Lorenzo Trombetta's Blog, page 13
March 16, 2015
Cantieri a Beirut. Quando la manodopera siriana serve
(di Sara Manisera, per SiriaLibano). Quando si giunge a Beirut per la prima volta ciò che più sorprende, è la quantità di lunghe braccia metalliche che sorvolano il cielo della città. Un cantiere a cielo aperto senza sosta.
Downtown, Hamra, Ashrafiyya. È qui che le grandi Real Estate innalzano torri interminabili di venticinque, trenta piani. All’interno di uno di questi cantieri, sviluppato dalla Real Estate Jamil and Saab&Co e situato nel cuore di Ashrafiyya – quartier a character traditionelle, indica un cartello – incontro Enrico, architetto italiano che vive a Beirut da un anno e mezzo.
Lui è freelance e lavora per una società italiana di Forlì la Steel Pool– uno dei venti subcontractor – che si occupa di rivestimenti in zinco per l’impresa di costruzione libanese A.R Hourie: “Chiamano noi perché non sanno fare questi lavori e perché il fatto che sia un’impresa italiana a farli, accresce il prestigio degli appartamenti. In questo paese, l’immagine è ciò che conta; sei qualcuno se hai un’auto di lusso o un attico. E lo sei ancora di più, se nello stesso complesso vive qualche personalità influente” – chiarisce Enrico.
All’interno delle due torri, parti del progetto Beirut 2030, appartamenti di 650 e 400 metri quadrati, con qualsiasi confort: piscina, palestra, reception, sale per ricevimenti, pannelli solari e stanze per i domestici. La maggior parte sono già stati venduti grazie a una rilevante operazione di marketing. Uno degli attici di 1.450 metri quadrati, con gru personale all’interno, è stato acquistato da Tony Salama famoso mecenate di opere d’arte e proprietario di Aishti, una catena di negozi di lusso.
Sfruttamento, paghe da miseria e morti sul lavoro: l ’ altra faccia del lusso
Sono circa quattrocento gli operai che lavorano nel cantiere delle due torri ad Ashrafiyya. La maggior parte sono siriani. Numerosi sono i lavoratori che dormono nei sotterranei dell’edificio. Altri, si presentano alle sette del mattino davanti al cantiere e, a seconda della necessità del momento, vengono impiegati per la giornata. “Sono utilizzati perché non c’è nessuna tutela sindacale, né garanzia; oggi servono trecento persone per il lavoro del cemento ma domani no. L’impresa risparmia sul personale abbattendo tutti i costi”.
Mentre entriamo nella seconda torre al diciassettesimo piano, Enrico mi spiega che la maggior parte della manodopera non è qualificata: “Pochi sono i siriani che conoscono il mestiere, molti di loro erano panettieri, commercianti, parrucchieri o studenti”. Uno di loro Said Maaruf, era uno studente di ingegneria all’università di Damasco: “Ho lasciato la Siria un anno e mezzo fa, la mia famiglia è ancora lì. Speravo di poter lavorare come ingegnere ma in genere preferiscono i libanesi”.
Come i suoi connazionali, Said riceve una paga che varia tra quindici e i venti dollari per dodici, tredici ore di lavoro. Una miseria a fronte del prezzo di vendita finale degli appartamenti: “Ogni appartamento è venduto tra i due e i tre milioni di dollari ma il prezzo varia a seconda del piano. Tra un piano e un altro c’è una differenza di centocinquanta dollari. Ovviamente il più costoso è l’attico al trentaduesimo piano”, spiega l’architetto italiano.
Aggrappati ai ponteggi, privi di protezione e sospesi nel vuoto, i lavoratori rischiano continuamente la loro vita. A metà gennaio, un operaio è morto schiacciato da un blocco di cemento sganciatosi da una gru. L’uomo è stato portato via su di un camioncino e il cantiere è stato chiuso per due giorni. “Un caso eccezionale – spiega Enrico – perché l’uomo era libanese e lavorava da tempo con la società ma di solito questo non avviene, soprattutto se si tratta di siriani”. L’impresa di costruzione A.R. Hourie ha un’assicurazione ma copre solo una parte degli infortuni; la famiglia dell’operaio morto lo scorso gennaio è stata risarcita con poco più di 15.000 dollari ma per la maggior parte degli operai non è prevista alcuna tutela sanitaria o infortunistica.
Dopo la morte dell’operaio, i lavoratori sono stati obbligati a indossare un casco di protezione ma i controlli sono assenti, o quasi. Ogni mattina, la polizia passa dal cantiere per effettuare i controlli, ma il capo cantiere, il più delle volte “paga un mazzetta”, afferma l’architetto italiano. Assenza di controlli ma anche di attrezzatura adeguata. Lavorano spesso in ciabatte, a mani nude e senza gli adeguati indumenti protettivi. “Come puoi vedere saldano il ferro senza occhiali, utilizzano il martello pneumatico senza cuffie e camminano nel cantiere in ciabatte. Obbligano anche noi a lavorare in queste condizioni. Ma io non salgo su un ponteggio al ventesimo piano senza protezioni”, chiosa Alessio, proprietario di un’impresa bergamasca che si occupa del montaggio dei pannelli in zinco per la Steel Pool.
Secondo il sindacato libanese degli imprenditori edili, sono circa 350.000 i lavoratori siriani impiegati nel settore edilizio. Uomini necessari al mercato del lusso, pagati al di sotto del salario minimo e sprovvisti di qualsiasi diritto, tutela sanitaria o lavorativa.
March 14, 2015
“Solidarietà per Kobane”, un utilizzo semplificato e ideologico delle informazioni
(di Alberto Savioli, per SiriaLibano). Il primo di due pezzi, vuole analizzare il modo in cui la resistenza curda a Kobane viene semplificata e spesso riprodotta attraverso la lente ideologica (nel secondo pezzo verrà visto il ruolo della donna nelle forze curde). La solidarietà internazionale verso i curdi deve prescindere dall’identità etnica e valere per tutti i popoli che combattono l’oscurantismo sia esso laico, religioso o ideologico.
L’offensiva condotta negli ultimi mesi dallo Stato islamico per la conquista del cantone a maggioranza curda attorno alla città di Kobane, ha risvegliato un sentimento di sostegno alla resistenza curda da parte dell’opinione pubblica soprattutto italiana.
I curdi lottano per la loro autodeterminazione e nei gruppi combattenti la figura della donna-soldato ha un ruolo significativo, tuttavia queste indubbie verità sono state utilizzate per trattare la realtà arabo-curdo-siriana in modo dualistico, buoni (i curdi) contro i cattivi (gli islamisti “arabi” dello Stato islamico), e semplificando una situazione che sul campo è molto più complessa.
Il “Kurdistan siriano” o “Kurdistan occidentale” è chiamato nel suo complesso Rojava ed è costituito dai cantoni dell’Afreen, Kobane e Jazirah (Cisre), queste tre enclaves a maggioranza curda non confinanti tra loro, sono come isole in un territorio a maggioranza araba. Il territorio a cui i curdi ambiscono non si riduce all’area di queste enclaves ma mira a unirle in un territorio omogeneo, che tuttavia non lo è da un punto di vista etnico.
Il distretto di Kobane si trova nel governatorato di Aleppo, era noto prima del 2011 con il nome arabo di ‘Ayn al-Arab (“sorgente degli arabi”, Arap punar in turco), dal nome della città capoluogo.
Il nome di Kobane viene usato in occidente come vessillo della resistenza curda, e come riappropiazione dell’identità curda a scapito del nome arabo. In realtà, secondo lo scrittore turco di origine curde Muhsin Kizilkaya, Kobane sarebbe la deformazione della parola inglese “company”, poiché qui si trovava l’avamposto della compagnia tedesca che costruì la ferrovia che collegava Istanbul, Aleppo e Baghdad. Secondo altri, il nome sarebbe la deformazione della parola tedesca “bahn” (strada), l’azienda tedesca si chiamava infatti Anatolische Eisenbahn.
Nell’intero distretto di Kobane/‘Ayn al-Arab i curdi non rappresentano la maggioranza della popolazione ma costituiscono il 40%, in un territorio diviso tra villaggi arabi, yezidi e turkmeni.
Nel solo sotto-distretto di Kobane i curdi sono il gruppo etnico maggioritario con una popolazione di 44.821 individui (secondo il censimento ufficiale del 2004) su una popolazione di 81.424, negli altri due sotto-distretti pur essendo una minoranza consistente sono pur sempre una minoranza rispetto alla componente etnica araba.
Nel sotto-distretto di Shiukh Tahtani sono solo 4.338 su 43.861, e in quello di Sirrin sono 6.140 su una popolazione di 69.931.
Nel confinante distretto di Jarablus (a ovest di ‘Ayn al-Arab/Kobane) sono poco più del 10%.
Perché sono importanti queste percentuali?
Perché nel tentativo di riconquista di aree con popolazione curda, seguito al rischio di annientamento della loro entità da parte dello Stato islamico, i curdi siriani dell’Ypg (Unità di protezione del popolo, il ramo militare non ufficiale del Partito di unione democratica – Pyd) stanno conquistando anche territori a maggioranza araba. La guerra dei curdi sempre descritta come guerra di resistenza, appare di diversa natura ad ovest di Kobane, in quei territori a maggioranza araba a ridosso dell’Eufrate.
La popolazione araba di questi villaggi ribellatasi ad Asad nel 2011, ha partecipato attivamente alla rivoluzione siriana contribuendo a combattere tra le fila dell’Esercito siriano libero, poi sconfitto qui dai miliziani dell’Isis che hanno fondato un loro emirato a Jarablus.
La recentissima avanzata dell’Ypg in quest’area, è stata preparata dai bombardamenti della coalizione che sta fornendo copertura aerea (foto a destra), con lo scopo di indebolire lo Stato islamico ma che ha colpito anche molte abitazioni nei villaggi di Shiukh Fawqani, Qara Qozaq, e Jaddah Kabria.
La popolazione locale, nei giorni precedenti l’offensiva, è fuggita con macchine, camion e trattori portando con se tutti i beni che era possibile trasportare.
Queste immagini (foto in basso e a destra) non viste in occidente e fornitemi da una fonte locale, mostrano convogli di persone in fuga che ricordano l’esodo dei curdi di Kobane verso la Turchia mentre fuggivano all’avanzata dello Stato islamico, che abbiamo visto in fotografie pubblicizzate su tutti i media e i giornali.
Paradossalmente, questi arabi in fuga si sono rifugiati nei territori controllati dallo Stato islamico (Is), soprattutto nell’area di Mambij, per paura di rappresaglie curde.
Un video mostra i combattenti curdi nel villaggio di Shiukh Fawqani abbandonato dai miliziani dell’Is e dalla popolazione locale araba, viene issata la bandiera dell’Ypg e i combattenti festeggiano. In un altro video sottotitolato in inglese si vede una combattente che indica l’area conquistata definendo col nome curdo Sheiklar/Shexler il villaggio arabo di Shiukh, dall’alto di un sito archeologico, Tell Shiukh Fawqani (la collina superiore degli sceicchi), rinominato per l’occasione Tepegi Egid “la collina degli eroi”, in onore dei martiri curdi uccisi.
Un sito di informazione che riporta queste notizie allega una mappa in cui i villaggi arabi conquistati sono stati “curdizzati” nella toponomastica, Shiukh Fawqani è diventato Shexler Juri, Jarablus è diventato Kaniya Dil, Zor Mughar è diventato Zormixar.
Lo stesso fenomeno si è avuto a est di Kobane, nel cantone della Jazirah (Cisre). Secondo l’organo di opposizione Sham News Network, l’Ypg ha dato alle fiamme un certo numero di case in alcuni villaggi arabi nella provincia di Hasakah, due giorni dopo la conquista del villaggio di Tell Hamis che si trovava nelle mani dello Stato islamico.
L’account Twitter dell’Ypg ha pubblicato alcune fotografie (foto in basso) di suoi combattenti in posa davanti ai villaggi nei pressi di Tell Hamis, scattate per celebrare la vittoria sull’Is, sullo sfondo il fumo fuoriesce dalle case bruciate.
La lotta dei combattenti curdi (di ispirazione marxista-leninista o socialista) sempre definita “di liberazione” viene vista come resistenza e viene contrapposta spesso all’imperialismo americano. Queste semplificazioni non considerano la realtà dei fatti, la resistenza curda dell’Ypg avviene con la copertura aerea della coalizione, con il supporto di miliziani occidentali e con il sostegno di alcune brigate dell’Esercito siriano libero (Esl).
Come riporta il sito di informazione Osservatorio Iraq: “Il 10 settembre 2014, una brigata locale dell’Esl si è unita alle forze dell’Ypg per lanciare un’operazione comune contro Da’esh (acronimo arabo dell’Isis) chiamata Burkan al Firat. I battaglioni coinvolti comprendevano la Brigata rivoluzionaria di Raqqa, Shams al Shamal, Al Tawhid, Saraya Jarablus e altre unità minori”.
Le donne curde combattenti e la resistenza curda e “laica” di Kobane, sono temi che hanno spinto molti miliziani occidentali a combattere accanto alle forze dell’Ypg per difendere la città dall’avanzata dello Stato islamico. Uno dei miliziani più intervistati è Jordan Matson definito “veterano” e “cristiano”, ma vi sono anche i veterani della USA/British Valley Special Ops., i canadesi, gli australiani, alcuni europei e anche un italiano.
Tutti questi fatti passano sotto silenzio sulla stampa occidentale e in particolar modo italiana, vanificherebbero il modo manicheo e ideologico attraverso il quale vengono trattate le complesse notizie medio-orientali. Non si spiega altrimenti il fatto che non trovino spazio notizie come la repressione da parte del Pyd di alcuni attivisti indipendenti che criticavano il partito, o il massacro di Amuda del 27 giugno 2013 quando i combattenti dell’Ypg hanno aperto il fuoco contro manifestanti disarmati. In uno dei cartelli esposti dai manifestanti c’era scritto “Il regime ha occupato Qusair con l’aiuto di Hezbollah, e ha occupato Amuda con l’aiuto del Pkk”.
Durante la rivoluzione siriana, il Pyd è stato accusato di collaborazionismo con il regime siriano, e ha aiutato le forze governative a silenziare le voci dei membri dell’opposizione, tra cui spicca il celebre esponente dell’opposizione curda Mashaal Tammo, ucciso all’inizio della rivoluzione. Il sostegno alla resistenza curda non può prescindere dalla verità e dall’onestà dei fatti, ma chi ha mai letto queste notizie sulla stampa italiana? Perchè la denuncia delle donne curde di Amuda per le detenzioni arbitrarie del Partito di unione democratica curda (Pyd) non ha trovato spazio sulla stampa?
Il fenomeno (legittimo) di sostegno, supporto e solidarietà alla resistenza dei curdi verso l’avanzata dello Stato islamico, che ha visto anche l’arruolamento di combattenti occidentali e italiani, è stato unidirezionale. Non si è avuta la stessa solidarietà di massa, ma solo stupore per l’ennesimo fatto barbaro, quando nell’agosto del 2014 i miliziani dello Stato islamico hanno massacrato 700 combattenti e resistenti arabi appartenenti alla tribù degli Aghedaat (al ramo tribale degli Sweitaat) che difendevano i loro villaggi dall’avanzata di Da’esh. Nel villaggio di Ghraneij (Deir ez-Zor) in un solo giorno ne sono stati uccisi 300, sono stati fatti distendere in una fossa e poi sono stati freddati a colpi di mitra.
Ma anche quando gli stessi curdi nel 2011 manifestavano contro Asad nella stessa Kobane, o a Qamishli nel gennaio 2012, o i ragazzi curdi delle scuole di Kobane davano il loro sostegno ai combattenti arabi di Baba Amr (Homs), la stampa e alcuni circoli politici italiani allora erano silenziosi sull’argomento.
Nell’agosto 2014 un rapporto di Human Rights Watch (HRW) “Under Kurdish Rule”, denunciava le autorità curde (Pyd) che amministravano le tre enclaves siriane per aver commesso arresti arbitrari, per violazione del diritto di difesa, e per non essere riuscite a dare dei nomi ai responsabili di sparizioni e omicidi. Almeno nove oppositori politici del Pyd sono stati uccisi o sono scomparsi nel corso degli ultimi due anni e mezzo in aree controllate parzialmente o completamente dal partito.
Spesso si è stigmatizzato e denunciato l’utilizzo di minori arruolati tra le fila dell’Esercito siriano libero, molti si ricorderanno di Ahmed il ragazzino orfano fotografato ad Aleppo con il kalashnikov in spalla e la sigaretta tra le dita.
HRW ha scoperto che, nonostante le promesse fatte nel 2013 dall’Asayish (polizia locale) e dall’Ypg di smettere di usare i ragazzi sotto i diciotto anni per scopi militari, il problema persiste in entrambe le forze.
Lo stesso argomento è stato trattato dall’organo di informazione curdo-irachena Rudaw, i cui giornalisti durante una visita prima linea a Serekaniye (Ras al-‘Ayn) nel mese di gennaio 2014, avevano incontrato combattenti dell’Ypg che erano chiaramente minorenni e avevano già visto più volte la prima linea.
Il silenzio su questi fatti da parte della stampa, assieme alla campagna di sostegno alla resistenza di Kobane e al proliferare di conferenze incentrate sulla resistenza curda e sul clichè della donna partigiana combattente, mostra come la lettura dei fatti siriani a volte di parte, venga sempre filtrata attraverso la lente ideologica.
Non vorrei essere frainteso, non voglio sminuire la legittima resistenza curda. La mia vicinanza a questo “popolo” diviso tra quattro stati e oppresso nei secoli, risale al 1994 quando un viaggio nel Kurdistan turco mi portò a conoscere le aspirazioni all’autodeterminazione di un popolo che i turchi chiamavano i “turchi delle montagne”. Quando nel 1998 il leader separatista del Pkk Abdullah Öcalan fu costretto ad abbandonare la Siria riparò in Italia dove venne arrestato su mandato di cattura internazionale emesso dalla Germania, partecipai a Roma a una manifestazione contro la sua estradizione in Turchia.
Ma citando Leila al-Shami su Osservatorio Iraq, non vorrei che il sostegno a Kobane sia un esempio di solidarietà selettiva: “Rimane aperta la questione se la solidarietà internazionale per Kobane nasca dall’identità dei suoi difensori curdi, ovvero non arabi sunniti, o dall’appoggio per le posizioni politiche di un partito (il Pyd/Pkk) o dal riconoscimento del principio che tutti i popoli hanno il diritto di difendersi dal terrore, sia esso fascismo nazionalista o religioso, e di autodeterminare come organizzare la propria vita e quella delle proprie comunità. Se davvero sorge da questo riconoscimento, allora la solidarietà per curdi di Kobane dovrebbe essere estesa a tutti i siriani rivoluzionari”, aggiungo, siano essi armati o disarmati.
Per una mappa interattiva delle forze curde rivoluzionarie in Siria e Iraq.
∗ Un ringraziamento a H.H. e alla sua famiglia sfollata, per le fotografie.
March 13, 2015
Tel Abbas, quando la sofferenza spezza il cuore
Un’ennesima storia triste viene riportata dai volontari di Operazione Colomba che condividono le difficoltà con i profughi siriani del campo di Tel Abbas. SiriaLibano si era già occupata di questo campo profughi in Libano.
(di Corrado Borghi, per SiriaLibano). Tre giorni fa è morto Yussef.
Yussef era un ragazzone di 27 anni, sposato con una ragazza di 18 e con una bimba di un anno e mezzo. Stava due tende dopo la nostra, era uno dei ragazzi del nostro campo.
Al campo sono giorni di cuori pesanti e occhi gonfi, mentre si cerca nonostante tutto, nonostante l’ennesimo lutto, di andare avanti. S., giovane mamma ventenne, ci dice piangendo che le torna in mente il fratello morto sotto le bombe.
Yussef era riservato ma spiritoso. In Siria era uno di quelli che stava bene. Durante le manifestazioni contro il regime girava col trattore e la cisterna dell’acqua e spruzzava la gente che soffriva il caldo.
Con la guerra poi ha perso tutto.
Qui in Libano non aveva quasi parenti, la mamma è rimasta in Siria. E’ venuto a vivere in questo campo insieme ai suoi vecchi amici e vicini di casa. Ci diceva che soffriva, e si vedeva. Più silenzioso, più chiuso nella sua tenda. Soprattutto nelle ultime settimane, da quando sua sorella ha avuto un infarto e un suo cugino è sparito preso dal regime.
Un infarto se l’è portato via, il suo cuore ha ceduto.
Pochi giorni fa, mentre ero nella sua tenda a bere del mate, ci ha presentato allo zio in visita dicendo “queste persone hanno pianto con noi quando il piccolo Ahmed sembrava morto”.
Ora restano la moglie e la bimba. Il lutto prevede che la moglie per quattto mesi e 10 giorni stia chiusa in tenda, e non possa vedere uomini. Le donne si avvicendano da lei, ed anche noi le staremo vicino.
Buonanotte da Tel Abbas
Corrado
March 10, 2015
Fare ricerca (e non solo) a Beirut
(di Arturo Monaco, per SiriaLibano). È Fayruz con le sue sabahiyat, canzoni del mattino, a darmi il primo buongiorno beirutino a Em Nazih. È un caffè nel quartiere Jemmayze. sopra al quale si trova l’ostello Saifi Urban Gardens, dove ho deciso di alloggiare in questo mio mesetto di soggiorno in città.
Sono passati quattro anni dall’ultima volta in cui l’ho vista, all’inizio del 2011. Ero venuto via terra, dalla Siria due o tre volte, quando passare quel confine era più facile che attraversare lo stretto di Messina. In quattro anni tanto è cambiato.
Mi sono laureato all’università e ho iniziato il dottorato. Ho viaggiato in Egitto e in Giordania. Ma dovunque andassi qualcosa mancava, qualcosa che avevo conosciuto in Siria e poi lasciato. Beirut non è Damasco, e soprattutto il 2015 non è il 2011. In qualche modo, però, respiro un po’ di quell’aria di cui sono nostalgico.
Il motivo che mi ha spinto a venire questa volta in Libano è stata la letteratura araba. Al centro delle mie ricerche c’è, infatti, lo studio delle manifestazioni del surrealismo arabo. Strana cosa, in effetti. Ma la letteratura araba offre spesso piacevoli sorprese.
Tra queste, il sapere che sul finire degli anni Trenta un gruppo di egiziani costituì il primo nucleo di surrealisti e che di lì a pochi anni anche la Siria e il Libano si sarebbero mosse in maniera apparentemente indipendente. Cosa ancora più sorprendente è venire a scoprire che in giro per il mondo si trovano studiosi che fanno ricerche sullo stesso argomento.
E allora ci si muove per cercare di conoscere questi alter ego sparsi per il mondo, ma che il più delle volte si incontrano sempre nello stesso posto, il posto che ci lega un po’ tutti, il Medio Oriente. E Beirut mi offre davvero la possibilità di piacevoli incontri.
Ma iniziamo con ordine. La prima cosa da fare una volta arrivato a Beirut è la registrazione nelle biblioteche di mio interesse. Inizio con la Bibliothèque Orientale, la biblioteca dell’università Saint-Joseph, decisamente adatta allo studio, per il suo essere molto calma, poco frequentata e luminosa. Essendo un’istituzione privata, è necessario per i visitatori pagare una quota mensile di 30.000 lire libanesi (circa 17 euro) per l’uso degli spazi della biblioteca, la consultazione e la connessione internet.
L’altra biblioteca a cui mi iscrivo è la Nami Jafet dell’American University of Beirut. Grazie alla sua lunga tradizione, quest’università offre un patrimonio librario molto ricco e molto ben tenuto. La sala di lettura purtroppo non è esattamente la stessa oasi di pace della Bibliothèque Orientale, per l’afflusso di tanti studenti che la rendono a volte più simile a un salotto di conversazione che a un luogo di studio. Ma l’impossibilità per i semplici visitatori di prendere in prestito i libri non offre alternative.
Ad ogni modo, l’apertura 7 giorni su 7, dalla mattina alla sera, con piccole riduzioni nei fine settimana, rende la biblioteca un punto di riferimento importante. Chiaramente, da buona università privata, anche qui l’ingresso per la consultazione ha un costo.
In genere, è necessario sottoscrivere un abbonamento annuale del prezzo di circa 100 dollari, ma, visto il mio breve soggiorno, mi è stato offerto un abbonamento di sei mesi al prezzo di 55 dollari. A questa cifra è possibile, se si vuole, aggiungere 12 dollari per l’uso di ogni gigabyte di internet, non incluso nell’abbonamento. A parte il denaro, poco altro serve per l’iscrizione: una fototessera, la tessera universitaria e una lettera dell’università di provenienza, nel mio caso è bastata quella del tutor.
Concluse le pratiche di registrazione, comincia lo studio vero e proprio, alternando una biblioteca all’altra. Nel contempo mi dirigo verso il mio primo contatto, una docente presso il Dipartimento di Inglese dell’Aub, conosciuta alla conferenza dell’European Association for Modern Arabic Literature (Euramal) tenutasi a Madrid nel maggio 2014.
Il suo intervento sulle recenti espressioni artistiche nel mondo arabo, dove non mancava un tocco di surrealismo, mi aveva spinto a farle qualche domanda e da lì il suo invito a contattarla nel caso mi fossi recato in Libano.
L’incontro è breve ma ricchissimo di input. Suggerimenti per la ricerca e preziosissimi contatti. È tramite lei che incontro infatti un’altra studiosa del surrealismo di stampo arabo, libanese in particolare, una ricercatrice presso l’Orient Institut di Beirut. L’incontro mi dà modo di conoscere questo bel centro di ricerca tedesco, ospitato in un bell’edificio restaurato nei pressi del centro cittadino e dotato di una buona e calma biblioteca.
La Beirut culturale non è solo professori e biblioteche chiaramente. Quel che mi colpisce è la sua incredibile vitalità nonostante la sensazione che il pericolo sia sempre in agguato, sia pure in forma di spari in aria, celebratori della politica di Hezbollah. Opere teatrali, serate poetiche, concerti, mostre d’arte sono organizzate settimanalmente, se non quasi quotidianamente, in città.
I luoghi sono molto diversificati, dai teatri, come il Metro al Madina e il Monnot, alle aule delle università, fino ai moltissimi locali notturni, primo fra tutti il noto Radio Beirut, ma anche luoghi più defilati come il Music Hub Onomatopoeia.
Per un aggiornamento sulle attività in programma, di grande aiuto è il sito dell’Agenda culturel, oltre alle pagine Facebook di cui ciascuno dei vari centri si serve per pubblicizzare i propri eventi. È utile gettare un occhio anche sui manifesti pubblicitari affissi all’interno delle università.
Dopo la frenetica attività culturale e ricreativa per Beirut, una passeggiata per la Corniche, il lungomare, è quel che ci vuole per recuperare la tranquillità e un po’ di ossigeno. Camminando lungo la ringhiera o sedendosi nel caffè proprio sotto il faro, a poco a poco il fragore del mare si impone al rumore del traffico cittadino e penso a quanto sia proprio quel mare a rendere Beirut il posto che è.
Una miscela di visi, caratteri, edifici, abitudini a volte estremamente in contraddizione tra loro, arabi e non arabi al tempo stesso, forse semplicemente mediterranei, con decise influenze nord americane ed europee, ma inevitabilmente ancorati all’anima mediorientale.
Per me che ho amato la Siria, l’Egitto e la Giordania proprio per la loro più marcata “arabicità”, Beirut rimane una città meno prediletta, ma difficile è resistere al suo fascino, alla sua ambiguità e al desiderio di tornare per scoprirne le innumerevoli facce, tornare anche solo per sentire più vicina quella terra sorella, la Siria, una ferita aperta nel cuore di chi ne è stato conquistato. (8 marzo 2015).
March 6, 2015
Siria e Iraq, Un patrimonio storico cancellato
La violenza espressa dallo Stato Islamico (Is) verso la popolazione siriana e irachena non ha risparmiato nemmeno il patrimonio storico e archeologico di questi due paesi. Alla distruzione di alcune statue nel Museo archeologico di Mosul e sul sito dell’antica capitale assira Ninive, ha fatto seguito la recente distruzione con i bulldozer del sito archeologico di Nimrud. A seguire una lista dei maggiori siti distrutti o danneggiati dell’Iraq e della Siria.
(Associated Press). The Islamic State group’s destruction of the ancient city of Nimrud in northern Iraq is part of a systematic campaign to destroy archaeological sites it says promote apostasy.
Some of the world’s most precious cultural treasures, including ancient sites in the cradle of civilization, are in areas controlled by the group and at the mercy of extremists bent on wiping out all non-Islamic culture and history.
The rampage, targeting priceless cultural artifacts often spanning thousands of years, has sparked global outrage and accusations of war crimes. The militants are also believed to be selling ancient artifacts on the black market in order to finance their bloody campaign across the region.
Here’s a look at some of the major sites destroyed by IS in Iraq and Syria, and others under their control:
The region under IS control in Iraq has nearly 1,800 of Iraq’s 12,000 registered archaeological sites. Among the most important sites under the militants’ control are four ancient cities — Nineveh, Kalhu, Dur Sharrukin and Ashur — which were at different times the capital of the mighty Assyrian Empire.
NIMRUD: Nimrud was the second capital of Assyria, an ancient kingdom that began around 900 B.C., partially in present-day Iraq, and became a great regional power. The city, which was destroyed in 612 B.C., is located on the Tigris River just south of Iraq’s second largest city, Mosul, which was captured by the IS group in June. The late 1980s discovery of treasures in Nimrud’s royal tombs was one of the 20th century’s most significant archaeological finds. The government said militants destroyed the site this week using heavy military vehicles, but has not elaborated on the extent of the damage.
MOSUL MUSEUM: On Feb. 26, a video emerged on militant websites showing Islamic State militants with sledgehammers destroying ancient artifacts at the museum in Mosul which they referred to as idols. They also destroyed Nirgal Gate, one of several gates to Ninevah, the onetime capital of the Assyrian Empire.
MOSUL LIBRARIES: In January, Islamic State militants ransacked the Central Library of Mosul, smashing the locks and taking around 2,000 books — leaving only Islamic texts. Days later, militants broke into the University of Mosul’s library. They made a bonfire out of hundreds of books on science and culture, destroying them in front of students.
SHRINES: Last year, militants destroyed the centuries-old Mosque of the Prophet Younis — believed to be the burial place of the Prophet Jonah — and the Mosque of the Prophet Jirjis, two revered ancient shrines in Mosul. They also threatened to destroy Mosul’s 850-year old Crooked Minaret, but residents surrounded the structure to protect it.
HATRA: The militants control the 2,300-year-old city of Hatra, a well preserved complex of temples south of Mosul and a UNESCO World Heritage site. Experts say large statues from Hatra have been destroyed or defaced.
SYRIA
The Islamic State group has overrun most of the east and large parts of the north, putting a string of major archaeological sites in their hands. The militants have pillaged sites, excavated others and have destroyed several relics and Assyrian-era statues as part of their purge of paganism. The destruction they have wreaked adds to the wider, extensive damage done to ancient sites including Palmyra, as well as mosques and churches across the country in the chaos of the civil war.
DURA EUROPOS: The 2,300-year-old city overlooking the Euphrates River is a remarkably well-preserved cultural crossroads, a city first founded by Alexander the Great’s successors and later ruled by the Romans and various Persian empires. It boasts pagan temples, churches and one of the earliest known Jewish synagogues. Satellite imagery taken last year show the site pockmarked with holes from pillaging and illegal digs. It also showed hundreds of people conducting illegal excavations.
MARI: An ancient city located on the site of Tell Hariri on the western bank of the Euphrates River in Deir el-Zour province. It is believed to have been inhabited since the 5th millennium B.C. and was discovered in the early 1930s. It has also been severely looted by IS.
TEL AJAJI AND TELL BRAK: Prehistoric settlement mounds in Syria’s far eastern Hassakeh province. Experts say both have been looted and destroyed, Artifacts have been removed from both sites, and ancient statues — some dating back to the Assyrian period — have been smashed.
March 5, 2015
Stato-nazione addio. I curdi hanno la soluzione
(di Lorenzo Trombetta, per SiriaLibano). L’esperimento degli Stati-nazione nel Medio Oriente arabo è fallito. Dopo appena un secolo, si assiste a una graduale, in certi casi improvvisa, destrutturazione delle entità statali unificate create tra le due Guerre mondiali.
La spartizione territoriale è fortemente caratterizzata dall’appartenenza comunitaria, sia essa confessionale o etnica.
Il Libano dei cantoni è diviso di fatto dal 1975. L’Iraq non è solo amputato delle zone autonome a maggioranza curda, ma subisce la pressione autonomista del sud a maggioranza sciita.
Lo Yemen sembra avviarsi verso una rinnovata divisione, con il governo filo-occidentale e saudita spostatosi ad Aden e quello filo-iraniano e filo-russo a Sanaa.
La Repubblica islamica controlla quattro capitali arabe (Damasco, Beirut, Sanaa e Baghdad) col consenso implicito dell’amministrazione americana e degli stessi sauditi.
I regimi del Cairo e di Riyad spendono tutte le loro energie perché la frammentazione non si avvicini troppo ai loro confini. La Libia e la Giordania sono, rispettivamente, le trincee di questa resistenza reazionaria.
Questa è benedetta a gran voce non solo dalla Russia di Vladimir Putin ma anche dai governanti europei. Di fatto fedeli al principio per cui le dittature – siano esse dei militari, dei turbanti o dei custodi dei due luoghi santi – sono l’unico antidoto al “terrorismo” e, dunque, gli unici garanti della “stabilità” mediterranea.
Nella Siria delle milizie, dilaniata da una guerra che potrà durare per lunghi anni, i curdi sembrano quelli più attrezzati per ritagliarsi la loro area di autonomia, relativamente al riparo dalle minacce del cosiddetto Stato islamico, dalla repressione di Damasco e di Ankara.
Anche perché la Turchia è ormai scesa a patti con le milizie curde siriane e con i peshmerga iracheni. E non sembra spaventata troppo dal “Kurdistan occidentale”, così come viene chiamata l’area a maggioranza della Siria nord-orientale.
Saleh al Muslim (foto), siriano, originario di Kobane/Ayn Arab e leader del Partito dell’Unione democratica curda, ha esplicitamente detto che “gli Stati-nazione non sono adatti per il Medio Oriente”.
In un’intervista apparsa il 5 marzo scorso sul quotidiano libanese in arabo as Safir e qui di seguito tradotta e sintetizzata da Claudia Avolio per SiriaLibano, il responsabile curdo-siriano ribadisce anche l’intenzione dei curdi di offrire protezione alle comunità cristiane della regione da loro amministrata.
Muslim ripete quanto già affermato da altri leader curdo-siriani: non vogliamo la secessione ma ampia autonomia in un contesto di convivenza e democrazia. Infine un appello all’Unione Europea.
Saleh Muslim è stato entusiasta di prendere parte alla conferenza stampa ospitata da affiliati alle forze curde nella loro lotta contro lo Stato islamico (Isis).
Si tratta dei siriaci siriani nella regione del fiume Khabur che chiedono agli europei di sostenere la Giunta Militare Siriaca, la cui volontà è quella di difendere i propri villaggi ancora esposti ai raid dell’Isis e loro alleati.
I siriaci sono una delle componenti dell’autogestione che l’Unione Democratica si sforza di creare e che comprende tra gli altri anche rappresentanti arabi, assiri, caldei.
Il sessantenne leader curdo difende con forza la necessità di mantenere ben saldo il modello dell’autogestione, delle molte comunità etniche e confessionali, stando dalla parte dell’unità della gente, tra siriaci, curdi ed arabi.
“(…) La guerra e le sollevazioni potrebbero continuare per dieci anni. Non possiamo lasciare la gente così. Costituiamo un modello per la regione, di convivenza e democrazia. Parliamo di auto-amministrazione, non di una secessione dalla Siria”.
Riguardo agli stati nazionali, Muslim afferma che “noi non ci crediamo, e non sono adatti per il Medio Oriente. C’è bisogno di cambiare, anche i curdi si pongono molte domande al riguardo. La Germania unificata, all’interno dell’Unione Europea, potrebbe essere un modello per il popolo curdo: i curdi possono vivere in quattro Paesi ed al contempo vivere insieme”.
“La stessa cosa vale per i siriaci, perché no? Noi ci accettiamo gli uni con gli altri”. Proseguendo: “Noi siamo una nazione sola, ma non per forza abbiamo la stessa mentalità. Alcuni hanno la mentalità dello Stato-nazione, ma questo ormai non vale più neppure in Europa. Noi vogliamo l’autogestione”.
Ciò che chiedono i rappresentanti siriaci e curdi è un sostegno diretto per l’autogestione: “Noi non attingiamo la nostra legittimità dal regime di Damasco né da quello turco (…).
L’Unione Europea deve cooperare in modo diretto con l’amministrazione, non c’entra la questione della legittimità. Tutto il resto sono scuse, perché la cooperazione è una cosa ed il riconoscimento un’altra”. (Safir, 5 marzo 2015).
Giordania, un altro colpo alla Fratellanza
(di Mohammad Ben Hussein e Lorenzo Trombetta per Ansa). Il cosiddetto Stato islamico domina la scena dell’Islam politico mentre la Fratellanza musulmana, da più parti indicata come un elemento di moderazione, soffre le persecuzioni subite in Egitto ed Emirati, la sconfitta elettorale in Tunisia e le recenti lacerazioni interne dell’ala giordana.
Le autorità di Amman hanno approvato la richiesta di un’ala secessionista della Fratellanza giordana di essere riconosciuta come legittima rappresentante del movimento islamico, ma con uno statuto diverso rispetto a quello del gruppo originario. Una mossa che l’attuale dirigenza non ha esitato a definire “un tentativo di golpe”.
Il Fronte d’azione islamica – questo il nome ufficiale dell’ala giordana del movimento – è la formazione politica che storicamente sfida i raggruppamenti lealisti ed è legata alla casa madre egiziana come ad Hamas, l’ala palestinese del movimento.
La Giordania fa parte dell’alleanza delle forze reazionarie raccolte attorno ai Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, di cui fanno parte tra gli altri l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.
Preoccupati dall’avanzata militare, ideologica e culturale dell’Isis, i regimi reazionari arabi della regione, coalizzati attorno all’Egitto del presidente-generale Abdel Fattah Sisi e all’Arabia Saudita del nuovo re Salman, lavorano da tempo all’eliminazione politica della Fratellanza musulmana.
Il movimento nato agli inizi del secolo scorso è ancora sostenuto invece da Turchia e Qatar ed è da più parti è considerato come una forza da opporre al jihadismo e al qaedismo di seconda generazione. Secondo l’analista politico giordano Muhammad Abu Rumman, l’ala giordana della Fratellanza “è sull’orlo del caos”. C’è il rischio, ha detto parlando con l’ANSA, di alienare molti seguaci del gruppo, provenienti dalle classi operaie e dalle regioni più povere del Paese.
Nelle scorse settimane, uno degli ex leader dell’ala giordana della Fratellanza, Abdel Majid Thuneibat, aveva annunciato la nascita di una piattaforma ‘riformista’ all’interno del movimento e composta da circa 40 membri.
La fronda di Thuneibat è stata di fatto incoraggiata dalle autorità giordane, anche perché tra le sue ‘riforme’ c’è quella di prendere le distanze con la Fratellanza egiziana, invisa non solo al Cairo ma anche a Riad, che ha inserito il movimento islamico nella lista delle formazioni terroristiche.
Per tutta risposta, i vertici dell’ala giordana della Fratellanza hanno espulso Thuneibat e i membri della sua cordata. Thuneibat ha replicato invocando nuove elezioni interne e definendo “illegittima” l’attuale leadership. Tra le ‘riforme’ proposte c’è quella di aumentare la presenza di donne nel direttivo del gruppo, che da anni costituisce il principale partito di opposizione in un sistema politico dominato dalla monarchia. (Ansa, 4 marzo 2015).
March 3, 2015
“Fare un favore”, storie di trasferimenti informali di denaro in Siria
(di Barbara Boranga, per SiriaLibano). Hussam vive in Libano dal 2012. Una laurea in biochimica in tasca, si è re-inventato operatore umanitario e ora lavora nella grande macchina della cooperazione internazionale. La sua famiglia è rimasta ad Aleppo, in un quartiere relativamente sicuro ma senza nessun introito. Dei suoi sei fratelli, solo i due più piccoli sono rimasti in Siria, con suo padre. Tutti gli altri vivono all’estero, in quattro Paesi diversi.
Quando suo padre ha perso il lavoro, il giorno in cui un bombardamento ha distrutto la fabbrica dove lavorava, Hussam e suo fratello Mahmud, che vive in Russia, hanno iniziato a usare una delle grandi compagnie internazionali di money transfer per aiutare la famiglia in Siria. Dopo poco, hanno iniziato ad utilizzare modi più veloci e sicuri e che permettono di evitare di pagare commissioni così alte.
Ogni mese il padre di Hussam riceve circa 1.000 dollari dai due figli maggiori. Hussam, dopo aver ricevuto lo stipendio, arrotola 500 dollari, li mette in un cassetto, e aspetta di ricevere i soldi che Mahmud può spedire al padre.
Mahmud vive in una città del sud della Russia, dove era andato per studiare e dove ha deciso di rimanere e di costruirsi una nuova vita una volta iniziata la crisi. Nella città dove vive, ha conosciuto Fadi, uno studente libanese che riceve ogni mese soldi dalla sua famiglia. Invece di usare Western Union, la famiglia di Fadi incontra mensilmente in Libano Hussam e gli consegna 500 dollari. Allo stesso tempo Mahmud dà 500 dollari a Fadi, e così, senza pagare nessuna commissione trasferiscono denaro dalla Russia al Libano velocemente, con un sistema informale basato sulla fiducia.
Hussam, una volta ricevuti i soldi, chiama il signor J., un businessman siriano che si occupa di trasferire i soldi nella zona di Aleppo. Il signor J. è in contatto con dei negozianti che vogliono assicurarsi che i loro risparmi siano al sicuro all’estero. Ogni mese questi negozianti dicono al signor J. quanti soldi hanno guadagnato e lui si occupa di versarli in un conto corrente estero per loro. Di contro, ogni volta che qualcuno in Libano ha bisogno di spedire soldi nell’area di Aleppo, il signor J. chiama i suoi contatti e dice loro a chi e quanti soldi devono dare ogni mese. Le commissioni che Hussam paga sono di gran lunga inferiori rispetto alle compagnie internazionali di money transfer: il signor J. trattiene 10 dollari ogni 1.000 inviati, e il trasferimento avviene in maniera informale, veloce e sicura. Chiaramente senza ricevuta, Hussam incontra sempre in un posto diverso di Beirut il signor J. e, dopo i convenevoli di rito, consegna i soldi, scrive il nome di chi andrà a ritirarli su un taccuino di pelle ed è sicuro che la sua famiglia riceverà il denaro.
Hussam conosce reti informali per trasferire denaro dal Libano ad ogni zona della Siria. Come molti esuli siriani, sa che da Shatila può spedire a Raqqa, da Burj Hammud a Quneitra, da Tripoli ad Hassake, dalla montagna a Sweida. A volte usa contatti diretti: amici e conoscenti che ancora riescono ad attraversare la frontiera e che ogni volta portano con sé soldi, documenti e cibo.
Qualcun altro usa i tassisti, che continuano a fare la spola tra Beirut o Tripoli e la Siria. Ma Abdo, un ragazzo siro-palestinese mi racconta che non sempre si rivelano affidabili, e con la scusa di dover attraversare troppi check-point e di doversi pagare i lasciapassare, spesso intascano molto più delle commissioni concordate.
Qualche settimana fa Rashid mi ha chiesto se avevo voglia di fare un giro in montagna. Mi ha detto che doveva incontrare un conoscente per chiedergli un favore, ma che il paesaggio meritava le due ore di strada da Beirut. Arrivati in questo paesino a maggioranza drusa, mentre io mi perdevo nella pietra delle vecchie case, Rashid ha chiamato il signor A., il suo contatto, che gli ha detto di non essere a casa in quel momento. Ci ha dato così il nome di un vecchio barbiere dicendoci di richiamarlo una volta arrivati lì. Dopo i convenevoli con il negoziante, Rashid ha chiamato il signor A. che ha parlato al telefono con il barbiere. Finita la conversazione, il barbiere ha detto a Rashid: “Ok, quanti sono e come si chiama il destinatario?”. Abbiamo scritto su un post-it giallo il nome del cugino incaricato di ricevere i soldi in Siria, e dopo aver contato i 2.000 dollari, il barbiere lo ha appiccicato al rotolino di denaro e lo ha riposto in un cassetto in attesa del signor A.
Il flusso informale di soldi tra gli esuli siriani e le loro famiglie, coinvolge anche la Turchia.
Un giorno, mentre camminavo con Hanan per Beirut, ha ricevuto una telefonata da Rasha, una vecchia amica di Idlib che ora vive in Turchia. Le ha chiesto se per caso avesse bisogno di spedire 500 dollari in Turchia, e dopo averci riflettuto un attimo, Hanan ha risposto che per questo mese no, ma sicuramente il prossimo si, che il cugino sarebbe andato in Turchia e poteva approfittarne per spedire dei soldi a sua sorella. A quel punto Rasha le ha chiesto se potesse consegnare entro due giorni 500 dollari a una ragazza siriana che si trovava in Libano, e lei di contro il mese successivo avrebbe dato al cugino di Hanan il denaro. Preso il numero di telefono di questa ragazza, ho accompagnato Hanan in un quartiere popolare di Beirut e da un portone malandato è uscita una ragazza sorridente che ci ha stretto la mano. Ci ha offerto un tè e così, senza conoscerla, le abbiamo consegnato 500 dollari. Il mese successivo, il cugino di Hanan ha ricevuto da Rasha i 500 dollari da portare alla sua famiglia nel nord della Siria.
La scorsa settimana, in un ufficio libanese di una grande compagnia internazionale che già da qualche tempo Layla frequenta per trasferire soldi ai suoi genitori, l’impiegato l’ha guardata e, sottovoce ma non troppo, le ha detto: se vuoi, per questa regione della Siria (ma anche per altre tre aree, se ti servisse), ora c’è un modo meno costoso e sicuro, ma non posso farti la ricevuta. Quello che voleva dire era chiaro e in effetti ha funzionato: Leyla ha dato a suo padre il numero di telefono e il nome della persona da incontrare in una città siriana confinante con la loro, e con una percentuale di commissione minima, nessun problema di documenti e burocrazia, hanno ricevuto il denaro mensile dalla figlia.
Il trasferimento informale si insinua nei meccanismi formali delle grandi compagnie di money transfer, rendendo tutto più fluido, immediato, e semplice.
È in questo modo che le rimesse o gli aiuti economici entrano in Siria. Contatti più o meno diretti permettono grandi o piccoli spostamenti di denaro senza troppe domande o costi di commissione. Da sempre parte della cultura araba, questa sorta di hawala viene considerata dai Siriani come un “favore personale”, distanziandosi dall’interpretazione orientalista di una hawala atta a finanziare organizzazioni terroristiche.
Ma nonostante la necessità odierna di questi trasferimenti basati sulla fiducia nel fragile e complicato contesto siriano, il dubbio sulla legittimità di queste operazioni rimane.
Domenica ho accompagnato Said in un quartiere periferico di Beirut a spedire soldi alla sua famiglia, che vive ancora a Raqqa. Il contatto informale che ci avevano consigliato, seduto sulla sua sedia scolorita dal sole, mentre contava velocemente gli 800 dollari, ci ha chiesto – come fosse la domanda più normale del mondo: il ricevente a Raqqa è siriano o western?
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Cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Hawala#Post-9.2F11_money_laundering_crackdowns
March 2, 2015
Mosul, Statue distrutte da Isis molte erano originali
(Ansa). La distruzione da parte dei jihadisti dello Stato islamico (Isis) di numerose statue antichissime nel museo di Mosul e sul sito di Ninive nel nord dell’Iraq “era nell’aria”, tanto che gli archeologi e gli addetti ai lavori temevano “da tempo” che la barbarie jihadista potesse abbattersi su questi due luoghi, fino a pochi giorni fa risparmiati dalla devastazione che ha invece raggiunto le biblioteche storiche della città.
Il filmato, diffuso dall’Isis, è “devastante” secondo Daniele Morandi Bonacossi, docente di archeologia all’università di Udine e direttore della missione archeologica “Terra di Ninive” nel nord Iraq. Le immagini scioccanti hanno spinto il direttore generale dell’Unesco, Irina Bokova, a chiedere una “riunione urgente” del Consiglio di sicurezza dell’Onu. “È una tragedia”, ha detto Bokova da Parigi.
Sul terreno però non è rimasto nessun interlocutore affidabile che possa documentare quanto sta avvenendo. “I nostri riferimenti a Mosul sono stati costretti ad andare via. I loro dipartimenti sono stati chiusi. Senza lavoro e sotto minaccia sono ora lontani dalla città”, afferma Morandi Bonacossi con una lunga esperienza di scavi e ricerche in Siria e Iraq.
“Ero a Dohuk (in Kurdistan iracheno) quando due settimane fa abbiamo appreso la notizia della distruzione di un tratto delle mura di Ninive. Ma nessuno può confermare questo fatto”, prosegue.
Sui danni inflitti dall’Isis al museo di Mosul e al sito di Ninive, il docente italiano afferma che alcune delle statue distrutte sono copie in gesso di statue di epoca partica (II secolo a.C. – II secolo d.C.), provenienti dal sito di Hatra, a circa 100 km a sud ovest di Mosul e scavato in passato da una missione dell’università di Torino.
Gli originali, riferivano oggi fonti della commissione nazionale irachena per il patrimonio culturale, si trovano al museo di Baghdad o all’estero. Altri pezzi erano invece originali, come conferma Morandi Bonacossi. “Ci sono molte statue originali di calcare, che rappresentano divinità e sovrani”.
Sul sito di Ninive, i jihadisti hanno distrutto con diabolica metodicità delle statue colossali che rappresentano tori androcefali di epoca assira. Nel filmato dell’Isis si vede in particolare la distruzione di due “lamassu” (così venivano chiamati in assiro) posti accanto a una delle 15 porte di Ninive, quella dedicata al dio Nergal.
Sul valore commerciale di queste statue il docente italiano non può esprimersi: “Il loro valore è incalcolabile. Ma non sarebbe possibile per i jihadisti metterle sul mercato. Sono statue che pesano centinaia di tonnellate e c’è bisogno di uno sforzo logistico enorme per poterle rimuovere da dove si trovano”.
“È più probabile – conclude Morandi Bonacossi – che l’Isis abbia venduto gli oggetti più piccoli e abbia invece distrutto le statue che non avrebbe potuto piazzare nel mercato nero”. (Ansa)
February 26, 2015
Siria, non per cristiani. Né per musulmani
La storia dell’ormai estinta comunità cristiana di Dayr az Zor, nell’est siriano ora parte del cosiddetto Stato islamico, è di seguito raccontata – in una traduzione in inglese offerta da The Syrian Observer – da alcune voci di chi ha dovuto lasciare, forse per sempre, la città attraversata sull’Eufrate. “Dopo che hanno fatto saltare in aria la chiesa armena ho capito che il Paese non era più nostro. Ma nemmeno più per i musulmani”.
(di Leila Zaher, per Souryetna)
She puts a collection of photographs in front of me, and speaks while looking and gently touching them as if she was trying to re-discover them. Wafa is a lady in her 60th year, her face is full of wrinkles and her eyes filled with tears. She takes my hands, mentally pulling me into her album of photos, one after another. My smile encourages her to speak in details. Maybe the place where the pictures were taken was Deir-ez-Zor, but Wafa’s presence is the only common tie between all of these photos.
“They weren’t of any importance when they were abandoned at my house on Cinema Fuad Street. But now the matter is different, they need special care. Look! They are going to be damaged,” said Wafa. She pointed to an old faded photo, putting it back in the album, closing it, and returning again to her tale.
“After the Free Syrian Army took control of the Jubeylah and Hamidiyeh regions of Deir-ez-Zor city, I left my house for Hassakeh almost two years ago, but I never lost hope in returning to it. Three of my children emigrated to Sweden, but I refused the idea because I won’t have my grave anywhere but Deir-ez-Zor. After he fled, my son was always telling me that, “We are Christians, and this country is no longer ours.” A day after the explosion at the Armenian Church, I realized that the country was not ours anymore. But nor is it a country for Muslims.
Simon puts his hand on his sister’s. He seems younger than her, but his grief is as great as hers. “Deir-ez-Zor was the last stop for those in the convoys of surviving Armenians who were forced to flee,” says Simon. “Our weary Armenian ancestors arrived in this land and the local tribes welcomed and protected them. We didn’t know any other homeland. We never felt that Muslims owned it any more more than we did.”
Will Deir-ez-Zor Be Barren of Churches After 2014?
Deir-ez-Zor is a city whose social structure did not allow any kind of discrimination between Muslims and Christians. The only difference was that Muslims headed in the direction of the mosques to pray, while Christians entered the churches. But 2014 was a different year in the history of the city. The bells of the church stopped ringing because the presence of Christianity was completely eliminated in the liberated areas of the city. And the most important and last Christian voice in the regime-controlled areas was silenced when the voice’s owner was arrested by regime intelligence services.
In the middle of 2014, the most important historical church in Deir-ez-Zor was blown up. Before the emergence of the hardline Islamic groups, all activists in Deir-ez-Zor agree that Christian practices were affected just as much as Islam. Khaled, a member of the Hijra Illa Allah (“Immigrants to God”) Brigade, explains this. His intermittent voice via Skype recalls memories of how he first entered the church, accompanied by comrades from the Syrian Free Army, in order to clean it. He couldn’t prevent his sense of heartache from reaching me, “That day I felt I was performing my religious and social duty toward my Christian neighbors. The activists showed great interest in protecting the Christians’ properties from the people of the city—they considered and protected them as if they were their own possessions. This was chivalry toward a stranger who had no support or tribal protection. In this way, the churches remained safe and nobody thought to threaten them. Churches were protected by the inhabitants of the city.”
Khaled explained this before his connection was cut off and his voice went quiet. But voices like Khaled’s from that segment of the population began to dwindle after the Nusra Front took control of the city. For the first time, you heard people talk about Christians being infidels, and saying their money and blood were halal. This was not announced in public, but according to Saleh, one of activists of Deir-ez-Zor, it was clearly obvious from the behavior toward [Christian] properties. Saleh added that ISIS’ entry into the city accelerated the pace of this change. People openly described Christians as infidels, saying that the country must be cleared of them. But ISIS didn’t find any Christians in the free areas to expel or label as infidels. The last Christian, who had remained in the city throughout the war, left the city before ISIS’entry. ISIS found only churches that, by will of destiny, were located in the areas they controlled.
Where Church Bells are Sold as Scrap—You are in the Kingdom of ISIS
On September 21, 2014, a huge explosion woke the residents of Al-Rasheediyeh neighborhood. In wartime, such explosions are not exceptional events, but this was. The church’s neighbors left it safe the night before the explosion, but in the morning they found nothing left of it except the tower with the cross on it. Because of its religious symbolism, the church is considered a place of pilgrimage for the Armenian diaspora. According to Saleh, in May 1985 the foundation stone of the church was laid at the presence of Holiness Catholicos Karekin I.
The church has a main entrance with a façade decorated with carved crosses. On the side of the altar there is a wall decorated with Armenian and Arabic inscriptions, with two fountains on the top that stopped flowing after the explosion. On the left side of the altar there is a memorial wall holding a stone cross with miniature votives. The wall tells the tragedy of the Armenian people. Against the main entrance there is a huge monument commemorating martyrs, and a cross-stone, or khachkar, brought from Armenia, lit up with a flame of immortality burning permanently in front of it. On both sides stand five Armenian martyrs from around the world. The church was established on the left side of the square, and at the bottom a column runs through the center of the church. The column is called the emission column, and in its base the remains of the martyrs’bones were buried. The hall also contains—rather, had contained—displays for books, publications, and documentary photographs showing the suffering of the Armenian people during the massacres, as well as a map showing the places of the genocide, and a full survey of the paths the exiled Armenian people followed—roads which many Armenians will walk heading north.
The destruction of the church was terrifying, according to Saleh, but the most horrible thing was the scorn with which people treated the small but important things—the church had been stripped of its sanctity, and its bells were now considered just metal to be sold in the street as scrap.
Jack al-Abdullah
On a thin rope connecting two great walls, swings the cartoonist of all revolutionary symbolism. He refuses to look at you, ignoring you. And Jack al-Abdallah insists on ignoring you when you look at him, trying to convince him to come down and replace the pictures he has put on display with other ones, or to clean up the newspapers and magazines he scattered on the pavement in front of his library, “Al-Kawakibi,” which was closed by the Syrian intelligence services. So as he was cleaning up the pavement in front of his library, a detective, the shoe seller on “Basta,” informed the intelligence services about everything he saw and heard in the street.
Abou Abdullah was known as an anti-regime activist before and during the Syrian uprising, and because of this many young people gathered around him. After the revolution became militarized, he was forced to leave his house on Hammoud square, as did thousands of Deir-ez-Zor inhabitants, but he refused to leave the city. Abou Abdullah moved to Al-Jura neighborhood, known for its massive population density, and he continued providing services to the city and its population until he was arrested by the intelligence services in October of this year.
In the area controlled by the regime, there weren’t any churches to pretend to protect because the Christian community didn’t live in these places. But now Abdullaah is there, and after his arrest he disappeared behind bars—the last Christian voice in Deir-ez-Zor. Meanwhile, ISIS works in the free areas to erase any color other than the black [of its flag], which it celebrates. (12 febbraio 2015).
Lorenzo Trombetta's Blog
