Lorenzo Trombetta's Blog, page 5

May 2, 2016

La “rivoluzione” dei vignettisti siriani

0b1ad7a7b79268a1f4558db78e092446_Generic_73(di Omar al Shaykh, per al Araby al jadid. Traduzione dall’arabo di Claudia Avolio).

A metà del 2007 la vignetta “l’elettore siriano” (qui a sinistra) del disegnatore Alaa Rostom ha portato alla rovina del capo-redattore del quotidiano Baladna, il giornalista George Hajuj. All’epoca la pubblicazione era venuta a coincidere con la campagna elettorale per “rinnovare la fedeltà” verso Bashar al Asad.


Il disegno si prendeva gioco del parlamento siriano e i deputati vi comparivano con le mani sospese a corde legate in alto a una carrucola manovrata da una persona sola. I votanti quindi apparivano come delle marionette mosse dal leader perché votassero come voleva lui.


Oggi, dopo cinque anni di rivoluzione, l’audacia delle vignette siriane è passata da un imbarazzato monitoraggio delle tribolazioni della vita a un grido che trae il proprio fuoco dalla cronaca della guerra e distruzione quotidiane.


Per quarant’anni l’autorità siriana ha trasmesso un terrore assoluto sulla stampa, ma ciò non ha impedito al vignettista siro-palestinese Hani Abbas di portare il dolore della strada nei suoi disegni dopo aver dovuto abbandonare la zona di Babbila nella periferia di Damasco. Hani Abbas veniva ogni giorno a contatto con le manifestazioni, assistendo a suo modo allo sfaldarsi della paura nei confronti dell’ironia.


Dice oggi: “Prima i messaggi convogliati dalle vignette siriane erano formulati in modo generico, il disegnatore non identificava con esattezza certe persone: che fossero i volti delle autorità o dei funzionari, era difficile che avvenisse. Questo ha portato il disegnatore a tirare fuori la sua idea in modo generico, raffigurando persone senza tratti caratteristici. E così poteva ridere perfino la persona ritratta, credendo si trattasse di qualcun altro!”. Oggi invece il vignettista si ritrova faccia a faccia con eventi da cui non può fuggire e che non può eludere: deve perciò prendere una posizione. “Così è iniziato un cambiamento di rotta importante nell’arte delle vignette siriane da parte dei disegnatori che si trovano all’interno del Paese. È stato come un parto cesareo difficile per tirare fuori la voce in modo chiaro”, dice Hani Abbas.


Concorda il vignettista Yasser Ahmad sulla descrizione della condizione della strada e l’integrazione degli eventi con l’idea del disegno e conferma che la specificità del suo lavoro gli ha “richiesto di sondare la sofferenza della strada per stare dalla parte degli oppressi, di fronte a un regime tiranno e sconsiderato che non ha esitato a mostrare la sua crudeltà e la sua violenza e che da tempo ha reso la superficialità intellettuale un modello applicato a diversi aspetti della vita, di cui l’arte è forse il più importante”. Secondo Yasser Ahmad la rivoluzione “ha liberato l’arte che era asservita a questo regime, cosa che emerge chiaramente dai disegni della maggior parte degli artisti che hanno intrapreso questo cammino”. Al contrario, qualcun altro è rimasto dall’altra parte della barricata e ridicolizza la propria arte mettendola al servizio dell’autorità, nonostante “avesse rivendicato la propria appartenenza alla strada prima che questa si rivoltasse”.


“La pressione provoca l’esplosione”, dice il vignettista Juan Zero, anche se questo cambiamento arriva in ritardo. Nei suoi disegni dice di affidarsi alla “riproposizione della realtà per correggere un errore o esprimere un’opinione su una cosa accaduta”. E poi aggiunge che “si riesce a raggiungere le persone stando in mezzo a loro, e non semplicemente provando compassione per loro”.


Hani Abbas racconta di aver “publicato sui social media come alternativa ai giornali ufficiali o privati che erano legati in modo organico al regime e hanno aderito alla sua narrativa bugiarda su quanto stava accadendo sul terreno”. Secondo lui, il vignettista siriano è messo alla prova dal test più importante: essere vero e onesto con se stesso e con la gente, oppure seguire fedelmente i dettami dell’autorità per ragioni legate al tornaconto o alla scarsa consapevolezza. Crede che nelle vignette siriane ci sia un nuovo risvolto: il messaggio non è più generale, ma recapitato esattamente al destinatario di turno: “Per quanto mi riguarda, prima non mi concentravo su un discorso preciso da adottare nella stessa misura in cui esprimevo ciò che succedeva e non tentavo di convogliare in modo autentico una rappresentazione della realtà e costruire un nuovo clima fatto di libertà, giustizia e dignità umana”.


La maggior parte delle proposte dei vignettisti siriani ha restituito alla satira politica e sociale la sua veemenza e la capacità di stemperare le tensioni, o a volte di portarle a esplodere, dal momento che la strada – secondo Yasser Ahmad – all’inizio era espressione di una rappresentazione indiretta della tribolazione del cittadino con le difficoltà del suo quotidiano. Ora, invece, si è trasformata, compiendo “un nuovo salto rispetto alle tematiche, col coraggio di parlare delle sofferenze del popolo rivoluzionario dopo che il margine della libertà si è esteso a discapito dell’autocensura”.


La scena internazionale ha mescolato il dolore della gente con la politica e la distribuzione di quote con la scusa della pace e della tregua. Fino a che punto allora il lavoro dei vignettisti può essere neutrale, soprattutto dopo il rimescolamento delle carte nel conflitto siriano? L’essere umano è la bussola per i vignettisti siriani a cui poniamo la domanda.


Hani Abbas risponde: “Sì, ora la questione si è fatta più complicata, ma continuo a guardare all’immagine nella sua semplicità e nel suo lessico originale”. E aggiunge: “Non mi interessano le ingerenze politiche quanto l’essere umano e tutti i tipi di oppressione a cui è esposto di questi tempi. Chi disegna per un regime o un’altra autorità vedrà queste cose finire prima o poi. Ma chi lavora e disegna per l’essere umano sa che è l’uomo che resta fino alla fine del mondo”.


“Non c’è neutralità nelle vignette”, dice Juan Zero, “Si adottano inevitabilmente alcuni principi e per quanto mi riguarda la base fondamentale è il siriano”.

Secondo Yasser Ahmad, “la posizione neutrale dell’artista, soprattutto nella situazione siriana, significa scindere l’arte dal suo messaggio, perché non possiamo mettere sullo stesso piano il carnefice e la vittima in termini di copertura artistica. Essere neutrale sarebbe come se un pastore guardasse e documentasse il lupo che sbrana la sua preda!”.


Temete che possa toccare anche a voi la sorte dei vostri colleghi disegnatori siriani che sono stati uccisi o torturati a causa dei loro disegni? Una domanda audace da porre che porta con sé il rimbombo dell’effetto lasciato oggi dai segni della guerra nella memoria della gente.


“La cosa più difficile è perdere gli amici e la nostra perdita è stata davvero enorme”, dice Hani Abbas. Molte persone sono morte sotto tortura nei luoghi di detenzione del regime: erano disegnatori, artisti, intellettuali e gente che rivendicava la libertà: “Abbiamo un messaggio in più che portiamo a nome loro e continuiamo a levare noi il loro grido”. Nonostante ciò, Hani Abbas afferma: “Non ho deciso di iniziare a disegnare, perciò non so se deciderò di smettere di farlo. La vita scorre in modo folle al momento, non c’è posto per le congetture”.


E invece Yasser Ahmad è preoccupato per la sorte toccata ai suoi colleghi uccisi e torturati. Tra loro c’è chi ha perso la vita “per far arrivare un messaggio”, alludendo al disegnatore Akram Raslan che “li ha spaventati con l’audacia dei suoi disegni e così hanno tentato di farlo tacere e l’hanno ucciso. Ma lui si è trasformato in un mito e i miti non muoiono”.


Da parte sua, Juan Zero mette da parte la paura e “tutti i suoi sinonimi che sono ai margini rispetto alla profondità dell’idea di una vignetta che difende un oppresso”.

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Published on May 02, 2016 03:47

April 14, 2016

Yarmuk. L’assedio, gli scontri, i civili

gentecampo(di Claudia Avolio, per SiriaLibano).

Aprile 2015. L’Isis entrava nel campo palestinese di Yarmuk, nella periferia di Damasco, in Siria. E io del campo ridisegnavo, testardamente, il contorno della mappa, colorandola come sempre coi colori della bandiera palestinese.


Invece di disegnarli, gli scontri di quei giorni li avevo scritti lungo il contorno. Il campo veniva colpito da tutti i lati. “Non sono io. Cosa?! Sì, siete voi! Ah, non tu? No, non io. Davvero, sono loro! Lui! Lei!”. Al centro, intanto, un pronome restava inascoltato, non pronunciato. “E noi…?”. Le famiglie, i civili. “Pensate alla gente, il campo è un abbraccio”, mi era venuto da scrivere ritagliando in quel nero un po’ di bianco.


Aprile 2016. Un anno è trascorso da una delle pagine nere registratesi a Yarmuk. L’ennesima, dopo le morti sotto tortura nelle carceri del regime, le morti per fame e disidratazione e mancanza di assistenza medica per via dell’assedio, i cecchini, i bombardamenti, gli assassini politici all’interno, le sofferenze quotidiane.


E oggi, nella morsa degli scontri, a pagare sono ancora una volta i civili. Anche se da quel disegno è trascorso un intero anno.


Dal 7 aprile, come documentato dal Gruppo d’azione per i palestinesi in Siria, l’Isis si sta scontrando con Jabhat al Nusra. La zona degli scontri comprenderebbe, tra le altre, anche via al Ja’una, via Lubia, via Haifa, via Safad e via Sufuriyya (lato orientale del campo), via dei 15 (lato occidentale). Nelle aree citate sarebbero presenti anche diversi cecchini dei due gruppi di militanti.


Il Gruppo d’azione parla anche di colpi di mortaio che sarebbero stati lanciati sia dal regime siriano che dall’Isis con obiettivo le zone controllate da Jabhat al Nusra. Il gruppo non cita la fonte e non ho modo di verificare la veridicità o meno di tale responsabilità attribuita alle due parti.


Quello che succede in genere per via degli scontri è che il passaggio tra Yarmuk e Yalda (area a sud-est del campo) viene chiuso. In questo caso, almeno in un primo momento, è stato permesso ad alcune persone del campo di entrarvi. Ma restando col fiato sospeso per quello che accade nel loro campo e nelle case dovute lasciare magari con dentro alcuni familiari a difenderne la proprietà e i ricordi. La vita di tutti i giorni.


L’assedio parziale è stato imposto a Yarmuk dal regime siriano e dalle milizie lealiste sul finire del 2012, l’assedio totale nell’estate del 2013.


L’acqua manca da oltre un anno e mezzo. In questi giorni per via degli scontri e dei cecchini si è parlato di famiglie che si sono trovate a non potersela procurare neanche dai punti di distribuzione allestiti. Rivivendo, come nell’aprile dell’anno scorso, un secondo assedio nelle loro case dentro l’assedio del loro campo.


Secondo fonti locali, nella notte del 12 aprile delle case nel campo sono state bruciate. C’è chi come il Gruppo d’azione ne attribuisce la responsabilità all’uso di molotov da parte dell’Isis e chi dice che anche al Nusra ne ha bruciate. Non ho modo di entrare nello specifico delle responsabilità per verificarle.


Le fiamme della notte scorsa hanno lasciato un segno profondo nelle coscienze degli abitanti di Yarmuk dentro e fuori il campo. Tanto da lanciare la campagna: “Il campo di Yarmuk viene bruciato”.


Un attivista fuori dal campo, A., ha scritto in questo senso uno sfogo: “Hanno bruciato la gente della casa. E ora stanno bruciando la casa. Tutti loro hanno preso parte al rogo del campo. E tutti loro hanno partecipato al dare fuoco a noi e a tutto ciò che fa parte della nostra vita”.


Oggi, 13 aprile, il Gruppo d’azione ha lanciato un appello per scongiurare l’ennesima catastrofe umanitaria, in cui chiede:


- il tempestivo intervento di tutte le parti per fermare i combattimenti, considerare i civili come neutrali ed evacuarli in zone più sicure all’interno del campo;


- la fine dell’assedio di Yarmuk e l’accesso di aiuti e personale medico e umanitario perché offrano assistenza immediata ai rifugiati nel campo;


- l’intervento del governo siriano e dell’Olp perché salvino ciò che resta del campo;


- che le parti in conflitto rispettino le regole della guerra e applichino i trattati e gli accordi internazionali che richiedono la protezione dei civili nelle zone colpite da conflitti armati;


- l’attivarsi dell’Unrwa e della comunità internazionale perché compiano il proprio dovere verso i rifugiati palestinesi in Siria;


- l’interazione tra le fondazioni della società civile e le organizzazioni per i diritti umani e i media rispetto a quanto sta succedendo nel campo, perché gettino una luce sulla tragedia dei rifugiati al suo interno per mostrare la verità della situazione umanitaria.


Forse c’è chi guarda al campo e vede parti in conflitto. Io vedo le famiglie di cui da lontano registro ogni giorno le storie. La vita. Che siano oggi tra i 3 e i 5 mila civili, e non più 18 mila, non 30 mila, non 150 mila, anche tra quelle poche migliaia ognuna delle loro storie è diventata una parte di me. Una parte di me è sotto doppio assedio. Una parte di me è andata in fiamme con le case. Una parte di me vive perché Yarmuk vive. E farà ancora una volta di tutto per continuare a vivere.

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Published on April 14, 2016 10:00

April 6, 2016

Sono di Palmira e dico che Asad non è meglio dell’Isis

Palmira(di Muhammad al Khatib*, per The Independent. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). Mi chiamo Muhammad al Khatib e sono nato e cresciuto a Palmira. Ho frequentato l’università a Homs, ma quando si è iniziato a vociferare di un movimento rivoluzionario, sapevo che sarei dovuto tornare nella mia città.


All’inizio della rivoluzione con i miei amici abbiamo istituito il Coordinamento di Palmira, in pratica un gruppo che coordinasse e conducesse le manifestazioni pacifiche per la libertà. La situazione però è presto andata fuori controllo. Le forze di sicurezza nella città non erano in grado di tenere a bada la rivoluzione che andava crescendo, né di contenere l’ondata di proteste. Decine di manifestanti sono stati uccisi nel corso dei loro tentativi.


Dopo mesi di proteste il regime di Asad ha dispiegato un enorme arsenale composto da circa 50 carri armati e tremila soldati per prendere il controllo della città. Quando Palmira è stata presa d’assalto dall’Esercito siriano, è stato chiaro per me e alcuni dei miei amici che dovevamo andarcene.


Dopo sei giorni però siamo stati catturati e fatti prigionieri da un gruppo di circa 30 soldati nella campagna circostante.


Inutile dirlo: siamo stati maltrattati da questi soldati. Ci hanno preso a schiaffi e picchiato e poi trasferito in un braccio di sicurezza a Palmira per iniziare il nostro interrogatorio. Il peggio doveva ancora venire.


Durante l’interrogatorio abbiamo assistito a ogni tipo di violenza. Forse il lato più ironico di tutta la storia è che ci hanno accusato di prendere parte a manifestazioni e proteste che erano state esclusivamente pacifiche.


L’interrogatorio non è finito lì. Sono stato mandato alla sezione della Sicurezza n° 291 a Damasco, dove ho visto con i miei occhi una miriade di metodi di tortura. Sembrava una situazione senza scampo. Ma dopo sette mesi, contro ogni aspettativa, il regime mi ha rilasciato.


Quando sono tornato a Palmira era cambiato tutto. Sentivo di non poter restare in città e di non essere più al sicuro ormai. Era impossibile sapere se o quando sarei stato di nuovo messo in prigione dal regime. Alla fine ho deciso di lasciare la città e di partire per la Turchia con dei contrabbandieri.


L’Isis ha preso d’assalto Palmira nel maggio 2015, dopo che me n’ero andato e avevo il cuore a pezzi. Sapevo che ciò avrebbe implicato altra tirannia e altra ingiustizia a scapito della mia gente. Com’era prevedibile, una volta entrato in città, l’Isis ha iniziato ad applicare le sue rigide politiche. Per dirla in poche parole: è proibito tutto. Chiunque violi le regole arbitrarie dell’organizzazione viene severamente punito oppure ucciso.


È dura la vita sotto il controllo dell’Isis ed è diventata ancora più dura quando Asad ha iniziato a bombardare la città. Perché Asad dichiara di bombardare l’Isis, ma in realtà la maggior parte delle sue vittime sono civili. Dopo mesi di bombardamenti, la maggior parte degli abitanti di Palmira era fuggita nel nord e l’est della Siria. Secondo l’Osservatorio siriano, c’erano meno di cento civili ancora nella città quando è stata risottratta all’Isis.


Anche ora che Palmira a quanto pare è stata liberata per mano dei soldati di Asad, c’è poca speranza che i civili sfollati tornino a casa. Hanno troppa paura delle forze di Asad e delle milizie a lui collegate. Molti hanno espresso il timore che i gruppi legati al regime li accusino di aver collaborato con l’Isis e di conseguenza li puniscano, come hanno fatto altrove in Siria.


Asad sostiene di aver lanciato questa campagna per proteggere i siriani e liberare il sito patrimonio dell’umanità dall’Isis, ma le sue bombe hanno distrutto della città e delle sue preziose rovine tanto quanto l’Isis.


Noi, gente di Palmira, consideriamo sia l’Isis che Asad dei criminali. Entrambi compiono crimini contro l’umanità, uccidono innocenti e distruggono città e monumenti storici. Entrambi con il loro operato fanno fuggire centinaia di migliaia di cittadini innocenti. Entrambi imprigionano, torturano e uccidono attivisti politici come me.


Palmira non è stata liberata. È solo passata da una tirannia all’altra.


Il nostro messaggio all’occidente e alla comunità internazionale è questo: non siate ciechi davanti ai crimini di Asad. Così come sanzionate l’Isis, dovete sanzionare in egual misura anche il regime di Asad. È lui il cuore del problema in Siria, e sia lui che l’Isis sono i nemici della gente comune siriana.


_____________________


*Testimonianza raccolta da Matt Broomfeld.

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Published on April 06, 2016 07:30

March 11, 2016

Il rosso ha risvegliato il candore. Versi per Naji Jerf

Boshra Kashmar, poetessa, moglie di  Naji Jerf  tra i mentori della rivoluzione siriana, assassinato lo scorso dicembre in Turchia, ha pubblicato questi versi sulla sua pagina Facebook. Alcuni siti tra cui Dawdaa li hanno ripresi e diffusi.


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(di Boshra Kashmar, Dawdaa. Traduzione dall’arabo di Claudia Avolio).


1


Non eri completo… Perché morire, allora?


2


Perché mettono tutte queste pietre sopra al tuo corpo? Perfino il becchino ha paura di te? Credi che lui sia complice del crimine? Rispondimi senza irritarti per favore. Perché oggi sono stanca e non mi ricordo ciò che mi rattristava prima.


3


La tua bellezza non si addiceva alla vita? Per questo ti ha portato via da me!


4


Dammi un po’ delle tue carte e dei tuoi pensieri, e ciò che le pallottole non ti hanno permesso di portare con te. Ci è stato distribuito poco… La luce ci logorerà.


5


Ero impegnata di recente a cercarti e non ho avuto il tempo di domandarti dove hai lavato i piedi di nostra figlia ieri, prima che andassimo a dire addio a Marwan. Lei si è rifiutata di dirmelo. E io mi fido di te, lo sai.


6


Come posso dormire se tu ti svegli! Come posso svegliarti?


7


Tutto questo amore è per te? L’amore non resuscita i morti? Ti dice l’amore: Naji, alzati e sii contento, e sappi che il tuo rosso ha risvegliato il candore. Poi muori contento se vuoi. Ma non prima di avermi fatto dare un altro bacio caldo sulla tua guancia. Non mi piace il sapore del tocco freddo.


8


Imbroglione, tu lo sapevi! Altrimenti perché avresti assegnato le tue volontà in tempo!

Come hai chiuso su di noi le porte del mondo, ridendo? Dove hai nascosto la chiave?


9


Povero amore mio, somigli a tutti i poveri, hai ottenuto ciò che non hai chiesto, e hai chiesto ciò che non hai ottenuto.


10


E se toccassero il tuo cuore mentre dormi?


11


Insegnami a chiudere gli occhi… Senza palpebre.


12


Cosa nascondeva questo idiota sotto al mantello? Non sa che io imparo a memoria i mostri sul dorso del coltello?


13


Pochi metri prima della nostra strada?

Un taxi che era in ritardo?

La tua schiena riversa sulla strada, fiducioso dell’umanità di ogni assassino?

O la gioia che ti ha fatto dimenticare che ero affamata?

Chi tra loro ti ha ucciso?


14


Ho visto davanti a me, mentre aspettavo chi mi avrebbe portata al funerale, una camicia blu.

Non mi contraddire, la tua valigia è piena di abiti rossi, così come le pagine dei tuoi amici. Il blu è un colore appropriato.


15


Sono trascorsi due giorni e non sei tornato. Stai mettendo alla prova la mia pazienza? Va bene, non ti minaccerò di farti emigrare un’altra volta. Torni adesso?


16


L’effetto-farfalla! E io cos’ho fatto alla farfalla? Credi che le tue lunghe ciglia e le tue palpebre ammalianti l’abbiano fatta ingelosire? Mi scuserò con lei se necessario, perché questa presuntuosa sbatta le sue ali di nuovo. Tornerai?


17


Non hai bisogno di me per ogni cosa? Vuoi che ti traduca questa e-mail? Vuoi che ti revisioni un articolo? Hai tempo perché ti dica com’è stata la nostra giornata senza di te? Chi ti ha rattristato oggi tra i martiri? Chi di loro è passato da te e gli hai donato un incipit? Perché non dici nulla?


18


Ho messo le mie mani sui tuoi occhi come mi hai raccomandato: non è cambiato nulla? Non è ciò che mi hai promesso? Dov’è il grano?*


____________


 *Era stato lo stesso Naji a scrivere su Facebook (post ripreso in un video su Youtube), il 9 luglio 2013, questo post:


“Boshra…

Alla mia morte voglio che tu metta le mani sui miei occhi

E che il grano delle mani amate diffonda la loro luce”

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Published on March 11, 2016 13:27

March 9, 2016

Syria off Frame

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Syria off frame (La Siria fuori dalla cornice, fuori dall’inquadratura) è la collezione che Imago Mundi, progetto non profit di arte contemporanea promosso da Luciano Benetton, ha raccolto tra la primavera e l’estate scorsa grazie all’impegno di una tenace e coraggiosa catena umana.


Centoquaranta opere realizzate da artisti affermati ed emergenti di diverse generazioni e religioni, che vivono in città e villaggi della Siria o costretti di recente a lasciare il Paese. Pittori, illustratori, fumettisti, fotografi, poeti, calligrafi, attori e registi teatrali, street artist e video maker che esplorano, vedono, creano. E che, con la passione vitale dell’arte e la forza della bellezza, ci raccontano una cultura straordinaria ma anche il dolore di un Paese che vuole smettere di essere vittima e diventare protagonista del proprio destino.


L’arte – per citare il pittore catalano Antoni Tàpies – “può essere una nuvola tempestosa. Può essere il passo di un uomo sul cammino della vita, e perché no, un piede che picchia per terra per dire ‘basta’! Può essere l’aria dolce e piena di speranza del primo mattino, o l’acre tanfo che esce da una prigione. Le macchie di sangue di una ferita, o il canto di tutto un popolo nel cielo azzurro o giallo. Può essere ciò che siamo, ciò che è oggi, adesso, ciò che sarà sempre”. [1]


Il catalogo della mostra sarà presentato a Roma giovedì 10 marzo alle 18.30, presso l’Associazione della stampa estera, in via dell’Umiltà 83/C. (A questo link è possibile guardare le 141 opere in mostra, mentre questo è l’evento su Facebook).





[1] Antoni Tàpies, L’arte contro l’estetica / La pratica dell’arte, trad. Perla Avegno.

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Published on March 09, 2016 14:18

March 5, 2016

Siria. 4 marzo 2016, un déjà-vu?

ccthnhrusaamu9o(di Alberto Savioli – per SiriaLibano) Per la prima volta dopo molti anni, grazie alla momentanea tregua, venerdì 4 marzo ci sono stati diversi cortei di protesta in tutta la Siria. A Damasco, Aleppo, Dara’a, Homs gli slogan condivisi erano rivolti contro Asad.


La tregua che ha visto un parziale “cessate il fuoco”, nonostante qualche violazione, ha permesso a centinaia di persone di manifestare nelle strade di diverse città siriane.


Per un momento è sembrato di ritornare alle manifestazioni pacifiche e di protesta contro il regime siriano del 2011 e 2012. Gli slogan e le bandiere sono gli stessi. Invece era venerdì 4 marzo 2016.


CctkmbuXEAEb-DTSono state certamente manifestazioni con un relativo afflusso di persone e tenute in aree controllate dai gruppi ribelli di opposizione al regime, ma alcuni aspetti importanti sono da sottolineare: la presenza di molti bambini e ragazzi, l’assenza di bandiere di gruppi combattenti o con banner ti tipo islamista, l’utilizzo della comune bandiera  tricolore bianco, verde e nero con tre stelle rosse (pre-baathista) divenuta simbolo della rivoluzione siriana, e slogan analoghi a quelli cantati nel 2011 al ritmo di musica.


Nella Ghouta dell’est (Damasco) a Saqba la gente ha intonato “Il popolo unito vuole la caduta del regime” (video 1, 2), anche a Rastan (Homs) uno sparuto gruppo di bambini canta lo stesso inno.


CctjrLlWEAA535r_bosraBosra la manifestazione si è tenuta all’interno del teatro romano costruito nel 106 d.C. (vedi foto a seguire). C’è stata la partecipazione di membri della comunità tribale, di donne e bambini. Un gruppo di 9 ragazzini ha sfilato con dei vestiti bianchi con dipinta una lettera rossa a formare la parola Kulluna Daraya, “Siamo tutti Daraya”, in solidarietà al sobborgo di Damasco bombardato dal regime e stretto sotto assedio.


A Kafranbel (Homs) uno striscione recitava “Il coprifuoco è il coprifuoco; la nostra rivoluzione pacifica è ancora in corso fino alla caduta di Asad per imporre la giustizia su tutta la Siria”.


ccthpqnvaaalqepAd Azaz (Aleppo) molti bambini abbracciati hanno cantato una delle canzoni più famose del 2011. Ad Aleppo hanno cantato lo stesso slogan di Saqba, ma qui tra i manifestanti erano presenti alcuni islamisti. A Marrat an-Nu’man il giornalista siriano Hadi Alabdallah dice alla folla numerosa “Ricordate quando cantavamo Unito, unito, unito, il popolo siriano è unito…” e la gente inizia ad intonare lo slogan. Una lunga bandiera è stata srotolata a Ain Tarma (Damasco) (video).


Altre manifestazioni si sono tenute ad Anjarah (Alepo), ad al-Waer (Homs), a Talbise (Homs), Deir al-Asafir e Jobar (Damasco), alla periferia sud di Damasco, a Douma e Dumeir (Damasco), a Nawa e Harak nella provincia di Dara’a. Nelle interviste fatte ad alcuni manifestanti (come a Jobar), si sono risentite dopo 4 anni le parole hurriya karama, libertà e dignità.


Ccw48yaVAAANucVQuesto flashback o déjà-vu non può fare dimenticare questi anni caratterizzati dalla repressione violenta, dai bombardamenti, dagli scontri a fuoco e dalla “nascita” dello Stato islamico con tutta la sua brutalità. Ma nello stesso tempo non ci si può dimenticare come tutto è iniziato.


Senza entrare nel merito delle vicende geopolitiche e delle opinioni su quale sia la soluzione migliore per la Siria, è chiaro che c’è una parte di siriani rimasta alle istanze e richieste del 2011 e che dopo 5 anni di conflitto sono disposti incredibilmente a scendere in strada cantando slogan e sventolando il tricolore con tre stelle rosse. (Nella mappa sono indicati con un’icona verde i luoghi dove si sono tenute le manifestazioni).


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Published on March 05, 2016 08:51

February 15, 2016

Lettera da Aleppo

Aleppo(The Syria Campaign*. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio).


Caro Rabi,


mi chiedi di Aleppo. Lascia che ti racconti della città in cui siamo cresciuti insieme.


Non vediamo una buona giornata da anni. I bombardamenti non si fermano mai, neppure per un’ora o due. La vita è cambiata, tutti i luoghi di cui hai ricordi non ci sono più: dimenticali, è troppo doloroso. Le bombe sganciate dal regime sono indiscriminate, distruggono tutto ciò che incontrano sul cammino. Tutto è cambiato, distrutto o deserto, senza vita.


Perfino nei nostri sogni non sappiamo più cosa significhi “sicurezza”. Ogni volta che apri gli occhi, non sai se è l’ultima volta che vedrai i tuoi figli.


La gente che conoscevi non si trova più qui. Persone dalle città e dai villaggi circostanti si sono trasferiti qui negli anni scorsi, sperando di trovare sicurezza. Aleppo è sempre stata vista come un luogo sicuro.


Ma molti di loro hanno dovuto spostarsi ancora. La gente continua a cercare luoghi più sicuri, per questo continuano a venire qui e poi andarsene. Siamo felici di dare una mano, ma è dura e stancante.


Aleppo non è ancora tutta assediata. Ma muoversi nella nostra città è diventato molto difficile. Le persone vivono alla giornata: la loro speranza è morta insieme alla città e, non di rado, insieme ai loro cari.


Le cose più semplici della vita sono diventate molto dure. Per comprare del cibo, pane o acqua per la tua famiglia devi fare una lunga, lunga fila – e poi continuare ad aspettare.


Trascorri tutto il tempo a guardarti intorno, prestando attenzione a ogni rumore, come se potessi percepire se sarai tu il prossimo a essere colpito da un attacco.


Il resto del tempo pensi alla tua famiglia: saranno ancora vivi quando tornerai a casa? La tua casa sarà ancora lì?


Alla fine potresti ottenere ciò per cui sei venuto. Se sei fortunato arrivi a casa sano e salvo, senza essere ucciso da una bomba sganciata da un aereo.


Non si tratta solo del combattimento sulle linee del fronte. Non è solo il bombardamento continuo. Ci sono cecchini nascosti in ogni angolo sulla via che porta fuori dalla città.


Stiamo adattando costantemente le nostre vite. Le scuole abbiamo dovuto spostarle sottoterra, i centri medici devono farcela col poco che hanno. Abbiamo cercato di costruire nuove istituzioni democratiche: abbiamo eletto nuovi leader. È tutto un lottare.


Abbiamo provato ad andare a nord, in quartieri diversi, ma vi cadevano le bombe. Possiamo vedere gli aerei che volano sulle nostre teste: a volte hanno bandiere siriane, altre volte russe e altre ancora non lo sappiamo. Sembra ci inseguano dovunque andiamo.


Anche le comunità circostanti di Anadan, Mara, Tal Refat, Hretan, Bynun e Azaz stanno soffrendo. Sono città e villaggi che hanno avviato una rivoluzione pacifica. Sono stati dalla parte di Aleppo quando le forze del governo siriano hanno attaccato i civili nella città. Hanno accolto persone che scappavano dai bombardamenti.


Ma cos’è accaduto loro? Sono stati bombardati, ogni singolo giorno. Le persone non sanno quale sia l’obiettivo degli aerei e se saranno loro i prossimi a morire. Decine di attacchi aerei al giorno negli ultimi 120 giorni.


E ora è tempo di andarsene. Non mi sarei mai aspettato che venisse questo momento, ma devo arrendermi. Me ne vado verso un luogo che non sono neppure sicuro esista.


Molti miei amici stanno già aspettando lungo il confine turco. Uno spazio aperto, freddo, dove si affollano 70 mila persone e si congela.


Ma il mio cuore resterà sempre qui.


Aleppo resiste dinanzi a una grande macchina da guerra, armata solo di armi leggere. Non è solo un obiettivo geografico. Aleppo è karama, è dignità, è la rivoluzione contro l’ingiustizia.


Addio Aleppo, mia città natale, luogo in cui ho trascorso la mia infanzia, che serba tutti i miei ricordi.


Spero di vederti lì di nuovo un giorno, amico mio.


Il tuo compagno d’infanzia,


S.


_____


* Questa lettera è stata inviata a Rabi Bana che l’ha poi tradotta in inglese. Bana è un attivista per i diritti umani nato ad Aleppo nel 1984 che ha lasciato la Siria sul finire del 2012. Lavora a Beirut e in Turchia per una Ong internazionale che sostiene la società civile siriana. L’autore della lettera, S., è nato ad Aleppo nel 1980 e ha partecipato alle proteste pacifiche che chiedevano libertà e democrazia sin dall’inizio della rivolta nel 2011. Tra i fondatori dell’Aleppo Media Center, lavora nel campo dell’istruzione per l’amministrazione della città.

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Published on February 15, 2016 12:31

February 10, 2016

Siriani anche loro – Naji Jerf, il “mentore” della rivoluzione

349(di Omar Abbas* per al Araby. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). L’attivista siriano Naji Jerf era conosciuto da molti come al khal, “lo zio”, per il suo ruolo di mentore e guida di molti giovani del movimento rivoluzionario. Naji è stato assassinato lo scorso dicembre da quelli che si sospetta fossero uomini armati dell’Isis, a Gaziantep, in Turchia, mentre portava il pranzo alla sua famiglia.


C’è stata una discreta copertura della notizia della sua morte, ma il nocciolo del suo lavoro e della sua dedizione, nonché il suo contributo alla rivoluzione siriana, è stato spesso trascurato dai media in inglese.


Nato nel 1977 da una famiglia di sinistra, Naji Jerf è cresciuto a Salamiyya, città famosa per il ruolo giocato nella rivoluzione siriana. Si è laureato in filosofia all’università Tishrin e ha lavorato come produttore di documentari per al Jazeera a Damasco fino all’inizio della rivoluzione.


Quando in Siria sono scoppiate le proteste contro il regime, Naji è tornato nella sua città natale ed è diventato uno degli attivisti più importanti della città, attingendo alla sua formazione per essere utile al movimento.


Un leader locale


Naji è stato un membro fondatore dei Comitati di coordinamento locale e ha fondato anche il comitato di coordinamento di Salamiyya, fungendo da legame principale tra i due. Ha anche dato vita all’Ufficio stampa di Salamiyya che ha documentato e creato un archivio del movimento di protesta nella città e in diciotto villaggi vicini, allo scopo di diffondere resoconti sui più recenti avvenimenti nella città. Il suo documentario, Garofani bianchi per Salamiyya, si concentra sulla mobilitazione rivoluzionaria della città e sul movimento della società civile nel corso della rivoluzione.


Quando si è reso conto che c’era bisogno di una pubblicazione che informasse e creasse un archivio sulla rivoluzione, Naji ha fondato la rivista Hinta, che ruota attorno a temi come l’identità nazionale e il confessionalismo. La rivista ha raccontato anche notizie locali e storie mai raccontate prima, da Salamiyya e non solo. Verso la fine del 2011, durante le campagne militari del regime nelle vicine città di Hama e Homs, molti abitanti sono fuggiti a Salamiyya, dove gente del posto e gruppi della società civile li hanno accolti e mostrato loro una grande solidarietà.


Naji è stato parte attiva di questo sforzo, aiutando a raccogliere e a distribuire aiuti agli sfollati interni. Di nascosto, scendeva verso le città sulla sua moto, aiutando nella copertura mediatica e nelle operazioni di soccorso. Dall’inizio della rivoluzione Naji e altri attivisti ricercati dalle forze di sicurezza si spostavano di casa in casa da una città all’altra per evitare l’arresto, per poi tornare di nasconto in città per prendere parte alle proteste o fare visita alle proprie famiglie.


Dopo una ondata di arresti, Naji è fuggito a Homs, da dove ha continuato a contribuire alla causa. A Homs dormiva ogni notte in un posto diverso, formava gli attivisti, aiutava a mettere su uffici mediatici locali, procurava finanziamenti e portava aiuti nelle zone che ne avevano bisogno.


Mentre era a Homs, sua moglie, la poetessa Boshra Kashmar, ha dato alla luce la loro prima figlia che hanno chiamato Emesa, dall’antico nome greco della stessa Homs. In seguito, Naji si è reso conto che il regime gli era ancora una volta alle costole ed è fuggito di nuovo. Stavolta a Damasco.


In fuga


Lavorando in segreto in un ufficio di Jaramana, un sobborgo meridionale di Damasco, Naji ha documentato le proteste nella capitale e nei villaggi circostanti. Si è impegnato per mettere in contatto gli attivisti locali con i mezzi di informazione per offrire una copertura mediatica delle proteste e della repressione da parte del regime.


Ma Naji non ha trascorso molto tempo a Damasco e si è presto spostato a Daraa, dove ancora una volta ha formato degli attivisti. Tuttavia, a causa delle minacce del regime, se ne è andato in Giordania, da dove i servizi di sicurezza locali l’hanno deportato in Turchia. Bloccato lì, ha lavorato dalla città di confine Gaziantep per Basma, un gruppo della società civile che opera per una “progressiva transizione di liberazione per una nuova Siria”.


Alla fine è diventato il manager del gruppo ed è riuscito a finanziare iniziative della società civile e dell’ambito mediatico. Al contempo, ha formato oltre 700 giornalisti e mediattivisti con corsi di scrittura, fotografia, sicurezza delle informazioni e in altri ambiti essenziali per poter lavorare in Siria.


Naji ha continuato però a essere coinvolto nelle attività di Salamiyya: rappresentava la sua città nelle iniziative rivoluzionarie e nei negoziati. Ad esempio, è stato membro fondatore del Gruppo di azione per Salamiyya, un gruppo di attivisti che si incontra con regolarità per discutere di sviluppi, copertura mediatica e piani per il futuro. Naji ha anche giocato un ruolo cruciale nei negoziati per liberare i lavoratori di Adra, molti dei quali originari di Salamiyya, che erano stati rapiti dal gruppo ribelle Jaish al Islam nei sobborghi di Damasco.


Naji ha ingrandito la rivista Hinta, ampliandone la difussione e continuando a pubblicare articoli sui detenuti, i morti, i rifugiati, i curdi, la Palestina, l’Esercito siriano libero (Esl), l’Isis, e su tutte le questioni  più ampie riguardanti la Siria e la rivoluzione. Sotto la sua guida sono stati pubblicati 27 numeri della rivista e ha anche fondato Hentawi, una sua versione rivolta ai ragazzi tra i 9 e i 15 anni.


Battersi contro l’estremismo


Dopo l’ascesa dell’Isis, Naji e altri attivisti della rivoluzione, si sono adoperati per dare copertura mediatica agli avvenimenti nelle zone occupate dal gruppo estremista e rendere noti i suoi crimini.


Molti degli attivisti che lavorano nel gruppo anti-Isis Raqqa viene massacrata in silenzio sono stati formati proprio da Naji Jerf presso Basma. Naji ha lavorato come consulente per l’iniziativa, sviluppandone la copertura e le strategie mediatiche. Prima della sua morte, stava lavorando col gruppo su una produzione per promuovere la loro campagna.


Uno degli ultimi lavori di Naji è stato L’Isis ad Aleppo, un documentario che racconta il ruolo che il gruppo estremista svolge nei rapimenti, le torture e gli assassini di molti attivisti e civili della città. Inoltre mostra come fazioni dell’Esl siano riuscite a espellere per un certo tempo l’Isis da Aleppo.


Naji immaginava una Siria libera e sovrana e ha sempre lavorato per uno stato democratico, laico, costruito sui princìpi della rivoluzione.


Era famoso per il suo rispetto dei martiri, insistendo durante il suo lavoro nel ricordare alla gente i compagni caduti. Per esempio, l’ultimo numero prima della sua morte della rivista Hinta è dedicato al prigioniero siro-palestinese Ali Shihabi.


Molti artisti e scrittori palestinesi hanno espresso cordoglio per Naji, chiamandolo il martire e il figlio di entrambe le cause, per la sua incrollabile dedizione alla causa palestinese, pari solo alla sua dedizione alla rivoluzione siriana. Naji conosceva bene la cultura palestinese e aveva buoni rapporti con molti esponenti delle fazioni palestinesi in Siria.


Era noto per la sua etica di lavoro e per le lunghe ore trascorse a svolgerlo, frutto della sua dedizione alla rivoluzione. Lavorara ore e ore e spesso per una paga misera o gratis, soprattutto negli ultimi tempi. Ha serbato nel suo cuore la speranza per il futuro della Siria, rigettando la disperazione e perseguendo la visione del Paese libero che aveva sempre immaginato.


Ha sempre sostenuto che i siriani non potessero perdere la loro battaglia contro il regime e l’Isis. Nel corso di una intervista, Naji ha ricordato ai siriani che la modernizzazione è una inesorabilità storica.


È importante raccontare la storia di Naji e di quelli come lui che rappresentano un’alternativa siriana spesso lasciata a se stessa e ignorata. L’assassinio di Naji ha scosso la comunità nel profondo, in gran parte per il suo ruolo di mentore tra gli attivisti e i giornalisti, ma soprattutto per ciò che ha rappresentato. Il contingente rivoluzionario di attivisti, consigli e combattenti sparsi in Siria e all’estero continua la battaglia per la rivoluzione e i diritti.


Naji Jerf può anche non esserci più, ma la causa per cui ha lottato sarà portata avanti da coloro a cui ha insegnato e fatto da mentore.


__________________


(L’autore ringrazia Umran Hallak, Mahir Isbir, Nidal Bitari, Aziz As’ad, Hussam Issa di Raqqa viene massacrata in silenzio, Joseph Mardelli e Budur Hassan per il contributo dato a questo articolo).


*Omar Abbas studiava medicina a Damasco dov’era anche attivista. Oggi vive in California.

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Published on February 10, 2016 11:37

February 8, 2016

L’attacco di Aleppo e certa stampa italiana

Cascs72XEAARbUx(di Alberto Savioli, per SiriaLibano). L’attacco del regime siriano nell’area di Aleppo, con il sostegno russo-iraniano, ha interrotto i colloqui di pace a Ginevra e dato vita a un esodo di quasi 100 mila persone. Alcuni quotidiani italiani parlano di “liberazione” e applaudono l’operazione. Quando il giornalismo omette alcuni fatti e sventola bandiere partigiane può ancora essere definito giornalismo?


La recente offensiva russo-siriana su Aleppo, che ha causato l’interruzione dei colloqui di pace a Ginevra, ha portato anche a una fuga di massa di circa 18 mila civili dalle zone urbane di Aleppo sottoposte al controllo del fronte ribelle e dai villaggi a nord della metropoli, per un totale di 80 mila persone in fuga (foto e video: 1, 2, 3).


La riconquista dei villaggi a nord di Aleppo ha permesso il collegamento della zona controllata dal regime attorno al villaggio di Bashkwi Samaan e dell’area industriale di Sheikh Najjar (Aleppo), con l’enclave sciita sotto assedio, attorno ai villaggi di Nabul e Zahra. Questo taglio orizzontale rende possibile l’interruzione dei rifornimenti ai ribelli dalla Turchia verso Aleppo e risulta quindi essere il reale obiettivo dell’avanzata: la conquista della seconda città siriana per sedere al tavolo negoziale di Ginevra in una posizione di forza.


Quest’operazione militare è stata condotta attraverso una strategia che Asad e il suo alleato russo portano avanti da anni: considerare la popolazione civile alla stregua dei combattenti. I civili che hanno “accettato” di vivere nei territori controllati dai ribelli diventano automaticamente “terroristi” degni di essere bombardati. Quotidianamente giungono immagini da Aleppo, Daraa, Idlib, Rastan, Talbise, che mostrano i villaggi presi di mira dall’aviazione siriana e russa con lanci di bombe a grappolo e di barili bomba. A terra rimangono civili straziati e bambini a brandelli, nemmeno le scuole e gli ospedali vengono risparmiati.


Su Twitter impazzano i commenti degli attivisti siriani da Aleppo. Uno dice: “Stiamo parlando di  spostamenti forzati e pulizia etnica compiuti da Assad e dai suoi signori a Mosca e Teheran”. Un altro scrive: “In Siria non c’è una guerra civile ma un’invasione internazionale a sostegno del pupazzo Assad e del regime”; un altro ancora afferma che “Putin si sta unendo ad Asad nel massacro dei civili di Aleppo, è un vero e proprio attacco ai colloqui di pace per mantenere Asad al potere”.


Tuttavia, in molti articoli pubblicati questi ultimi giorni sulla stampa nazionale italiana non si leggono questi toni e questa termini. Alcuni per descrivere la “campagna di Aleppo” parlano di “riconquista” e “liberazione”. Un giornalista italiano “embedded” con l’esercito siriano scrive genericamente di “jihadisti” e “islamisti” riferendosi al fronte ribelle.


Un altro, in un documentario sulla guerra di Putin in Siria, dice, in modo altrettanto generico che “qualcuno parla di morti civili provocati dai bombardamenti russi”, ma poi dà il diritto di replica a un generale russo che sostiene che i loro bombardamenti sono chirurgici e non provocano danni ai civili. Contemporaneamente, nello stesso documentario, si parla degli attacchi dei ribelli mentre vengono mostrate immagini che mostrano un bambino estratto dalle macerie a seguito di un bombardamento russo-siriano.


Regime Campaign - Aleppo FEB 2016 (2)Dalle pagine di una rivista cattolica, da mesi un altro giornalista plaude al risolutivo intervento russo contro lo Stato islamico e recentemente, con tono canzonatorio, scrive: “La trattativa di Ginevra non decolla a causa della controffensiva che governativi, russi ed Hezbollah stanno conducendo ad Aleppo (…). Non è fantastico? Da anni Aleppo è assediata e bombardata dai ribelli, che sparano su tutto e su tutti. Ma l’ostacolo alle trattative spunta proprio adesso, ed è la controffensiva di Asad”.


Pare dimenticare che il 31 gennaio scorso, mentre si parlava di un cessate il fuoco in vista di Ginevra, 56 barili bomba venivano sganciati su Muaddamiya (Damasco) la cui popolazione è assediata da quattro anni dal regime siriano; e nella stessa città si registravano 87 casi di soffocamento per l’uso di ordigni con sostanze chimiche (in quest’ultimo caso le persone colpite sembrano essere combattenti e non si vedono vittime civili).


Mi chiedo come sia possibile per un giornalista ignorare in modo così palese quanto accade sul terreno, per sventolare una bandiera, per sposare un’ideologia o una tesi, così da diventare sostenitore di una parte, anziché colui che racconta i fatti, sia pure in modo soggettivo. Mi chiedo come si possa scrivere dalle pagine di un giornale cattolico e nello stesso tempo ignorare ed evitare di parlare del massacro quotidiano contro i civili, delle deportazioni e della pulizia etnica.


Eppure, in una recente intervista a Piazzapulita sulla questione relativa all’uccisione di Giulio Regeni, il ragazzo ucciso in Egitto, il commentatore, Corrado Formigli, chiede alla Presidente della camera Laura Boldrini: “Si può essere alleati di chi viola sistematicamente i diritti?”. La Presidente risponde: “Con il pretesto della lotta all’Isis, che va fatta, … non vorrei che con quel pretesto poi si arrivi a fare altro, a soffocare ogni forma di dissenso e protesta. Se noi in Europa accettassimo quest’idea, che in nome della minaccia dell’Isis, noi siamo pronti a rivedere le nostre libertà costituzionali, noi avremmo già perso quella battaglia”.


La domanda “Si può essere alleati di chi viola sistematicamente i diritti?” va applicata certo all’Egitto, all’Arabia Saudita e alla Turchia, ma non può non valere anche per l’Iran, la Russia o il regime siriano.


Formigli ribadisce l’importanza di questo concetto, aggiungendo che “Sono proprio le nostre libertà la principale arma contro lo Stato islamico, e anche la principale arma con la quale possiamo portare le masse arabe, il popolo arabo, le persone pacifiche dalla nostra parte nella lotta contro il fondamentalismo”. Queste libertà e questi diritti rispettati sembrano però non valere per molti siriani.


 I fatti di questi giorni


IRAN-SOLDIER-ALEPPO-OFFENSIVE-e1454753968367Una delle prime fotografie relative all’offensiva militare a nord di Aleppo, che ha portato alla riconquista di una fascia sunnita di territorio per arrivare a rompere l’assedio dell’enclave sciita di Nabul e Zahra, mostra un combattente che issa una bandiera sul tetto di una casa: il vessillo in questione è quello di Hezbollah. Un video (1, 2) da Nabul mostra le milizie sciite, che si definiscono in arabo “esercito iraniano”, mentre festeggiano al grido di “Labayk Ya Khamenei”, un combattente alza un’immagine con gli ayatollah iraniani, Khomeini, Khamenei, e con il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah.


Un amico che contatto e che si trova in quella zona mi conferma la presenza di truppe in maggioranza iraniane, di sciiti iracheni e afghani, e degli Hezbollah libanesi. Tuttavia per questi fatti molti giornalisti non utilizzano i termini di “confessionalismo”, di “estremismo religioso”. Il regime siriano rimane laico e si continua a parlare di Stato sovrano e autodeterminazione dei siriani.


I villaggi sunniti, “liberati” dalle truppe sciite durante la conquista, vengono mostrati in alcune fotografie, risultano essere “città fantasma” dove non abita nessuno. Il villaggio di Mayer (1, 2), ad esempio, è stato “liberato” da Hezbollah dopo centinaia di bombardamenti russi. Ora è una città fantasma senza abitanti. La stessa cosa è avvenuta a Tell Jabin e Ratyan (1, 2).


Le 80 mila persone in fuga non stanno scappando dalla guerra. Ad Aleppo e nei villaggi più a nord sono in guerra da cinque anni, scappano per paura delle milizie sciite che conquisteranno i loro territori e dai bombardamenti russi e siriani.


Come avvenga questa riconquista non viene mostrato da una parte della stampa italiana. Ma video e testimonianze (attenzione immagini molto forti) giungono ogni giorno da Aleppo e dai villaggi di tutta la regione e mostrano i danni causati dai bombardamenti russi. Nel primo video (attenzione in tutti i video le immagini sono molto forti) che viene da Hreitan si vede una bambina con la testa schiacciata sotto una trave che tenta di prendere ossigeno, la cassa toracica si alza e si abbassa. In un secondo video il corpo senza vita di una bambina viene pianto dai parenti. Altre fotografie e video mostrano i bombardamenti di scuole e bambini morti e schiacciati dalle macerie.


Non si tratta di vittime collaterali. Questo è un massacro sistematico e intenzionale.


Questi fatti erano stati spiegati durante un’intervista ai realizzatori del docu-film Young Syrian Lenses, girato nell’Aleppo controllata dai ribelli nel 2014 da Ruben Lagattolla e Filippo Biagianti, al seguito del fotografo Enea Discepoli. Il documentario mostra la sopravvivenza della popolazione e il lavoro dei media-attivisti dell’Halab News Network. Dice Lagattolla: “Sono stato testimone di bombardamenti senza un target preciso, se non la popolazione civile. Come esperienza è stata tremenda perché ci siamo trovati direttamente sotto le bombe assieme alla popolazione”.


Anche la testimonianza di Enea Discepoli è analoga, parla di una scuola bombardata dall’aviazione siriana pochi giorni prima piena di bambini: “I bombardamenti sono indiscriminati su quartieri civili, ospedali, su scuole, non c’erano certo combattenti in quella scuola”.


In quell’Aleppo controllata, secondo alcuni quotidiani italiani, esclusivamente da Jabhat an Nusra e da gruppi jihadisti, operavano organizzazioni della società civile e gruppi di attivisti che, al contrario, hanno molta difficoltà a lavorare nelle zone sottoposte al controllo governativo.


Ad Aleppo non lavoravano solo i media-attivisti dell’Halab News Network, ragazzi che da testimoni oculari e vittime, si sono organizzati per continuare il racconto di quanto accade; o la giornalista siriana Zeina Erhaim che twitta quotidianamente. Sono a conoscenza di diverse organizzazioni (di cui non faccio il nome per loro tutela), che si occupavano di educazione scolastica, sostegno ai bambini e assistenza sanitaria, operavano ad Aleppo nei quartieri di Salah ad Din, Bustan al Qasr, Firdos e Karm ad Da’da, Seif ad Dawla, Killaseh e Salhin (dove l’8 febbraio, un bombardamento russo ha provocato la morte di 14 civili, tra loro donne e bambini).


CatdQITXEAAI3qEChiamo per telefono un amico che si trovava vicino a Hreitan. Dopo avere combattuto contro lo Stato islamico, si è rifugiato con la famiglia in questa zona, da due mesi mi manda video e fotografie dei bombardamenti russi che hanno distrutto il mercato e le abitazioni vicine alla sua, mi manda il suo vissuto quotidiano, fatto di foto e video di distruzione e di morti.


Il mio amico mi descrive scene da esodo di massa, con la gente in fuga anche a piedi. Nel cielo volano in continuazione sukoi e mig russi che stanno bombardando in ogni direzione, sono state sistematicamente colpite Hanadan, Hreitan e Kafr Hamra (1, 2), verso Aleppo il cielo è pieno di aerei.


Il 7 febbraio era a Kafr Hamra (i bombardamenti russi hanno ucciso 8 civili e 2 bambini) a nord di Aleppo, stava scappando anche lui in direzione di Idlib assieme a molti altri; mi manda le fotografie di furgoncini e macchine riempite di persone, di materassi e coperte. Anche lì i bombardamenti aerei sono incessanti e centinaia di rifugiati sono dislocati nei campi (video da Kharbet al Jouz). La gente fugge dai territori riconquistati da Asad e dalle milizie sciite per rifugiarsi nelle aree controllate da Jabhat an Nusra, Ahrar ash Sham e altre brigate ribelli. Va ricordato, a chi ha la memoria corta e lo ha dimenticato, che i maggiori massacri confessionali sono stati compiuti da Asad e da alcune sue milizie a Hula (108 civili sunniti uccisi), Tremseh (150 sunniti uccisi), Banyas/al Bayda (tra 300 e 450 civili sunniti uccisi). Solo il massacro confessionale di Sadad (46 civili cristiani uccisi) viene ascritto a Jabhat an Nusra.


Voglio essere chiaro su una cosa, quando queste brigate hanno conquistato Idlib non ho festeggiato e non l’ho considerata una liberazione, la mia simpatia non va certo a Jabhat an Nusra, Ahrar ash Sham o ad altre brigate islamiste, ma allo stesso modo non considero liberazione la conquista di Asad, o la fuga e il massacro della popolazione sunnita. Questi fatti hanno dei termini ben precisi, si chiamano “pulizia etnica” e “spostamento forzato” e il giornalista non può tacere o plaudire a chi li compie.


Che piaccia o meno, i russi stanno aiutando Asad a rimanere in sella e a ritagliarsi un saldo controllo della Siria costiera e delle principali città. Ancora una volta, lo Stato islamico non è stato colpito da quest’offensiva che ha massacrato la popolazione civile sunnita. La Russia al contempo siede al tavolo negoziale di Ginevra e mentre parla di “lotta al terrorismo” bombarda i civili (video da Talbiseh e dal quartiere di Aleppo, Salhin. 1, 2), in una guerra che non avrà vincitori.


Cas0DgNW0AAnzp_I dati forniti dal Syrian Network for Human Rights (Snhr) tra il primo e il 31 gennaio 2016, registrano 679 morti civili causati dai russi (49%), 516 da regime siriano (37%), 98 dallo Stato islamico (7%), 43 dai gruppi ribelli di opposizione (3%), 41 da altri gruppi combattenti, jihadisti ed estremisti non conteggiati come opposizione dal Snhr (2,9%), 3 dai curdi (0,2%).


Sempre il Snhr ha documentato l’uso di 5.238 barili bomba dall’inizio dell’intervento russo (nel solo mese di gennaio ne sono state sganciate 1.428). Il loro uso è stato bandito dalla risoluzione 2139 (22 febbraio 2014) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha chiesto esplicitamente di cessare “gli attacchi contro i civili, così come l’impiego indiscriminato di armi in zone popolate”, ma soprattutto i bombardamenti aerei e l’uso di barili bomba.


Sta a noi decidere se seguire la Russia sullo standard dei “suoi” valori e rispetto dei diritti umani, o sui “nostri”. Per un giornalista la scelta dovrebbe essere ovvia.


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Published on February 08, 2016 11:15

February 5, 2016

Ankara riconosce ai siriani il diritto al lavoro. Troppo tardi?

A Syrian man who had fled the war in his homeland stands outside shops run by Syrians in a low-income neighborhood of Ankara


(di Mehmet Cetingulec, per al Monitor. Traduzione dall’inglese di Patrizia Stellato). A metà gennaio la Turchia ha finalmente concesso ai rifugiati siriani il diritto di lavorare legalmente, dopo cinque anni dall’inizio dell’afflusso di profughi provenienti dal suo vicino meridionale devastato dalla guerra. Tuttavia, molti dei siriani più altamente qualificati fuggiti in Turchia si sono già diretti verso l’Europa, come migranti selezionati o affrontando pericolosi viaggi clandestini per terra e per mare.


Nella gestione dell’incessante ondata di rifugiati, Ankara ha dato priorità alla sistemazione di questi ultimi piuttosto che alla questione dei permessi di lavoro. Allo stesso modo, sbrogliare la situazione dei siriani qualificati e preparati traendo profitto dal loro lavoro non è stata considerata una mossa degna di un’azione rapida. Un numero enorme di lavoratori rifugiati è stato impiegato illegalmente in lavori sottopagati e poco allettanti.


Poco prima che la concessione di permessi di lavoro su vasta scala entrasse formalmente in vigore il 15 gennaio scorso, il portavoce del governo, il vice primo ministro Numan Kurtulmus, ha dichiarato che su due milioni e 400 mila siriani rifugiatisi in Turchia dal 2011, solo 7.351 hanno ottenuto un permesso di lavoro – una cifra impressionante che mostra come i siriani siano stati tagliati fuori dal mercato del lavoro. Solo i siriani benestanti, dotati di mezzi per avviare piccole e medie imprese private, hanno ottenuto il permesso di lavoro, mentre gli altri sono stati impiegati illegalmente nel lavoro a basso costo.


Un nuovo capitolo si è aperto ora per i siriani in Turchia: il regolamento del 15 gennaio riguarda tutti i siriani che hanno ultimato le procedure di registrazione nel Paese. Potranno, però, lavorare solo nelle province dove risiedono e in ogni luogo di lavoro il numero di siriani non potrà superare il 10% dell’intero personale.


Nel chiarire i motivi della decisione, Kurtulmus ha ammesso: “Qualcuno veniva qui in missioni di reclutamento, portando i siriani competenti e altamente qualificati nei loro Paesi. I siriani non sono solo bambini che vendono fazzolettini ai semafori”.


Tuttavia, tanti tra i siriani più qualificati fanno già parte delle centinaia di migliaia di rifugiati scappati in Europa. Sono andati via. Concedendo ai siriani permessi di lavoro, la Turchia tenta di evitare la fuga in Europa di quelli qualificati rimasti nel Paese, come ha dichiarato di recente il vice Primo Ministro Yalcin Akdogan. In un’intervista rilasciata al canale televisivo Haberturk il 16 gennaio, Akdogan ha affermato: “I Paesi europei… lasciano entrare i siriani che appartengono a certe categorie di lavoro qualificato. Anche la Turchia ha delle lacune in alcuni campi. Ci sono anche altri settori dove possono lavorare persone un po’ meno qualificate. L’agenzia interinale pubblica annunci per posizioni aperte in alcuni ambiti ma nessuno vi fa richiesta. … I siriani possono essere impiegati in diversi rami. Se non avessimo concesso i permessi di lavoro, la forza lavoro qualificata sarebbe andata in altri Paesi e ci saremmo ritrovati in una situazione molto diversa”.


Tuttavia, secondo alcuni la mossa del governo è poco efficace ed è arrivata troppo tardi. Erdogan Toprak, deputato senior del principale partito all’opposizione, il Partito Popolare Repubblicano (CHP), lamenta che la Turchia, per la terza volta dalla Prima guerra mondiale, non sia riuscita ad approfittare di un grande flusso di forza lavoro qualificata.


Parlando ad al Monitor, Toprak ha affermato: “Durante la prima guerra mondiale, si verificò una forte ondata di migrazione dalla Russia alla Turchia. Erano persone istruite, ma la Turchia non riuscì a impiegarle in modo adeguato… e se ne andarono in Europa. Nella seconda guerra mondiale, dalla Germania arrivarono persone colte e raffinate, tra cui scienziati, matematici e via dicendo. Pochi studiosi trovarono lavoro in posti come l’Università di Istanbul, mentre molti altri non riuscirono e andarono via. Più di recente, le persone istruite provenienti dalla Siria avrebbero potuto ricevere un diverso trattamento, ma hanno capito bene le opportunità che il Paese offriva e hanno tentato di andare in Europa il prima possibile. La Turchia non ha saputo trarne beneficio”.


Secondo Toprak, l’esodo di persone qualificate è stata la peggiore batosta inflitta alla Siria dalla guerra civile e compensare tale perdita richiederà parecchi anni anche se il conflitto dovesse finire presto. “La fuga dei capitali può essere recuperata ma per sopperire alle risorse umane qualificate ci vorranno come minimo vent’anni”.


Il deputato del CHP ha criticato il governo turco per aver definito i siriani forza lavoro “flessibile”. “Utilizzano questo termine per riferirsi al lavoro a basso costo, implicando che i siriani possano essere assunti con una paga al di sotto di quella minima”, ha dichiarato Toprak. “Considerare i siriani forza lavoro sottopagata è un errore. I lavoratori qualificati non possono essere forza lavoro flessibile. In quest’ottica, si perderanno anche le persone [qualificate] che rimangono in Turchia”.


In un’interessante rubrica del 15 dicembre, Saim Tut del quotidiano Dirilis Postasi offre un resoconto diretto di come i siriani qualificati siano stati sprecati. “Cosa abbiamo fatto per aiutare i siriani istruiti e qualificati che stanno provando a costruirsi una vita in questo Paese, che considerano il più vicino a loro? Niente”, scrive il giornalista. “Recentemente ho aiutato un giovane farmacista, laureatosi all’Università Kalamun di Damasco, ad avere un lavoro come cameriere in un ristorante di un mio caro amico. … Ieri sono andato con molto dispiacere all’aeroporto Esenboga di Ankara per salutare il mio amico Firas, un ingegnere nucleare di Hama, in partenza per la Germania. Alcuni mesi fa ho scritto un articolo intitolato ‘Lava bene i piatti, ingegnere siriano!’. Eh sì, è successo proprio davanti a miei occhi. Quanto siamo benevoli e splendidi!”.

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Published on February 05, 2016 03:48

Lorenzo Trombetta's Blog

Lorenzo Trombetta
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