Lorenzo Trombetta's Blog, page 21

September 22, 2014

Gli altri tagliagole. Legalizzati.


In un’epoca in cui se non si decapita la propria vittima non si va in tv, è bene ricordare – come ha fatto nell’articolo che segue The Economist - che in Arabia Saudita la pena di morte viene eseguita normalmente tramite il taglio della testa.


Secondo rapporti non verificabili in maniera indipendente, in 18 giorni, lo sorso agosto, nel regno sono state decapitate 22 persone. Roba da far invidia allo Stato islamico. Che a Raqqa e altrove segue la stessa scuola sunnita dei Saud. 


(The Economist). The condemned may request a painkiller. Their end is not televised, and comes with a swift sword stroke from a skilled executioner rather than from hacking with a kitchen knife by an untutored brute. Otherwise there is not much difference between a death sentence in the jihadists’ “Islamic State” and in Saudi Arabia, a country seen as a crucial Western ally in the fight against IS. Nor, indeed, is there much difference between the two entities in other applications of a particularly merciless brand of sharia, or Islamic law, including public whippings and the right for victims of crime to claim eye-for-an-eye revenge.


Both follow Hanbali jurisprudence, the strictest of four schools of traditional Sunni Islamic law: when Egyptians chide someone for nitpicking, the expression is “Don’t be Hanbali”. Dissidents in Raqqa, the Syrian town that is IS’s proto-capital, say all 12 of the judges who now run its court system, adjudicating everything from property disputes to capital crimes, are Saudis. The group has also created a Saudi-style religious police, charged with rooting out vice and shooing the faithful to prayers. And as in IS-ruled zones, where churches and non-Sunni mosques have been blown up or converted to other uses, Saudi Arabia forbids non-Muslim religious practice. For instance, on September 5th Saudi police raided a house in Khafji, near the Kuwaiti border, and charged 27 Asian Christians with holding a church ceremony.


In recent months IS has carried out hundreds, possibly thousands, of executions, mostly by gunfire rather than beheading and typically without a trial of any kind. Saudi Arabia is far less trigger- or sword-happy. Still, in the space of just 18 days during the month of August, the kingdom beheaded some 22 people, according to human-rights advocates. The spate of killings was surprising not only because it was so sudden—the kingdom carried out a total of 79 executions last year—but also because many of those killed were convicted of relatively minor offences, such as smuggling hashish or, strangely, “sorcery”. In one case the defendant was determined to be mentally unsound, but lost his head anyway.


It was surprising, too, because the Saudi kingdom has in recent years gently relaxed some social strictures, and made efforts to rein in excesses by religious police. Some Saudi critics fear that the sudden upsurge represents a response by the religious establishment to the challenge from IS. Perhaps it is an attempt to prove to the most conservative Saudis that the kingdom remains a truer “Islamic” state than any other. Others see it as part of a broader policy to assert government control amid signs of growing discontent among the bored Saudi young, including a drift into unbelief (The Economist, 19 settembre 2014).

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Published on September 22, 2014 06:02

September 20, 2014

Mi chiamo Ribelle. Di cognome Moderato

Associated Press


(di Lorenzo Trombetta). Mi chiamo Ribelle Moderato. Ribelle di nome e Moderato di cognome. Nella realtà non esisto. Esisto solo nei discorsi ufficiali dei politici americani e di qualche loro altro collega occidentale. Da un po’ di tempo faccio spesso capolino anche nei titoli e negli articoli dei giornali che parlano di Siria.


Non ne parlano per la Siria in sé. Ma da quando i cattivoni-non-moderati hanno decapitato in Siria due giornalisti americani e, in Iraq, si sono accostati ai pozzi petroliferi gestiti dagli occidentali, il presidente Barack Obama e i suoi alleati sono stati costretti a fare la voce grossa. E hanno urlato vendetta.


Mi chiamo Ribelle Moderato. Ma fino a qualche mese fa per Obama ero solo un contadino. O, al massimo, un dentista. Uno insomma a cui non si dà un fucile per combattere. Per Obama, io e i miei fratelli eravamo troppo divisi, poco coordinati, indisciplinati, inaffidabili e, soprattutto, deboli. Aveva ragione. Ma oggi siamo ancora più deboli di ieri.


Di recente, qualcuno ha fatto notare a Obama che per sconfiggere i cattivoni-non-moderati non basta lanciare bombe in Iraq. Bisogna colpirli anche in Siria. Obama si è così ricordato di me. E dei miei fratelli.


Mi chiamo Ribelle Moderato. Sarò anche un contadino, ma adesso servo per giustificare un intervento armato in Siria contro i cattivoni-non-moderati. Sì, è vero: le bombe che Obama dice di voler lanciare in Siria finiranno per favorire il mio nemico, il regime di Bashar al Asad. Ma queste sono sottigliezze e sofismi che gli spettatori del tg serale non coglieranno.


Quegli stessi spettatori non ricordano che dallo scoppio della rivolta armata, tre anni fa, nonostante i proclami e le promesse io e i miei fratelli dall’Occidente e dai loro alleati abbiamo ricevuto solo pochi fucili e una manciata di lanciarazzi. Adatti a far male a qualche carro armato e a tirar giù un elicottero a bassa quota. Sempre che non ci sia troppo vento.


Anche per questo molti miei fratelli hanno da tempo deciso di cambiare nome e cognome. Hanno accettato gli aiuti di regimi cattivoni-oscurantisti-ed-estremisti. Alcuni non si chiamano più Ribelli Moderati ma Islamisti, Qaidisti, Jihadisti, Salafiti, Takfiri. C’è chi li chiama Miliziani. Più neutro, dicono.


A fine mese i miei fratelli hanno in tasca uno stipendio migliore del mio. Molti di loro hanno una macchina o un pick-up. Non vanno in giro col trattore come me. Hanno uniformi e berretti, non magliette sdrucite come quella che ho indosso. Soprattutto, hanno armi più lucide e migliori delle mie. E poi hanno tante munizioni. Non come me, che la mattina conto le pallottole del carniere per timore di sparare a vuoto. E di non tornare più a casa.


Mi chiamo Ribelle Moderato. Se Obama potesse, oltre al fucile, mi darebbe una giacca e una cravatta, un rasoio per non spaventare nessuno e uno spazzolino da denti per sorridere sempre di fronte alle telecamere. Dal tg ho appreso poco fa che l’Arabia Saudita ha ufficialmente detto sì alla richiesta Usa di addestrare sul suo territorio me e altri miei fratelli.


Saremo Ribelli Moderati addestrati formalmente in un Paese che di moderato non ha niente. Saremo stipati in camion militari e vedremo la luce solo prima di entrare in capannoni bianchi. Qui, ufficiali americani, tradotti da interpreti sauditi e giordani, ci daranno lezioni su come ci si dimentica di usare la zappa. E si impara invece a usare il fucile. Su come si diventa dei veri Ribelli Moderati.


Poi saremo di nuovo spinti dentro camion militari. Attraverseremo quel deserto infame che porta alla frontiera giordano-siriana. Avremo un’uniforme. Agli spettatori dei tg serali diranno che siamo lì per proteggere le “minoranze del Medio Oriente”. Alcuni di noi saranno avio-trasportati al confine turco-siriano, sempre che Ankara accetti. E in appena poche settimane costituiremo la prima linea di un’offensiva che, in realtà, non offenderà mai nessuno.  Né i cattivoni-non-moderati. Né, tantomeno, Asad e i suoi alleati.


Mi chiamo Ribelle Moderato. E sto seriamente pensando di cambiare nome. Sono tentato di scegliere quello di Cattivone-Non-Moderato. Che dite? Non mi dispiace nemmeno l’etichetta di Qaidista. E’ vero, è un po’ fuori moda ma – mi dicono – lo stipendio è comunque dignitoso. E se hai moglie e figli ti danno una casa più larga e qualche assegno familiare. Non male per un contadino come me.


L’alternativa? Lasciare le armi. E scappare da qui. Infilarmi su un barcone. E sperare di raggiungere i binari della Stazione Centrale di Milano. Dove le telecamere del tg serale verranno a illuminare il mio viso non rasato e i miei pochi denti gialli. Mi chiederanno con insistenza come mi chiamo: “Ribelle Moderato”, risponderò. (SiriaLibano, 20 settembre 2014)

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Published on September 20, 2014 06:54

September 19, 2014

Siria. Quello che ho visto io

Manifestazione pacifica a Zabadani, regione di Damasco, 2012


(di Lorenzo Declich, per Nazione Indiana). Le cose, sul campo, erano già molto chiare all’inizio. La violenza del regime ha iniziato a manifestarsi subito, anzi, la rivolta nasce simbolicamente come risposta “civile” a un atto di violenza: un gruppo di ragazzini, picchiati e torturati per aver scritto su un muro quello che pensavano di Bashar al-Asad.


La macchina della propaganda, allora, era già ben oliata, ma nessuno che avesse un po’ di senno pensò che video e immagini della repressione contro i manifestanti pacifici fossero dei falsi.


Cosa che, invece, diventò uno dei pilastri della disinformazione negli anni a venire.


Erano in divisa o in borghese, sparavano sulla folla inerme.


Al termine delle dimostrazioni rimanevano a terra in molti.


Qualcuno respirava, qualcuno si muoveva, altri no.


Alle dimostrazioni seguivano gli arresti, gli stupri, le torture, molte delle quali senza ritorno.


Gli attivisti lavoravano per far tornare a casa i prigionieri, o per avere loro notizie.


Nasceva il Centro di documentazione sulle violazioni in Siria, aprile 2011.


Documentavano le morti, le vessazioni subite dai prigionieri con racconti, fotografie, video di persone martoriate, smagrite, quasi in fin di vita.


Le proteste si organizzavano principalmente attorno a due eventi, uno programmato il venerdì, l’altro dipendente dall’intensità della repressione: i funerali.


***


Andò avanti così per un po’ e la rivolta, nonostante la repressione, si allargò.


Iniziarono gli assedi. Prima furono “morbidi”: blindati bloccavano le vie di fuga delle città ribelli.


La città di Deraa fu la prima.


Lo scopo del regime era silenziare le proteste, isolare i focolai di rivolta, non permettere il collegamento fra attivisti.


Quando c’era una manifestazione gli strateghi del regime mandavano l’esercito, i soldati dell’esercito di leva davanti a tutti, e ordinavano di sparare.


Se i soldati si rifiutavano di sparare venivano presi a fucilate alle spalle.


Morti e feriti aumentavano esponenzialmente.


Eravamo all’inizio di maggio 2011, le vittime erano centinaia.


Il regime parlava di “terroristi”, di complotto contro la Siria ma nessuno dalla parte dei manifestanti aveva ancora sparato un colpo.


A nulla servivano gli infiltrati, venivano isolati.


Si narra anche che la sicurezza lasciasse per strada armi da fuoco.


Era l’ennesima provocazione, i manifestanti erano dichiaratamente pacifici e lo rimarcavano continuamente nei loro slogan.


Ma lì si registrarono le prime defezioni di ufficiali dell’esercito.


Bashar al-Asad, il dittatore, decretò la prima di una serie di amnistie grazie alle quali mise in libertà criminali comuni ed esponenti dell’islam radicale.


Un cavallo di Troia utile a legittimare l’algoritmo della violenza che i suoi seguaci traducevano nello slogan: “O Asad o bruciamo il paese”.


***


Gli assedi si moltiplicarono nelle città che il regime ritenne essenziali dal punto di vista strategico.


Homs, Baniyas, Tafas, Talkalakh, Rastan, Talbiseh, Jisr ash-Shughur.


In giugno a Jisr al-Shughur, cittadina di frontiera con la Turchia nella provincia di Idlib, si registrò il primo caso di violenza da parte dell’opposizione.


La città era assediata dall’esercito governativo, uomini armati – secondo gli attivisti si trattava di soldati defezionari – attaccarono le forze della sicurezza e le postazioni della polizia.


L’assedio si concluderà la settimana seguente con una carneficina, almeno 120 manifestanti rimasero uccisi.


Fu un episodio premonitore, in tutti i sensi, ma prima ci fu il 22 luglio 2011, il venerdì delle manifestazioni di massa in tutta la Siria.


Il punto più alto della rivolta pacifica.


La cifra della rivoluzione siriana.


Le bandiere sventolate dai manifestanti erano ancora quelle ba’athiste, le bandiere panarabe della Siria degli Asad.


Successivamente i rivoluzionari, per segnare un punto di non-ritorno, adottarono la bandiera dell’indipendenza.


Le città coinvolte furono soprattutto Hama – città simbolo della repressione asadiana – e Deir Ez-Zor ma l’intero paese, dalla costa al nord-est curdo, pullulava di presidi e proteste.


L’esercito siriano venne dislocato al centro di Damasco, dove le manifestazioni vennero di fatto impedite.


Il 29 luglio, per iniziativa di un gruppo di ufficiali disertori dell’Esercito Siriano nasceva L’Esercito Siriano Libero, con lo scopo primario di difendere le manifestazioni pacifiche dagli attacchi delle forze di sicurezza, dei civili lealisti e dell’esercito governativo.


Due giorni più tardi, il 31 luglio, nel quadro di un’operazione di repressione su scala nazionale, l’esercito regolare entrava a Hama e a Deir ez-Zor con i carri armati senza incontrare alcun genere di resistenza.


Spararono sulla folla, a caso.


Poi piazzarono i cecchini appostati sui tetti.


Il “massacro di Ramadan” fece 136 vittime.


Passarono le immagini di corpi ammassati l’uno sull’altro, corpi senza testa, bambini arsi vivi.


***


A fine 2011 ci fu il primo attentato.


Esplosero due autobomba a Damasco, 34 morti secondo le autorità.


La televisione di Stato, giunta in loco pochissimi minuti dopo le esplosioni, inquadrava pezzi di essere umani sparsi sull’asfalto.


L’evento, che giungeva il giorno dopo l’arrivo degli osservatori della Lega Araba, fu il primo del genere nel conflitto siriano, non fu mai rivendicato.


Ne verranno altri, le modalità sono le stesse, lo spettacolo anche.


A partire dal 3 febbraio 2012 l’esercito governativo bombardò con l’artiglieria la città di Homs – snodo economico e strategico fondamentale per il regime – in particolare i quartieri della ribellione.


L’offensiva terminò il 14 aprile successivo, quando il regime affermerà di controllare circa il 70% della città.


Alto il prezzo pagato dalla popolazione.


La città sarà infine rasa al suolo, la sua anagrafe bruciata.


A marzo 2012 il campo profughi palestinese di Yarmuk, divenuto nei decenni un vero e proprio quartiere di Damasco, si unì alla rivolta.


Iniziò la repressione, in un’escalation che porterà al blocco totale del campo.


Come in altre zone calde la strategia del regime sarà il blocco degli accessi all’area e il martellamento tramite artiglieria.


Due anni più tardi Yarmuk sarà di nuovo in mano al regime.


Le immagini parlano chiaro, fu presa per fame.


Bambini e vecchi morivano.


Quelli ancora vivi erano ridotti a scheletri.


La stessa strategia venne messa in atto nelle aree liberate di Homs, che alla fine caddero.


Oggi il regime si esercita nella stessa pratica in altri quartieri di Damasco e ad Aleppo.


***


Nell’aprile 2012 un doppio attentato dinamitardo scosse la capitale.


55 le vittime secondo le fonti del governo.


Per la prima volta l’obiettivo era civile.


Pezzi di corpi sull’asfalto.


Il regime accusò “i terroristi” e qualche giorno più tardi su internet comparve una rivendicazione della Jabhat al-nusra, gruppo armato estremista che più tardi scopriremo essere affiliato ad al-Qa’ida, che immediatamente smentì.


Fu il mese di inaugurazione della “stagione delle stragi”.


Avvennero in paesi, piccole cittadine attorno a Homs.


Il regime faceva “pulizia” nelle aree che riteneva strategiche.


Quella di Hula è la più conosciuta, ne seguirono diverse altre, fra cui quelle di al-Buwayda al-Sharqiyya e al-Qubayr.


L’esercito chiudeva le via d’accesso all’area, bombardava con l’artiglieria.


Poi entravano in azione i “reparti speciali”, formati da civili lealisti, che facevano irruzione nelle case e uccidevano chiunque trovassero.


Le immagini fecero il giro del mondo.


Case distrutte, corpi ammassati, messi in fila.


Gli eventi vennero definiti dagli analisti un “punto di svolta” del conflitto.


Ma l’atteggiamento degli attori internazionali non mutò.


Nei fatti la strage di Hula determinò la fine del “cessate il fuoco” che, mai davvero rispettato, era stato annunciato dall’inviato dell’ONU Kofi Annan il 4 aprile precedente.


***


Il 17 luglio 2012 partì una grande offensiva dei gruppi ribelli, fra i quali figuravano già un buon numero di formazioni di spiccato carattere confessionale.


Gli obiettivi erano le principali città (il 19 luglio inizia la battaglia per Aleppo, ancora in corso).


Iniziò la guerra, una guerra asimmetrica e sempre più sporca.


Iniziò a manifestarsi, anche, il gioco della guerra per procura.


Iran (e poi Hezbollah e milizie sciite iraqene) e Russia con Asad, gli arabi del Golfo e la Turchia con la ribellione.


Polarizzazione in senso confessionale.


Gli Stati Uniti e l’Europa rimasero nel limbo.


La Cina alla finestra.


Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite immobilizzato.


***


Il 3 novembre 2012 l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani denunciava l’esecuzione sommaria di militari dell’esercito regolare siriano catturati dai ribelli.


Questo e altri fatti avvennero nonostante l’Esercito Siriano Libero si fosse dato in agosto un “codice di autoregolamentazione” per impedire eccessi di questo genere.


Il fondamentalismo intanto montava, le brigate si radicalizzavano.


I combattenti non siriani, da ambo le parti, erano ormai una realtà tangibile.


Entrava in scena l’aviazione del regime, coi razzi.


Bombardavano scuole, ospedali, istallazioni civili.


Nel gennaio 2013 venne colpita l’università di Aleppo.


Era giorno di esami, fu una strage.


Nello stesso mese, nella stessa città, corpi senza vita emersero dal fiume Qweyq.


Erano circa 80 persone giustiziate dai lealisti con un colpo di pistola, legate mani e piedi e gettate in acqua.


Più avanti iniziarono a manifestarsi le evidenze di attacchi chimici, bombe incendiarie, gas.


Caddero anche bombe a grappolo.


Corpi martoriati, persone che scavano, persone intossicate e poi morte asfissiate.


Il flusso dei profughi e degli sfollati aumentava esponenzialmente.


Pestaggi, umiliazioni, stupri, accanimento su corpi esanimi, processi sommari, fucilazioni ed esecuzioni efferate da ambo le parti.


Un combattente di Homs la cui famiglia era stata sterminata dai lealisti strappò il cuore dal corpo di un militare di Asad, lo portò alla bocca nell’atto di mangiarlo.


La spirale della vendetta sembrava non conoscere fine.


E fecero la loro comparsa i barili bomba: ordigni ciechi, senza propellente, armi di distruzione di massa destinati ad uccidere indiscriminatamente.


Le vittime erano quasi soltanto civili, puro terrore.


***


Nell’aprile 2013 infine fece la sua comparsa lo Stato Islamico di Iraq e Siria (ISIS) che operava inizialmente a cavallo fra le frontiere siriana e iraqena.


La situazione, lo avrete capito, era già ampiamente deteriorata.


L’Esercito Siriano Libero soccombeva, mancava di logistica e coordinamento.


Diverse brigate avevano cambiato bandiera, si rafforzavano e si federavano le formazioni jihadiste, meglio equipaggiate e foraggiate.


Altre, lasciate a se stesse, si abbandonavano a razzie, gestivano i traffici di armi, agivano come veri e propri gruppi criminali.


A Qusayr l’aviazione lealista bombardò i civili in fuga dalla città dopo la conquista della cittadina da parte dell’esercito siriano e del libanese Hezbollah.


Nella Ghuta di Damasco il regime bombardò col sarin.


L’ISIS occupò l’est del paese, abbandonato dal regime, e guerreggiò a nord.


Mentre Asad teneva l’esercito nelle caserme, ISIS prendeva possesso del territorio e dell’amministrazione.


Combatteva contro i gruppi armati anti-regime, si accaniva contro gli attivisti, incarcerava gli esponenti della società civile, li uccideva in piazza di fronte alla popolazione e poi esponeva in pubblico i loro corpi crocifissi.


Si apriva un nuovo fronte per l’eterogeneo fronte anti-Asad, anche l’ISIS era “il nemico”.


***


Ecco, questo ho visto io in questi anni.


Un colpevole: il regime di Bashar al-Asad, spalleggiato dai suoi complici d’oriente e d’occidente, avallato dai silenzi di chi nel mondo voltava le spalle e chiudeva occhi e orecchie.


Una risposta: l’aumento esponenziale dell’esercizio della violenza.


Un esito: la barbarie.


***


Il 16 aprile 2013 l’ONU invocava la pace in Siria, usando le facce di ben cinque responsabili di agenzia (OCHA, PAM, UNHCR, UNICEF, OMS).


Una di queste cinque facce, quella del Direttore dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, che si chiama António Guterres ed è stato Primo ministro nel suo paese, il Portogallo, parlò con i giornalisti dell’Economist.


Spiegò loro che la guerra in Siria, secondo il suo modesto parere di uomo che di conflitti ne ha visti decine, era la più brutale dal 1989 – cioè dalla fine “dichiarata” della Guerra fredda – a oggi.


Lo era dalla prospettiva dell’impatto sulla popolazione e da quella della percentuale totale della popolazione in stato di bisogno.


In quegli stessi giorni tornava dalla Siria Amedeo Ricucci, cronista di guerra di lungo corso, una specie di Guterres italiano nel suo campo, dopo essere stato ostaggio di una brigata di qaidisti che, proprio in quei giorni, passava dalla Jabhat al-nusra all’ISIS.


La cosa più importante che disse, appena sceso dall’aereo, non riguardava la Siria in sé, ma il fatto che fosse diventato quasi impossibile raccontare la Siria.


Da una parte, già allora, c’era un regime che considerava “obiettivi militari” tutti coloro che entravano nel paese “illegalmente”.


Dall’altra un groviglio di fazioni armate che dimostravano di non aver più alcuna fiducia nel “potere della stampa” e di non farsi scrupoli di fronte alla prospettiva di qualche vantaggio economico (o nel caso dell’ISIS anche propagandistico).


In mezzo c’erano decine, centinaia di giornalisti, per lo più siriani “freddati con colpi di arma da fuoco alla testa, torturati a morte, sequestrati e mai più tornati a casa” (fonte).


***


Bene, prendete in considerazione le due coordinate della “brutalità” e del “silenzio” e consideratele in atto su una scala temporale sempre più ampia o, se preferite, su una scala di potenza sempre maggiore.


Su un tratto temporale breve incontreremo il tiro a segno del regime sui manifestanti e, poco più in là, il massacro di Hula o i “massacri del pane”, quei “punti di svolta” che, se ignorati (cosa di fatto avvenuta), rendono ancora più clamoroso il silenzio.


Su un tratto di media lunghezza – ad esempio dall’inizio della rivolta fino all’aprile 2013 – troviamo 70.000 morti e 6 milioni e mezzo di rifugiati o sfollati.


Parliamo di numeri, qui, di numeri in progressione, ovvero di qualcosa che ci “risveglia l’attenzione” in occasione di cifre tonde (100.000!) o di salti di scala (1:10!).


E su un tratto lungo?


Sul tratto lungo c’è un crimine di inaudita brutalità reso possibile da un silenzio ormai definitivo, una cosa così spaventosa da renderne addirittura scabrosa la menzione.


Sul tratto lungo c’è una cosa che si chiama sterminio.


***


Siamo arrivati a settembre 2014, è passato un anno e mezzo.


I morti sono triplicati.


Un terzo degli abitanti della Siria, 8 milioni di persone, è fuggita dal paese, vive la condizione di profugo.


Non si contano più gli sfollati interni.


Da gennaio, l’ONU ha smesso di contare i morti.


Noi però da queste parti parliamo solo dell’ISIS, e solo nella misura del fatto che l’Occidente “è in pericolo”.


E questo non lo dico per cercare di smuovere qualche coscienza.


Lo dico perché sono certo che a molti, oggi, sfugge un aspetto centrale del “problema mediorentale”: la Siria di Asad.


Però, per parlare dell’oggi, delle preoccupazione dei nostri Ministri dell’interno, dei tagliatori di teste anglofoni e delle teste mozzate in Iraq, uso le parole di Zanzuna (uno pseudonimo). L’articolo, che qui riporto per intero, è apparso il 9 settembre su SiriaLibano (VAI ALL’ARTICOLO). (Nazione Indiana, 12 settembre 2014).

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Published on September 19, 2014 05:07

September 15, 2014

Obama-Asad, alleati (di fatto) contro l’Isis

SteveSackstartribune


(di Lorenzo Trombetta, per Europa). La strategia dell’amministrazione americana è di chiudere il secondo mandato di Barack Obama senza troppi danni in politica estera. E il modo in cui l’amministrazione Usa ha gestito e sta gestendo il suo approccio alla questione siriana, legata a quella irachena, continua a dimostrare la volontà di Washington di tenersi il più possibile fuori dal conflitto in corso da tre anni e mezzo e che ha causato finora la morte di oltre 200mila persone.


Se Obama potesse spingerebbe il tasto “pausa” del telecomando del mondo lasciando al suo successore il compito di spingere “play”. Il presidente americano non ha mai avuto tra le mani un simile aggeggio e il mondo, per sua sfortuna, continua a girare. E a ogni giro costringe il presidente Usa a inventarsi qualcosa. Per non tradire le aspettative di chi, in America e all’estero, crede che solo lui possa guidare le iniziative per salvare il pianeta dal cattivo di turno.


L’uomo nero del momento è lo Stato islamico attivo in Iraq e Siria. Per Obama e la sua amministrazione, il gruppo jihadista è diventato veramente minaccioso solo quando, ai primi di agosto scorso, i suoi uomini si sono avvicinati troppo agli interessi americani e occidentali presenti nel Kurdistan iracheno. Lo Stato islamico è poi stato promosso a pericolo numero uno quando i suoi addetti alla propaganda hanno diffuso, il 19 e il 2 settembre scorso, i filmati delle barbare uccisioni di due giornalisti americani, James Foley e Steven Sotloff, da lungo tempo scomparsi in Siria.


Chiunque segua le cronache mediorentali sa che lo Stato islamico è “minaccioso” da più di un anno. Da quando, agli inizi del 2013, dall’Iraq occidentale è sconfinato in Siria. E ha risalito l’Eufrate, fino a lambire la periferia di Aleppo, un tempo metropoli mediorentale, e a installarsi nella regione di Idlib, ad appena 50 chilometri in linea d’aria dal Mediterraneo. Da qui, nella primavera scorsa, è stato poi respinto verso est dai miliziani siriani anti-regime, ma in compenso si è espanso fino a conquistare Mosul – un’altra metropoli del Medio Oriente – e a rafforzare il suo “Stato” in un territorio vasto quanto l’Ungheria.


La commissione d’inchiesta Onu sui crimini commessi in Siria ha pubblicato a metà agosto un nuovo rapporto sulle sue indagini. Oltre a documentare le violazioni commesse, in larga parte, dalle forze di Damasco e, in parte più ridotta, dalle milizie anti-regime, gli inquirenti internazionali hanno compilato una lunga lista di crimini commessi dallo Stato islamico contro civili siriani, per lo più musulmani sunniti ma anche di altre comunità etniche e religiose. Gran parte di questi crimini erano noti alle cancellerie occidentali e l’eco di queste barbarie è giunta anche sulle pagine di alcuni giornali europei e nordamericani.


Nel suo discorso del 10 settembre, Obama ha ribadito che le azioni politiche e militari che gli Stati Uniti intendono intraprendere contro lo Stato islamico sono in risposta alla minaccia agli interessi Usa. Analogamente l’8 agosto scorso, Obama aveva spiegato la necessità di compiere raid aerei contro postazioni jihadiste in Iraq prima di tutto per proteggere gli americani e i loro avamposti in Kurdistan. E i toni retorici dell’amministrazione Usa si sono inaspriti tra la fine di agosto e i primi di settembre, come ad accompagnare lo choc mediatico seguito alla diffusione dei video delle uccisioni di Foley e Sotloff.


Da tempo Obama e i suoi erano al corrente dei crimini attribuiti allo Stato islamico e della sua crescente potenza militare a cavallo tra Iraq e Siria. Eppure, le decisioni di annunciare al mondo un intervento deciso e muscolare, prima, per difendere Arbil e, poi, per rispondere alle decapitazioni dei due giornalisti, sono sembrate reazioni improvvise e dettate dalla spinta emotiva piuttosto che passi intrapresi nell’ambito di una strategia pianificata in precedenza e con una prospettiva a lungo termine.


Qui su Europa è stato di recente scritto che la strategia siriana di Obama e del suo segretario di Stato John Kerry è stata dominata – almeno fino al fallimento dei negoziati di Ginevra lo scorso febbraio – dalla convinzione che l’unica soluzione era politica e che questa prevedeva un compromesso tra opposizioni e regime di Damasco.


La mia convinzione era e rimane che gli Usa e i loro alleati occidentali erano invece ben consci che i negoziati svizzeri non avrebbero portato alcun risultato concreto. E la loro insistenza nel sostenere pubblicamente la formula di Ginevra 2 era dettata dall’esigenza di Obama di immischiarsi il meno possibile nel pantano siriano, dando però l’impressione di voler fare qualcosa.


Se lo Stato islamico operasse solo in Iraq e se i due giornalisti fossero stati uccisi fuori dalla Siria, Obama non avrebbe annunciato un allargamento alla Siria del raggio dei bombardamenti aerei e i civili siriani, tornati protagonisti nei recenti discorsi del presidente Usa, continuerebbero così a morire nell’indifferenza generale.


In Iraq invece, l’accordo politico e militare trovato con l’Iran per contenere lo Stato islamico sembra assicurare a Washington un coinvolgimento limitato, fatto di 1.600 militari tornati nel paese, raid aerei mirati e assistenza alle forze governative e alle milizie curde e sciite. Alle opinioni pubbliche occidentali è bastato raccontare che questa nuova guerra veniva lanciata per salvare i cristiani, gli yazidi e i turcomanni, comunità da decenni esposte al rischio di estinzione, ben prima dell’ascesa dello Stato islamico.


Gli strateghi americani hanno però fatto notare che i jihadisti operano anche in Siria. E l’intelligence Usa ha confermato che Foley e Sotloff sono stati uccisi in territorio siriano. Da qui il mantra ripetuto più volte negli ultimi giorni dal presidente americano: colpiremo anche in Siria. Ma come? Da Damasco, i passacarte del regime hanno più volte risposto di esser pronti al coordinamento con Washington in nome della “lotta al terrorismo”. Obama ha però ieri affermato che il partner locale siriano non sarà il presidente Bashar al Assad: «Non possiamo fidarci di chi terrorizza il suo popolo».


La Casa Bianca è così tornata a evocare non meglio precisati sostegni ai “ribelli moderati”, una categoria inventata tanto per far fessi i senza-memoria. Da almeno due anni, gli Usa spendono soldi per fornire aiuti diretti e indiretti a frange dell’insurrezione, ma sul terreno non si è registrato nessun decisivo ribaltamento degli equilibri. Al contrario le forze lealiste, padroni dei cieli e sostenute da Iran e Russia, hanno ripreso gran parte dell’asse urbano Daraa-Aleppo, spingendo le milizie delle opposizioni, sempre più radicali in senso islamico, a difendere roccaforti rurali periferiche.


All’incontro di Jedda, in Arabia Saudita, Kerry ha raccolto il consenso degli alleati del Golfo a impegnarsi contro lo Stato islamico, aumentando il sostegno ai miliziani siriani anti-regime. Visti i risultati raggiunti finora in Siria dal coinvolgimento di questi emirati e regni arabi, è difficile immaginare l’emergere improvviso di un “fronte moderato” anti-Damasco in grado di sconfiggere, al tempo stesso, lo Stato islamico e le forze lealiste. Dal canto loro, Russia e Iran hanno già detto no a un simile scenario. Anche perché dal Libano all’Iraq ormai si vedono gli effetti di un avvicinamento tra Teheran e Riyad.


E mentre l’opzione “ribelli moderati” continua ad apparire come una suggestiva ipotesi utile solo a riempire i titoli dei giornali, in attesa che si arrivi alla fine del mandato, l’unica opzione praticabile per Obama è di fatto quella di accordarsi sotto banco con Damasco per indebolire lo Stato islamico anche in Siria. La minaccia jihadista sarà gradualmente contenuta (ma non sconfitta: l’uomo nero farà sempre comodo a molti) a est e a ovest dell’Eufrate e l’intesa informale con l’Iran sull’Iraq non sarà intaccata.


Intanto, la Siria utile cadrà del tutto nelle mani dei lealisti e dei suoi alleati iraniani, che forse potranno riprendersi porzioni della Siria orientale ricca di risorse. Questo rafforzerà il fronte jihadista i cui simpatizzanti percepiranno l’azione americana come un rafforzamento di un asse cristiano-sciita ai danni del sunnismo. E tra i ribelli rimarranno attivi e minacciosi solo i qaedisti della Jabhat al Nusra, sul Golan capaci di spaventare più Israele che Damasco (Europa Quotidiano, 13 settembre 2014)

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Published on September 15, 2014 07:56

September 10, 2014

Beirut senza mare

Rawche, anni '50


Ogni volta che me lo trovo davanti mi sorprende. Mi sorprende la sua presenza. Come se non fosse scontata. Perché è come se non ci fosse. Il mare è sì sullo sfondo, ma non c’è. Non se ne sente l’odore. Né la puzza o il profumo. La sera, lungo la Corniche, il vento comincia a spirare. Bisogna però andare fino alla Spiaggia Bianca per accorgersi che a Beirut c’è il mare. In città è una comparsa che fa capolino tra i palazzi, ormai protagonisti dell’orizzonte.


Altre città di mare hanno molto più mare in città. Qui è spesso inaccessibile. Una scaletta fetente, macchiata di piscio e Coca-Cola rafferma, ti porta da un gruppo di pescatori. Uno di loro sta pisciando sullo scoglio. E non è nemmeno troppo appartato.


Ci si allontana per vedere sullo sfondo il profilo di quel che un tempo era il caffè Hajj Dawud. Dietro si staglia il Sannine. A volte è innevato. Scattiamo una foto? “Il mare a Beirut, che bello!”. Mostreremo la foto. Ricorda quel film israeliano che parla di Sabra e Shatila… “guarda la Corniche com’era un tempo… i palazzi sono gli stessi”. I palazzi, appunto. Ma il mare…? Dov’è?


Un altro pescatore si atteggia a stilita su un barile di olio per motori. Un altro su un barchino poco più in là agita la metà del suo corpo nell’acqua. A riva, un ristorante finto-popolare offre pipe d’acqua a chi vuole “prendere un po’ d’aria”. Ci sediamo vicino alle onde? Il mare scuro che si muove anche di notte e non sta fermo mai sembra disturbare la clientela. E le ballerine sguaiate e chiassose all’interno del locale.


La domenica tutti allo Sporting. “Lì c’è il mio pittore preferito…”. Ma dai? Anche tu allo Sporting? “Sì, lì incontro quel romanziere che ha vinto il premio negli Emirati… come si chiama?”. Lo Sporting costa caro. Ma per molti non ha prezzo distendere il proprio asciugamano su una colata di cemento. Ostia? Il paradiso!


Una piscina – forse un tempo era la vasca per i bambini – è colma di un liquido verde chiamato da alcuni “acqua lercia”. Le onde si divertono a disegnare cerchi di schiuma marrone e rossastra. Una birra locale – mi raccomando gelata! – per non guardare troppo lontano. Un aereo che si avvicina prima di sparire alle tue spalle. Tante chicchere e risate, musica nelle orecchie. E poco, pochissimo mare. Una scaletta arrugginita non invita più nessuno a sparire nel blu di una cartolina anni ’60.


E torna vivo il ricordo di Rawche. Non è Capri, va bene. Ma ha il suo fascino quella Polaroid che scatta foto-ricordo agli innamorati e a chiunque abbia cinquemila lire in tasca. Il tramonto sugli scogli è da non perdere. Il mare, lo confesso, l’ho dimenticato. Le coppiette che si appartano tra i canneti e le dune sotto il Moevenpick attraversano sacchetti di plastica e ciabatte nere dimenticate, scoppiate, di altre coppie in cerca di un attimo di libertà.


Ecco, la libertà. “Un tuffo e via?” No. Almeno se non sei un ragazzaccio di periferia o un sopravvissuto di Ayn al Mreisse, fare il bagno in libertà a Beirut è impossibile. Con mio figlio sfido la sorte saltellando sugli scogli di fronte al lungomare. Ma è solo uno sterile jihad per rivendicare un’appartenenza a un mondo altro. Dove scendere al mare è naturale. E non è appannaggio solo di bulli maleducati.


Prima o poi verrà certamente l’esotista di turno, il neofita europeo, il sapientino arabista che, dopo aver letto queste parole, vorrà insegnarmi che se ci si infila in quell’anfratto, si scende quella scaletta, si parla col signore che pesca sempre a quell’ora e si compra una caramella da quel mendicante in erba… allora si trova “il mare che cerchi. Anche a Beirut”. No, il mare che cerco qui non c’è. Ma io ti amo ugualmente. Anzi, di più perché ti conosco. E so bene che tu il mare non me lo puoi proprio dare.

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Published on September 10, 2014 14:48

L’Isis che è in noi

Finché non comprenderemo il vero significato del concetto di cittadinanza, dittature ed estremismi continueranno ad avere la meglio.


di Osama Nazzal


(di Hanin Ghaddar per Now. Traduzione dall’inglese di Camilla Pieretti). Per quanto Qatar e Turchia continuino a sostenere politicamente Hamas, la realtà sul campo è ormai ben diversa. Gli Stati membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, hanno mostrato chiaramente di non essere disposti a tollerare che il Qatar si intrometta negli affari del mondo arabo senza il dovuto coordinamento e consenso. Inoltre, è poco probabile che l’Iran riprenda Hamas sotto la propria ala, dato che l’organizzazione continua ad appoggiare i ribelli siriani.


Forse per questo Hamas, branca dei Fratelli Musulmani, ha ricevuto così poco sostegno dal mondo arabo nell’ultima guerra a Gaza. L’organizzazione è perfettamente consapevole di aver perso consensi e alleati, ma, mentre Israele tiene Gaza sotto il solito, inarrestabile fuoco di artiglieria, Hamas pare pensare solo a rafforzare la propria posizione nei negoziati per il cessate il fuoco: crede ancora di essere la migliore delle alternative possibili e spera che i grandi attori internazionali la pensino allo stesso modo.


Tuttavia, dati i deludenti risultati della Primavera araba, Hamas dovrebbe aver capito che oggi gli arabi della regione si ritrovano a scegliere tra due sole forme di governo: l’Islam politico o l’autocrazia. In Egitto, l’alternativa a Muhammad Morsi si è rivelata essere un colpo di stato militare; mentre le dittature in Iraq e Siria hanno lasciato il posto alla violenza estrema dello Stato islamico (Is). Le alternative ad Hamas sarebbero quindi un gruppo estremista islamico o l’Autorità Nazionale Palestinese, debole e corrotta.


Ma se la Primavera araba ci ha condotto a questa nuova realtà delimitata così, è perché non ha fatto delle libertà personali e individuali che definiscono la vera cittadinanza il cuore dei suoi principi. In generale, la retorica dell’opposizione in gran parte dei paesi coinvolti nella Primavera araba ha totalmente ignorato i diritti e le libertà e trascurato i diritti delle donne e delle minoranze. Non siamo riusciti ad agire da veri cittadini, ed ecco che oggi ci ritroviamo prigionieri delle solite vecchie storie sulla teoria del complotto.


A giudicare dai recenti sviluppi in Iraq, Siria ed Egitto, pare che in questi tre anni di Primavera araba abbiamo imparato a comprendere le nostre mancanze, ma non a colmarle. Oggi sappiamo di poter scegliere tra due diverse opzioni: o la libertà, o la sicurezza, mai le due cose insieme. Se non altro, le esperienze di questi ultimi anni ci hanno insegnato che la sicurezza tende a presentarsi sotto forma di totalitarismo: o si accetta un regime militare, oppure ci si ritrova guidati da un governante fazioso, e finché non impareremo a dare il giusto valore all’individuo, le cose non cambieranno.


Un’altra delle lezioni che abbiamo imparato è che l’Islam politico è una forma di governo insostenibile, efficace soltanto come piattaforma di opposizione popolare. Tuttavia, continuano ad aprirsi spazi vuoti e il terrore dello Stato islamico presto spingerà la popolazione ad accettare i vecchi dittatori e capi militari, in attesa che l’Occidente intervenga a risolvere il problema.


Di fatto, l’Occidente ha deciso una settimana fa che non era disposto a tollerare l’Is e poco dopo gli Stati Uniti hanno cominciato a bombardare le sue postazioni in Iraq. Il loro intervento ha fatto felici sia la gente comune sia i regimi, convinti che li attenda un futuro migliore. Ma è davvero una buona notizia? Il declino dell’Islam politico e degli estremismi potrebbe effettivamente dare nuove possibilità ai movimenti laici e democratici nei paesi arabi?


Crederci sarebbe una follia. Con l’eccezione di pochi attivisti, presto emarginati, le rivolte non sono riuscite a mirare al cuore dei nostri problemi: gran parte della gente cercava una libertà politica che non ha niente a che fare con il vero significato di cittadinanza, e raramente la retorica delle manifestazioni o dei movimenti di opposizione ha affrontato il tema delle libertà personali e individuali.


Se continuiamo a soffrire non è colpa dello Stato Islamico, dell’Islam politico o del mancato sostegno dell’Occidente. Il punto non è la contrapposizione tra Islam moderato e Islam radicale. Tutte queste questioni, incluso il conflitto sempre più sanguinoso tra sciiti e sunniti, sono il risultato di una condizione che ci definisce tutti, sciiti, sunniti, moderati ed estremisti. Il problema è che continuiamo a identificare ciecamente la democrazia con delle urne elettorali e con il diritto dei membri di partiti politici e gruppi confessionali diversi di calunniarsi l’un l’altro in televisione.


È preoccupante che un’attivista egiziana liberale, che si è opposta strenuamente sia a Morsi che a Sisi, si metta a contestare duramente i diritti sessuali delle sue compagne. Ed è ancora più sconcertante sentirsi dire da un attivista siriano laico, contrario sia ad Assad che all’Is, che adesso non è il momento di parlare dei diritti delle donne in Siria.


Quando sarà, allora, questo momento? Se davvero stiamo lottando per la libertà, adesso è il momento giusto per battersi per la libertà di ogni gruppo e individuo.


Per contrastare l’Is o altri gruppi estremisti e per evitare che sorgano nuovi dittatori, dobbiamo assumerci la responsabilità dei fallimenti collettivi che hanno aperto la strada a tutti questi despoti e fanatici. I nostri sistemi di comunicazione e di istruzione sono tra i principali responsabili del mostro che abbiamo contribuito a creare. Entrambi, infatti, riecheggiano in un inarrestabile circolo vizioso la retorica che ci è stata inculcata a scuola: che siamo vittime di un’enorme cospirazione e dobbiamo solo avere fiducia nei nostri leader. E noi non possiamo fare altro che adeguarci, perché altrimenti cominceranno i veri problemi.


Ecco perché i gruppi della società civile, le organizzazioni internazionali, gli attivisti laici locali e tutti coloro che vogliono spezzare questi vischiosi circuiti che ci controllano devono riunire le proprie forze e cambiare questa retorica di fondo, partendo proprio dalla disastrosa situazione del nostro sistema scolastico e di quello mediatico. Nei nostri curriculum scolastici dobbiamo abbandonare la chimera di una gloriosa Umma che non ha confini e cominciare a insegnare la storia come un processo in cui si vince e si perde. Dobbiamo insegnare ai nostri figli a imparare dai nostri errori e non a padroneggiare l’arte della negazione.


Solo quando i nostri insegnanti e giornalisti cominceranno a comprendere l’importanza dei diritti individuali e ad ammettere che non siamo riusciti ad essere dei bravi cittadini, potremo iniziare a sperare nella libertà, anche se per ottenerla ci vorrà del tempo.


Fino ad allora, gruppi come Hamas, Hezbollah o lo Stato islamico, regimi dittatoriali e politici corrotti continueranno ad avere la meglio. (Now, 22 agosto 2014)

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Published on September 10, 2014 10:38

September 9, 2014

Siria, in carcere chi chiede dei militari scomparsi

Alguma semelhança(di Zanzuna per SiriaLibano). Non ha usato mezzi termini il presidente americano Barack Obama quando, nell’incontro Nato tenutosi venerdì a Newport in Gran Bretagna, ha parlato dei mezzi per sconfiggere lo Stato islamico. Non ha utilizzato l’espressione “linea rossa”. Né ha insistito sulla “necessità di trovare  soluzioni politiche”.


Obama è sembrato deciso e chiaro:  “Vi è una ferma convinzione che dobbiamo agire. (…) Lo Stato islamico è una grave minaccia per tutti. E nella Nato c’è una grande convinzione che è l’ora di agire per indebolire e distruggere l’Isis”.


Da Newport 2014 a Bruxelles 2013 è passato più di un anno. Allora, la tavola rotonda della Nato aveva altre priorità, e la situazione siriana presentava realtà diverse: la Nato respinse un “intervento nel conflitto siriano, nonostante il deterioramento della situazione”.


Non sembra essere molto utile mettersi a studiare cosa è accaduto in questo periodo per capire come mai la Nato abbia cambiato idea.


Non è stato per Raqqa, la prima città uscita dal controllo del regime nel marzo 2013 e capace di gestire la sua vita civile nel primo mese di libertà, prima dell’arrivo dello Stato Islamico. Non è  stato per il massacro della Ghuta con i gas nell’agosto 2013.


Forse il caos creato dallo Stato islamico in Iraq è diverso da quello creato in Siria.  Forse solo adesso “le minoranze del mosaico religoso sono a rischio”. Forse è stato a causa della morte dei due giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff, barbaramente uccisi dallo Stato Islamico. In questo modo il video game funziona e convince il mondo a unirsi per combattere contro i terroristi.


Anwar al Bunni, avvocato siriano da decenni in prima fila per la difesa dei diritti umani, scrive sulla sua pagina Facebook: “Non so perché il mondo vibra di panico quando centinaia di teste vengono tagliate dalla spada, ma non vibra quando decine di migliaia di persone vengono uccise dai barili esplosivi lanciati dagli aerei, o dai missili, o dalle armi chimiche, o sotto tortura (…). La risposta ha a che fare con l’identità dell’assassino? O forse con l’identità della vittima? Se l’assassino indossa l’abito laico gli è permesso forse di uccidere chi vuole e nel modo in cui lui vuole? Ma se il boia indossa l’abito religioso gli è vietato anche di urlare?”.


Due facce della stessa medaglia. Una uccide il popolo con il coltello. L’altra col veleno. Una uccide e dice “sto uccidendo e sono così”. L’altra consegna alla prima il popolo che deve essere ucciso.


Il presidente siriano Bashar al Asad ha imparato dall’esperienza americana: creare il nemico terrorista serve per diventare il baluardo contro l’integralismo da combattere con tutti i mezzi, leciti o meno. A dire il vero, Asad figlio ha imparato bene dal padre.


Per fare funzionare questo gioco chiede ai suoi militari di ritirarsi da alcune aree, lasciando scoperti molti luoghi del fronte contro lo Stato islamico. Molti suoi soldati sono così lasciati impotenti da soli ad affrontare l’attacco della marea nera dei jihadisti. Solo allora, servirà l’intervento salvifico delle truppe di Asad.


Nadin, un’attivista siriana, racconta la sua storia nelle località attorno a Tartus: “Non ci sono più uomini nei villagi alawiti. Questi villaggi sono ormai famosi perché le donne che vi abitano non hanno più un uomo al loro fianco. Gli uomini che tornano, tornano morti”.


#Wainun(“Dove sono?”) è una campagna Web gestita da attivisti siriani per chiedere che sia fatta luce sulle sorti degli scomparsi come Padre Paolo, Razan Zaytune, Samar Saleh, Mazen Darwish, Yehya Sharbaji e molti altri.


Su modello di questa campagna, i siriani fedeli ad Asad, hanno cerato una pagina Facebook in cui campeggia la foto del raìs e chiamata: “Le aquile dell’areoporto militare di Tabqa, uomini di Asad” in riferimento alla battaglia avvenuta a fine agosto nella regione settentrionale di Raqqa tra lealisti e jihadisti.


Di solito questa pagina incoraggiava i soldati a combattere nel nome di Asad. Soprattutto quelli rimasti nella base militare area di Tabqa ad affrontare lo Stato islamico. Ma quelle “aquile” sono poi state abbandonate. Senza nessun sostegno di Asad.


Ecco perché i lealisti, autori de “Le aquile dell’areoporto militare di Tabqa, uomini di Asad”,  hanno creato nella stessa pagina una sezione informativa chiamata #Wainun dove raccolgono notizie sulla sorte dei militari dell’esercito regolare scomparsi.


L’episodio di Tabqa non è stato certo l’unico. Ma è stato il più recente e quello più drammatico. Centinaia di soldati sono stati uccisi dai jihadisti. Il regime non solo non li ha difesi, non ha nemmeno parlato della loro morte nei canali televisivi governativi che hanno invece proseguito a trasmettere secondo il palinsesto regolare, con musichette e serie televisive.


I toni espressi nella pagina Web #Wainun dei lealisti mettono a nudo la rabbia e la delusione di molti sostenitori del regime: “Dove sono i nostri figli?”, hanno chiesto in molti. Come se questi seguaci di Asad si fossero accorti solo adesso del gioco e del fatto che il regime è capace di impegnare ogni energia per liberare dei rapiti russi o iraniani, ma è capace di lasciare al loro destino tragico centinaia di soldati semplici. Come carne da macello e niente più.


La pagina lealista #Wainun ha così superato la “linea rossa” indicata dal regime e dai suoi servizi di controllo e repressione. Ma non comprendete male: non è che gli agenti dei servizi sono andati a difendere i soldati di Asad al fronte contro i jihadisti. No… gli agenti sono andati ad arrestare l’amministratore della pagina Facebook e l’ideatore della campagna, Mudar Khaddur.


Khaddur è sempre stato un lealista. Poi ha perso uno dei suoi fratelli nella battaglia dell’aereoporto. E ha creato questa pagina per chiedere ad Asad e al ministro della difesa, Fahd al Frej, i motivi per cui i generali sono scappati, lasciando i soldati in mano allo Stato islamico, che prima li ha insultati e poi uccisi. Khaddur ha trascorso giorni e giorni per raccogliere informazioni sui soldati scomparsi e per dare la notizia alle loro famiglie.


Questa partita a scacchi il regime la vuole giocare fino all’ultimo. Ha capito di essere il re e di poter giocare col sangue. Non pensa di esser sconfitto solo perché fa la parte del cattivo. Non crede alle favole, dove i cattivi alla fine vengono sconfitti. A differenza di noi, il regime di Asad sa che non è “il protettore del Paese” e che non è “il protettore delle minoranze”. Lo sa bene e sorride di fronte ai proclami di Newport e Bruxelles, ai negoziati di Ginevra-2 e Ginevra-1, alle riunioni degli Amici della Siria e degli Amici del regime. Perché in questa partita a scacchi, nessuno vuole gridare “Scacco matto!”.

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Published on September 09, 2014 03:56

September 4, 2014

Siria, quei giornalisti uccisi che in pochi ricordano

Muhammad al Khatib, uno dei giornalisti siriani uccisi (Rsf)(di Lorenzo Trombetta). Non decapitati ma freddati con colpi di arma da fuoco alla testa, torturati a morte, sequestrati e mai più tornati a casa: sono le centinaia di giornalisti e fotografi arabi, per lo più siriani, uccisi nelle violenze in corso in Siria e molto spesso dimenticati dai grandi media, più attenti a raccontare le storie dei reporter occidentali morti nel martoriato Paese mediorientale.


Secondo l’Ordine siriano dei giornalisti, formato da operatori dell’informazione non allineati al regime di Damasco, dal 2011 a oggi sono stati uccisi 244 cronisti e fotoreporter, siriani e arabi. Ben quattro, tre siriani e un egiziano, sono morti nel giugno scorso. Reporters Sans Frontiers conta decine di giornalisti locali uccisi dall’inizio dell’anno.


Il regime siriano e i jihadisti dello Stato islamico sono indicati dalle fonti come i principali mandanti ed esecutori di questi crimini. Una delle vittime, il 21enne Mutazbillah Ibrahim, lavorava a Raqqa, nel nord, come reporter per il gruppo editoriale Shaam quando membri dello Stato islamico lo hanno rapito, torturato per due mesi e poi giustiziato il 4 maggio scorso.


La salma è stata consegnata alla madre tre giorni dopo l’uccisione. Ahmad Hasan Ahmad, aveva 29 anni e lavorava come fotografo per l’agenzia di notizie cinese Xinhua. E’ morto a Damasco in circostanze mai chiarite colpito da colpi di arma da fuoco alla testa il 4 giugno 2014. Il suo collega egiziano, il reporter Nuri Abdellatif, era arrivato nella capitale per seguire i festeggiamenti per la “rielezione” del presidente Bashar al Assad.


E’ stato colpito da un colpo di mortaio sparato da miliziani contro un corteo lealista. Il 27 giugno scorso è stato invece ucciso a Daraa, nel sud della Siria, Muhammad Taani, reporter dell’agenzia di notizie locale Smart. Si è spento dopo sei giorni di coma passati in un ospedale giordano dove era stato ricoverato per le ferite riportate durante un bombardamento aereo del regime.


I jihadisti dello Stato islamico hanno ucciso nel giugno scorso Bassam Rayyes, 27 anni, che lavora come reporter nelle zone attorno a Damasco solidali con la rivolta. Il suo corpo, con segni di tortura e un foro di arma fa fuoco al petto, è stato ritrovato il 30 del mese assieme ad altri corpi senza vita in un’abitazione alla periferia nord-orientale della capitale, dove si erano acquartierati i jihadisti prima di ritirarsi cacciati da insorti locali.


E’ invece morto sotto tortura in una delle prigioni del regime il 33enne Muhammad al Khatib (foto in alto). Era stato arrestato l’8 gennaio 2012 a Damasco dopo che aveva incontrato membri della commissione d’inchiesta della Lega Araba, giunta in Siria in quel periodo. Torturato a lungo nel carcere di Saydnaya, vicino la capitale, Khatib è morto il 18 giugno 2014. La salma non è mai stata consegnata ai suoi cari, che hanno ricevuto dalle autorità siriane solo la carta d’identità del giovane reporter. (ANSA, 3 settembre 2014)

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Published on September 04, 2014 01:13

September 3, 2014

SABIR Maydan, il forum della cittadinanza mediterranea

SabirMaydanUna “piazza” aperta al dibattito pubblico, per discutere di democrazia, cittadinanza e futuro del Mediterraneo.


È questa l’essenza di “SABIRMaydan”, l’evento previsto il 28 settembre prossimo a Messina, organizzato da COSPE e Mesogea nell’ambito del Festival di letteratura mediterranea SabirFest: un progetto che vede proprio nella partecipazione la sua cifra essenziale, dato che sarà finanziato in parte attraverso una piattaforma di crowdfunding (Produzionidalbasso).


“Maydan” in arabo significa “piazza”: e la piazza è diventata, negli ultimi anni, teatro e simbolo delle rivendicazioni politico-sociali e della richiesta di maggiori diritti civili e libertà da parte delle nuove generazioni dei paesi del Sud e del Nord del Mediterraneo. Dalle “Primavere arabe” in Egitto e Tunisia ai sit-in degli Indignados in Spagna, dalle rivolte anti-austerity in Grecia alle proteste via social network in Turchia, le piazze del Mediterraneo sono diventate il luogo dove i giovani egiziani, turchi, tunisini, italiani, spagnoli o greci, hanno condiviso rabbia e proteste, ma anche proposte e soluzioni. Nonostante questa straordinaria mobilitazione di massa e la forza che ne è derivata, però, è crescente la frustrazione per l’incapacità delle istituzioni tradizionali di rispondere alle domande e alle richieste di diritti, democrazia e giustizia sociale.


Il forum SABIRMaydan vuole dunque essere un luogo di espressione, di confronto e di costruzione della cittadinanza mediterranea per un destino comune tra i popoli delle due rive, e vuole diventare un appuntamento annuale per la cittadinanza attiva trans-mediterranea. Il forum è dedicato a Padre Paolo Dall’Oglio rapito in Siria un anno fa (29 luglio 2013) e al blogger egiziano Alaa Abdel Fattah che sta scontando 15 anni di carcere.


Per contribuire alla realizzazione di questo evento basta consultare la piattaforma crowfunding “Produzioni dal basso” (qui il link alla pagina). Mancano ancora pochi giorni!


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Published on September 03, 2014 03:45

August 31, 2014

La vita ti merita, Professore

Sandro Minisini


(di Zanzuna). Udine, febbraio 2012: Solitudine, malcontento verso tutto, rifiuto di incontrare le persone.


La Siria che era il Paese del “mosaico di culture e religioni”, il Paese degli scavi acheologici, era diventato il Paese della guerra. E la siriana che faceva la mediatrice culturale in Friuli, parlando della poesia e delle feste tradizionali siriane, da quel momento avrebbe dovuto cambiare argomanto e parlare di guerra e di morti.


Una paura tremenda la prima volta che avrebbe dovuto parlare della famiglia Asad e spiegare alla gente che la Siria, il Paese del “mosico di culture”, era dominata da una famiglia di dittatori che la controllava e che l’aveva minata.


Paura di non poter tornare, paura di fare male alla famiglia ancora lì. Paura di piangere mentre parlava, paura di non avere più la voce.


Lui era lì tra la gente. Il professore era lì che ascoltava e guardava. Non si conoscevano ancora.


Molto elegante. Capelli e baffi bianchi, occhiali, un braccialetto di argento al polso destro.


Quando la conferenza finì, si salutarono. Quel saluto ha cambiato molte cose nella vita di solitudine di quella ragazza siriana.


Uno sguardo di padre e il coraggio di uno suo paesano: questo le aveva trasmesso quel primo saluto.


Lui conosceva ogni pietra di Aleppo. Lei, la siriana, si vergognava quando le nominava strade e zone dove non era mai stata. Sentiva che tra lui, le pietre e la gente di Aleppo c’era un legame antico quanto quella pietra bianca.


Lui già dal 2001 sapeva che la Siria non era solo il Paese delle meraviglie. Lui aveva vissuto con la gente e aveva sentito l’odore di sangue tra le pietre di quel Paese “mosaico di culture e religioni”. Lui aveva letto la paura negli occhi della gente. Lui aveva visto come le foto del presidente appese ovunque proibivano ad Aleppo e alla Siria di respirare.


Ma chi ha detto che i confini valgono per tutti? Lui il professore italiano era per lei, siriano in tutti sensi. E lo si capiva quando parlava, perché parlava con il cuore. Si arrabbiava con tutti quelli che giustificavano la dittatura in Siria e a loro chiedeva: se la dittatura l’avessimo avuta noi in Italia, avrebbero reagito nello stesso modo?


Aveva trasformato le montagne del Friuli in una piccola patria per quella siriana. Le aveva fatto trovare il senso di vivere lì, anche se lontanta dal suo Paese in quei momenti bui.


Lei tornerà tra poco. E vi rivedrete. Così vi eravate messi d’accordo.


Lei sente ancora la tua voce, quando le spiegavi del viaggio di Montale e le recitavi la poesia su Aleppo:


Dicevano gli antichi che la poesia

è scala a Dio. Forse non è così

se mi leggi. Ma il giorno io lo seppi

che ritrovai per te la voce, sciolto

in un gregge di nuvoli e di capre

dirompenti da un greppo a brucar bave

di pruno e di falasco, e i volti scarni

della luna e del sole si fondevano,

il motore era guasto ed una freccia

di sangue su un macigno segnalava

la via di Aleppo.


La vita ti merita, Professore…


Arrivederci.


________________


Sandro Minisini, nato a Udine nel 1950, è stato professore di italiano e latino al Liceo classico Stellini di Udine. Ha insegnato per tre anni italiano in Siria, come lettore all’Università di Aleppo, dal 2001 al 2003. Da quando è scoppiata la rivoluzione in Siria si è impegnato a sostegno del popolo siriano e della rivoluzione, sia attraverso l’informazione che con iniziative culturali (8 marzo 2010: “Le esperienze di un professore europeo in una Università siriana”; 6 settembre 2011: “The Arab awakening, il risveglio arabo contemporaneo e la crisi dei Regimi autoritari: il caso della Siria”; 24 febbraio 2012: “Siria, la solitudine di una rivoluzione”; 15 marzo 2013: “A due anni dalla rivolta siriana”, inaugurazione della mostra di Daniela Isola sua moglie, “Aleppo la città perduta”,  5 agosto 2013: “La nostra Siria”). Il 20 agosto 2014 il Messaggero Veneto titolava: “Addio al professor Minisini”.

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Published on August 31, 2014 01:41

Lorenzo Trombetta's Blog

Lorenzo Trombetta
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