Lorenzo Trombetta's Blog, page 9

September 15, 2015

Barili-bomba e oppressione. Da cosa scappano i siriani

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(di Amr Salahi, per Middle East Monitor. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). La scorsa settimana foto e video di rifugiati siriani disperati che giungono in Europa – o muoiono nel tentativo di farlo – sono stati tra le notizie di apertura dei media di tutto il mondo, ma ben poca enfasi è stata data alle cause della crisi e le voci dei rifugiati sono rimaste ampiamente inascoltate. La copertura mediatica è stata incline a ritrarre la crisi come una catastrofe naturale o a esagerare il ruolo che Daesh, altrimenti detta Stato islamico (Is), avrebbe svolto nel crearla.


Il conflitto in Siria viene ritratto sempre di più come un conflitto tra il regime del presidente Bashar al Asad e Daesh, con il primo dipinto come il minore tra i due mali. Le organizzazioni della società civile che ancora lavorano sul terreno – allo scoperto nelle zone controllate dalle forze dell’opposizione moderata, di nascosto in quelle controllate dal regime di Asad e da Daesh – sono ampiamente ignorate dai media e le voci dei rifugiati non sono ascoltate.


Uqba Fayyad, giornalista siriano della città di Qusair, nella provincia di Homs, dice che è stato costretto a fuggire dalla sua città-natale nel marzo 2013, appena prima che venisse invasa dalle forze del regime siriano e dai loro alleati di Hezbollah. Racconta che nel mese precedente alla caduta nelle mani del regime, centinaia di persone in questa città di 5.000 abitanti sono state uccise dagli attacchi aerei e via terra da parte del regime. Attacchi che includevano “barili-bomba, bombe a grappolo e napalm” e – racconta –  “poco prima che prendessero d’assalto la città, hanno usato bombe a vuoto in grado di risucchiare l’ossigeno di qualunque edificio, riducendolo in polvere nel giro di secondi”. Non ha avuto altra scelta che quella di fuggire.


“Per tre giorni – continua – abbiamo viaggiato attraverso i boschi senza cibo né acqua, portando sulle spalle i feriti, mentre le loro piaghe si infettavano. Siamo riusciti a raggiungere le città [controllate dall’opposizione] nella zona del Qalamun”. Tuttavia, non sono stati accolti con benevolenza: gli abitanti avevano visto la brutalità dell’assalto a Qusair e temevano che se avessero accolto gli sfollati, un destino simile sarebbe toccato anche a loro. Sono scoppiati scontri e Uqba e gli altri sono fuggiti ancora una volta, verso Arsal in Libano, dove sono stati soggetti a regole molto dure da parte delle autorità locali, incluso un coprifuoco dalle ore 18.00 in poi. Alla fine è riuscito a contattare il consolato svedese in Libano e ha ottenuto asilo in Svezia.


I siriani non scappano, però, solo dai bombardamenti del regime nelle zone controllate dall’opposizione. A volte, quando una zona viene catturata dalle forze di opposizione, alcuni abitanti fuggono in aree ancora sotto il controllo del regime. Di solito temono ciò che il regime potrebbe fare alle aree controllate dai ribelli, tra cui bombardamenti simili a quelli descritti da Uqba oppure – in zone circondate da territorio controllato dal regime – assedi prolungati che conducono alla morte per fame degli abitanti.


Muhammad Manla è un attivista siriano dell’opposizione rifugiato in Germania da quasi tre anni. È fuggito dal quartiere Salah ad Din di Aleppo quando è stato sottratto ai ribelli da parte delle forze del regime siriano nel luglio 2012, ed è arrivato nella parte occidentale di Aleppo, rimasta nella mani del regime. Salah ad Din è diventato poi uno dei luoghi più pericolosi del mondo quando il regime siriano l’ha colpito coi barili-bomba, insieme ad altri quartieri di Aleppo sotto il controllo dei ribelli.


Eppure, anziché trovare la sicurezza nel territorio del regime, ogni volta che Muhammad usciva, veniva fermato ai checkpoint e minacciato da soldati del regime e da agenti che lo accusavano di essere legato ai ribelli, solo perché sulla sua carta d’identità c’era scritto che era di un quartiere controllato dall’opposizione. Due mesi dopo è fuggito ancora una volta, in Egitto, e da lì in Germania.


A questi checkpoint e negli uffici governativi, la gente viene spesso rapita o arrestata in modo arbitrario. Un altro rifugiato della provincia nord di Aleppo controllata dall’opposizione – che preferisce restare anonimo – ha detto che suo padre, un uomo di 70 anni, è stato arrestato quando è andato a ritirare la pensione in un ufficio governativo nella parte occidentale di Aleppo. Accusato di essere un membro di Jabhat al Nusra, è stato tenuto in una cella di 2 metri per 1 metro e mezzo con altri sei prigionieri e picchiato. È stato rilasciato solo perché un amico di famiglia aveva contatti nei servizi di sicurezza.


Il fratello di Muhammad, studente all’università di Aleppo, lo ha raggiunto in Germania di recente dopo aver lasciato la Siria. Una legge approvata da poco ha reso obbligatorio per tutti gli studenti che si stanno laureando di unirsi all’esercito. La possibilità di coscrizione nelle file dell’esercito del regime siriano è un fattore importante che spinge i giovani uomini a lasciare il Paese. Si trovano a tutti gli effetti davanti alla scelta di combattere e forse morire per un regime cui molti di loro si oppongono, oppure intraprendere un pericoloso viaggio all’estero.


Muhammad è chiaro su quella che ritiene essere la soluzione al conflitto: “Una no-fly zone rafforzerebbe di nuovo la rivoluzione. Scuole e università potrebbero venire aperte in zone controllate dall’opposizione, cosa che impedirebbe ai giovani di venire influenzati dall’ideologia dittatoriale del regime e da quella estremista di Daesh. Permetterebbe anche ai ribelli di organizzarsi per combattere Daesh e il regime”.


Mentre le proposte di una no-fly zone suscitano polemiche negli Stati Uniti e in Europa, con molti politici che temono il coinvolgimento in una guerra in Medio Oriente, tra i siriani l’idea è accettata a un livello molto più ampio. La richiesta è stata ufficialmente avallata da Planet Syria, un gruppo di coordinamento composto da oltre 100 organizzazioni della società civile siriana, e dai Caschi Bianchi, un’organizzazione di protezione civile che lavora soprattutto nel salvataggio dei sopravvissuti agli attacchi coi barili-bomba del regime.


Il governo siriano ha il monopolio totale della forza aerea nel conflitto siriano. Gli attacchi aerei hanno causato oltre il 40% delle morti tra i civili verificate dal Centro per la documentazione delle violazioni (Vdc), organizzazione siriana che monitora il numero di civili morti e gli abusi dei diritti umani. L’arma aerea più comunemente usata è il barile-bomba. I barili-bomba sono mortali, indiscriminati e incessanti. Ne sono stati sganciati oltre 11 mila dall’inizio del 2015 e attivisti siriani mettono l’accento sul fatto che da allora il regime ha ucciso 7 volte più civili di quanti ne abbia uccisi Daesh. Pur trattandosi di un’arma molto semplice – barili di greggio senza guida riempiti di esplosivo e scarti metallici – sono comunque mortali, indiscriminati e incessanti.


Mentre gli analisti occidentali continuano a dare la propria interpretazione delle cause della crisi dei rifugiati siriani, con alcuni di loro che addossano la colpa all’estremismo di Daesh e altri che lanciano moniti sui pericoli di un intervento, un’immagine del tutto diversa della crisi emerge dalle storie dei rifugiati e dai dati raccolti da organizzazioni siriane che lavorano sul terreno. I responsabili delle politiche occidentali farebbero bene ad ascoltare ciò che i siriani raccontano su quanto sta accadendo nel loro Paese e sul perché lo stanno lasciando. (Middle East Monitor, 13 settembre 2015)

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Published on September 15, 2015 02:42

September 9, 2015

Da Tripoli a Malmoe in 16 giorni e per 5mila euro

TOPSHOTS Migrants arrive on the shore of Kos island on a small dinghy on August 19, 2015. Authorities on the island of Kos have been so overwhelmed that the government sent a ferry to serve as a temporary centre to issue travel documents to Syrian refugees -- among some 7,000 migrants stranded on the island of about 30,000 people. The UN refugee agency said in the last week alone, 20,843 migrants -- virtually all of them fleeing war and persecution in Syria, Afghanistan and Iraq -- arrived in Greece, which has seen around 160,000 migrants land on its shores since January, according to the UN refugee agency. AFP PHOTO / ANGELOS TZORTZINISANGELOS TZORTZINIS/AFP/Getty Images ORG XMIT:(di Lorenzo Trombetta, ANSA). Dalle coste libanesi alla Svezia in 16 giorni e per un costo di circa 5mila euro: Ahmad N., siriano in fuga dalla guerra nel suo Paese, ha trovato lavoro dopo pochi giorni dal suo arrivo rocambolesco nei sobborghi della cittadina svedese di Malmo. E ai parenti e amici rimasti oltremare ha inviato dal suo telefonino foto e racconti di un inaspettato “successo” in terra straniera.


Da un’altra terra straniera, il Libano, Ahmad è scappato a metà agosto con uno dei figli. Oltre alla moglie e ad altri due figli, il 33enne manovale siriano ha lasciato dietro di sé una tenda di plastica e cartone dove da due anni era stato costretto a sopravvivere dopo la sua fuga disperata da Homs.


Un tempo terza città siriana e principale polo industriale del Paese, Homs dal 2012 è stata devastata dalla repressione governativa delle manifestazioni popolari che un anno prima erano scoppiate inedite in varie città siriane.


Il conflitto che ne è seguito è costato la vita, secondo stime Onu, a oltre 220mila persone e ha causato l’esodo di milioni di siriani.


Il vaso dei Paesi confinanti che hanno dovuto subire l’afflusso massiccio di profughi è ormai debordato e sta invadendo il Mediterraneo e l’Europa.


“Il viaggio inizia a Beirut”, racconta all’ANSA Nidal, parente di Ahmad, ancora in attesa di partire dal nord del Libano. “Ci si ritrova di notte per andare con i mezzi pubblici fino a Tripoli”, continua Nidal riferendosi al principale porto nel nord del Paese. Da qui inizia l’avventura per mare. “All’inizio – prosegue Nidal – su ogni barca c’erano 20-25 passeggeri. Nelle ultime settimane, visto che l’affare funziona e le richieste si sono moltiplicate le barche partono anche con 125 persone a bordo”.


In Libano, paese grande quanto l’Abruzzo e con una popolazione di meno di quattro milioni di abitanti, ci sono più di un milione di siriani. I politici al governo a Beirut, direttamente o indirettamente coinvolti nel conflitto siriano, hanno per anni fatto finta di non vedere il problema.


Le inevitabili ripercussioni sul delicato equilibrio libanese si sono fatte sentire. E nei mesi scorsi Beirut ha introdotto delle norme draconiane per limitare l’afflusso e la presenza dei siriani in Libano.


Solo ad agosto, centinaia di famiglie di profughi accampate sul litorale vicino Tripoli sono state sgomberate con la forza dai militari libanesi. Molte famiglie, con donne e bambini anche molto piccoli, hanno dormito per settimane all’addiaccio, altre si sono spostate in montagna ma sempre in condizioni disperate. “Non ci vogliono in Libano.


In Siria non possiamo tornare, prenderemo la via del mare”, avevano detto alcuni di loro lo scorso luglio. “La prima tratta in nave, fino a Mersin, in Turchia, dura venti ore”, riprende Ahmad mentre consulta il gruppo creato su WhatsApp di amici e parenti in attesa di partire.


“Per arrivare fino in Svezia ci vogliono 5.300 euro e 16 giorni. Si passa per l’isola di Samo, poi Atene, la Macedonia, Belgrado, l’Ungheria. Quindi Austria e Germania e c’è chi continua fino alla Svezia”.


Ahmad dice che voleva partire, ma anche che non aveva soldi. “Mi hanno offerto di guidare la barca. Lo scafista non sale a bordo, indica la rotta e ti dice di andar sempre dritto, indicando col dito un punto nell’orizzonte dove dovrebbe esserci la costa turca”.


Il cellulare di Ahmad lo avverte di nuovi messaggi da oltremare. “Mi raccontano di attese interminabili su isole greche, attorno a una chiesa. Di barche ferme per ore in mezzo al mare perchè è finita la benzina”.


Ma anche di “sentieri nel bosco in Serbia”, c’è “chi si perde e torna mille volte al punto di partenza” e chiama ridendo gli amici: “pazienza, domani riuscirò a passare il confine!”. (ANSA, 9 settembre 2015).

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Published on September 09, 2015 21:09

Quello spazio tra le rovine e la sua gente

Palmira
(di Zanzuna, per SiriaLibano). Sono stati scritti diversi testi su cosa ha fatto lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) a Palmira: la distruzione del tempio di Baal, quello di Baalshmin e l’uccisione dell’archeologo Khaled al Asaad. Alcuni sottolineano l’importanza archeologica delle opere distrutte, altri criticano il fatto che ci si concentri sulle sorti delle rovine e non sulle sorti degli esseri umani. Altri ancora dibattono su chi sia peggio tra l’Isis e il regime siriano.Ma c’è un aspetto che non viene citato spesso, ossia la relazione tra la gente del posto con la sue rovine. Questa relazione non è visibile e tangibile. Ma offre una spiegazione di cosa sia l’identità, l’identità dello spazio.

Io non sono di Palmira. Ma quasi ogni anno nelle gite scolastiche ci portavano lì. Non ci spiegavano nulla, ci lasciavano saltare sui capitelli delle colonne o nasconderci nel tempio.Vedevo la gente locale povera. Sì, povera anche se vive in una città che dovrebbe essere ricca grazie al turismo. Ma invece no, c’erano bambini che giravano tra le rovine e vendevano bibite e foulards.


Li osservavo ogni volta che ci andavo. E mi chiedevo quale fosse l’effetto che le rovine creano nei locali. Sono cresciuta in un luogo che non è così ricco di storia. Quei bambini di Palmira invece giocavano, passeggiavano, lavoravano, amavano e cantavano sempre tra i colonnati, i templi, le tombe a torre.


Ma ora il tempio di Baal non c’è più. Al di là della sua importanza storica, il tempio è stato cancellato dalla memoria dei siriani. Questa generazione non vedrà più quello che ho visto io. E quei bambini non giocheranno più tra le rovine.


Io posso resistere. La memoria mi aiuta: posso chiudere gli occhi e costruire tutto come era, non solo con le pietre ma anche con lo spirito che accompagna queste pietre. Per fortuna ho dei punti su cui mi baso per ricostruire il ricordo.


Se vedo il rilievo di un uomo con l’addome pronunciato, mi ricordo che era un rilievo funerario di una tomba di un’intera famiglia di Palmira. Il marito con la pancia ben in vista e il bicchiere di vino, i bambini e la moglie con una stola in mano (ricordo come avevamo riso con amici tempo fa perché spesso a questi rilievi mancavano le teste: un amico aveva pensato che l’uomo nel rilievo fosse una donna incinta!).


Ma come faranno le altre generazioni senza una base per ricordare? Come faranno senza il suq di Aleppo, senza Palmira e senza il ponte di Dayr az Zor e senza le altre migliaia di Sirie ormai sparite?


Le bombe sono state messe dentro il tempio una dopo l’altra. E in un attimo è stato fatto saltare in aria.


La storia, l’identità e gli spiriti  sono stati testimoni: gli antichi palmireni, che lo avevano costruito nel I secolo d.C. e che lo dedicarono a Baal (il dio degli dei), a Yarhibol (il Sole) e Aglibol (la Luna); i palmireni cristiani, che in epoca bizantina lo trasformarono in chiesa; i palmireni musulmani, che ne fecero una moschea. E i palmireni di oggi, gli stessi che continuavano a sorridere ai turisti anche se il turismo non gli portava mai ricchezza, erano tutti lì a vedere il tempio saltare in aria. (9 settembre 2015).

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Published on September 09, 2015 08:22

September 2, 2015

Ero Said. Ero piccolo. Ero a Yarmouk

Said (di Claudia Avolio)


“Mi dispiace campo mio, ho macchiato i vestiti della festa”

“Non fa niente, luce dei miei occhi, il tuo cuore è pulito. Sii Said / Sii felice”.

“Felice Eid, piccolo Said”


(di Claudia Avolio, per SiriaLibano). Di tanti nomi, date, cause infami di decesso, a restarti dentro con più insistenza sono i dettagli. Arriva a volte un particolare che ti lascia una nuova, piccola ferita, e si aggiunge a quella più grande – inesorabile – dello scoprire che qualcuno è morto, o è stato ucciso. Mi è successo quando mi sono resa conto, per esempio, che Said era molto più piccolo di quanto non mi fosse sembrato nella prima foto. “Era piccolo”, l’ho ripetuto nella mia testa più di ogni altra cosa.


La prima frase che ho letto su di lui, anche quella mi ha ferito. Diceva “shahid qabla al iftar” (martire prima dell’interruzione del digiuno). A soffermarcisi un attimo, è una immagine terribile, dolorosa. Penso agli adulti intorno a lui, giunti a soccorrerlo, a chi tra loro non toccava cibo e acqua da tante ore e ha visto concludersi quella giornata di sacrificio così.  E poi il particolare che mancasse solo qualche giorno alla festa per la fine del Ramadan, l’Eid, che tutti i bambini aspettano anche quando – o soprattutto allora – si trovano come Said in un’area sotto assedio.


Quanto l’avrà aspettata questo bambino, dopo tutto quello che la vita gli aveva già portato via? È stato talmente automatico, per me, volergliela restituire quell’occasione di festa, nell’unico modo a mia disposizione. Disegnarlo, adagiandolo su una delle altalene colorate tipiche di quel periodo. Fargli un ultimo regalo. Non avevo mai disegnato un bambino avvolto nel suo sudario, che il suo sangue ha macchiato. Ora so cosa si prova – fa male – e so anche quanto fosse necessario farlo. Ma quello che non saprò mai è cosa si prova ad essere lui.


Il piccolo Said Samir Adra è rimasto ucciso per via delle ferite riportate quando un colpo di mortaio è caduto sul campo palestinese di Yarmouk, a Damasco, nel corso di un bombardamento. Non ho potuto appurare da quale delle parti coinvolte (regime e milizie lealiste che assediano il campo dall’esterno; Jabhat al Nusra, Stato islamico, i combattenti palestinesi, Ahrar ash Sham all’interno) sia stato sparato: “Quel giorno la situazione era molto caotica, non abbiamo capito con certezza da dove sia arrivato quel colpo di mortaio, ma potrei dire che al 70% è arrivato da fuori il campo”, questo è quanto mi ha descritto un testimone.


Era il 13 luglio scorso. Non ho saputo dell’esistenza di Said se non quando gli è stata strappata. Quella che ho cercato di tirare fuori somiglia per me alla sua voce. Quella che avrei voluto ascoltare. Quella che dice più di quel che dice. E che io non dimenticherò più.


Ero Said. Ero piccolo. Ero a Yarmouk.


Poco prima dell’iftar.


Poco prima dell’Eid.


Tutti digiunavano. Qualcosa è caduto e mi ha colpito.


Mi hanno avvolto. Mi hanno messo nella terra.


Ho lasciato il campo, quello che sta sopra.


Ho raggiunto il campo, quello che sta sotto.


Ora sono sotto. Nella terra del campo.


È finito l’iftar.


È finito l’Id.


Non digiunano più. Qualcosa continua a cadere e a colpire.


I bambini hanno giocato sulle altalene.


Io non ho giocato.


I bambini hanno ricevuto regali.


Io ho ricevuto la terra.


La terra ha ricevuto me.


Ho ricevuto un telo verde e bianco.


L’ho macchiato dove sono stato colpito.


Sono ancora Said come lo ero.


Sono ancora piccolo come lo ero.


Sono ancora a Yarmouk come lo ero.


Solo una cosa è andata via col Ramadan.


È andata via insieme all’iftar.


È andata via insieme all’Id.


Era con me a Yarmouk.


Era piccola.


Era ciò che tutti chiamavano Said.


La mia vita.


Ero io.


“Si chiamava Said [felice, in arabo], ma non aveva proprio nulla a che fare con la felicità. Di questo bambino mi hanno raccontato tempo fa che sua madre l’ha lasciato ed è uscita dal campo. Mentre suo padre ha perso una gamba ed è diventato difficile per lui riuscire ad accudirlo. Lo ha preso con sé una donna che si è incaricata di educarlo, se ne è presa cura, di lui che aveva anche un difetto congenito alle mani.


Dal canto nostro, noi siamo riusciti a trovare qualcuno che lo adottasse e gli mandasse dei soldi per dei nuovi vestiti in occasione dell’Eid, ma ieri è caduto un colpo di mortaio e Said è morto. E così alla fine Said lo è diventato, “felice”… Dio, dagli un po’ di riposo. Dio, non gravarci di qualcosa di cui non sappiamo sostenere il peso”. (testimonianza di S., attivista del campo palestinese di Yarmouk in Siria)



L’immagine in copertina è di un khan nel mercato di Damasco ed è presa dal sito Internet https://nbkassas.wordpress.com.


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Published on September 02, 2015 03:05

August 18, 2015

Siria, a due anni dall’attacco chimico. Mai più?

CMN8SSuUMAAmGMS(di Alberto Savioli, per SiriaLibano).


Il 21 agosto 2013 è una data che rappresenta simbolicamente una pagina nera della cronaca siriana, ma ancor più la messa in silenzio della coscienza della comunità internazionale: il 21 agosto di due anni fa è avvenuto l’attacco chimico della Ghuta (Damasco).


21 agosto 2013: i fatti della Ghuta


Tra il 20 e il 21 agosto 2013, alla periferia di Damasco, in quella che un tempo era considerata “l’oasi” della Ghuta, c’è stato un attacco chimico con colpi di artiglieria in più siti della Ghuta occidentale e orientale. Mentre la gente dormiva, tra le due e le cinque di mattina, sono stati colpiti i villaggi che si trovavano allora in una zona controllata dai ribelli, Zamalka, Ain Tarma, Muaddamiya, e perciò è stato immediatamente accusato il regime nonostante questo avesse smentito con decisione ogni accusa.


syria-chemical-weapons-childrenUn numero mai precisamente definito di persone moriva soffocato nel sonno, le stime più verosimili hanno contato circa 1.200 vittime, tra cui molti bambini. Hanno fatto il giro del mondo le loro fotografie che mostrano i loro cadaveri allineati, con un numero di riconoscimento e il ghiaccio che li circonda per rallentarne la decomposizione.


Secondo gli ospedali da campo che hanno accolto i cadaveri di uomini, donne e bambini, le persone gasate sono state 1.252. Almeno 3.000 persone sono state costrette a ricorrere a cure mediche.


Da quel momento e per i due anni successivi, il mondo si è diviso in colpevolisti e innocentisti del regime siriano (tra i secondi figura il premio Pulitzer Seymour Hersh). Come spesso accade, le perizie diventano più importanti delle dichiarazioni delle stesse vittime e dei medici che le hanno curate. La mole di testimonianze raccolte non lascia spazio all’immaginazione e solo la volontà di distorcere i fatti può scagionare il regime.


In quei due giorni era in corso un attacco dell’artiglieria e dell’aviazione governativa contro numerosi centri della Ghuta, roccaforte dei ribelli. La città di Jobar veniva colpita con il lancio di otto missili terra aria, Muaddamiya e Daraya con razzi.


overview_mapIl razzo utilizzato per l’attacco chimico a Muaddamiya e rinvenuto vicino alla moschea di Rawda, è da 140 mm ed è di fabbricazione sovietica (conosciuto come M-14), ha una gittata minima di 3,8 km e una massima di 9,8 km. Dal centro dell’impatto si forma così un anello circolare che va a includere i principali siti militari governativi, l’aeroporto di Mezze, la base militare della 4a Divisione corrazzata, e parzialmente la base della Guardia Repubblicana (Brigata 104), che potrebbe invece essere il sito di lancio per gli attacchi verso Zamalka e Ain Tarma.


Secondo un catalogo statunitense declassificato sulle munizioni e i materiali di riferimento internazionali, pubblicato nel Jane’s Ammunition Handbook 1997-1998, solo tre tipi di testate sono state prodotte per i razzi da 140 millimetri: M-14-OF esplosivi a frammentazione, M-14-D contenenti fosforo bianco e una testata di tipo chimico contenente 2,2 kg di Sarin.


Questo dato è molto interessante perché i primi due tipi (esplosivi a frammentazione e fosforo bianco) sono stati ampiamente usati dall’aviazione siriana, come documenImmagine4tato da centinaia di video (a Deir ez Zor nel 2013 e a Kurin a sud di Idlib nel 2015).


Chi parla di quest’attacco spesso lo fa come se si trattasse di un singolo evento, realizzabile da chiunque. Si tratta invece di un attacco multiplo: 12 siti sono stati colpiti quasi contemporaneamente con agenti chimici tra Zamalka (8 siti con razzi da 330mm) e Ain Tarma (4). Questi attacchi sono stati immediatamente seguiti da bombardamenti pesanti con armi convenzionali.


L’altro sito colpito, Muaddamiya, era stata una delle prime località a scendere in piazza contro il regime nel 2011 ed è stata oggetto di un assedio durato oltre un anno, circondata da avamposti militari del regime: l’aeroporto militare di Mezze, a sud della base centrale della 4a Divisione corazzata dell’esercito.


Il rapporto delle Nazioni Unite e le testimonianze


SYRIA-CRISIS/Il 18 agosto erano arrivati a Damasco gli ispettori delle Nazioni Unite con il compito di indagare sull’uso di armi chimiche a Khan al Asal, Sheik Maqsud (Aleppo) e Saraqib. Quindi il 26 agosto sono riusciti a ispezionare il sito di Muadamiya e il 28-29 agosto quelli di Zamalka e Ain Tarma. Durante questi sopralluoghi sono stati in grado di parlare con più di cinquanta sopravvissuti tra pazienti e operatori sanitari che hanno descritto sintomi quali “mancanza di respiro, disorientamento, irritazione agli occhi, nausea, vomito, debolezza, perdita di coscienza”.


A 34 pazienti con sintomi di intossicazione sono stati prelevati campioni di sangue, urine e capelli, i risultati così come i sintomi dimostrano una compatibilità con esposizione ad agente nervino (vedasi il rapporto delle Nazioni Unite).


In questa relazione, come peraltro previsto, non sono stati individuati esplicitamente i responsabili dell’attacco del 21 agosto. L’inchiesta del team è stata principalmente di tipo tecnico, cioè si è limitata a stabilire se sono state usate armi chimiche in Siria, ma non da chi siano state usate.


Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, ha definito “agghiaccianti” le conclusioni del gruppo indipendente, aggiungendo che in Siria si è compiuto senza dubbio un “crimine di guerra”.


Tuttavia, come detto dagli ambasciatori americano e francese all’Onu, Samantha Power e Mark Lyall-Grant, il rapporto Onu mostra per esclusione come il responsabile dell’attacco del 21 agosto possa essere solamente il regime siriano, l’unico che ha la possibilità di compiere un attacco di quel tipo e di quella portata.


Il rapporto di Human Rights Watch dice testualmente: “Uno dei tipi di razzi utilizzati nell’attacco, il razzo da 330 millimetri, probabilmente di produzione siriana, sembra essere stato utilizzato in un certo numero di presunti attacchi con armi chimiche, è stato documentato in filmati in almeno due casi nelle mani delle forze governative. Il secondo tipo di razzo, da 140 millimetri e di produzione sovietica, che può contenere Sarin, è elencato come un’arma che si trova nelle scorte di armi del governo siriano. Entrambi i razzi non sono mai stati documentati in possesso dei gruppi ribelli… Il 21 agosto gli attacchi sono stati un sofisticato attacco militare, che richiede grandi quantità di gas nervino (ogni testata da 330 millimetri si stima contenga da 50 a 60 litri di agente), sono necessarie procedure specializzate per armare le testate con il gas nervino…”.


L’attivista per i diritti umani Razan Zeitune, sequestrata poi da un gruppo ribelle il 9 ottobre 2013, aveva denunciato quanto visto nella Ghuta quel 21 agosto: “Un groviglio di corpi, uno accanto all’altro nel lungo corridoio buio, corpi avvolti in sudari bianchi o vecchie coperte… nulla di loro si vede oltre le loro facce bluastre con la schiuma congelata agli angoli della bocca… talvolta mescolata con una striscia sangue. Sulla fronte, o scritto nei loro sudari, c’è un numero o un nome, o semplicemente la parola sconosciuto!”.


2013MENA_Syria_ChemicalWeaponsBan Ki-moon, ha definito l’attacco come il peggiore attacco chimico in tutto il mondo dal 1988, ossia dall’utilizzo del gas sarin contro la città  curda di Halabja in Iraq, quando l’allora presidente Saddam Hussein fece uccidere in una notte tra le 3.200 e le 5.000 persone.


Eppure quello che il mondo ha fatto per la Siria da quel 21 agosto è storia, ossia nulla.


Si è passati dall’imminente attacco americano paventato da Obama contro il regime di Damasco, a solo discusse “no-fly zone”, fino all’accordo (proposto dalla Russia) relativo all’eliminazione dell’arsenale chimico siriano.


Tuttavia tra dicembre 2014 e gennaio 2015, gli ispettori dell’Opac (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) avrebbero rinvenuto tracce di gas sarin e gas nervino VX non dichiarati da Damasco, in un sito di ricerca militare in Siria dove si svilupperebbero armi chimiche.


L’uso del gas da parte del regime continua


ImmagineLa pistola fumante che accusi il regime siriano di aver condotto un attacco chimico la mattina del 21 agosto 2013, è tuttavia un falso problema, poiché attacchi con sostanze chimiche di diversa natura sono stati condotti più volte negli ultimi due anni. Villaggi e zone rurali sono stati colpiti, le testimonianze mediche e molti video mostrano bambini e adulti esalare l’ultimo respiro con la schiuma alla bocca, altri video mostrano mucche, cani e molti uccelli caduti a terra e senza segni sul corpo.


L’utilizzo del cloro da parte delle forze governative è attestato da prove video e testimonianze dirette, inoltre la stessa Opac ha concluso che con “un alto grado di certezza” nel corso del 2014 il cloro è stato usato come arma su tre diverse zone della Siria (Talmenes, Tamanaa, Kafr Zeita). Ancora una volta il rapporto non indica la responsabilità degli attacchi, ma i testimoni dichiarano di aver visto o sentito il rumore di elicotteri prima degli attacchi compiuti con barili esplosivi, verso zone sfuggite al controllo governativo.


Il gergo diplomatico utilizza la frase “alto grado di certezza”, ma come dice Samantha Power, l’ambasciatore americano rivolgendosi al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: “Proviamo a chiederci chi ha gli elicotteri in Siria”, perché è da elicotteri che questi ordigni vengono lanciati. Le testimonianze sono inequivocabili.


Nemmeno le dichiarazioni dei medici siriani presenti a Sarmin il 16 marzo e documentate con video che mostrano gli ultimi istanti di alcuni bambini, uccisi da un attacco con ordigni al cloro, hanno ottenuto alcun effetto, se non le lacrime di alcuni membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che il  16 aprile 2015 hanno visto il filmato.


I medici siriani, confermando la versione degli attivisti dopo l’attacco, hanno raccontato al Consiglio di sicurezza l’arrivo a Sarmin degli elicotteri, il rumore sordo, l’odore di candeggina, infine la corsa in ospedale di decine di persone con difficoltà respiratorie.


Il video che mostra un bimbo di pochi mesi con difficoltà respiratorie prima di spirare è entrato negli annali dell’orrore.16f7a36a17de40f6b5eda82fb82ede8a_18


Naturalmente il governo siriano ha negato la responsabilità per l’attacco condotto su quattro villaggi nella provincia di Idlib (compreso Sarmin), come aveva già fatto per gli attacchi alla Ghuta nel 2013.


L’attacco a Sarmin è stato condotto solo pochi giorni dopo l’approvazione al Consiglio di sicurezza, di una risoluzione di condanna dell’uso di armi chimiche, come il gas cloro. Secondo questa risoluzione il Consiglio imporrà misure ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite in caso di utilizzo di armi chimiche contenenti cloro. Il Capitolo VII prevede che siano applicate sanzioni economiche o la forza militare. Ci sono voluti solo 11 giorni al regime siriano per violare la risoluzione con un attacco al cloro a Binnis (Idlib) che ha ucciso 6 civili.


Bashar al Asad nega l’utilizzo di ordigni chimici e del cloro


Immagine2Nell’intervista di Paris Match del 28 novembre 2014, alla domanda del giornalista Régis Le Sommier: “Ci sono adesso armi chimiche in Siria?”, il presidente siriano Bashar al Asad ha risposto: “No. Quando abbiamo annunciato questo [di rinunciare all’arsenale chimico], è stato un annuncio chiaro, e quando abbiamo deciso di abbandonare le armi chimiche, la nostra decisione è stata definitiva”.


E all’incalzare del giornalista che chiede “Ma il segretario americano John Kerry l’accusa di aver violato l’accordo perché avete usato il cloro. È vero?”, Asad risponde: “È possibile trovare il cloro in qualsiasi casa in Siria. Chiunque ha il cloro, e ogni gruppo può usarlo. Ma non lo abbiamo usato perché abbiamo armi tradizionali che sono più efficaci del cloro”.


Di fronte a questa negazione perentoria il giornalista chiede esplicitamente “Avete usato armi chimiche?”, il presidente siriano risponde: “Non abbiamo usato questo tipo di armi. Se le avessimo usate ovunque, decine se non centinaia di migliaia di persone sarebbero morte. È impossibile che queste armi possano uccidere, come è stato affermato l’anno scorso, solo un centinaio di persone o duecento persone, in particolare nelle zone in cui centinaia di migliaia e forse milioni di siriani vivono”.


Le testimonianze sull’uso del cloro come reagente chimico sono continuate nei mesi seguenti l’intervista, quindi la stessa domanda viene nuovamente posta ad Asad a marzo 2015 nell’intervista della CBS. Alla domanda sull’utilizzo di cloro e barili bomba, il presidente risponde: “Permettetemi di rispondere chiaramente. È molto importante. Questo fa parte della propaganda dannosa contro la Siria. Prima di tutto il cloro non è un gas militare. Si può acquistare ovunque. E, se fosse stato veramente efficace, i terroristi lo avrebbero usato su larga scala”.


Testimonianze video tra il 2014 e il 2015


Immagine3Il Centro di documentazione delle violazioni in Siria (Vdc) ha documentato l’uso di cloro come arma o di agenti tossici, da parte del governo siriano, in almeno 20 casi nel corso del 2014: 18 aprile a Kafr Zeita  nei pressi di Hama (1, 2, 3, 4, 5), il 18 e il 29 aprile a  Tamanaa (Idlib), il 21 aprile a Talmenes (Idlib), il 26 aprile a Tebat al Imam (Hama), il 22 aprile a Daraya (Damasco) e il 23 agosto ancora nei pressi di Damasco.


Nel 2015 gli attacchi con il cloro si sono ripetuti, oltre al noto evento di Sarmin (il 16 marzo) nel governatorato di Idlib (rapporto del VDC e di HRW), si sono registrati altri attacchi il 25 marzo a Binnis (Idlib), il 2 maggio a Nerab e Saraqib (Idlib), il 7 maggio a Kafr Batikh (il rapporto di HRW su questi attacchi).


Solo pochi giorni fa, a due anni dall’anniversario della Ghuta, il regime siriano ha utilizzato un tipo di arma chimica mai documentata prima in Siria. L’11 agosto l’aviazione siriana ha lanciato un attacco intensivo nei sobborghi della capitale, a Daraya, in quattro ore è stato documentato da parte delle squadre della Protezione Civile siriana (White Helmets) lo sgancio di 30 bombe cilindriche, quattro di queste contenevano un gel trasparente simile al napalm.


CMPEmurWgAA4KG-La sostanza incendiaria, ha mostrato una sorprendente somiglianza con il napalm, le fiamme erano intense e i membri della Protezione Civile non sono stati in grado di avvicinarsi e spegnere il fuoco che ha continuato a bruciare per più di 12 ore.


Un testimone ha dichiarato: “Non si può toccare la cenere perché si accende nuovamente. Siamo in una zona assediata… I civili erano in preda al panico, cercavano di capire perché improvvisamente veniva sganciata su di loro questa cosa” (per scaricare foto e video).


La Protezione Civile ha chiesto alle Nazioni Unite di fermare gli attacchi chimici e i barili bomba mediante l’attuazione di una “no-fly zone” in Siria.


Alla domanda sula possibilità di istituire una no-fly zone, l’ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Samantha Power, ha respinto l’idea dicendo che il presidente Barack Obama ritiene che il rischio di un confronto diretto con l’esercito siriano sia troppo alto.


Mideast Syria Toxic GasRicordare gli uccisi dell’attacco con il gas di due anni fa compiuto nella Ghuta, non vuol dire solo commemorare i morti, ma ricordare le responsabilità del regime siriano, affinché le colpe non si perdano nell’oblio della realpolitik.

Ricordare l’attacco della Ghouta vuol dire ricordare che l’uso del gas, che secondo Obama avrebbe dovuto sancire la linea rossa da non oltrepassare, è stato utilizzato anche nel 2014 e nel 2015 dal regime.


Dimenticare la Ghuta, al contrario, significa stendere un velo sulle nostre coscienze, paladine di valori e diritti che valgono solo per noi ma non per gli altri.


“Chi potrebbe passare attraverso eventi del genere nel giro di qualche ora e credere ancora che il giorno del giudizio non sia vicino? Persino coloro che ancora si aggrappano a qualche residuo di forza scoppiano di rabbia”. (Razan Zeitune)
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Published on August 18, 2015 07:16

July 29, 2015

Vogliamo riabbracciare Padre Paolo Dall’Oglio

20130810_MAP003_0 In occasione del secondo anniversario del sequestro del gesuita Padre Paolo Dall’Oglio, l’associazione “Giornalisti amici di Padre Dall’Oglio” rilancia una sintesi delle dichiarazioni e dell’appello recentemente reso a nome della famiglia Dall’Oglio dalla sorella di Padre Paolo, Immacolata.


Come sta vivendo la famiglia questi due anni?

In questi mesi è stato come stare al capezzale di una persona cara, che è molto grave; si sta in quello stretto equilibrio tra l’avere ancora una piccola speranza di guarigione o se devi cominciare a fare i conti con la sua perdita.

Ecco allora che faccio a nome della mia famiglia un appello forte a chi abbia alcun tipo di responsabilità, sul piano dell’informazione o della detenzione concreta di nostro fratello e figlio, pensando ai nostri anziani genitori, Paolo Dall’Oglio, gesuita italiano, rapito in Siria il 29 luglio del 2013, affinché rompa questo ormai troppo lungo muro di silenzio e ce lo faccia riabbracciare.


C’è in noi anche la consapevolezza di come questa dura attesa sia in realtà una condizione che in qualche modo condividiamo con tante famiglie ahimè di rapiti e scomparsi o imprigionati, che sono in trepidazione per i loro cari come noi, ma sicuramente in una situazione di sofferenza generale ben diversa dalla nostra, data dalla guerra e da tutto ciò che ne deriva. E il nostro pensiero è sempre andato anche a loro.


***


On the occasion of the second anniversary of the kidnapping of the Jesuit priest, Father Paolo Dall’Oglio, the association “Journalist Friends of Padre Dall’ Oglio” is launching a summary of the declarations and of the appeal  recently made in the name of the family Dall’ Oglio by Immcolata, the sister of Father Paolo.


How is the family living after all these years?


In these recent months it has been like being at the bedside of a dear person who is gravely ill:  we are in a state of delicate balance between slim hope for a cure or the need to begin to finally come to terms with our loss.


And so now in the name of my family and especially in consideration of our aged parents, I am making a strong appeal for some kind of responsibility on the level of concrete information regarding the imprisonment of our brother and son:   Paolo Dall’Oglio, Italian Jesuit, kidnapped in Syria on July 29, 2013.  It is time to break the wall of silence that has gone on too long, so that we can once again embrace him.


We understand that this hard and painful waiting is a condition that we share with so many families of those who have been kidnapped or imprisoned, or disappeared:  Who are in fear for their loved ones as we are.  But surely in a situation of suffering that is different from ours, given the war and all that comes from it. Our thoughts have always been also with them.


***


بمناسبة مرور سنتين على اختطاف الأب اليسوعي باولو داللوليو، تطلق جمعية ” الأصدقاء الصحفيون لللأب باولو داللوليو”


موجزعن التصريحات و النداء الذي تم إنجازه مؤخراً من قبل إيماكولاتا، شقيقة الأب باولو، باسم عائلة داللوليو.



كيف عاشت العائلة في هاتين السنتين؟


في الأشهر الأخيرة عشنا حالة أن تكون بجانب شخص عزيزعليك أثقله المرض و هو على حد الموت، فتكون بين حدين، أن يكون


لديك حتى الآن القدرة على امتلاك قليل من الأمل بالشفاء، أو أن تعترف لنفسك باحتمال فقدانه.


هذا ما أقوم بفعله بالنيابة عن أهلي، نطلق نداء بصوت عال لمن لديه مسؤولية امتلاك أي معلومة و للمسؤولين حالي ا عن احتجاز


أخينا و ابننا الأب باولو المخفي قسري ا في سوريا منذ 29 تموز 2013 ، حتى يكسروا جدار الصمت و يعيدوه لنا حتى نعود لمعانقته


مجدد اً.


نحن نعي أن هنالك كثير من أهالي المفقودين و المخطوفين و المعتقلين الذين يعانون مثلنا قسوة الانتظار و نحن نشاركهم أحوالهم و


نعلم أن معانتهم أقسى بكثير من معاناتنا حيث أنهم يعيشون في الحرب و كل ما تعنيه.


مشاعرنا و قلوبنا كانت و ماتزال دائم ا معهم.

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Published on July 29, 2015 05:46

July 27, 2015

Il sogno siriano non morirà

Raqqa di imranovi Faour(di Elias Khury, al Quds al arabi. Traduzione dall’arabo di Giacomo Longhi). Oggi il dibattito sulla Siria si concentra sulla perdita di qualsiasi equilibrio e l’incognita di chi succederà al potere. Il regime si sta sgretolando senza che nessuno possa salvarlo, né gli Stati Uniti, né l’Iran o la Russia. Il suo feroce apparato militare è allo sbaraglio e i segni di cedimento sono sempre più evidenti. Non è più questione se il regime sopravvivrà o meno, ciò che preoccupa, adesso, è la battaglia tra le altre forze in campo.


Zahran Allush entrerà a Damasco o lo precederà al Baghdadi? I curdi riusciranno a rafforzare il loro ruolo nella regione o saranno ostacolati dalla brutale risposta del governo turco? Il fronte al Nusra guadagnerà terreno? E così via… Per non parlare dei rottami del regime, se saranno abbastanza coesi da scaricare Assad prima che cada Damasco oppure, troppo deboli e frammentati, dovranno riparare con lui sulla costa.


Affiorano domande sulle potenze regionali in gioco: l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo, la Turchia, l’Iran e i suoi alleati.


Comunque siamo agli sgoccioli. Le varie milizie fondamentaliste hanno consapevolmente raccolto l’eredità del regime e deciso di fondarsi sulle sue rovine. Lo slogan “O Assad o bruciamo il Paese” si è realizzato irreversibilmente, e siccome il fuoco ha già divorato ogni cosa si sono lanciate in una guerra di cenere. Scaturite da un terreno devastato, queste milizie sfruttano la disperazione, lo sradicamento e l’impoverimento della popolazione per costruire nuove dittature.


Chi succederà al potere erediterà una guerra civile permanente poiché nessuna tra le forze fondamentaliste in gioco è in grado di controllare l’intero Paese e lo scenario sarà inevitabilmente conteso. Continue lotte di potere, dunque, e guerre, razzie, uccisioni.


Tale è l’eredità che il regime siriano ha voluto lasciare dietro di sé, una distruzione incessante. Ha smantellato lo stato e schiacciato ogni forma di attivismo sociale nella convinzione che se avesse lasciato come unica alternativa il fondamentalismo takfirista, il mondo avrebbe fatto di tutto per scongiurare la sua caduta.


Ma gli equilibri sono saltati, e non perché il piccolo Assad abbia sottovalutato la situazione, è il mondo guidato dagli Stati Uniti a non essere più indifferente. Che il Medio Oriente precipiti all’inferno, che l’intera regione si trasformi pure in un’enorme replica dell’undici settembre se il nuovo equilibrio internazionale lo richiede. Il piccolo Bush, da parte sua, dopo aver scaricato al Qaida sul relitto dello stato iracheno, si è fatto oggi garante dei Paesi del Golfo per imporre in Siria e in Iraq la “ferocia al potere”.


Il piccolo Assad non ha commesso alcun errore strategico nel reprimere la grande intifada popolare che si è propagata in tutte le città e le campagne della Siria nel marzo 2011, ma i suoi calcoli si sono rivelati inadeguati al nuovo assetto internazionale voluto con spietato pragmatismo dagli Stati Uniti. Consapevole che nel suo Paese era in atto una vera e propria rivoluzione popolare, il piccolo Assad si è rifugiato nella brutalità e ha ordinato ai carri armati di sparare sui manifestanti, mentre i suoi scagnozzi, i cosiddetti shabbiha, hanno perseguitato e ucciso migliaia di manifestanti e attivisti per esasperare la rivoluzione.


Se i Paesi del Golfo e la Turchia gli si sono schierati contro, Assad ha trovato un triplice alleato nell’Iran e nelle milizie libanesi e irachene. Questa triade ha seppellito la rivoluzione popolare sotto un cumulo di macerie distruggendo sul nascere qualsiasi struttura politica d’opposizione indipendente e democratica. Oggi il piccolo dittatore, che troneggia sopra un Paese devastato, si accorge che la piena realizzazione del suo piano coincide con l’inizio del suo declino.


Questa analisi porta alla disperazione. E perché no? Se non c’è scampo alla disperazione andiamole incontro e agiamo di conseguenza. Noi abitanti del Medio Oriente stiamo vivendo il tramonto dei nazionalismi di stampo autoritario e fascista e le fini − si sa − sono difficili così come lo sono gli inizi. Ma con tutte le loro difficoltà e il loro dolore, le fini riservano anche la possibilità di una rinascita dai contorni ancora incerti.


In questo tumultuoso frangente storico, dove gli assassini e i seguaci dell’oscurantismo sembrano avere la meglio, il popolo siriano entra dilaniato e ferito, ma senza arrendersi.


Per ridipingere l’arco del sogno basta una piccola manifestazione a Idlib contro il fronte al Nusra e i suoi emiri. Una sola manifestazione che inneggia all’espulsione delle milizie di al Julani da un paesino nella campagna di Idlib riaccende nelle siriane e nei siriani la speranza di un orizzonte alternativo ai finali di sangue che stanno ora vivendo.


L’indubbia caduta di Assad e la sua uscita dalla storia siriana, paralizzata da oltre quarant’anni di dittatura, non vorrà dire che il tempo rimarrà sospeso per colpa di al Qaida e delle milizie di al Baghdadi che hanno sequestrato la rivoluzione. Con la sua caduta le forze che hanno oppresso la rivoluzione a colpi di armi chimiche e barili bomba per spegnere la luce negli occhi di siriane e siriani dovranno affrontare un popolo che dalla lotta e dal sangue ha imparato l’irrinunciabile valore della libertà.


I giovani e le forze democratiche che la dittatura ha cercato di sterminare, riuscendo di fatto a uccidere molti attivisti e cacciarne migliaia fuori dal Paese, dovranno guardare con nuovi occhi alla realtà che emergerà dopo la caduta del tiranno e la dipartita del suo regime.


A quel punto inizierà la seconda difficilissima fase della rivoluzione, che sarà una battaglia per riscattare la patria siriana dai suoi carcerieri.


Riscattare la Siria dal dominio della clerocrazia iraniana e dei suoi seguaci, dal dominio del petrolio e del gas inquinati da dittature e ideologie fondamentaliste, riscattarla dalla “ferocia al potere” che vuole trasformare la vita in un inferno occupato da dementi e assassini.


Il sogno siriano non morirà, Ibrahim Qashush, la voce della rivoluzione siriana a cui tagliarono la gola nel luglio del 2011, attende l’arrivo di un nuovo inizio. (al Quds al arabi, 29 giugno 2015)

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Published on July 27, 2015 02:56

Samar Yazbek in viaggio nel cuore in frantumi della Siria

[image error](di Valentina Viene, per SiriaLibano). L’ultimo libro della scrittrice siriana Samar Yazbek, Bawwabat Ard al ‘Adam, è appena uscito nel Regno Unito, tradotto come The Crossing: My Journey to the Shattered Heart of Syria (Rider Books).


Scritto sotto forma di romanzo, è però tutt’altro che fiction: il libro racconta dei passaggi di confine che l’autrice ha realmente compiuto tra il 2012 e il 2014 e raccoglie le testimonianze di siriani, a partire dallo scoppio della rivoluzione, e fino al 2014, momento in cui la scrittrice ha optato – se così si può dire – per l’esilio.


All’inizio delle rivolte in Siria, nel marzo 2011, Samar Yazbek, giornalista e scrittrice affermata, regista e sceneggiatrice per il cinema e la tv, ha deciso di scendere in piazza per reclamare la libertà di espressione, un diritto che i regimi autoritari che si sono succeduti nel suo Paese hanno regolarmente negato. Ciò che la scrittrice non sapeva era che, con l’intensificarsi della violenza e del terrore, il suo destino si sarebbe irrevocabilmente legato a quello della sua nazione.


Yazbek si è ritrovata in prima fila tra le schiere dei dimostranti: ha denunciato i crimini perpetrati dal regime di Bashar al Asad, ha rivendicato maggiori diritti per le donne e l’abolizione della censura. Prima è stata trattenuta dalle forze dell’ordine, poi, quando la sua voce è diventata troppo scomoda al governo siriano, e la sua presenza in Siria un rischio, si è trasferita a Parigi, dove ha perseverato nel suo attivismo politico. In esilio ha continuato a battersi per i suoi connazionali, denunciando le atrocità perpetrate dal regime di Damasco e urlando all’Occidente il bisogno disperato di aiuti umanitari, ma anche di intervenire per fermare ulteriore spargimento di sangue.


Ma il richiamo delle radici e il senso di responsabilità erano troppo forti perché si limitasse al solo uso delle parole. Nell’agosto 2012 Samar Yazbek è ritornata in Siria illegalmente, attraversando a piedi il confine turco. Questo è solo il primo di una serie di attraversamenti documentati in The Crossing. Una volta dentro, la scrittrice ha visitato le zone “liberate” dal controllo del regime e si è impegnata in prima persona per costruire scuole e offrire sostegno alle persone bisognose, ma ha anche raccolto storie di persone e famiglie intere di cui parla nel suo libro.


È questo il miglior pregio di The Crossing: documentare le brutalità e le privazioni subite dai siriani, esaltando l’aspetto umano delle vicende. Se è vero che è un romanzo, The Crossing è anche e soprattutto una testimonianza, un’immagine veritiera della realtà siriana, come lo sono stati altri romanzi per il passato. (Mi viene in mente Il lato oscuro dell’amore di Rafik Schami, che è una vera e propria fotografia della Siria sotto Hafez al Asad, anche se in quel caso i nomi di persone e luoghi sono fittizi). The Crossing riesce a rendere la complessità sociale, storica, etnica, religiosa e – non ultima – umana, della Siria che spesso non trapela in molti libri di attualità che si occupano della guerra siriana.


Samar Yazbek in questi giorni è a Londra per partecipare a Shubbak, il festival biennale della letteratura araba, e contribuire ancora una volta ad aumentare la consapevolezza del pubblico sulla guerra in Siria, ma anche per proporre, attraverso le sue opere letterarie, una visione più ampia e più umana della situazione siriana, un’alternativa alle notizie diffuse dai media.


L’autrice è stata elogiata per il suo coraggio e per il suo impegno sociale, ma all’evento intitolato “Speaking Truth to Power”, ha spiegato come la scrittura sia già essa stessa un atto di coraggio.


Ripercorrere ricordi penosi della vita per fissarli su carta le è sembrato, in alcuni momenti, un’operazione superflua e senza senso, mentre altrove vite umane sono messe a rischio da bombardamenti, fame e violenze. Nell’epilogo di The Crossing racconta di come la mente si bloccasse e le dita le tremassero quando cercava di sfogliare gli appunti delle sue interviste con i siriani.


Quando poi è riuscita a superare questo blocco, ha scoperto il legame intimo tra la scrittura e la morte. Scrivere della guerra in Siria ha significato infatti per lei rivivere quei momenti dolorosi, rielaborarli e – al tempo stesso – morire dentro poco a poco, nella consapevolezza di non poter cambiare il corso degli eventi.


Yazbek dedica questo romanzo ai martiri della rivoluzione siriana, ai “traditi”, per usare le sue parole. Traditi dal loro presidente, ma anche dalla memoria, dal ripetersi della Storia prima con Hafez e poi con Bashar al Asad. E infine, traditi dalla comunità internazionale che, secondo l’autrice, si accontenta di guardare i fatti siriani da lontano e si rifiuta di assumersi le proprie responsabilità.


Se in Taqatu‘ niran (“Fuoco incrociato”, tradotto in inglese come A woman in the Crossfire), il suo primo diario di guerra, Samar Yazbek credeva di aver visto l’inferno, con l’inasprirsi del conflitto ha capito che quello che aveva scoperto era solo il primo dei suoi vari livelli, perché ogni volta che si apre una finestra sulla Siria si scoprono nuove ingiustizie e nuovi orrori.


___________________


Di Samar Yazbek sono disponibili in italiano:


Il profumo della cannella. Traduzione di Claudia La Barbera, Castelvecchi, Roma, 2010.

Lo specchio del mio segreto. Traduzione di Elena Chiti, Castelvecchi, Roma, 2011.


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Published on July 27, 2015 02:18

July 24, 2015

Libano, Sgombero forzato di seimila profughi siriani

IMG_0137(di Lorenzo Trombetta, Ansa). Più di 6mila profughi siriani, tra cui donne e bambini, da tempo ammassati in campi informali nel nord del Libano, sono stati investiti negli ultimi giorni da una campagna di sgombero forzato eseguita dall’esercito libanese e dalle forze di sicurezza. Lo hanno denunciato l’Onu numerosi operatori umanitari internazionali presenti nell’area.


Un’emergenza che ha spinto il presidente della delegazione italiana al Consiglio d’Europa, Michele Nicoletti, a presentare un’interpellanza urgente al ministro degli esteri Paolo Gentiloni. Il dibattito in aula dell’interpellanza, sottoscritta dalle onorevoli Lia Quartapelle e Cinzia Maria Fontana, è previsto per domani.


Nel testo si chiede di conoscere “quali iniziative il governo italiano intraprenderà sia in sede di Unione Europea che in sede di Nazioni Unite per garantire il rispetto dei diritti umani dei profughi della guerra civile in Siria e per sostenere lo Stato libanese nello sforzo di accoglienza e protezione”.


Dal 30 giugno a oggi militari libanesi hanno sgomberato 95 campi in oltre 12 località sulla regione costiera a nord di Tripoli, a ridosso del confine con la Siria. Dal 2011 a oggi il numero di siriani rifugiatisi in Libano a causa delle violenze in corso nel loro Paese ha sfiorato quota un milione e 200mila persone, su una popolazione totale che non arriva a quattro milioni di persone.  L’Onu ha interrotto l’opera di registrazione su pressione del governo di Beirut, che da gennaio ha di fatto chiuso i confini all’arrivo massiccio di profughi siriani e ha imposto norme molto restrittive al loro soggiorno nel Paese dei Cedri.


Nei luoghi degli sgomberi delle tende e delle improvvisate strutture sanitarie dei campi rimangono soltanto le tracce e le persone evacuate sono lasciate a loro stesse. Tra gli oltre 6mila sfollati c’è chi non ha avuto altra alternativa che vivere in strada.  IMG_0141


L’esercito libanese e le fonti governative interpellate non hanno voluto commentare ufficialmente la notizia. Non sono stati diffusi comunicati stampa sull’argomento e i media di Beirut non hanno finora dato ampio risalto alla vicenda. Il ministro degli esteri libanese Gibran Bassil aveva affermato nei giorni scorsi che “la presenza massiccia di profughi siriani in Libano rischia di distruggere l’equilibrio demografico del Paese”.


La maggior parte dei profughi siriani nel nord del Libano provengono da regioni siriane a maggioranza sunnita, investita dalle proteste e dalla conseguente repressione nel 2011 e nel 2012. Si tratta di rifugiati presenti in Libano ormai da almeno due anni.


Circa gli sgomberi, i testimoni oculari affermano che l’esercito libanese e le forze di sicurezza hanno dato un preavviso di appena 48 ore. In alcuni campi vivono alcune decine di persone ma nel caso di quello di Tel Abbas al Gharbi e di Qubbe Chamra, nella provincia di Akkar, gli agglomerati erano popolati, rispettivamente, da 750 e 500 persone.


Come riferiscono gli operatori internazionali presenti nella zona, intere famiglie con bambini e anziani sopravvivono all’adiaccio, sotto il sole cocente e senza protezioni. Fino ad oggi sono stati sgomberati soprattutto campi situati vicini a grandi vie di comunicazione.


“In Siria non possiamo tornare. In Libano non ci vogliono”, hanno affermato alcuni siriani in un campo profughi dell’Akkar ancora non colpito dalla campagna di sgombero. “Non ci rimane che buttarci a mare”, hanno aggiunto gli intervistati. (Ansa, 23 luglio 2015).

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Published on July 24, 2015 01:24

July 23, 2015

Khury, “Non sono un cristiano. Sono un cittadino”

lebanon


Lo scrittore libanese Elias Khury, autore di numerosi romanzi tradotti in varie lingue e anche in italiano – l’ultimo in ordine di pubblicazione è Specchi rotti – parla di letteratura e del ruolo politico degli scrittori, della guerra civile libanese e del conflitto siriano, di memoria, di nazionalismo e di religione in questa intervista che riportiamo.


E quando gli viene chiesto se si sente minacciato in quanto “arabo cristiano” dal fondamentalismo di matrice islamica, risponde:



Non sono un arabo cristiano. Sono solo un arabo. Sono nato in una famiglia cristiana, ma non sono cristiano. Sono semplicemente un cittadino. Non mi definisco in questi termini. Inoltre, non è solamente il patrimonio cristiano a essere minacciato: si guardi alla catastrofe degli Yazidi. Per quanto riguarda i fondamentalisti islamici, hanno ucciso più musulmani che cristiani – e molti più sunniti, se si vogliono usare queste categorie.



(di Sameer Rahim, per Prospect).


Sameer Rahim: It’s 25 years since the end of the civil war in Lebanon. Your new novel The Broken Mirrors deals with its legacy. Is Lebanon still living with the aftershocks? 




Elias Khoury: I don’t think the civil war has ended. What’s happening in Syria shows the decomposition of the old nationalist, fascist system in the Arab world. The questions of Islamic fundamentalism and the despotism of the state are becoming a major problem for us and the world. Maybe our civil war was the rehearsal.


SR: You talked about the rise of Islamist extremism. Being an Arab Christian, do you feel Christianity is at risk in the Middle East? 




EK: Firstly, I’m not an Arab Christian. I’m only an Arab. I come from a Christian family but I am not Christian. I’m just a citizen. I do not define myself through these terms. Also, it’s not only the Christian heritage being threatened: look at the catastrophe of the Yazidis. As for the Islamic fundamentalists, they have killed more Muslims than they have killed Christians—and many more Sunni Muslims, if you want to use those terms.


SR: Is Arab nationalism dead?


EK: The old idea of Arab nationalism is dead. Both the Arabs and the Jews went through this fantasy of reviving the past. The idea of Arab nationalism, as it was formulated, was the same as the revived idea of the Jewish right of return to the promised land in Palestine, which was also a kind of myth. On the other hand we are all Arabs. There is something cultural that unites us. It is not a unity principally about reviving something in the past—it is about a unity of the future. Now, nobody can survive on his own. Europe unites: you see unity all over the world because it’s rational. But the idea of reviving the past led us to fascism. What we need to do is to think about our future in a democratic, pluralistic, secular way.


SR: How can a novelist such as yourself contribute to building this new society?




EK: I don’t know what novelists can do. I write novels because I love telling stories and because telling stories is my way of life. Writing is a way to speak about the relationship between imagination and memory. So maybe in creating this imagined world, in piecing together the present, we rethink our memories. Literature is a form of deep communication. And in communicating, we discover what I call the spirituality of the human life and what is human in our experience. But we are not prophets, we are not political leaders, we are only writers.


SR: In your new novel The Broken Mirrors, you have two brothers, Karim and Nasim. Karim joins the Palestinian left wing and Nasim joins the right-wing militia the Phalangists.


EK: They are twins who give two different versions of the same reality. Reality has many versions and there are many ways of seeing it. If you don’t merge the two different versions together you can’t understand anything. This novel was an attempt to understand the two brothers. The other is always your mirror even if he or she is your enemy.


SR: So do you think it’s important for a writer to remain politically neutral? 




EK: It depends. Myself as an individual, I was never neutral. I am never neutral. Part of my civic duty is to be a citizen, and to be a citizen is to express my point of view frankly. But literature is another world. In literature, although your views will infiltrate your work, the best thing is to be loyal to human nature, which is a combination of many contradictory things. We are all good and bad—we are all victims and victimisers. Literature cannot be used directly in the political field. My first novel Little Mountain is a love story between a man and a woman but also between the man and his land and the woman and her land. I was not trying to be a historian of the Palestinian war—but of course the war was there. I wrote it as an act of love, not as a political act.


SR: You once said that your job as a writer was to “defend life.” What do you mean by that?




EK: The major value in life is to defend life—to defend the right of human beings to live in dignity and freedom. Literature and religion are similar in this respect: they both want to talk about life and death and love; they are both ways of communicating between the living and the dead. But the difference is that religion has been overtaken by the exercise of power. Religion is a tool for power, whereas literature is only the human imagination.


SR: You wrote elsewhere that the civil war of 1975-1990 “liberated our memory.” What did you mean by that?




EK: A civil war is a school of memories. The unsaid of earlier civil wars lived with us for generations. At least our generation was aware that you must say what is going on, which opened us up for the first time to the value of memories. So in this sense it liberated our memory, yes.


SR: To recover from a civil war do people need to forget as well as remember?


EK: There is an Arabic saying that: “A man is a man because he forgets”. [In Arabic the word for “human” and “forget” are very similar.] We make a choice what to remember and what to forget but the unsaid in history must be said. The major condition for us to forgive and to forget is that we feel that truth was said. Those who committed crimes must at least admit them. This is the precondition of forgiveness. (Prospect)

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Published on July 23, 2015 11:38

Lorenzo Trombetta's Blog

Lorenzo Trombetta
Lorenzo Trombetta isn't a Goodreads Author (yet), but they do have a blog, so here are some recent posts imported from their feed.
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