Lorenzo Trombetta's Blog, page 15
February 13, 2015
Dieci anni fa – Business as usual
(di Alberto Zanconato, Ansa). Di notte le auto sfrecciano via veloci, e di giorno rimangono imbottigliate in giganteschi ingorghi nella zona dei grandi alberghi sul lungomare di Beirut.
Ma in pochi ormai fanno caso a quell’incomprensibile monumento in bronzo in mezzo alla strada (foto in alto), nel punto in cui dieci anni fa una bomba uccise l’ex premier anti-siriano Rafiq Hariri insieme ad altre 22 persone, riportando il Libano sull’orlo del baratro.
La catastrofe non c’è stata, e oggi il Paese cerca faticosamente la sua strada, stretto tra le crisi regionali e le tensioni sempre presenti tra i gruppi politico-confessionali all’interno.
Masse di libanesi scesero in piazza per due manifestazioni storiche dopo l’attentato, avvenuto il 14 febbraio del 2005. La prima a sostegno del fronte sciita guidato dall’Hezbollah, schierato con la Siria e l’Iran. La seconda di segno opposto, guidata dai sunniti del movimento Futuro di Hariri e appoggiata dall’Occidente e dall’Arabia Saudita. Il presidente siriano Bashar al Assad fu costretto a ritirare dopo 29 anni le truppe di Damasco dal Libano.
Ma l’ombra del grande vicino siriano ha continuato ad allungarsi sul Paese dei Cedri, così come le violenze conseguenti alla guerra civile in Siria. Una situazione esplosiva che Hezbollah e il Movimento Futuro stanno cercando di disinnescare con colloqui diretti cominciati nel dicembre scorso.
“Il dialogo avviato tra i due fronti rivali finirà con lo svuotare di significato il processo per l’uccisione di Hariri”, dice all’ANSA il professor Imad Salamey, docente di Scienze politiche alla Lebanese American University, riferendosi al dibattimento in corso in Olanda davanti al Tribunale Speciale per il Libano costituito dall’Onu. Gli imputati sono cinque membri di Hezbollah, latitanti. E il leader del movimento sciita, Seyed Hassan Nasrallah, ha avvertito che farà “tagliare le mani” a chiunque cerchi di arrestarli.
“E’ chiaro – sottolinea Salamey – che nessuno potrà fare eseguire una sentenza di condanna”. Anche il Movimento Futuro lo sa bene e ora preferisce non distruggere i rapporti con Hezbollah, con il quale continua a far parte di un governo di unità nazionale.
Intanto Saad Hariri, figlio di Rafiq e primo ministro dopo il padre, è da tre anni in esilio tra Parigi e l’Arabia Saudita, temendo di essere anch’egli ucciso.
Anche i segni materiali dell’attentato stanno scomparendo. Squadre di operai sono al lavoro per riparare il palazzo alto 11 piani su un lato della strada sul quale fino a pochi mesi fa si vedevano ancora muri sventrati e ringhiere di balconi contorti.
Sull’altro lato sorge l’Hotel Saint Georges, tempio della vita mondana beirutina dagli anni ’30 del secolo scorso fino allo scoppio della guerra civile, nel 1975. L’Età dell’Oro che nell’immaginario occidentale corrisponde a quella di un Libano presunta ‘Svizzera del Medio Oriente’. Così come oggi continua a colpire la fantasia degli europei la vita notturna sfrenata di una capitale che però deve fare i conti con i problemi consueti della mancanza di acqua potabile, di gas, delle interruzioni nell’energia elettrica per diverse ore al giorno.
E, da qualche anno, con l’invasione di oltre un milione di profughi siriani (su una popolazione di 4 milioni) e le contrapposizioni sul conflitto nel Paese vicino, dove le milizie Hezbollah combattono al fianco delle truppe lealiste e da dove i jihadisti del Fronte Al Nusra compiono le loro sortite verso il territorio libanese. “La ragione per cui il Libano non è ancora esploso è che il costo di una guerra, per tutte le parti, sarebbe più alto di quello dello statu quo”, sottolinea il professor Salamey.
Meglio dunque cercare un’intesa con gli avversari, perché “qui la politica è in gran parte mercanteggiamento”. Il primo risultato dei colloqui bilaterali è stata la decisione di togliere dalle strade i simboli dei due fronti contrapposti per fare calare la tensione. “Si tratta – dice Salamey – di un processo affrontato passo dopo passo.
Il Libano in questo senso può essere un terreno per testare un possibile dialogo tra mondo sciita e sunnita anche nel resto della regione, tra Iran e Arabia Saudita. Ma ci vorrà pazienza, perché i problemi rimangono molto complessi”. Nel frattempo, tra un black-out e una festa in piscina, il Libano cerca di continuare a fare quello che gli riesce meglio: sopravvivere, senza mai dimenticare il business. (Ansa, 12 febbraio 2015).
Siria, sui barili-bomba
Poche ore dopo l’infelice battuta del presidente siriano Bashar al Asad sui barili-bomba (“non ne abbiamo mai usati, nemmeno pentole-bomba…”) rilasciata alla BBC,
Ken Roth di Human Rights Watch (HRW) spiega gli effetti devastanti di queste armi indiscriminate usate contro aree civili. In passato Asad stesso ha riconosciuto la legittimità delle denunce di HRW.
(L. Setrakian, K. Montgomery, per Syria Deeply. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). Voi avete tenuto traccia dell’uso dei barili-bomba, ed in precedenza anche dell’uso dei missili su aree abitate da civili. Qual è la situazione attuale?
I barili-bomba stanno continuando e di fatto sono la principale ragione per cui i civili stanno morendo oggi in Siria. Tutti sono concentrati su Daesh. Daesh è terribile, i civili stanno soffrendo sotto Daesh, ma se facciamo un passo indietro e diciamo: Qual è lo strumento principale che viene usato per massacrare i civili? È il barile-bomba.
A monte, c’è il fatto che i governi non vogliono affrontare l’argomento, perché sono talmente concentrati su Daesh e non vogliono fare nulla che possa minare l’abilità del governo di Asad di tenere a bada e in teoria di contrattaccare Daesh. La gente non sembra rendersi conto che il barile-bomba non è un’arma militare. È così imprecisa che la forza aerea siriana non osa sganciarne vicino alla linea del fronte per paura di colpire le proprie truppe.
I barili-bomba, per chi non lo sa, sono in genere costituiti da un barile di petrolio o una grossa tanica riempiti di esplosivi e frammenti metallici che fungono da schegge. Vengono sganciati da un elicottero che vola ad un’altezza elevata per evitare il fuoco delle contraeree.
Da quell’altezza, non si può mirare con precisione, si può solo sganciarli su un quartiere, ed è proprio sui quartieri che i barili-bomba vengono sganciati per il bisogno di tenersi lontani dalla linea del fronte. Se ci chiediamo cosa stia consentendo alle forze pro-regime di resistere, si tratta ora dei barili-bomba.
Qual è l’entità e la portata del problema?
Se parliamo coi siriani, le cose di cui hanno più paura sono i barili-bomba. Si sentono storie di gente che fa spostare le proprie famiglie più vicino alla linea del fronte (e ciò significa sfidare cecchini ed artiglieria) perché lì si sentono più al sicuro, dove i barili-bomba non saranno sganciati.
I barili-bomba stanno colpendo ospedali, scuole e numerose istituzioni civiche nelle aree di Aleppo controllate dall’opposizione ed in altre zone. Se potessimo fermare i barili-bomba, difficilmente si potrebbe pensare a qualsiasi altra cosa per fare la differenza nel fermare il massacro di civili e la distruzione di istituzioni civiche in aree di civili.
Che vantaggio trae il regime dall’usare queste particolari forme di armi in tale, particolare conflitto?
Questo risale agli inizi. Asad sin dall’inizio ha scelto di non combattere questa guerra sotto la Convenzione di Ginevra, che in sostanza impone che si possa sparare soltanto ai combattenti dell’altro schieramento e che si debba fare tutto il possibile per rendere minimi i danni subìti dai civili. Asad ha gettato queste regole dalla finestra. Sta combattendo una strategia bellica fatta di crimini di guerra che prendono di mira in larga parte la popolazione civile. I barili-bomba, usati già da un anno buono o forse più, sono solo la più recente, più crudele e più vasta manifestazione di questa strategia.
Che speranze avete di esercitare pressioni per indurre il regime a cambiare il suo comportamento rispetto all’uso dei barili-bomba?
Quello che ho capito nelle discussioni coi governi occidentali, funzionari russi ed iraniani, è che per varie ragioni non vogliono limitare le armi militari disponibili per il governo siriano. I grandi governi occidentali sono concentrati in questa fase sulla lotta a Daesh, mentre Russia ed Iran si focalizzano sul rendere Asad più forte. Nessuno di loro ha un interesse immediato nel fermare i barili-bomba. Ho dovuto spiegare la mancanza di rilevanza militare di quest’arma. Quando sentono questo, allora sono disposti a fare un passo indietro. Ho ricevuto alcuni riscontri positivi sia da Mosca che da Tehran su questo punto.
Rispetto ai governi occidentali, hanno paura della questione dei barili-bomba per un altro motivo: non vogliono sobbarcarsi della più ampia questione dell’uso da parte del governo siriano di armi convenzionali per attaccare i civili. Essendosi avvicinati alla soglia del coinvolgimento militare tramite la questione delle armi chimiche, ed essendosi concentrati su altri temi con Russia ed Iran, l’Occidente semplicemente non ha voluto fare cenno a questo. Nessuno nega che l’Ucraina sia la priorità di Mosca e che potenziali armi nucleari sia quella di Tehran, ma dovrebbe esserci campo per farsi carico anche della questione dei barili-bomba. Soprattutto dal momento che la Russia e l’Iran non avrebbero alcun interesse nel protrarsi degli attacchi coi barili-bomba: non sono necessari alla sopravvivenza del regime di Asad.
Sono cautamente ottimista sul fatto che se riusciamo a mettere in risalto la devastazione causata dai barili-bomba e la mancanza di utilità militare, possiamo fare una differenza. Un fattore rispetto all’Occidente è che finora sta seguendo solo una strategia militare contro Daesh. In certa misura stanno cercando di fermare il flusso di armi e uomini verso Daesh, ma non stanno davvero tenendo in considerazione il fascino ideologico di Daesh – parte di esso è religioso e sottende l’idea di un califfato, ma larga parte del suo fascino risiede nel fatto che Daesh può rappresentare in sé l’unica forza che stia cercando in modo effettivo di fermare il massacro dei civili da parte del regime. L’Occidente non dovrebbe dare a Daesh questo pretesto. Ci devono essere modi per occuparsi dei barili-bomba, strumento primario di Asad per uccidere i civili. È la cosa giusta da fare in termini umanitari, ma è anche importante per aiutare ad erodere il fascino ideologico di Daesh.
Le Nazioni Unite hanno fatto appello per porre fine all’uso di barili-bomba. Cosa ci vorrebbe per creare una responsabilizzazione reale e forzare un cambiamento?
Il Consiglio di Sicurezza dellONU ha parlato dei barili-bomba in termini generici. Non ha compiuto alcuno sforzo per sostenere quel linguaggio ampio con una pressione concreta esercitata su Damasco perché si fermi. Abbiamo bisogno di andare oltre una condanna ritualistica e la difesa delle Convenzioni di Ginevra, e focalizzarci sulla pressione da esercitare su Damasco perché la smetta. Abbiamo visto che quando si applica una cospicua pressione, loro si fermano. È ora di applicare quella pressione per fermare i barili-bomba. (10 febbraio, 2015).
February 10, 2015
Siria, Genesi di un futuro jihadista
(di Alberto Savioli). Il mio amico faceva il fabbro nel suo villaggio sulle sponde dell’Eufrate. Quando la rivoluzione gli è entrata in casa ha preso le armi per difendere la sua famiglia. Ora, dopo esser dovuto fuggire in Turchia è pronto a tornare in Siria e ad arruolarsi nello Stato islamico. “In fondo ci si abitua a tutto” – mi dice.
Ho conosciuto Ahmad quando era un ragazzino spensierato di quattordici anni. Ahmad appartiene alla tribù dei Tayy, un gruppo tribale che negli anni Trenta del Novecento si è stanziato a nord di Aleppo. Nel “mondo beduino” avere un’ascendenza dai Tayy è sinonimo di nobiltà tribale. Anche ne “Le mille e una notte” si fa omaggio alla tribù dei Tayy, in particolare alla generosità di Hatim al Tayy noto poeta del periodo pre-islamico famoso per la sua ospitalità.
Io e Ahmad siamo rimasti in contatto per tutti i successivi quattordici anni. Quando l’onda delle primavere arabe ha raggiunto anche la Siria, il mio amico faceva il fabbro e coltivava i campi della famiglia sulle sponde dell’Eufrate, si era sposato con la cugina (come è usanza presso molte tribù) e dal matrimonio erano nate due bambine.
Mi racconta Ahmad che nella primavera del 2011, mentre guardava le immagini in televisione che mostravano centinaia di persone che manifestavano in diverse città siriane, sentiva lontane quelle proteste, che considerava cosa da “intellettuali, studenti e gente scontenta”. Lui aveva i suoi campi e il suo lavoro.
Tuttavia ben presto il destino ha raggiunto anche lui. “Quando le proteste hanno coinvolto anche le città minori e alcuni villaggi, sono state uccise persone che appartenevano alla mia gente – mi racconta – da quel momento non potevo più fare finta di nulla”.
“Già ad agosto, con alcuni amici, ci siamo uniti alla katiba … (omesso il nome) che dipendeva dalla brigata al Faruq, e abbiamo progressivamente conquistato i maggiori centri ad ovest dell’Eufrate: al Bab, Manbij e Jarablus. A est dell’Eufrate invece sono iniziati i combattimenti contro i curdi di quello che sarebbe poi diventato l’Ypg. In quella zona, fin quasi a Tell Abyad, la popolazione è mista e sia noi che loro volevamo controllare il territorio. In quella fase della rivolta gli scontri maggiori avvenivano contro i curdi piuttosto che contro il regime”.
La brigata al Faruq è una delle più citate dai media italiani detrattori della rivoluzione, da questi viene considerata infiltrata da numerosi elementi qaidisti e colpevole di alcuni crimini contro cristiani e alawiti. Secondo Jeffrey White, un ex ufficiale dei servizi segreti militari degli Stati Uniti e secondo Joseph Holliday, un analista presso l’Istituto per lo studio della guerra, la brigata al Faruq è da considerarsi “islamica moderata”, vale a dire, né laica né salafita. Nel 2011 era comandata dal tenente colonnello Abdel Razzaq Tlass, della famiglia dei Tlass, cui appartiene l’ex ministro della difesa Mustafa Tlass, per lunghi anni braccio destro del defunto presidente siriano Hafez al Asad.
Chiedo ad Ahmad: Combattevate per far cadere il regime, per maggiori diritti o per altri motivi? Si parlava già di islamismo? Mi risponde: “Io e molti altri volevamo giustizia. Allora nessuno parlava di stato islamico, legge coranica o cose simili, eravamo in maggioranza contadini ed ex militari, volevamo tornare alla nostra vita ma con maggiori diritti e giustizia, non si poteva più continuare così dopo i primi massacri”.
Ahmed continua il suo racconto: “Mi pare fosse già il 2012, ci hanno spostato a combattere ad Aleppo, a Khan al Asal, e siamo entrati a combattere nell’Harakat Nur al Din al Zenki, sotto la guida dello sheikh Tawfiq, qui sono rimasto per un anno e mezzo”.
L’Harakat Nur al Din al Zenki, un tempo parte della Liwa al Tawhid, è una delle più potenti fazioni ribelli del governatorato di Aleppo. Ha giocato un ruolo importante nel conquistare gran parte di Aleppo nel 2012.
“Alcune operazioni le facevamo in accordo con Jabhat al Nusra, soprattutto verso Atarib, ma molte volte ci siamo scontrati con questo gruppo”.
Dico al mio amico: “Ma allora condividevate alcune ideologie con la Nusra se combattevate assieme”.
“Erano accordi di interesse – risponde – noi volevamo combattere il regime e alcune operazioni erano congiunte ma io come molti amici non condividevamo nulla della loro ideologia”.
Ahmad capisce dove voglio arrivare e mi anticipa: “Sai quando ho sentito per la prima volta parlare di dawla islamiyya (Stato islamico)? Era la primavera-estate del 2012. Un caro amico di Hama che combatteva con me a Khan al Asal, lo chiamavo Abu Nur, durante una discussione sugli obiettivi della nostra lotta ha detto: ‘Noi vogliamo istituire la Dawla (lo Stato)’. Ma cos’è questa Dawla? Mi ha risposto: ‘Vogliamo creare lo Stato islamico!’”.
Ahmad continua il suo racconto: “Io e altri combattenti ci siamo guardati come a dire, ma cosa dice questo, di cosa sta parlando. Noi non siamo cresciuti con questi valori, non sono i nostri”.
“Abu Nur ha infine abbandonato il nostro gruppo ed è entrato prima nella Nusra (i combattenti salafiti e jihadisti si autoproclamano tali in modo ufficiale a fine gennaio 2012 sotto le insegne di Jabhat al Nusra) e poi nel 2013 è andato con Daesh (acronimo arabo di al Dawla al islamiyya fi’l Iraq wa’l Sham, ossia Stato islamico dell’Iraq e del Levante, l’Isis)”.
“C’erano molte anime in seno alla nostra lotta, alcune fin dal principio avevano quelle idee”, dice riferendosi a idee salafite o islamiste, “ma la maggioranza non la pensava come loro, se ci avessero aiutato non avremmo lo Stato islamico in Siria”.
Ribatto che a quanto ne so, l’Harakat Nur al Din al Zenki con cui combatteva, riceveva finanziamenti da alcuni Paesi arabi tra cui l’Arabia Saudita e pare dagli stessi Stati Uniti. Mi risponde: “Sicuramente le armi le ha pagate qualcuno, ma credimi non ho mai preso un soldo e non sono mai stato pagato per combattere. Qualcuno che combatteva con noi aveva parenti in Libia o Tunisia e tramite questi arrivavano dei finanziamenti, ma non erano molti soldi, tu puoi vedere le foto che ti ho mandato, puoi vedere quanto male armati eravamo, non avevamo nemmeno una divisa”.
Ahmad continua: “Il primo gruppo che ho visto passare in maggioranza con lo Stato islamico è stata la katiba Turqan dell’Esercito siriano libero che combatteva nella zona di Akhtarin e Hreytan. Dopo un anno di combattimenti si dicevano islamisti e infine sono entrati a far parte dello Stato islamico”.
“Sai quando ho notato il primo cambiamento in questo senso?”, mi dice.
“Quando dai territori a nord di Aleppo siamo stati spostati a Khan al Asal siamo passati attraverso un territorio a maggioranza turkmena e abbiamo incontrato delle brigate turkmene che ci hanno fatto passare. Erano ragazzi molto gentili, sono stati amichevoli con noi, appartenevamo tutti alla famiglia dell’Esercito siriano libero. Dopo un anno e mezzo di combattimenti a Khan al Asal ci hanno rispostato a nord, quindi siamo ripassati per gli stessi territori dei turkmeni che però ora avevano bandiere e fasce in testa che inneggiavano all’islamismo. Era tutto diverso. C’erano anche stranieri tra loro, i primi sono arrivati dall’Egitto e dalla Libia”.
Ahmad ora si trova in Turchia come profugo. La sua brigata è stata una delle ultime nella Siria del nord a cedere all’avanzata dello Stato islamico. Nel gennaio 2014 Ahmad stava combattendo contro Daesh nelle campagne tra al Bab e Manbij e raccontava: “Venerdì (10 gennaio) abbiamo combattuto contro Daesh attaccandoli nelle campagne di Jarablus, quindici di loro sono morti”.
Mentre parlava era concitato e arrabbiato, mi diceva: “Molti dei miliziani stranieri di Daesh se ne sono andati verso Raqqa. Hanno lasciato i combattenti siriani nella zona di al Bab, Manbij (entrambe conquistate allora dall’Esercito siriano libero) e Jarablus ancora controllata da Daesh (nella foto il proclamato emirato di Jarablus)”.
Nei mesi successivi dall’avamposto di Jarablus, l’Isis ha riconquistato tutti i territori persi a ovest dell’Eufrate, per poi avanzare progressivamente anche a est del grande fiume, fino quasi a conquistare l’enclave curda di Ayn al Arab/Kobane.
La brigata del mio amico è stata massacrata dai combattenti dell’Isis (poi proclamatosi Stato islamico), le teste di ventuno di loro sono state esposte su delle picche. Ahmad si è salvato per poco.
Ho perso i contatti con lui. Non l’ho sentito per oltre un mese. Alla fine mi ero rassegnato all’idea che fosse morto. Ricordo di aver guardato le macabre foto delle teste esposte, una per una, per essere certo che non ci fosse anche la testa di Ahmad.
Poi mi ha ricontattato: si trovava in Turchia, era riuscito a scappare ma la sua famiglia era ancora in un villaggio occupato dall’Isis.
Continua Ahmad: “Alcuni amici che combattevano con me a Khan al Asal ora combattono tra le file dello Stato islamico. Ogni tanto li chiamo, per capire se hanno cambiato idea… non riesco più a comprenderli. Con loro non riesci a parlare più, non ti ascoltano, ti dicono, è come diciamo noi, tu sbagli, dicono che vogliono tornare all’Islam di Maometto, ma non c’è un Islam di Maometto, c’è l’Islam. Noi non siamo musulmani?”
“Non c’è un nuovo Islam e un vecchio Islam – continua – possiamo vivere assieme anche con i curdi e i cristiani, dov’è il problema? Lo abbiamo sempre fatto. Ma mi rispondono, questa è la Dawla islamiyya. Noi vogliamo lo Stato islamico”.
“Anche Abdel Kader, ti ricordi di lui vero?”. Abdel Kader era un ragazzo inoffensivo, gentile e timido, sempre con il sorriso, era uno dei collaboratori nel mio lavoro in Siria. “Abdel Kader ora combatte con lo Stato islamico a Sheddade (Hasaka), anche lui mi dice questo, adesso c’è lo Stato islamico. Ma prima non era così, non gli importava la religione e non osservava nemmeno il Ramadan!”.
Infine, Ahmad dice una frase che mi gela il sangue: “Anche io ogni tanto penso di andare con lo Stato islamico”.
“Cosa stai dicendo?”
“Ho combattuto contro il rais e nessuno mi ha aiutato. Ho combattuto l’Isis e nessuno mi ha aiutato. Il mio villaggio è in mano a Daesh e lì c’è la mia famiglia. Se riesco a tornare e non mi uccidono farò finta di sostenerli. Alcuni amici che erano con me a combattere, assieme a duemila combattenti dell’Esl hanno raggiunto Kobane per sostenere la resistenza dei curdi, nessuno parla di loro, voi occidentali sostenete i curdi e noi ribelli siamo tutti terroristi. A questo punto andrò con i veri terroristi. Io devo vivere e la mia vita deve continuare, non posso fare il profugo”.
Aggiunge: “Sotto Daesh la vita è impossibile. Un giorno ti uccidono o ti frustano e non sai perché, non sai quale precetto islamico secondo loro hai infranto: un giorno non puoi fumare, un giorno non puoi ballare, non conosci nemmeno il motivo per cui ti accusano, solo in quel momento scopri che quella cosa non si poteva fare. Però se ti abitui a questa vita puoi sopravvivere e se decidi di combattere con loro non guadagni meno di 300 dollari al mese, e se hai famiglia ne prendi di più. E poi li ho visti, mangiano kebab, muqabbilat (antipasti) e manaqish (pizzette). Quando stavo con l’Esl mangiavo uova e patate e combattevo gratis”.
Forse tutto questo non è vero o si tratta di un’esagerazione, ma nelle scelte ciò che conta è la percezione che il singolo ha della realtà, non la realtà stessa.
Prima di riagganciare il telefono mi racconta un ultimo fatto. In questi giorni centinaia di persone stanno scappando con tutte le loro cose da molti villaggi situati sulla sponda a est dell’Eufrate (nella foto a destra una colonna di macchine tenta di attraversare il ponte sull’Eufrate a Jarablus). Dopo la riconquista curda (con il sostegno dell’Esl) di Kobane, questo fronte ribelle sta riconquistando territori allo Stato islamico spingendosi sempre più a ovest. “Questo è un bene” dice Ahmad. Ma in quella parte di territorio siriano molti locali hanno abbracciato la causa islamista e ora le loro famiglie rischiano la rappresaglia.
Conclude la telefonata dicendomi: “Quando tra un mese ritornerai dal tuo viaggio e ci sentiremo, magari sarò diventato anche io un terrorista di Daesh. In fondo ci si abitua a tutto”. (12 febbraio, 2015).
Siria, Prevedere gli attacchi guardando il cielo
(di Omar al Hussein, per Damascus Bureau. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). “Qusair a Kafranbel, mi sentite? Passo”, dice Muhammad al Akel cercando di raggiungere gli altri membri di una rete di osservatori messa su da sostenitori dell’opposizione siriana a Jabal al Zawiya, nel nord del Paese.
Akel apparteneva a un gruppo di rivoluzionari a Kafranbel che nel 2013 ha sostenuto le forze di opposizione nella battaglia di Qusair a Homs. Dall’inizio della guerra civile in Siria, sostenitori della rivolta hanno cercato di monitorare le mosse delle forze del regime. Molta gente ha iniziato a portare con sé delle radioline divenendo parte di una rete di “osservatori” che hanno fornito informazioni all’opposizione armata.
“Dopo che la rivolta ha assunto un carattere militare è stato difficile per noi attaccare i checkpoint del regime nelle città e nei paesi dei sobborghi meridionali di Idlib”, racconta Wahid al Husni, un osservatore nel nord del Paese. “Dovevamo trovare dei metodi di comunicazione tra i comandanti nelle sale di controllo dell’Esercito libero e le squadre mediche. Abbiamo creato una rete di osservatori fidati per aiutare a collegare tra loro i comandanti dei battaglioni”.
Molti osservatori nella provincia meridionale di Idlib, nella Siria nord-occidentale, comunicano tra loro utilizzando speciali frequenze sulle radioline. Ogni osservatore porta con sé una ricetrasmittente che può intercettare le frequenze degli aerei governativi che si preparano ad attaccare. Quando un osservatore identifica un potenziale obiettivo dell’attacco lo comunica alle forze ribelli e ai civili cosicché trovino riparo.
Abd al Razzaq Sultan, che prima della guerra civile era un insegnante di inglese, è ora un osservatore. “Intercettavo le comunicazioni dell’esercito del regime e le riferivo ai nostri combattenti così che potessero evitare gli attacchi”, racconta. “Dopo l’inasprirsi della brutalità del regime nel febbraio 2013 abbiamo iniziato ad avvertire i civili degli attacchi aerei così da farli mettere al sicuro”.
I civili hanno apprezzato molto il lavoro degli osservatori che sono stati in grado di informarli in anticipo degli attacchi.
“Quando il regime si mette a bombardare possiamo evitare di essere colpiti perché gli osservatori ci avvertono”, dice Rami al Mahruq che lavora come operaio edile. “Nel momento in cui gli aerei decollano dall’aeroporto sappiamo la loro destinazione grazie agli osservatori”. Il figlio dodicenne di Wahid al Husni è contento che suo padre stia monitorando il conflitto. “Mi piace il lavoro degli osservatori perché salvano la vita di molti bambini”, dice. “Quando il regime bombarda le città mio padre dà l’allarme ai civili che si riparano nei rifugi”.
Ahmad al Nahar è il comandante sul campo della brigata Fursan al Haq, parte dell’Esercito libero, nei sobborghi meridionali di Idlib. Spiega che, oltre ad avvertire di attacchi imminenti, gli osservatori aiutano anche a identificare le vittime. “Sul campo di battaglia il ruolo degli osservatori consiste nel rivelare le mosse degli armamenti pesanti del regime, cosa di cui è difficile per i combattenti tenere traccia e comunicare i risultati alla sala di controllo”, spiega al Nahar. “Aiutano anche a mettere in salvo i feriti durante gli scontri, essendo in grado di comunicare con le squadre delle ambulanze e con i comandanti sul campo”.
“Gli osservatori agiscono come bussole per dirigere gli squadroni dei combattenti monitorando le mosse delle forze di regime”, aggiunge.
Anche se la rete di osservatori ha ottenuto i suoi successi, non sono mancati i problemi. Abd al Razzaq Sultan chiarisce che la rete “è riuscita ha raggiungere risultati enormi con una semplice attrezzatura”, ma evidenzia anche le numerose sfide che si incontrano nel monitorare le mosse delle forze di regime e nel prevedere gli attacchi. “Dobbiamo affrontare alcune difficoltà dovute alle nostre attrezzature rudimentali e alla mancanza di sostegno finanziario”, dice. “Gli osservatori si spostano in moto e in auto. Sono in pochi a ricevere un contributo per le spese del carburante”.
Un’altra sfida è rappresentata dall’assicurarsi che gli osservatori forniscano informazioni accurate e che i messaggi non vengano intercettati dal regime. “A volte gli osservatori diffondono notizie false per sollevare il morale dei civili”, racconta Qaddor al Hamido che lavorava come poliziotto a Kafranbel ma ha disertato dalle file del regime dopo che l’opposizione ha preso il controllo della città. “Inoltre, i sostenitori del regime tentano di sovrapporsi alle comunicazioni degli osservatori, cosa che provoca panico tra i civili che smettono di ricevere notizie dal campo di battaglia”.
Wahid al Husni attribuisce la diffusione di notizie false alle persone che hanno poca esperienza: “Se sentono qualcosa la comunicano ai civili anche se è falsa, cosa che abbatte il morale sia tra i civili che tra i combattenti sui fronti”, dice. (Damascus Bureau, 7 gennaio 2015).
Orti urbani e animali, Aleppo si prepara all’assedio
(di Mohammed al Khatieb, per al Monitor. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). Suleiman, 26 anni, ha trasformato la sua casa − isolata, abbandonata, con i muri crepati e le finestre rotte − in una fattoria piena di vita che ospita conigli, anatre, galline e piccioni.
Ogni gruppo di animali ha il suo spazio, ma condivide cibo e acqua nel cortile. La famiglia di Suleiman ha lasciato il quartiere di Tariq al Bab quando gli elicotteri del regime hanno intensificato i raid con i barili bomba. Suleiman è rimasto solo e ha fatto volontariato per fornire soccorso.
“Questa casa è rimasta abbandonata per sei mesi. Volevo respirarvi un po’ di vita per svagarmi nel tempo libero. E soprattutto, questi animali saranno d’aiuto se dovessimo ritrovarci sotto assedio. Abbiamo imparato la lezione dagli abitanti della Ghuta a Damasco”.
Il resto degli abitanti dei quartieri di Aleppo controllati dai ribelli stanno facendo i conti con l’alto costo della vita e soffrono per gli attacchi aerei del regime. Ma le loro speranze restano ancora legate alle battaglie che infuriano a nord, in particolare nei villaggi di Bureij e Handarat. Con la lenta e progressiva avanzata dell’esercito siriano in questi villaggi, le preoccupazioni degli abitanti crescono giorno dopo giorno, perché temono di ritrovarsi sotto un tremendo assedio.
Suleiman e il suo amico fanno i turni per badare ai nuovi “abitanti”. Mentre dà da mangiare a uno dei suoi conigli, Suleiman ci spiega come è nata l’idea. “Io e il mio amico ci chiedevamo cosa avremmo potuto fare se Aleppo fosse stata messa sotto assedio. Ci è venuta l’idea di costruire grandi fattorie che potessero soddisfare le esigenze della gente per i prodotti di origine animale. Ma nessuno ha messo in pratica il progetto, così ne abbiamo ridotto la portata, e mi sono reso conto che la mia casa deserta sarebbe stata il luogo perfetto per farlo”.
“Collaborando con i comitati del quartiere, stiamo cercando di diffondere l’idea in tutta la città. Che sia per prepararci all’assedio, per fare del commercio, oppure solo un passatempo, è comunque grandioso”, aggiunge.
Sembra che l’idea di Suleiman stia iniziando a prendere piede nella città, soprattutto nei quartieri orientali. Nel quartiere di al Maysar un anziano signore che preferisce rimanere anonimo si prende cura di oltre 25 galline, anatre e oche. Il soffitto caduto di uno degli edifici distrutti è diventato un riparo dalla pioggia per gli animali.
L’uomo, circondato da un gruppo di bambini, racconta che l’iniziativa sta diffondendo gioia nel quartiere, soprattutto nei cuori degli orfani. “Forse questo può incoraggiare la gente a pensare di fare ritorno”, aggiunge.
La storia del quartiere di al Maysar è la stessa di tutti gli altri quartieri orientali di Aleppo, da cui oltre l’80% della popolazione è fuggita a causa della campagna militare del regime sulla città e dei barili bomba, iniziati circa un anno fa.
Aleppo era la città più popolosa della Siria prima dello scoppio della guerra, con circa 2 milioni e 300mila abitanti. Un operatore dell’ufficio d’assistenza del Consiglio locale, affiliato all’opposizione, ha riferito che in ottobre solo 300mila persone circa vivevano nella parte della città sotto il controllo dei ribelli.
Chi stava pensando ad andar via temporaneamente dalla città, ha scelto di lasciarla per sempre lo scorso anno. Chi è rimasto, è attaccato a questa terra. La loro decisione di ricorrere a misure preventive per prepararsi al possibile assedio ne è una prova.
Non sono solo gli adulti a prepararsi all’assedio: Ahmad (13 anni) ha iniziato a piantare ortaggi attorno alla sua casa nel quartiere di Masaken Hanano. Il giardino dell’edificio danneggiato in cui vive è pieno di ortaggi, dopo che gli alberi sono stati tagliati per usarne la legna per scaldarsi.
“Pianto verdure, così avremo del cibo per fare fronte alla fame. La mia famiglia è povera e mio padre ora è invalido perché è stato ferito nei bombardamenti”, afferma Ahmad.
Nel suo modesto giardino, Ahmad ha piantato menta, patate e fave. Mentre raccoglie dei peperoni verdi, afferma: “Questo giardino ci aiuterà nei i tempi duri, ma non so se basterà nel caso dovessimo trovarci sotto assedio”.
Quando gli chiediamo se pensa mai di lasciare Aleppo, risponde: “Non posso andarmene. Non ho altra scelta. I campi non accolgono più nuove famiglie. Anche se in Turchia lavorassi, non sarei in grado di affrontare l’alto costo della vita”.
Indicando la sua casa, dice: “Non c’è un luogo che possa conservare la mia dignità meglio di questo”.
February 9, 2015
In Giordania il campo profughi “a cinque stelle”
(di Estella Carpi, per SiriaLibano*). Lo scorso gennaio mi dirigevo a 20 km a nord dalla città giordana di Zarqa, dove si trova il mukhayyam – campo profughi – di Mrajeeb al Fhood, amministrato e finanziato dalla Mezzaluna Rossa degli Emirati Arabi Uniti fondata il 10 aprile 2013. Il sito è oggi considerato un campo “a cinque stelle”. Ospita attualmente quasi 5 mila persone, dando priorità ad anziani, donne sole o con bambini, e a famiglie. Gli uomini singoli non sono ammessi.
Le condizioni materiali sono di gran lunga migliori che in qualsiasi altro campo profughi io sia mai entrata. Gli alloggi sono delle roulottes bianche, dotate di bagno e angolo cottura solo nel caso in cui uno dei membri della famiglia soffra di particolari malattie croniche o disabilità fisiche.
Il campo è dotato di cucine comuni in cui si preparano pasti standard che vengono portati direttamente a ognuna delle roulottes. Vi sono anche lavanderie comuni, dove si può fare il bucato. Bagni comuni sono disponibili più o meno per ogni venti roulottes, in quanto non sarebbe possibile costruirne uno per ogni singolo alloggio. Cucinare autonomamente non è generalmente concesso dai signori della filantropia a cinque stelle, che offre ai rifugiati una gamma fissa di prodotti alimentari ma con qualche possibilità di scelta, soprattutto in caso di esigenze dietetiche. La Mezzaluna, inoltre, organizza attività sportive, culturali e ricreative, seminari di carpenteria e molto altro.
A differenza di altri campi, ai bambini viene evidentemente insegnato a non toccare i visitatori e a non “infastidirli”. A quanto pare nessuno di loro abbandona la scuola. Secondo i residenti del campo, infatti, le tre scuole presenti offrono un’istruzione migliore, giacché il numero degli studenti in ogni classe è di gran lunga inferiore alla media dell’enorme campo di Zaatari, che ospita ormai più di 100 mila persone.
La coordinazione tra la Mezzaluna Rossa degli Emirati e i pochi operatori umanitari internazionali che lavorano quotidianamente nel campo viene ritenuta ottimale dalla prima. I rifugiati si ritrovano la vita avvolta impeccabilmente in un pacchetto-viveri, ma pur sempre ridotto ai minimi termini della ragione umanitaria.
Biologicamente, i rifugiati sono quindi pienamente soddisfatti; al contrario, la loro presenza politica è negata o soffocata cronicamente, come è tipico dell’umanitarismo.
A questo riguardo, uno degli operatori umanitari della Mezzaluna Rossa osserva: “Tendiamo a non permettere raduni di uomini, discussioni politiche, e nemmeno l’ingresso di giovani uomini nel campo. Spesso e volentieri causano problemi e vogliamo evitarlo per quanto possibile”.
La critica più comune che è stata indirizzata alla Mezzaluna Rossa degli Emirati riguarda la piccola dimensione del campo e l’estrema concentrazione di ingenti risorse al suo interno. Nonostante la reale intenzione degli Emirati di ampliare il campo, la risposta più frequente che viene offerta al pubblico è che non sarebbero in grado di fornire la stessa qualità e quantità di servizi a un maggior numero di persone. Contro la tradizione di ogni logica umanitaria, la qualità, questa volta, pare avere priorità sulla quantità.
L’aspetto positivo della politica filantropica propria della Mezzaluna è l’impiego dei rifugiati siriani che vivono nel campo, che, stranamente, non vengono retribuiti in denaro, bensì premiati in beni materiali richiesti direttamente dai prestatori di un servizio. “Quando pulisco le strade del campo, mi danno più patate se chiedo patate, riso se chiedo più riso, o sigarette… Mi danno quello che chiedo insomma, ma non soldi”. Un altro residente, invece, si riferisce in modo ambiguo a una retribuzione in denaro, ma allo stesso tempo sottoforma di viveri. Non riesco tuttora a fare chiarezza su questo punto sulla base delle interviste condotte.
Una politica delle ricompense, insomma, che “grazia” i non abbienti, messi in condizione di “meritare” i loro averi o una quantità maggiore di beni di necessità.
In tale scenario, descritto in alcuni media come il paradiso assoluto del rifugiato, viene naturale chiedersi come si possa costruire sostenibilità. Difatti, pare che in Yemen, Kosovo e Libia fosse stato svolto un progetto simile dalla Mezzaluna Rossa degli Emirati, e che dopo qualche anno i campi profughi siano stati abbandonati dagli umanitari per mancanza di risorse.
Il deserto desolato in cui è stato costruito il campo, a detta dalla Mezzaluna, è stato scelto per la sua estensione spaziale e garanzia di sicurezza totale per i residenti stessi. Ciò si traduce, piuttosto, in un totale isolamento della componente profuga dal resto della società di cui fa parte, volenti o nolenti.
In modo simile, il mio tour nel mukhayyam viene attentamente monitorato da una guardia di sicurezza giordana e dall’équipe della Mezzaluna che guida il risciò per mostrarci l’intero campo: questa volta però, per la mia di sicurezza, dicono.
All’interno del campo ci sono inoltre un supermercato, una moschea, strutture mediche con qualche specialista, barbieri, parco giochi per bambini, sartorie. Ma dopo la mia visita, li definirei meri ornamenti. Se consideriamo la presenza delle tante telecamere di sorveglianza e recinzioni metalliche intorno e all’interno del campo per separare gli spazi, Mrajeeb al Fhood non somiglia di certo a uno spazio di riabilitazione sociale e personale.
Le ragioni materiali per uscire dal campo diventano quindi sempre meno. Lo scopo è raggiunto. Tuttavia, nessun problema se qualcuno tra i rifugiati riuscisse a svignarsela in piena illegalità. Per qualche kilometro non troverà anima viva intorno.
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* Una versione in inglese di questo articolo è disponibile a questo link.
La logica della Mezzaluna Rossa degli Emirati sembra essere in contrasto con quella dell’Onu al proposito. La distribuzione di cibo da parte del World Food Programme, ad esempio, è avvenuta lo scorso anno in zone non bombardate dal regime siriano nel Nord-Est della Siria, ovvero nella provincia di Qamishli. La povertà cronica e l’emarginazione sono questioni che vengono trattate soltanto una volta che lo stato di emergenza viene dichiarato ufficialmente. (Per saperne di più).
February 7, 2015
Il fotografo di Duma
(di Abd Doumany*, per AFP. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). È un attacco aereo a svegliarmi, proprio accanto a casa mia in una zona dei sobborghi di Damasco controllata dai ribelli. Sono le 8.30 del mattino. All’inizio penso sia l’unico, ma le mie speranze svaniscono presto col rumore di un altro attacco. E poi di un altro.
Il bombardamento non si ferma fino al tramonto. I jet governativi prendono di mira ogni cosa. Complessi abitativi, moschee, scuole, perfino un ospedale. L’assalto è una vendetta per un vasto attacco dei ribelli che ha fatto dieci morti nella capitale il giorno prima. Come ho preso a fare in casi simili, mi dirigo giù all’ambulatorio improvvisato, dove assisto alle scene più orribili che si possano immaginare.
La situazione medica è spaventosa: sangue ovunque, bambini che gridano e donne che piangono. Da ciò che riesco a vedere, metà dei feriti sono donne, anche se per rispetto non possiamo fotografarle in queste condizioni.
Dopodiché, decido di arrampicarmi sul soffitto di un edificio alto, perché è l’unico modo per documentare quanto sta accadendo. È estremamente pericoloso con tutte queste bombe che mi cadono attorno.
Abbiamo vissuto molti attacchi del governo qui a Duma, nella Ghuta orientale, ma questo è stato il peggiore sin dall’inizio del conflitto quattro anni fa. Ho contato più di 35 attacchi. Sento l’Osservatorio siriano per i diritti umani dire che hanno ucciso almeno 82 persone, di cui 18 bambini.
So che queste che sto documentando sono scene terribili. Ma dietro di esse c’è anche un orrore invisibile: le immagini che non uso − quelle troppo scioccanti, di persone senza arti o senza testa − mi fanno male per notti di fila. Mi è impossibile scacciarle via dalla mente.
Per 18 mesi del conflitto sono stato costretto a restare a casa dopo essere stato ferito alla gamba dal fuoco di un cecchino. Mi addolorava il fatto che il mondo sapesse così poco di quanto terribile sia la situazione in Siria e nella mia città in particolare. E non potevo farci niente.
Una volta guarito, ho iniziato a documentare quelle che vedevo come violazioni dei diritti nella mia città. Mi sono concentrato sul fotografare i feriti perché so in prima persona come ci si sente, essendo stato ferito numerose volte.
Non ho mai documentato un conflitto in un altro Paese. Ma sono sicuro che è diverso darne conto a casa.
Documentare la sofferenza della gente lo vedo come mio dovere. Penso anche che faccia molto più male, ogni dettaglio, ogni storia, perché questa è casa mia e questa è la mia gente. Ci sono anche molte scene che non documenti per rispetto.
Ogni persona ha la sua storia. In condizioni migliori, parlo coi feriti e gli chiedo di loro. A volte ciò può aiutarli a sentirsi meglio. Ma in momenti come questo molti non sono in grado di parlare. E semplicemente non c’è tempo per parlare. (AFP, 5 febbraio 2015)
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* Abd Doumany è un fotografo freelance e un collobaratore dell’AFP basato a Duma.
February 6, 2015
Libano, Una nuova legislazione per il sistema psichiatrico?
(di Filippo Marranconi, per SiriaLibano). Dopo la legge egiziana del 2009, il Libano sta forse per dotarsi di una nuova legislazione progressista riguardante la salute mentale. Una legge profondamente in contrasto con quella attuale, al centro della quale vengono messi i pazienti e i loro diritti e, più in generale, il diritto universale all’assistenza sanitaria. Istanze fondamentali se si crede, con Basaglia, che “la libertà è terapeutica”.
È ancora prematuro annunciarne la notizia con sicurezza, poiché il dibattito è ancora agli albori e il percorso accidentato: speriamo possa proseguire.
Nonostante la presunta marginalità dell’argomento all’interno di un contesto dominato da ben altri avvenimenti, e nonostante le divergenze tra i vari attori, la posta in gioco non è piccola e le implicazioni appaiono importanti.
Attualmente in Libano infatti non è possibile essere ospedalizzati in modo volontario: è necessaria la firma di una terza persona, spesso un familiare. Ciò significa che nel momento in cui foste internati, non vi sarà possibile uscire senza la previa autorizzazione di colui che ha firmato in vostra vece. È facile, purtroppo, immaginare la conseguenza di tale pratica.
Il sistema psichiatrico, inoltre, come il sistema sanitario in generale, è in mano ai privati, mentre le assicurazioni sanitarie non coprono l’ambito psichiatrico.
Lo Stato libanese, agente attivo nella riproduzione del sistema confessionale, copre, salvo alcune eccezioni, i costi di ospedalizzazione all’interno dei grandi ospedali psichiatrici, appannaggio di associazioni religiose: istituzioni private e caritatevoli, in cui la salute non è concepita come un diritto ma come, appunto, un atto di carità.
In queste istituzioni, fatta eccezione per coloro che possono permettersi le cure nei nei reparti di prima o seconda classe, le condizioni di vita dei pazienti non sono dissimili da quelle dei manicomi italiani pre legge Basaglia.
Per i ricchi, dunque, la possibilità di essere curati in centri specializzati e molto costosi. Per gli altri, invece, non rimane che l’istituzionalizzazione e l’internamento in manicomio.
Il 12 Giugno e il 23 settembre 2014 l’organizzazione non governativa The Legal Agenda (المفكرة القانونية) ha aperto un dibattito pubblico concernente una eventuale riforma del sistema psichiatrico libanese a cui hanno partecipato, oltre a professionisti del settore, anche alcuni parenti di persone curate in ambito psichiatrico (qui il link per seguire il dibattito).
Occasione per il dibattito è stata la legge studiata e presentata dall’Ong IDRAAC al parlamento libanese e che ora, dopo alcuni anni, sembra stia per terminare l’iter per per la sua approvazione.
La legge presentata da IDRAAC (qui il testo), frutto di un progetto che trova tra i suoi finanziatori anche l’Unione Europea, mira a rimpiazzare la vetusta legge libanese del 1983.
Se essa ha il merito di introdurre alcuni miglioramenti rispetto alla legge precedente, rimane però una proposta debole e criticabile su molti punti, che non cambia nella sostanza il funzionamento del sistema psichiatrico, ma sembra anzi difenderne alcune delle prerogative.
Inoltre, l’iter che ha portato alla sua formulazione e alla presentazione in parlamento non ha visto la partecipazione di molti professionisti e attori del settore.
Per questo motivo il dibattito aperto da The Legal Agenda è di fondamentale importanza. Una legge che abbia come fine la protezione del paziente e stabilisca in dettaglio le modalità di presa in carico all’interno di una disciplina ambigua, nel mondo liberale, qual è la psichiatria – in cui strutturalmente è presente la contraddizione tra medicina e controllo sociale, tra cura e privazione del diritto – necessita in certo modo di un dibattito aperto, all’interno del quale possano avere voce non solo i “tecnici savants del settore” ma anche coloro che, strutturalmente, non vengono ascoltati, come i pazienti e le famiglie.
Il dibattito, proseguito il sabato 8 novembre 2014 in occasione di una conferenza indetta dalla Società libanese di Psichiatria, si è concentrato su alcuni punti critici della legge presentata da IDRAAC.
In primo luogo viene richiamata la necessità di una più stretta definizione di disagio mentale e una più dettagliata regolazione delle modalità e dei tempi dell’ospedalizzazione involontaria (ciò che in italia viene detto TSO – Trattamento Sanitario Obbligatorio), in modo che non si possano verificare abusi da parte del potere psichiatrico, delle famiglie o delle istituzioni.
Inoltre, la legge proposta da IDRAAC prevede che l’ospedalizzazione involontaria sia decisa dai tribunali religiosi, mentre invece dovrebbero essere preposti a ciò i tribunali civili.
In secondo luogo non viene trattata la questione dei costi di ospedalizzazione e dell’accesso universale alle cure, ma anzi viene riprodotto il sistema a due velocità già presente nel Paese.
In ultimo, su due punti la legge proposta è passibile di essere criticata: non viene legiferato su questioni rilevanti quali la costrizione fisica, la somministrazione di trattamenti controversi quali l’elettroshock e le condizioni di vita di coloro che vengono ospedalizzati nei manicomi (lavoro forzato, divieto di comunicare all’esterno, divieto di portare abiti propri etc.); è assente il riferimento ai diritti dei non libanesi – con ciò si intendano, in particolare, al di là delle categorie giuridiche, quelle lavoratrici immigrate che, anche in seguito ai maltrattamenti subiti, vengono internate in manicomio ed espulse dal Paese in quanto prive di una copertura sanitaria (la questione dei rifugiati palestinesi o siriani è diversa. Per un piccolo approfondimento si può guardare questo link).
Questi, in estrema sintesi, i punti su cui si è dibattuto nel corso di questi mesi.
The Legal Agenda ha prodotto anche un progetto di legge (qui il testo) in cui vengono affrontate le questioni cruciali di cui sopra e in cui viene disegnato un nuovo sistema: un servizio sanitario che sia capace di fornire servizi a tutti i cittadini, la protezione da eventuali abusi e l’esercizio dei propri diritti, la regolamentazione del trattamento obbligatorio, l’implementazione di centri di reinserzione che fungano da alternativa all’istituzionalizzazione.
La legislazione italiana in materia di salute mentale è considerata molto avanzata. Già in passato la Cooperazione Italiana ha finanziato un controverso progetto nell’ospedale al Fanar, vero e proprio manicomio appartenente a una famiglia libanese – questo tipo di istituzioni sono in Italia vietate per legge, finanziando addirittura un film, “Home”, proiettato al festival di Roma. È un peccato constatare, in questo frangente così delicato, la sua assenza dal dibattito.
Il percorso è ancora agli inizi, e se anche il dibattito si concretizzasse in una legge progressista approvata in parlamento, gli ostacoli per la sua applicazione sarebbero innumerevoli e gli interessi da affrontare, al cuore del modo di riproduzione di questo Paese, consistenti.
Parlare di ciò, intanto, a me sembra già una piccola conquista, e spero il dibattito non cada nel dimenticatoio.
February 5, 2015
Per favore, non incolpate il popolo siriano!
(di Zanzuna). Non aveva pensato a quali sono le zone più sicure per entrare in Siria. [image error]
Kenji Goto voleva andare a Raqqa, la capitale dell’Isis.
Aveva lasciato un video messaggio prima di entrare:
Non era per la sua famiglia.
Non era per dire nulla di sé, tranne:
“Sono io e solo io mi prendo la responsabilità della mia scelta
Vi prego di non incolpare il popolo siriano
Il popolo siriano sta soffrendo da tre anni e mezzo
Vi prego… non incolpatelo”.
Lo hanno ucciso
Vestiti di nero e lui in arancione.
Il tuo sangue è entrato in quella terra
La terra della morte
La terra della paura
La terra dei diavoli
Per dire a chi l’ha creata:
“Ricordati che il popolo siriano soffre da tre anni e mezzo”.
La nobiltà non si impara a scuola
Non si acquisisce col DNA
La nobiltà semplicemente esiste o non esiste.
Ritaglio la tua foto
La attacco accanto alle foto di Rami al Sayed, Marie Colvin, Mika Yamamoto e altri ancora.
Sei la luce della luna che illumina la mia casetta abbandonata
Quella luce che mi ha invitato a riposare in pace
Sei il battito del cuore che mi ha fatto svegliare cinque minuti prima della sveglia
Non solo per me fai questo:
Ti vedo nell’aria assieme a tutti noi
Sei quella giornata di sole che riscalda la gente nei campi
Sei quell’idea brillante che illumina la mente di un attivista di Raqqa
per fare qualcosa da dentro.
Piango e dico ad alta voce:
“Please do not have a bad impression of the Syrian people
Syrian people is suffering from three years and a half….
It’s enough”.
E piango.
Dentro le prigioni di Asad
“Tanti siriani hanno visto cosa accade nelle prigioni del regime. Ma tanti di loro non sono vissuti per raccontare la loro storia come invece è successo a me che racconto la mia. Essere arrestati in Siria significa avvicinarsi alla morte fino ad arrivare a un pelo da essa”. Alise Mofrej
Alise Mofrej è una siriana come tante: viveva con suo marito e i suoi due figli nella periferia di Damasco e lavorava come insegnante. Nel 2011 – come tanti – è stata arrestata, percossa e maltrattata per aver partecipato a una manifestazione pacifica e nel 2013 è finita in carcere una seconda volta. “La cosa peggiore della detenzione era non sapere se sarebbe mai finita”.
Di seguito la sua storia, così come la racconta lei stessa.
(di Alise Mofrej, per The New York Times. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio).
Nella primavera del 2011, centinaia di migliaia di siriani sono insorti in protesta per chiedere democrazia e libertà e la fine della dittatura del presidente Bashar al Asad. La risposta del regime è stata un’escalation nei metodi di repressione che erano stati provati e sperimentati contro oppositori politici sin dagli anni ’70: detenzioni arbitrarie, sparizioni e torture.
Lavoravo come insegnante di arabo a Jaramana, un sobborgo di Damasco, dove io e mio marito vivevamo. Eravamo entrambi attivisti in un partito d’opposizione di sinistra represso per decenni. Ho anche fondato un’organizzazione chiamata “Siriane per uno Stato di cittadinanza” che è attiva sin dall’inizio della rivoluzione. Abbiamo lavorato per creare opportunità economiche per le donne, promuovere la pace e ridurre il conflitto tra fazioni armate a livello locale.
Il 20 luglio 2011 sono stata arrestata per la prima volta, per aver partecipato a una manifestazione pacifica nel centro di Damasco. Insieme ad altri sei attivisti sono stata presa a pugni e picchiata con un bastone elettrificato da parte di membri degli shabbiha, la milizia baathista leale alla famiglia Asad. Il regime ha dato a questi teppisti carta bianca perché terrorizzassero chiunque fosse sospettato di avere simpatie per l’opposizione. Ci hanno molestato e maltrattato, prima di consegnarci alla polizia.
Siamo stati trattenuti dal braccio di sicurezza criminale – di fatto, la polizia segreta – per dodici giorni, e poi siamo comparsi in tribunale davanti a un giudice, che ci ha concesso la cauzione. In seguito abbiamo ricevuto convocazioni ma non ci siamo mai presentati. Alla fine la causa contro di noi per “manifestazione illegale” è stata lasciata cadere.
Mentre la situazione della sicurezza si deteriorava nel corso del 2012, le tattiche del regime si sono fatte più dure. Secondo alcune stime, oltre 200 mila persone sono state incarcerate come prigionieri politici, comprese migliaia di donne e persino bambini.
Il 30 dicembre 2013 sono stata arrestata di nuovo, quando sono andata all’ufficio passaporti per fare domanda di un visto per partecipare a una conferenza di donne sponsorizzata dalle Nazioni Unite. Un mandato d’arresto è stato emesso anche per mio marito, ma lui è riuscito a nascondersi per il periodo della mia seconda detenzione. Stavolta sono stata licenziata dal mio posto di lavoro.
La cosa peggiore della detenzione era non sapere se sarebbe mai finita. Sarei potuta morire in ogni momento – i prigionieri muoiono a decine ogni giorno per le conseguenze delle torture. Mi sento fortunata a essere ancora viva.
Eravamo isolati dal mondo esterno e non potevamo vedere gli avvocati. Per più di un mese ho condiviso la cella della prigione con oltre 30 donne che erano tutte detenute con diverse accuse, per le loro attività di soccorso nelle zone assediate, o per i legami personali o famigliari con membri dell’opposizione armata, oppure in seguito a un rapporto di sicurezza falso. La cella misurava meno di 5 metri quadri, buia e fredda, senza aerazione.
La tortura era una routine. Chiunque sia stato detenuto nelle prigioni di Asad conoscerà questi dettagli. Ci sono circa 40 tecniche documentate, tra cui il sospendere per le braccia i prigionieri dal soffitto, la scosse elettriche, le botte, le bruciature con le sigarette e le unghie strappate. Le urla dei torturati erano insostenibili: ho quasi perso la testa lì dentro.
Oltre 60 uomini erano tenuti in una cella vicina. A prescindere dall’accusa, le guardie ci chiamavano tutti “terroristi” e picchiavano chiunque. Il numero dei detenuti scendeva perché qualcuno moriva, e risaliva perché ne venivano portati altri. Alcuni erano obbligati a dormire accanto ai cadaveri prima che si rimuovessero i morti. Tra i vivi, i nostri corpi esausti erano infestati dai pidocchi, avevamo eritemi e infezioni della pelle.
Sono stata fortunata a non aver ricevuto sevizie fisiche, a differenza di una dottoressa detenuta con me che era stata falsamente accusata di aver rapito un soldato dell’esercito siriano. L’hanno appesa per i capelli invece che per i polsi, continuando a gettarle addosso acqua fredda e a darle scariche di elettricità finché una volta ha perso conoscenza per giorni.
Eravamo interrogati per lunghe ore, e gli inquisitori ci tenevano in una condizione di stress tutto il giorno e tutta la notte. Venivo bendata, ammanettata e trascinata nella stanza dell’interrogatorio. Il responsabile dell’interrogatorio mi schiaffeggiava in volto più e più volte, ordinandomi di firmare fogli bianchi a cui avrebbe poi potuto aggiungere false confessioni.
Durante questa seconda detenzione di circa 40 giorni sono stata trasferita da una struttura a un’altra, finché sono stata fortunata abbastanza da essere rilasciata in una delle prime “riconciliazioni”, un accordo di cessate-il-fuoco tra l’esercito e i ribelli. Queste riconciliazioni avvenivano spesso dopo che il regime aveva messo sotto assedio una zona e costretto la popolazione alla fame. La resistenza armata doveva allora deporre le armi e cedere il controllo della zona secondo i termini dell’accordo, che includeva scambi di prigionieri.
Una volta fuori, mio marito – che era rimasto soltanto per via dei nostri due figli – è fuggito attraverso il confine in Libano. Io sono stata confinata a Damasco e mi è stato impedito di viaggiare. Siccome la legge siriana non riconosce i diritti delle donne, ho anche perso la tutela dei miei figli. Alla fine un giudice mi ha concesso la custodia temporanea e un permesso di viaggio temporaneo. Così siamo partiti per Beirut e abbiamo fatto richiesta d’asilo, ma siamo fermi, senza lavoro e con i nostri figli ancora fuori dalla scuola.
Noi, noi che abbiamo visto l’interno delle carceri di Asad, facciamo appello alla comunità internazionale perché si erga contro la catastrofica brutalità in Siria, e faccia pressione su tutte le parti per ristabilire i negoziati politici basati sui colloqui di pace di Ginevra del 2014. Il primo passo verso una soluzione dev’essere la fine delle uccisioni, delle detenzioni e delle sparizioni. A osservatori internazionali dev’essere permesso di visitare le prigioni per monitorare la condizione dei detenuti.
Nonostante l’atroce situazione della sicurezza, intendo tornare in Siria se ne avrò l’opportunità. In ultimo dovrà esserci una fine a questo terribile conflitto armato, e io credo che per garantire i loro diritti, anche le donne siriane devono avere un ruolo nel negoziare qualunque accordo finale. (The New York Times, 3 febbraio 2015)
Lorenzo Trombetta's Blog
