non si può sconfiggere l’Isis senza l’aiuto dei siriani. Ci vuole l’aiuto dei ribelli “moderati”, certo. Ma ci vuole anche l’esercito regolare di Damasco. Fedele al raìs. I ribelli moderati dovranno trovare un compromesso con Assad, almeno nel breve periodo. Ci vuole un governo di unità nazionale siriano, coi rappresentanti dei ribelli e quelli del blocco di potere legato al partito Baath. Per lavorare a una transizione politica al dopo-Assad. Ma anche per fronteggiare insieme lo Stato islamico.
Nei giorni scorsi la stampa internazionale scriveva che «le potenze mondiali vedono Assad come un baluardo contro l’Isis» (così Haaretz). Non è una novità, non dai tempi di Ginevra 2.
La strategia di Obama per Ginevra, però, è stata sconfitta. L’accordo tra ribelli e Assad non si realizza mai. I primi chiedono garanzie sull’allontanamento del presidente siriano, prima di qualsiasi passo avanti politico. I secondo vogliono rinviare la transizione politica a dopo la sconfitta dei «terroristi», o alle calende greche. Si tengono due giri di negoziati, senza esito. Il terzo round di trattative, previsto sulla carta, non ha ancora visto la luce.
Il percorso politico si ferma alla metà di febbraio del 2014. Nel frattempo la leadership internazionale di al Qaeda ha “scomunicato” Abu Bakr al Baghdadi, leader dell’Isis, che ormai agisce in modo del tutto indipendente. Lo Stato islamico sta consolidando le sue posizioni in Siria, soprattutto a scapito delle altre formazioni ribelli. All’inizio di giugno le bandiere nere lanciano la loro più grossa offensiva verso sud dall’inizio della guerra. L’esercito iracheno è messo in fuga, l’opinione pubblica globale scopre quello che di lì a poco si proclamerà nuovo Califfo.
La strategia di Obama, nel frattempo, non è cambiata. Si è adeguata al mutare della situazione, ma rimanendo fedele alla sua ispirazione originale. La destituzione di Assad, per il momento, non è in agenda. La ricerca di un partner locale per affrontare l’Isis non si è fermata: dopo i ribelli “moderati” siriani si guarda ai peshmerga curdi. L’obiettivo è evitare il collasso dello stato iracheno (e la secessione del Kurdistan), così come si voleva evitare il collasso dello stato siriano. Il tentativo di dialogare su due fronti – con gli alleati storici, sauditi e turchi, così come con l’ex nemico iraniano – è ancora vivo. La strategia di Barack Obama ha avuto una sua coerenza. Se avrà successo, è un’altra questione. (Europa Quotidiano, 23 agosto 2014)
August 23, 2014
“Minaccia Isis”? Asad-cassiere vuole ora riscuotere
(di Lorenzo Trombetta, Ansa) Di fronte a un Occidente sempre più allarmato dalla minaccia dello Stato islamico (Isis) che controlla ampie porzioni di Iraq e Siria, il regime di Damasco, solo un anno fa accusato di aver gassato centinaia di civili e autore di numerosi crimini documentati, si propone a Stati Uniti e alleati come il pompiere di un incendio che, secondo alcuni, ha contribuito ad alimentare.
Dopo aver per circa un anno lasciato i jihadisti, provenienti dall’Iraq, liberi di risalire lungo l’Eufrate fino a eleggere come capitale Raqqa nel nord della Siria, da fine maggio Damasco ha preso a compiere inediti raid aerei contro postazioni dello Stato islamico in quell’area. Da giorni, l’Isis tenta di impadronirsi della base aerea di Tabqa, l’ultima sacca di resistenza lealista nella regione.
In questo quadro e all’indomani delle prime timide aperture statunitensi sull’ipotesi di ampliare le operazioni aeree contro lo Stato islamico anche nelle sue roccaforti in Siria, il governo di Damasco apre adesso a un “coordinamento informale” tra i suoi servizi di intelligence e quelli dei Paesi occidentali. Nel nome della “guerra al terrorismo”.
Per questa intesa Damasco fissa però un prezzo: le potenze occidentali riaprano i contatti politici con il regime siriano, messo al bando, almeno ufficialmente, da Stati Uniti e Unione Europea sin dall’inizio della brutale repressione delle manifestazioni anti-governative del 2011. Una fonte siriana “di alto livello” citata oggi dal quotidiano libanese as Safir, da decenni vicino al potere di Damasco, parla della possibilità di uno scambio “informale” di elementi tra intelligence occidentali e siriane.
Di fatto, afferma la fonte, “l’esercito iracheno e quello siriano già si scambiano informazioni, in particolare per quanto avviene nelle operazioni aeree, e l’esercito iracheno riceve informazioni anche dagli Usa e dall’Iran”. Nei giorni scorsi, la stampa panaraba affermava che un corridoio informativo sotto-traccia tra Damasco e Washington già esiste, proprio grazie al fatto che i servizi di sicurezza di Teheran e di Mosca forniscono dati ai loro colleghi di Baghdad che, a loro volta, sono autorizzati a condividerli sia con i siriani sia con i consiglieri americani presenti nella capitale irachena.
Parlando a Damasco il 19 agosto, il vice ministro degli esteri siriano, Faysal al Miqdad, frenava su ogni eventuale ipotesi di scambio formale tra Siria e Stati Uniti: “il coordinamento internazionale per combattere l’Isis deve avvenire nel quadro degli accordi e delle risoluzioni internazionali”, aveva detto. La fonte citata oggi da Safir afferma invece che il regime siriano si dice disposto a collaborare, a patto di veder riaperti i canali politici con Europa e Usa.
Un messaggio, afferma sempre la fonte, recapitato più volte a Damasco dalle autorità siriane a appresentati delle intelligence tedesca, svedese, austriaca e bulgara, di recente tornati alla corte di Assad proprio in nome della comune “minaccia del terrorismo”. (Ansa).
Italiane rapite, la mappa dei poteri nell’area in cui sono scomparse
(di Lorenzo Trombetta per Pagina99). Tutti e nessuno controllano a pieno titolo la regione nel nord-ovest della Siria dove all’inizio di agosto sono state rapite le due italiane, Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, avvistate l’ultima volta ad Abimzu, località tra il confine turco e Aleppo.
Abimzu dista pochi chilometri da Atareb, il principale centro urbano della regione rurale che collega il valico frontaliero turco di Bab al Hawa con la martoriata metropoli siriana del nord. In questo fazzoletto di terra, dal 2012 non più controllato dalle forze governative, si contano diversi gruppi armati locali che affermano di combattere contro il regime siriano. Ma ci sono anche milizie che usano retorica “rivoluzionaria” per imporre la propria autorità spesso a scapito delle comunità locali.
Per un breve periodo, dal novembre 2013 al gennaio 2014, l’area di Atareb era stata sottomessa alle milizie jihadiste dello Stato islamico (Isis), che dal nord-est siriano all’ovest iracheno controllano ormai un territorio esteso quanto l’Ungheria. L’Isis conta decine di migliaia di uomini, ben addestrati, ben armati e inquadrati in una struttura poco permeabile a infiltrazioni e meno esposta di altre a diserzioni.
All’inizio di quest’anno lo Stato islamico è stato però espulso dai ribelli locali dalla regione di Atareb. Ed è stato costretto a ripiegare nella regione rurale a est di Aleppo, dove nessun altro gruppo armato sembra poter mettere in discussione la sua presenza. Da lì, in questi giorni i jihadisti tentano di riportarsi verso ovest, passando però a nord della seconda città siriana.
Da mesi dunque, l’area attorno ad Abizmu è in mano ad alcuni gruppi armati che, in alcuni casi, si alleano tra loro e, in altri, si danno battaglia. Come raccontano fonti ben informate ad Atareb, la presenza di queste milizie, composte in larghissima parte da giovani siriani originari della zona, impedisce in ogni caso alle eventuali “cellule dormienti” dello Stato islamico di operare in piena libertà e di organizzare operazioni complesse, come sequestri e detenzioni di prigionieri, che richiedono una radicata presenza sul territorio.
Le fonti, raggiunte via Skype da Beirut, affermano che tra le milizie locali si contano i battaglioni Norandino (Kata’ib Nur ad Din Zengi), il Movimento della Fermezza (Harakat Hazm) e l’Esercito dei combattenti per il jihad (Jaysh al Mujahidin) che appartengono alla galassia di quel che rimane dell’Esercito libero (Esl), quell’ombrello di miliziani, da più parti definiti “moderati” e che per circa due anni hanno tentato di combattere contro le forze lealiste, ottenendo anche aiuti da Paesi occidentali.
Negli ultimi mesi, ad esempio, diversi rapporti di stampa occidentali e arabi hanno riferito di aiuti militari fatti arrivare dagli Stati Uniti, tramite l’Arabia Saudita e la Giordania, ai miliziani del movimento della Fermezza. Questo gruppo, presente nel nord e nel nord-est ma anche nella regione meridionale di Daraa, non sembra però avere le capacità né di imporsi su altre sigle né di sfidare in maniera determinante il fronte lealista.
Gli altri gruppi che controllano la zona di Atareb e Abizmu sono i Liberi della Siria (Ahrar ash Sham), i qaedisti del Fronte della Salvezza (Jabhat an Nusra) e il Raggruppamento dei compagni del califfato (Tajammu Ansar al Khilafa), che compongono invece il variegato fronte di gruppi salafiti e jihadisti, in parte finanziate da entità istituzionali e private del Golfo arabo.
Secondo la stampa panaraba, gli Ahrar ash Sham hanno catturato nei giorni scorsi uno dei rapitori delle due ragazze italiane nei pressi di Sarmada, a ridosso del confine con la Turchia. Sarmada si trova nella regione di Idlib confinante con quella di Aleppo, anche se tra le due aree la frontiera amministrativa è stata di fatto cancellata da una ripartizione in aree di influenza tra i diversi gruppi.
Tra una località e l’altra ci sono numerosi posti di blocco gestiti dalle varie milizie. Tra al Abizmu e Atareb, a esempio, un civile incorre nel controllo degli Hazm e in quello degli uomini della sicurezza di Atareb. Tra Sarmada e Atareb invece, i posti di blocco sono tre e sono controllati rispettivamente dai qaedisti della Nusra, dall’Esercito dei mujahidin e dal movimento Hazm.
Ciascuna località ha poi un proprio “consiglio rivoluzionario” che si è di fatto sostituito al consiglio comunale legato al regime. E ogni consiglio rivoluzionario ha spesso una propria milizia incaricata ufficialmente di svolgere il compito di polizia contro i numerosi criminali comuni e banditi. (Pagina99)
“Padre Paolo” e l’ospitalità dei cristiani iracheni

Eravamo tre e ora eccoci in 164. I tre: due monaci e una monaca della comunità al Khalil, fondata a Mar Musa in Siria, da padre Paolo Dall’Oglio. Centosessantaquattro: i rifugiati della regione di Mossul, cacciati dalle loro paesi a causa dell’avanzata dello “Stato islamico”, con il suo progetto di purificazione etnica e religiosa.
Tre, insediati da circa due anni in questo monastero della Vergine Maria, nel cuore della città vecchia di Sulaymaniyya. 164, alloggiati in qualche modo, anzi stipati nella biblioteca, nel salone, nella chiesa, nella casa dei monaci, oltre che in qualche casa abbandonata che abbiamo pulito in fretta e messo a posto nei giorni scorsi.
Il mese di agosto doveva essere dedicato ai campi estivi per i giovani cristiani iracheni, uno per le ragazze e l’altro in stile scout, con camminate e notti trascorse sulle montagne, con un programma di preghiere, meditazioni e condivisione. Invece è con noi questa massa di persone, alcune profondamente traumatizzate, fragili e sradicate più volte dal loro ambiente (alcune provenivano da Baghdad o da Mossul, prima ancora di essere cacciate da Qaraqosh, Bartalla, Tell Keyf e altri villaggi nella piana di Ninive).
La situazione di crisi a volte favorisce slanci di solidarietà ammirevoli, ma anche tensioni egoiste difficili da immaginare. C’è la famiglia che preferisce cucinare nella propria camera piuttosto che in cucina per non rischiare di condividere il fornello con altri rifugiati… Una decina di medici curdi e arabi, invece, dedicano cinque ore del loro tempo per proporre visite a tutti quelli che lo desiderano, utilizzando come studio una pila di materassi collocati in chiesa. Dicono semplicemente: “Questo Stato islamico non è l’islam…”. Un idraulico di Qaraqosh, papà di un neonato, lavora dieci ore al giorno per portare l’acqua in tutte le case e rifiuta del tutto di farsi pagare.
Dove siamo andando? Il mondo sunnita iracheno, profondamente frustrato, prigioniero tra il Kurdistan e il governo sciita di Maliki, fino a ieri al potere a Baghdad, si è alleato con gli jihadisti. Questi non hanno che l’omicidio, la violenza senza freni, per esprimere il proprio zelo religioso, non hanno che il genocidio per raggiungere una fantomatica purezza, il sogno di un’età dell’oro dei primi anni dell’islam per consolarsi delle divisioni della debolezza dell’Umma musulmana, reale e attuale.
I cristiani iracheni si sentono traditi dai loro vicini musulmani, si chiudono in un odio sterile per l’islam. Potrebbero inserirsi in Kurdistan, ma non ne condividono né la lingua né la memoria. Alcuni curdi si considerano nazionalisti laici (“prima di tutto curdi e poi musulmani”, o anche “l’islam è una religione araba e quindi straniera per noi”), altri trovano un equilibrio spirituale conforme al mondo islamico precedente agli Stati-nazione (“noi siamo uno dei popoli musulmani non arabi, il nostro islam è specifico, locale moderato, sufi”).
Ci troviamo in una regione del mondo bella e brutale. Occorre costruire e ricostruire continuamente senza sosta sulla propria bellezza culturale e morale. Sull’ospitalità, il senso dell’onore, la fede nel Dio unico misericordioso. Occorrono luoghi per questa misericordia, momenti di tenerezza collocati in questa geopolitica di guerra. I monasteri devono essere tali luoghi. Pregate perché siamo ospiti degni, qui, di questo luogo, sotto la protezione della Vergine a Sulaymaniyya… (da Popoli).
August 20, 2014
Giornalisti Usa in Siria. Quale sorte per Austin Tice?
E’ mistero sulla sorte di un altro giornalista americano, Austin Tice (foto), scomparso in Siria nel 2012 e la cui famiglia ha espresso nelle ultime ore le condoglianze ai genitori di James Foley, reporter statunitense ucciso barbaramente da jihadisti dello Stato islamico.
Nel video, diffuso ieri sera dal gruppo estremista armato, si mostra la decapitazione di Foley e l’immagine di un altro giornalista americano, Steven Sotloff, anche lui in mano ai jihadisti che minacciano di ucciderlo.
Nessuna menzione viene però fatta di Tice, 33 anni, scomparso il 14 agosto 2012 a nord di Damasco e a ridosso del confine con il Libano, in una regione che all’epoca era contesa tra forze del regime di Bashar al Assad e ribelli locali.
Prima di intraprendere la professione di giornalista, Tice aveva servito come marines americano in Afghanistan e in Iraq. Ed era entrato in Siria dalla Turchia.
Alla fine di agosto 2012, il Washington Post, giornale per il quale Tice lavorava, citava fonti “bene informate”, tra le quali l’ambasciatore della Repubblica Ceca in Siria che rappresentava al momento gli interessi Usa, affermando che il giovane freelance era stato catturato da forze governative e detenuto nei pressi di Damasco.
Ai primi di ottobre di due anni fa, la allora portavoce del Dipartimento di Stato Victoria Nuland, aveva confermato che Washington riteneva che Tice fosse nelle mani dalle forze lealiste.
In quei giorni era apparso un breve video amatoriale (qui sotto) che mostrava Tice, bendato, accompagnato da uomini incappucciati, vestiti di bianco e che intonavano frasi tipiche di estremisti islamici, lungo un non meglio precisato sentiero di montagna.
“Negli ultimi 635 giorni – hanno scritto i genitori Marc e Debra Tice – abbiamo dovuto condividere un terribile incubo, che ci ha fatto essere vicini alla famiglia di Foley. A cui adesso va il nostro affetto”.
Obama e Assad, dalle linee rosse al telefono rosso
(di Lorenzo Trombetta, Ansa). A un anno dall’anniversario dell’attacco chimico nella regione di Damasco che, oltre a uccidere centinaia di civili, spinse gli Stati Uniti a minacciare un attacco militare contro obiettivi del regime di Damasco, i presidenti siriano Bashar al Assad e americano Barack Obama si trovano di fatto nella stessa trincea siro-irachena contro un nemico comune: lo Stato islamico.
Nell’ultima settimana centinaia di raid aerei sono stati condotti dall’aviazione siriana e da quella statunitense contro obiettivi del gruppo armato jihadista nel nord dell’Iraq e nel nord della Siria. Da Washington giudicano “un po’ troppo semplicistico” comparare i due teatri di operazione, ma ammettono che “è una buona cosa che i combattenti dello Stato islamico siano eliminati dal campo di battaglia”.
Secondo fonti della sicurezza siriane, citate il 19 agosto dal quotidiano libanese as Safir vicino a Damasco, l’intelligence di Assad collabora con gli americani per identificare le postazioni dello Stato islamico con l’obiettivo di “evitare che dalla Siria giungano rinforzi ai jihadisti in Iraq”. Solo ieri l’aviazione di Damasco ha condotto circa 15 raid aerei su Raqqa, capoluogo settentrionale siriano da circa un anno eletto dallo Stato islamico come la sua “capitale”.
Negli ultimi cinque giorni, i bombardamenti aerei siriani contro obiettivi dei jihadisti nella regione di Raqqa e Aleppo sono stati oltre cento ma non si hanno numeri precisi sul numero e sulla natura delle vittime. Attivisti di Raqqa hanno denunciato oggi il bombardamento di numerose abitazioni civili in città e nella vicina Tabqa. La centrale della distribuzione idrica, alla periferia di Raqqa, è stata ieri bombardata e danneggiata, causando l’interruzione dell’erogazione di acqua potabile a numerose zone dell’area.
“Raqqa come Gaza”, affermano diversi abitanti di Raqqa interpellati dall’ANSA via Skype. “Veniamo bombardati dagli aerei di Assad con la benedizione degli Stati Uniti e della coalizione”, aggiungono in riferimento alla Coalizione delle opposizioni siriane in esilio che nei giorni scorsi aveva invocato raid aerei Usa su postazioni dello Stato islamico non solo in Iraq ma anche su Raqqa.
“La coalizione chiede agli Usa di bombardarci, ma ci pensa Assad per loro”, scrivono su Facebook altri attivisti del nord della Siria. Questo mentre miliziani dello Stato islamico hanno riaperto la strada che collega Raqqa al valico frontaliero di Tall Abyad con la Turchia, e conquistato nuovi villaggi nella regione a est di Aleppo. In questo teatro, fanno notare analisti siriani locali, l’aviazione di Damasco non bombarda i jihadisti, la cui avanzata su Aleppo favorisce di fatto i tentativi del regime di sconfiggere gruppi armati anti-Assad nella metropoli del nord. (Ansa, 19 agosto 2014).
August 7, 2014
Azaz, Graffiti colorati sulle bandiere nere dell’Isis
Quando gli uomini dello Stato islamico (Isis) controllavano Azaz, avevano ricoperto i muri di questa cittadina a nord di Aleppo con le loro bandiere nere di morte.
Ma una volta che brigate dell’Esercito libero e della Jabhat al Nusra hanno spinto l’Isis a ritirarsi verso Est all’inizio di quest’anno, i cittadini di Azaz si sono riappropriati dei loro muri e hanno nascosto il nero sotto spessi strati di vernice colorata.
Qui sotto alcuni dei graffiti multicolore di Azaz e a questo link, la galleria completa, a cura di Anna Day e Patrick Hilsman.
August 5, 2014
In un mondo senza mappe
«Ammuriya adesso è come quella sposa del villaggio: il denaro facile l’ha corrotta, falsata. Non ha trattenuto il passato e non è stata in grado di entrare nel futuro. Ha continuato a prendere in prestito dagli altri e ad accumulare. E non passerà molto tempo prima che scoppi di sazietà».
da Un mondo senza mappe, di Abd al Rahman al Munif
(di Zanzuna). La incontro ogni mattina: non si è mai interessata alla politica, ma soffre per i siriani. Lei è una ragazza libanese, sin dall’inizio a favore della causa e della rivoluzione siriana.
Ieri dopo aver seguito per tutta la notte le notizie provenienti dalla zona di Arsal in Libano, l’ho trovata che piangeva.
Da due giorni si combatte nella zona montagnosa di Arsal nel nord-est del Libano tra l’Esercito libanese e alcune brigate armate siriane.
Aresal, in aramaico significa “trono di Dio”. È stato il primo posto ad abbracciare i siriani in fuga dalle montagne del Qalamun in Siria.
Tutti parlano oggi degli scontri di Arsal, come se la storia fosse cominciata solo ieri. Ma da tempo la situazione lì non è normale. La storia non è cominciata quando gli uomini armati siriani sono entrati nella cittadina libanese di Arsal. È iniziata ben prima, da quando il Partito di Dio ha deciso di usare Arsal, “il trono di Dio”, come passaggio per entrare in Siria e difendere il regime siriano, presunto “baluardo” contro Israele.
In questi giorni sono stati diffusi filmati che mostrano alcuni membri dell’esercito libanese che dichiarano di voler disertare, perché si rifiutano di eseguire gli ordini di attaccare anche i campi profughi siriani a Arsal e di uccidere i civili, con la scusa che vi si nascondano uomini armati siriani.
Non si sa se questi video siano stati davvero girati dai soldati libanesi, o se invece i soldati libanesi siano stati obbligati a farlo sotto la pressione dei miliziani provenienti dalla Siria.
Lei, la ragazza libanese, oggi parlava solo di questo. E tra le lacrime mi diceva: “Noi non siamo come voi. Il nostro esercito ci protegge, non è come il vostro. Noi non possiamo dubitare del nostro esercito, perché se torniamo a imbracciare le armi, noi libanesi siamo finiti”.
Qui sono entrata in confusione. Un nodo alla gola. La voglia spontanea di dirle: “Non parlare male di noi”.
Ma come posso? O per meglio dire: perché mi sento umiliata se parla male dell’Esercito siriano? Io so bene che molti membri dell’Esercito siriano in questi tre anni si sono comportati come se appartenessero all’esercito di Asad, non della Siria. Perché mi sento umiliata? Nostalgia? Mancanza di un riferimento? Di un Paese? Di un’identità?
Sì, amica mia, siamo diverse. Il vostro esercito non è come il nostro. Ma sai? Il vostro esercito non conta tanto. Il vostro esercito non ha proibito a Hezbollah di entrare in Siria. Forse io e te dobbiamo studiare di nuovo la mappa. Perché forse non c’è il “nostro” e il “vostro”. E forse Mister Sykes e Monsieur Picot non sapevano che Arsal è l’abbraccio allungato del Qalamun. Perché a un certo punto i confini non contano nulla.
August 4, 2014
Senza cielo – بلا سما
È un dialogo tra il luogo e la sua rappresentazione, tra la città e la sua memoria, tra la devastazione e la sua riproduzione sullo schermo. Ma è anche un dialogo tra la realtà dei luoghi e la loro ricostruzione attraverso l’immaginazione. Così come è un dialogo tra due artisti – entrambi siriani – che hanno due approcci diversi: una scenografa e uno scultore.
“Senza cielo”, un cortometraggio di Mohamad Omran e Bissane al Sharif:
I due scontri di civiltà
(di Andrea Marchesi, per SiriaLibano). Chi è l’intellettuale occidentale? L’ho compreso solo oggi; è un uomo che sa fare solo due cose: o lotta per l’Occidente, e allora si ascrive un fardello messianico che si macchia di razzismo, oppure lotta contro l’Occidente, e allora vede in tutto ciò che è occidentale un che di decadente o di colpevole. In entrambi casi è un uomo che non si pone mai il problema di ciò che Occidente non è.
Cosa riesce a dire l’intellettuale occidentale sugli odierni fatti di Gaza? Non mi riferisco naturalmente all’opinione pubblica istituzionale, cioè ai grandi editorialisti o agli opinionisti misurati; questi si stanno comportando semplicemente con molto tatto, a volte forse eccessivo. Mi riferisco invece ad un’elite intellettuale ben definita, cioè quella capace di prendere una posizione marcata e decisa in merito ai fatti, una posizione che si direbbe ideologica. Bene, l’intellettuale occidentale, e nella fattispecie italiano, è capace di sostenere solo due posizioni: o che Israele è legittimato a compiere quello che sta compiendo, o che Israele si merita tutto quello che sta subendo. Così da una parte c’è la piccola brigata del Foglio, che da buona propaggine italiana della destra teocon organizza la sua veglia «per Israele e per i cristiani», e dall’altra abbiamo i soliti antagonisti, che ovviamente non possono che abbandonarsi ad un esatto controcanto, e quindi invocare la liberazione dall’“entità sionista”.
Qualcosa però non torna. Come si spiega infatti che tra coloro che prendono parte alla veglia figurano intellettuali che fino a poco tempo fa si sperticavano nel giustificare il regime di Asad, cioè lo stesso identico regime sostenuto dagli antagonisti? Cito Meotti e Allam, ma potrei continuare. Può darsi che siano i primi ad incorrere in una contraddizione, o puo darsi invece che lo siano i secondi. Non è questo il punto. Il punto è che entrambi alimentano due scontri di civiltà che si stanno intersecando: i teocon continuano la loro battaglia contro l’Islam radicale, mentre gli antagonisti continuano la loro battaglia contro l’Occidente, di cui Israele sarebbe un chiaro avamposto. Naturalmente ho in mente un certo tipo di antagonista, che non è genericamente contro Israele, come lo sono in tanti, ma è dichiaratamente schierato con i regimi di matrice baathista e sciita.
Chi muore dunque sotto questo fuoco incrociato? Muore l’Islam moderato, il sunnismo illuminato che ha dato vita alle primavere arabe; l’Islam che vuole i diritti occidentali, ma che vuole rimanere Islam. L’Islam di tutti quei ragazzi che vogliono fare i conti con la modernità e che quindi non ci stanno ad essere tenuti al guinzaglio da una minoranza alawita di tipo clanico. L’Islam dei padri e dei figli della cittadina di Kafranbel, quelli che scrivevano «nella religione non c’è costrizione». Questo Islam.
Il teocon dice di ritenerlo troppo poco occidentale, cioè non ancora “maturo”, e quindi nasconde il suo razzismo con un’abile mossa scettica; l’antagonista lo ritiene invece troppo occidentale, dato che anela a libertà che lui liquida come “borghesi”.
Ciò gode di una raffigurazione reale sul piano geopolitico: questo Islam si trova infatti nell’esatto crocevia di due scontri di civiltà contemporanei, quello tra l’Occidente e l’islam radicale, e quello tra l’Occidente e i vari regimi nordafricani e mediorientali, che a loro volta temono l’islamismo radicale di marca sunnita. I due scontri non sono affatto dello stesso tenore ‒ basta guardare ai rapporti commerciali ‒, ma lo sono sul piano della retorica. Per cui, dicevo, non è detto che qualcuno si stia contraddicendo; si tratta semplicemente di una convergenza di obiettivi, che naturalmente è del tutto involontaria. C’è una solidarietà segreta che unisce il teocon e l’antagonista, loro malgrado. Entrambi sono falsamente diffidenti verso un unico soggetto, gli uni per difetto, gli altri per eccesso. Per il primo sono anch’essi dei mozzorecchi, in fondo; per il secondo sono dei venduti.
L’Occidente e l’Oriente hanno di fatto concorso entrambi alla disfatta dell’Islam moderato: l’Unione Europea e gli Stati Uniti con la loro inazione, i regimi baathisti e sciiti con la repressione serrata delle rivoluzioni. Ciò ha determinato la reazione feroce dell’Islam radicale, che si è fatto sempre più forte, mentre i sunniti moderati si ritiravano in buon ordine. Si pensi ai ribelli dell’Esercito siriano libero, che si sono trovati a dover combattere su due fronti, quello jihadista e quello asadista, finendo inevitabilmente per soccombere.
Cosa c’entra tutto questo con Gaza, direte? C’entra. Infatti l’intellettuale italiano si sta comportando sempre nello stesso modo, anche in questo caso: o difende senza appello le politiche del governo Netanyahu, che sono manifestamente criminali, oppure tace sulle azioni di Hamas, che sono manifestamente terroristiche. Neanche stavolta coglie l’occasione per prendere l’unica posizione che lo preserva dall’errore morale, che è quella della neutralità. Di rado è concesso all’uomo di non schierarsi; nel caso del conflitto israelo-palestinese è invece obbligato a non farlo. Gli intellettuali in questione sperano invece che una delle due parti prevalga; in cuor loro, gli uni non riconoscono ad Israele il diritto di esistere come Stato, mentre gli altri stentano a riconoscere l’esistenza di un popolo palestinese, e quello che si dice tale lo considerano perdutamente violento.
Infine, c’è qualcos’altro su cui i due intellettuali convergono, ed è il rapporto con i cristiani; entrambi sono molto preoccupati per i cristiani, e lo sono sinceramente, non lo nego. «Asad proteggeva i cristiani», «Israele è lo stato mediorientale con più cristiani»; «i cristiani sono in pericolo», dicono tutti e due. Mai la storia del cristianesimo ha scorto cosa più spregevole, ossia dei cristiani che si preoccupano di difendere altri cristiani, e non gli uomini tutti. Giuliano Ferrara giunge persino a scrivere simili mostruosità, e cioè che i cristiani dovrebbero mobilitarsi in quanto «nazione occidentale» – come se essere cristiano designasse un’appartenenza culturale o etnica.
Dov’erano questi intellettuali cristiani quando migliaia di sunniti siriani venivano massacrati? Non erano abbastanza bianchi e occidentali? Oppure volevano diventare troppo democratici e borghesi? Quanto ancora potranno durare questo razzismo truccato da diffidenza e questo odio intellettuale? Quando comprenderanno che occorre sostenere con tutti i mezzi l’Islam moderato? Quando lo capiranno che è l’unico modo per non spianare la strada ai jihadisti e ai mercenari di tutto il Medioriente?
Mai, perché non vogliono capirlo, perché non solo contraddirebbe le loro idee, ma rivelerebbe la loro malafede. Un solo “intellettuale” lo ha voluto e potuto capire: si chiama Padre Paolo dall’Oglio. E voglio usare il presente.
Lorenzo Trombetta's Blog
