Lorenzo Trombetta's Blog, page 10

July 23, 2015

Storie di profughi siriani a Telabbas

IMG_9803(di Lorenzo Trombetta, Ansa). La dignità non manca, ma della vita di un tempo non hanno più nulla le quattro famiglie di profughi siriani di fatto imprigionate nelle tende erette su un terreno agricolo nel nord del Libano a pochi chilometri dal confine con la Siria.


Le loro storie sono molto simili a quelle degli altri quattro milioni di siriani che, secondo il conteggio fornito nelle ultime ore dall’Onu, negli ultimi quattro anni sono stati costretti a fuggire dal loro Paese dal 2011 segnato da violenze senza precedenti.


“La nostra casa non c’è più. Il nostro quartiere non esiste più. E se proviamo a rientrare in Siria c’è il rischio di essere arrestati, di sparire a un posto di blocco”, è la constatazione che Abu Mariam formula senza far trasparire amarezza mentre si disseta al termine dell’iftar, il pasto di rottura del digiuno giornaliero durante il mese islamico di Ramadan.


Abu Mariam è uno dei capi famiglia del campo di Telabbas, nella regione dell’Akkar, la più povera di tutto il Libano. Le famiglie sono unite da stretti vincoli di sangue e in Siria prima del 2011 abitavano nella stessa strada a Bab Amro, sobborgo di Homs, un tempo terza città siriana.


Come molti altri quartieri di Homs, Bab Amro è stato raso al suolo agli inizi del 2011 dalla risposta militare alla rivolta: scoppiata con manifestazioni per lo più pacifiche, la sollevazione è stata subito repressa nel sangue. E dopo alcuni mesi si è militarizzata, fino a trasformarsi in un conflitto intestino e regionale.


Abu Mariam e gli altri profughi incontrati a Telabbas non vogliono essere associati a nessuna parte in conflitto. “Siamo dovuti scappare in pieno inverno. Con i vestiti che avevamo indosso. La nostra vita di prima non esiste più”, afferma Abu Muhammad, un altro capofamiglia.


Da più di un anno i siriani di Telabbas sono sostenuti da Operazione colomba, un gruppo di volontari italiani membri del corpo non violento di pace della Comunità Papa Giovanni 23/mo e che dal 2013 condividono con i profughi ogni momento della vita quotidiana.


Prima del 2011 i maschi adulti del campo lavoravano come imbianchini, operai, artigiani, tassisti. Avevano case e terreni di proprietà, una vita rispettabile e una stabilità economica. Ora celebrano l’iftar al tramonto su una stuoia srotolata a terra. I piatti si lavano in un lavandino improvvisato. Le latrine sono state costruite da una organizzazione umanitaria francese. Le loro tende sono fatte di pali di legno e teloni di plastica.


E non ci sono prospettive per una vita migliore. Le autorità libanesi hanno imposto norme restrittive e discriminatorie nei confronti di oltre un milione di profughi siriani presenti in un Paese piccolo quanto l’Abruzzo, con meno di quattro milioni di abitanti e con una storia di guerre civili e afflussi massicci di profughi palestinesi.


“Non abbiamo i documenti in regola e l’esercito (libanese) ha posti di blocco ovunque nella zona. Rischiamo l’arresto e l’espulsione in Siria”, afferma Abu Mariam. “Non possiamo cercare lavoro, né accompagnare i nostri cari per cure mediche”. In pochi mesi l’Onu ha ridotto il sussidio mensile individuale da 29 a 13 dollari, da spendere in beni alimentari in negozi convenzionati. Siamo imprigionati qui. Ci hanno trasformato in mendicanti”.


Durante Ramadan associazioni caritatevoli portano cibo e aiuti. “Ma durante l’anno non abbiamo molto sostegno”, interviene Abu Muhammad. Per pagare l’affitto del terreno – tremila dollari all’anno – è stata di recente organizzata una colletta, portata a termine anche grazie ai volontari italiani. (Ansa, 10 luglio 2015).

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Published on July 23, 2015 11:28

July 22, 2015

Un parco giochi per i bambini di Telabbas

Telabbas(di Lorenzo Trombetta, Ansa). Sono deserti gli scivoli e le altalene colorate, costruite con materiali di risulta del campo di profughi siriani a Telabbas, nel Libano del nord, all’indomani della morte di due bambini siriani in un altro campo distrutto da un incendio nella valle orientale della Bekaa.


Su una popolazione libanese di meno di quattro milioni, sono circa un milione e mezzo i siriani in Libano, fuggiti dalle violenze che da più di quattro anni infiammano il Paese. A Telabbas, pochi chilometri dalla frontiera siriana, si respira stamani un’atmosfera di lutto e di paura: la notizia della morte dei due bimbi nel campo di Marj, investito dalle fiamme ieri mattina, ha fatto calare sulle baracche e sul parco giochi, nuovo di zecca, i pensieri cupi di sempre: “Cosa ne sarà di noi?”.


Un mese fa tre bambini siriani erano morti in un altro incendio che aveva devastato un palazzo a Barr Elias, nella valle della Bekaa. E altri due avevano subito la stessa tragica sorte a marzo in una baracca a Dohat Aramun, a sud di Beirut.


Un clima di festa aveva invece dominato Telabbas solo pochi giorni fa. Dopo settimane di angoscia, alcuni capifamiglia avevano trovato i soldi per pagare l’affitto del terreno, di proprietà di un libanese della zona: tremila dollari all’anno non sono tanti per alcuni ma per i siriani che non hanno più nulla sono un’enormità. Il sussidio mensile che ricevono dall’Onu è di circa 15 euro per famiglia.


Per scrollarsi via l’angoscia, gli stessi capifamiglia, molti dei quali con un passato da operai edili in Siria o in Arabia Saudita, si sono messi all’opera per costruire giochi per bambini: “Per tre giorni è stato tutto un martellare saldare, verniciare, confrontare idee…”, racconta Alberto Capannini, uno dei volontari di Operazione Colomba presenti da un anno e mezzo nel campo di Telabbas.


“Abbiamo visto crescere dal nulla altalene, scivoli e giostre. Hanno lavorato persino di notte. L’entusiasmo era negli occhi dei bambini che vedevano i giochi tutti colorati, e in quelli dei padri, che finalmente hanno trovato un motivo per sentirsi utili, visto che qui il lavoro è un lusso per pochi”, prosegue Capannini.


Dal 2011 le autorità libanesi non hanno permesso la creazione di campi profughi protetti e raggiunti da servizi essenziali. In un Paese esteso quanto l’Abruzzo, sono sempre più saturi i territori del nord e della Bekaa, già abitati da segmenti vulnerabili della popolazione locale.


Citata stamani dai media di Beirut, Dana Sleiman dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) in Libano, ricorda che questi assembramenti informali sono spesso eretti in aree a rischio, senza alcuno standard di sicurezza e spesso non sono presidiati dalle autorità locali.


Guardando le altalene mosse solo dal vento, uno dei capifamiglia del campo di Telabbas ripete al volontario italiano: “Vogliamo che i nostri bambini abbiano un posto bello per giocare. Che sia come un piccolo luna park. In Siria ce n’erano moltissimi…”. (Ansa, 2 giugno 2015).

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Published on July 22, 2015 06:43

July 17, 2015

Nasce l’Associazione “Giornalisti amici di padre Dall’Oglio”

Il 23 luglio, alle 11, sarà presentata presso la Federazione Nazionale della Stampa Italiana l’associazione “Giornalisti Amici di padre dall’Oglio”. Per prima cosa vogliamo ringraziare la Federazione della Stampa e Articolo 21 per il sostegno prezioso, senza il quale probabilmente questo pur piccolo progetto sarebbe rimasto ancora nel cassetto.


La FNSI e Articolo21 ci hanno fatto sentire che la nostra certezza che fosse un dovere civico e giornalistico, e non solo amicale, promuovere questa associazione non era soltanto “nostra”. E il fatto che il 23 sarà con noi il segretario della FNSI Raffaele Lorusso è per noi molto importante, o, per meglio dire, significativo.


L’abbiamo chiamata così perché gli amici di padre Paolo sono tantissimi; nel mondo della cultura, delle fedi, nelle Università, nel mondo. Noi siamo dei “giornalisti” suoi amici, neanche tutti i giornalisti suoi amici, ovviamente. Siamo un gruppo di giornalisti suoi amici che si sono ritrovati senza la pretesa di rappresentare alcunché; ma abbiamo avvertito il bisogno di fare qualcosa quando abbiamo scoperto che il secondo anniversario del suo sequestro a Raqqa stava per giungere, quasi dimenticato. Come lo sono gli altri 20mila sequestri che si sommano al suo, in Siria. Sequestri, sparizioni, gente inghiottita nel buio siriano.


Padre Paolo, gesuita, è stato definito dal professor Antoine Courban, docente alla Saint Joseph University di Beirut, un “Profeta del nostro tempo” nel corso di un convegno dedicato a lui e alla sua Siria, che ha avuto luogo proprio nel salone della Federazione della Stampa Italiana.


Un profeta cattolico, un prete profeta, ma anche italiano, cittadino italiano, come tutti noi.


Ricordare il suo impegno, la sua dedizione al dialogo tra culture e religioni, ricordare il suo impegno civile, sociale, culturale, spirituale, è la prima delle nostre intenzioni.


Chiediamo fiocchi gialli? Non ce ne sono mai stati per lui, forse perché non si sa neanche se sia ancora vivo, né qualcuno ha “rivendicato” il suo sequestro.


Noi possiamo solo dire che chi ha sequestrato padre Paolo non ha sequestrato anche la sua testimonianza di fede e il suo pensiero, il suo impegno, il suo servizio. Non ne faremo un totem, ma un argomento di riflessione e di comprensione di una realtà agghiacciante, di un martirio che va avanti addirittura da quattro anni: il martirio del popolo siriano, tra tirannidi e totalitarismi osceni.


Per questo abbiamo voluto che la presentazione fosse l’occasione per parlare di questo con padre Luciano Larivera, scrittore della Civiltà Cattolica, padre Giovanni La Manna, rettore dell’Istituto “Il Massimo”, e Michele Zanzucchi, direttore di “Città Nuova”, il mensile dei Focolari.


La nostra speranza è di non fermarci qui, ma di riuscire a pubblicare gli atti del convegno che ha avuto luogo alla FNSI poche settimane fa e di organizzarne uno simile, su padre Dall’Oglio, nel suo Levante, a Beirut. Sì, il suo messaggio per il dialogo e il vivere insieme vogliamo che torni a essere sentito e discusso lì dove lui ha studiato e si è formato, a Beirut, a due passi dal Siria dove poi è divenuto un progetto concreto per tanti. Sono diversi gli istituti che ci hanno dimostrato il loro interesse.


Ma è anche all’ Italia che il messaggio di questo cittadino italiano ha qualcosa da dire e siamo certi che questo messaggio profondo e drammaticamente attuale, sul vivere insieme, abbia da tanti di noi anche qualcosa da ascoltare. Nella speranza che le risposte, poi, potrà darcele lui, di persona, una volta libero.


La nostra associazione vuole anche rendere esplicita la vicinanza a questa sofferenza privata e interminabile di familiari e amici. I ruoli non si mischiano, ma l’umanità sì. (Il Mondo di Annibale, 17 luglio 2015).

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Published on July 17, 2015 07:50

July 16, 2015

La grande guerra continua

Al confine tra Kurdistan e Stato Islamico, Qaraj, Iraq (Lorenzo Trombetta, 2015)


(di Lorenzo Trombetta, Ansa). Un Iran più forte e alleato dell’Occidente, anche in funzione anti-Stato islamico (Isis), rischia di non essere un fattore di stabilità in Medio Oriente. Ma potrà invece scatenare le reazioni dei rivali storici di Teheran in tutti i teatri in cui il drammatico conflitto regionale è in corso. Ciò potrà portare più violenze e più atti di terrorismo, secondo diversi esperti dell’area.


Intimoriti da un Iran ora non più strozzato dalle sanzioni, l’Arabia Saudita e i suoi alleati sono sul piede di guerra. Secondo la stampa britannica, che oggi cita fonti di Riad, il regno del Golfo minaccia di avviare un proprio piano nucleare. Sulla stampa mediorientale e sui social network si sono intanto scatenate polemiche e dibattiti tra chi è convinto che Teheran svolgerà il ruolo di pompiere dell’incendio regionale, e chi invece si dice preoccupato delle conseguenze di un più audace e muscolare interventismo iraniano nelle contrade arabe in fiamme.


Mentre in Yemen la campagna aerea guidata dall’Arabia Saudita del nuovo re Salman proseguirà contro i miliziani filo-iraniani, un Siria il conflitto intestino ha mietuto più di 220mila morti. E ha di fatto costretto la metà dei siriani a lasciare le proprie case, in patria o all’estero.


In questa guerra l’Iran ha da tempo investito molte risorse: aiuti petroliferi e prestiti ma anche consiglieri militari, Pasdaran e milizie libanesi, irachene e afghane tutti impegnati a puntellare il sistema di potere incarnato dalla famiglia Assad, al comando da oltre quarant’anni.


L’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia sono invece in prima linea nel sostegno a varie fazioni di oppositori armati siriani. Privi di un sostanziale aiuto occidentale, questi miliziani nel corso degli anni si sono radicalizzati. Alcuni per convinzione altri per necessità hanno ormai sposato la causa jihadista. In Iraq, l’Iran e gli Stati Uniti, assieme a Francia e Gran Bretagna, già partecipano alla coalizione internazionale anti-Isis.


La convergenza di interessi esiste ma potrebbe essere formalizzata da accordi politici più strutturali in nome della “lotta al terrorismo”. Ne rimarrebbero fuori le potenze del Golfo, espressione della comunità sunnita sempre più nostalgica del baathismo e a cui di fatto nel 2003, con il rovesciamento del regime di Saddam Hussein, è stato tolto il potere.


L’Isis non rimarrà certo a guardare. E continuerà a capitalizzare il malcontento sempre più dilagante di ampie porzioni di Medio Oriente dominato da un sunnismo rurale, di stampo conservatore e tribale.


Questa marea sunnita, spesso ignorata da chi si preoccupa delle “minoranze” della regione, si sente da troppo tempo abbandonata dai poteri centrali, descritti come complici dei “neosafavidi” – gli iraniani – e tradita dagli Usa ormai “in combutta con i persiani”. E molti di quei giovani arabi che nel 2011 scesero in piazza per chiedere riforme e giustizia sociale, accettano ora con meno remore il passaggio jihadista verso il “paradiso dei martiri”. (Ansa, 15 luglio 2015)

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Published on July 16, 2015 06:03

July 13, 2015

Siria, non per cristiani. Né per musulmani

La storia dell’ormai estinta comunità cristiana di Dayr az Zor, nell’est siriano ora parte del cosiddetto Stato islamico, è di seguito raccontata da Leila Zaher che ha raccolto le voci di chi ha dovuto lasciare, forse per sempre, la città attraversata dall’Eufrate. “Quando hanno fatto saltare in aria la chiesa armena mi sono resa conto che in effetti il Paese non era più nostro. Ma neppure dei musulmani”.


Dayr az Zor, chiesa (The Syrian Observer)


(da The Syrian Observer. Traduzione dall’inglese di Camilla Pieretti). Sistema davanti a me una serie di foto e mentre parla non smette di guardarle e sfiorarle con le dita, quasi a volerle riscoprire. Wafa è una sessantenne con il volto pieno di rughe e gli occhi pieni di lacrime. Mi prende le mani, trascinandomi con sé nei suoi ricordi mentre scorriamo le immagini, una dopo l’altra. Il mio sorriso la spinge a raccontarmi tutto nel dettaglio. È probabile che le fotografie siano state scattate tutte a Dayr az Zor, ma la presenza di Wafa è l’unica cosa che le accomuna.


“Quando sono state lasciate nella mia casa in via Cinema Fuad erano solo immagini senza importanza. Ora però le cose sono cambiate e bisogna averne la massima cura. Guarda! Si rovinano così facilmente”. Indica una vecchia foto sbiadita, la rimette nell’album, lo chiude e torna al suo racconto.


“Dopo che l’Esercito siriano libero ha preso il controllo di Jubeyla e Hamidiya, nella regione di Dayr az Zor, quasi due anni fa, sono scappata ad al Hassaka, ma non ho mai perso la speranza di poter tornare a casa. Tre dei miei figli sono emigrati in Svezia, ma io mi sono rifiutata, perché la mia tomba non può essere altro che a Dayr az Zor. Dopo la fuga, mio figlio continuava a ripetermi: “Siamo cristiani e questo Paese non fa più per noi”. Quando hanno fatto saltare in aria la chiesa armena mi sono resa conto che in effetti il Paese non era più nostro. Ma neppure dei musulmani.


Simon posa una mano su quella della sorella. Pare più giovane di lei, ma il suo dolore è altrettanto profondo. “Dayr az Zor era l’ultima tappa delle carovane di armeni sopravvissuti e costretti a fuggire”, dice Simon. “Quando i nostri antenati armeni, ormai sfiniti, sono arrivati qui le tribù locali li hanno accolti e protetti. Non abbiamo altra patria. E non abbiamo mai pensato che i musulmani ne fossero padroni più di noi”.


Dayr az Zor rimarrà senza chiese?


Dayr az Zor è una città la cui struttura sociale non ha mai consentito discriminazioni tra musulmani e cristiani. L’unica differenza era che i musulmani andavano a pregare nelle moschee, mentre i cristiani si recavano in chiesa. Il 2014, tuttavia, ha segnato una vera svolta nella storia della città. Le campane hanno smesso di suonare, perché la cristianità è stata completamente sradicata dalle zone libere della città. L’ultima e più importante voce cristiana presente nelle aree controllate dal regime è stata ridotta al silenzio nel momento in cui il suo possessore è stato arrestato dai servizi segreti governativi.


A metà del 2014 la più importante chiesa storica di Dayr az Zor è stata fatta saltare in aria. Prima della comparsa dei gruppi islamici più estremisti, tutti gli attivisti di Dayr az Zor erano concordi nell’affermare che le pratiche cristiane erano state colpite tanto quanto l’Islam. Ce lo spiega Khaled, membro della brigata al Muhajirun ila Allah (“Migranti verso Dio”). La sua voce che va e viene su Skype ricorda la prima volta che è entrato nella chiesa insieme ai compagni dell’Esercito siriano libero per aiutare a ripulire. Non riesce a nascondere la tristezza. “Quel giorno ho sentito che stavo svolgendo il mio dovere sociale e religioso nei confronti dei miei vicini cristiani. Gli attivisti si sono impegnati per proteggere i beni dei cristiani dalla gente, considerandoli e difendendoli come fossero loro. Si è trattato di un gesto di cortesia nei confronti di stranieri privi di qualsiasi sostegno o protezione tribale. In questo modo le chiese sono rimaste al sicuro, nessuno ha pensato di minacciarle. Sono stati gli stessi abitanti della città a proteggerle”.


Così ci ha spiegato Khaled, prima che la connessione saltasse e il suono della sua voce svanisse. Ma da quando la Jabhat al Nusra ha preso il controllo della città, voci come la sua, in quella fetta di popolazione, hanno cominciato a calare. Per la prima volta si è sentito dire che i cristiani sono infedeli e che i loro soldi e il loro sangue sono halal. Nulla di tutto ciò è stato dichiarato apertamente, ma secondo Saleh, uno degli attivisti di Dayr az Zor, è emerso in maniera evidente dagli atteggiamenti nei confronti dei beni dei cristiani. Saleh ha aggiunto anche che l’ingresso dell’Isis in città ha accelerato la trasformazione. La gente ha iniziato ad apostrofare apertamente i cristiani come infedeli e a dire che il paese doveva esserne ripulito. Nelle zone liberate, però, i miliziani dell’Isis non hanno trovato alcun cristiano da espellere o da bollare come infedele. Gli ultimi cristiani rimasti in città durante tutta la guerra erano fuggiti prima del loro arrivo. Così lo Stato islamico si è dovuto accontentare delle chiese che, per volere del destino, si trovavano nelle zone sotto il suo controllo.


Campane vendute come rottami – Questo è il regno dell’Isis


Il 21 settembre 2014 gli abitanti del quartiere di al Rashidiye sono stati svegliati da una forte esplosione. In tempo di guerra simili eventi non costituiscono niente di eccezionale, ma in questo caso era diverso. Chi abitava accanto alla chiesa l’aveva lasciata ancora integra la notte prima, e la mattina dopo non era rimasto altro che il campanile con la croce in cima. A causa del suo simbolismo religioso, questa chiesa era considerata luogo di pellegrinaggio della diaspora armena. Secondo Saleh, la prima pietra della chiesa è stata posta nel maggio 1985 alla presenza di sua Santità il catholicos Karekin I.


L’ingresso principale si trova su una facciata decorata da croci scolpite. A lato dell’altare, una delle pareti è decorata da iscrizioni in armeno e arabo, sormontate da due fontane in cui l’acqua, dopo l’esplosione, ha smesso di scorrere. Sul lato sinistro dell’altare c’è un memoriale con una croce di pietra e alcune miniature votive. Sulle pareti è raccontata la tragedia del popolo armeno. Di fronte all’entrata ci sono un massiccio monumento ai martiri e una croce di pietra, o khachkar, proveniente dall’Armenia e illuminata dalla fiamma dell’immortalità, perennemente accesa. Su entrambi i lati sono raffigurati cinque martiri armeni dal mondo. La chiesa era stata costruita sul lato sinistro della piazza, e sul fondo era stata posta una colonna che ne attraversa il centro. Alla base della colonna, chiamata colonna di emissione, sono sepolti i resti dei martiri. La sala inoltre contiene – o meglio, conteneva – bacheche colme di libri, pubblicazioni e fotografie documentarie che mostrano la sofferenza del popolo armeno durante i massacri, oltre a una mappa su cui sono segnati i luoghi del genocidio e a un’indagine approfondita sui percorsi seguiti dagli armeni in esilio, perlopiù diretti a nord.


La distruzione della chiesa, continua Saleh, è stata terribile, ma la cosa peggiore è stato il disprezzo con cui la gente ha trattato cose piccole ma importanti: la chiesa è stata spogliata della sua sacralità e le campane sono state considerate semplici pezzi di metallo, da rivendere per strada come rottami.


Jack Abdallah


Su una grossa fune alta tra due muri oscilla Handala, il bambino palestinese disegnato da Naji al Ali, con tutto il suo simbolismo rivoluzionario. Si rifiuta di guardarti, ti ignora e insiste con l’ignorarti. Guardi Jack Abdallah mentre lui prova a convincerlo a scendere di lì per sostituire la sua immagine con un’altra o riordinare i giornali e le riviste che ha disposto sul marciapiede fuori dalla sua libreria, “al-Kawakibi”, da quando è stata chiusa dai servizi segreti siriani. Tutto ciò sotto lo sguardo di un informatore, il proprietario del negozio di scarpe “Basta”, che comunica ai servizi segreti tutto ciò che vede o sente nella via.


Jack Abdallah era noto per essere un attivista contrario al regime, prima e durante la rivoluzione siriana, e per questo aveva attirato a sé molti giovani. Quando la rivoluzione si è militarizzata, è stato costretto ad abbandonare la sua casa di piazza Hammud, come altre migliaia di abitanti di Dayr az Zor, ma si è rifiutato di lasciare la città. Si è trasferito nel quartiere di al Jura, noto per l’elevata densità di popolazione e ha continuato a fornire i suoi servizi alla città e ai suoi abitanti fino a quando è stato arrestato dai servizi segreti.


Nella zona controllata dal regime non c’erano chiese da fingere di proteggere, perché i cristiani non hanno mai vissuto in quelle zone. Ora però Jack Abdallah si trova lì, e dal giorno dell’arresto è sparito dietro le sbarre, ultima voce cristiana a Dayr az Zor. Nel frattempo, nei quartieri liberati, l’Isis si sta impegnando per eliminare qualsiasi colore diverso dal nero del suo vessillo, che tanto venera.

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Published on July 13, 2015 01:58

July 9, 2015

Terra e paglia tra Siria e Libano

As you start to walk on the way, the way appears – Rumi


CARTOLINA


(di Giovanni Marinelli). Da oltre 3 anni più di un milione di profughi siriani vive in Libano in campi informali di baracche di legno, plastica e cartone. Vorremmo fare in modo che loro stessi, dopo aver perso le loro case sotto i bombardamenti, possano con le loro mani e il loro lavoro costruire nuove case in cui vivere – case belle, comode ed ecologiche. Non un campo profughi ma un luogo dignitoso dove vivere, in attesa di poter tornare in Siria.


È questa l’idea che ha iniziato prendere forma un anno fa, quando per tre mesi, da marzo a giugno, ho vissuto con altri volontari nei campi dei profughi siriani nel Nord del Libano. Dopo aver passato una notte in un ostello in paglia e fango, ho comprato un manuale su questa tecnica di costruzione, tradizionale in Siria e Libano – le case del centro di Damasco sono costruite in questo modo.


Ho mostrato il manuale agli abitanti del campo in cui vivevo – Mukhayyam al-Rabia, “Campo Primavera” – e la matriarca del clan mi ha raccontato che da piccola abitava in campagna, in una casa di terra e paglia che aveva costruito insieme alla sua famiglia prima di sposarsi e trasferirsi a Homs, nel quartiere di Bab Amr.


La sua storia mi ha colpito e insieme a due amiche abbiamo iniziato a lavorare all’idea. Attraverso una campagna di crowdfunding cerchiamo i fondi necessari a permettere agli abitanti del “Campo Primavera” di costruire una casa e dei bagni comuni in terra e paglia. Questa tecnica di costruzione è tradizionale, ecologica, a basso costo e produce case sicure, confortevoli e molto belle.


Se riusciremo a realizzare questo progetto, gli abitanti del Campo Primavera:


1. avranno una casa-edificio comune fresco d’estate e caldo d’inverno,

2. avranno accesso a bagni comuni, per sé e per gli abitanti di un campo confinante,

3. potranno pagare l’affitto della terra su cui vivono con i soldi guadagnati lavorando alla costruzione, e

4. impareranno una tecnica di costruzione a basso costo, rispettosa dell’ambiente e facilmente utilizzabile, e avranno a disposizione gli attrezzi necessari per continuare a costruire.


La campagna di crowdfunding termina il 19 agosto, perché i lavori devono essere fatti prima di ottobre in modo che i mattoni di fango e paglia possano seccare al sole. Con gran piacere ringraziamo chiunque contribuisca alla campagna e/o ci aiuti a diffondere il progetto attraverso i social network.


Link utili:

Per maggiori informazioni

Per contattarci

Per contribuire al progetto su Indiegogo

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Published on July 09, 2015 04:17

July 1, 2015

Baniyas, Nella fabbrica dei barili-bomba

barile-bomba inesploso


(di Faruq Tayyibi, per Tamaddun. Traduzione dall’arabo di Claudia Avolio). Il barile-bomba − l’arma unica nel suo genere che le forze del regime hanno introdotto nell’arena del conflitto che imperversa nel Paese da oltre quattro anni − è un massiccio serbatoio metallico riempito di esplosivo e fertilizzanti organici e zeppo di oggetti in metallo taglienti. Può pesare dai 250 ai 500 kg e viene sganciato in modo indiscriminato dagli elicotteri del regime che volano ad alta quota per evitare di essere colpiti dalla contraerea dell’opposizione. Il barile atterra con tutta la forza della sua caduta libera sulle città e i paesi rivoltosi, mietendo vittime e feriti tra i civili.


Nazih (pseudonimo), ingegnere civile di Baniyas, guarda infervorato sullo schermo del suo computer un video su YouTube in cui un elicottero sopra Daraya sgancia un grosso oggetto nero che cade rapidamente per sparire per un secondo o due dietro un complesso di edifici. Questo prima dell’orrenda esplosione di fumo, polvere e schegge, tra le grida e i “Dio è grande” di chi sta filmando. Tutto ciò getta un’ombra tragica sulla scena e dà un’idea del disastro che si è abbattuto su quella strada.


Eppure Nazih conosce un altro lato della vicenda che si è svolta a 300 km da casa sua e sembra sapere più della punta visibile dell’iceberg: Nazih conosce la storia della fabbrica che ha prodotto e produce quei terribili strumenti di morte.


Nel suo rapporto sull’argomento pubblicato alla fine del 2013, Amnesty International ha considerato l’uso dei barili-bomba “un crimine di guerra” e “una punizione collettiva” ingiustificabile. Secondo lo stesso rapporto, solo ad Aleppo i barili hanno raso al suolo un quarto dei rioni della città, cambiandone per sempre la fisionomia.


Da Aleppo e Daraya verso un altro luogo che possiede un legame con questa storia, torniamo alla città di Nazih, Baniyas, piccola città costiera oggi tranquilla dopo aver fronteggiato gli eventi seguiti alle manifestazioni del 2011 e il terribile massacro cui sono stati sottoposti i civili per mano degli shabbiha nel 2013.


Gli inizi della raffineria di Baniyas


In questa città divisa come il Paese da fratture confessionali e politiche si trova la “fabbrica dei barili” − come la chiama Nazih − e a quanto pare è un segreto che tutti conoscono. Qui non c’è nulla di segreto né di pericoloso che Nazih abbia scoperto. Lui che non ha neanche 40 anni e che da 10 lavora nella raffineria petrolifera costruita da una ditta rumena a Baniyas all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso. Da quando la produzione di petrolio in Siria si è contratta del 90% dopo che lo Stato islamico ha preso il controllo dei pozzi di petrolio, quest’azienda non ha più molto lavoro da svolgere.


Nazih racconta stupito: “Usano l’officina adibita alla manutenzione e alla saldatura dei condotti per fabbricare questi barili”. Nonostante sia trascorso un mese da quando ha scoperto per caso la cosa, sembra evidentemente ancora sotto shock.


“Uno dei miei compiti − continua − prevede che io visiti la sede di un’officina di manutenzione e saldatura dei condotti. Nell’ampio cortile sul retro dell’edificio ho visto le strutture vuote dei barili in fase di costruzione: non c’è stato bisogno di spiegazioni ulteriori. Era tutto chiaro”.


Nazih racconta poi di essersi rivolto al suo collega ingegnere a capo dell’officina, un uomo sulla cinquantina che Nazih trovava simpatico e con cui amava bere il tè di tanto in tanto. Con semplicità gli ha chiesto informazioni sulla questione, e il capo dell’officina con semplicità ancora maggiore gli ha risposto: “Qui fabbrichiamo i barili che colpiranno i bastardi e li bruceranno”. Non è stato facile per Nazih ignorare la nota confessionale che pervadeva le parole pronunciate dal capo dell’officina, che è alawita, la stessa comunità cui appartiene il presidente.


Armi a basso costo e di produzione locale


Dice ancora Nazih: “Ho provato a spiegargli che i barili sono un’arma che non fa distinzioni e cieca, ma non mi ha dato ascolto… Forse era seccato”. In un tono venato d’orgoglio, il capo dell’officina ha poi spiegato nel dettaglio il modo in cui si fabbricano i barili, con sorpresa di Nazih. Ha parlato di grandi viti e bulloni e di triangoli metallici affilati, avanzi delle operazioni di taglio e saldatura degli oleodotti, tutti pressati nel centro del barile riempito di esplosivo.


All’improvviso, dopo aver guardato noncurante intorno a sé gli ammassi di rottami scartati che sarebbero diventati parte di un barile, Nazih ha chiesto:


“Quando costa fabbricarne uno?”


“Meno di 20 mila lire siriane (75 dollari)”, gli ha risposto il capo dell’officina.


Dunque alla fine il regime si serve di un’alternativa a basso costo che non richiede ingenti somme di denaro né abilità tecnologica, di cui il mondo ha visto però l’orribile potenziale di devastazione che si è abbattuto su Aleppo, sui sobborghi di Idlib e su tutte le zone che si sono ribellate e che ha ucciso migliaia di persone e distrutto le abitazioni, stando al resoconto delle reti per i diritti umani in Siria.


“È terribile che 75 dollari siano in grado di strappare la vita delle persone e causare una distruzione che non distingue tra civili e gente armata, ed è ancora più terribile celebrare la cosa e dipingerla come un successo militare”, commenta Nazih.


Una portavoce dell’ufficio stampa di Latakia dell’Unione dei Comitati locali della rivoluzione siriana dice: “Probabilmente la fabbrica di Baniyas non è l’unica, c’è la fabbrica di ferro di proprietà di Ayman Jaber che si trova tra Jabla e Baniyas e non è distante dalla prima”.


Ayman Jaber è un imprenditore di Latakia che gode di stretti rapporti con la famiglia degli Asad e con il suo regime. Con l’inizio del fermento in Siria il suo nome è salito alla ribalta nella zona, perché rappresentava e continua a rappresentare un mix micidiale costituito dall’alleanza di uomini d’affari corrotti con il sistema di sicurezza. Nutre poi le sue attività e la propria reputazione reclutando giovani alawiti poveri nelle milizie degli shabbiha in cambio di ricompense in denaro.


Testimoni oculari dell’ufficio stampa di Latakia sostengono che dei camion trasportano i barili dalle fabbriche al vicino aeroporto di Jabla e da lì agli aeroporti di Hama, Aleppo, Abu az Zuhur (Idlib) e altrove.


Alcuni dei fedelissimi del regime affermano che si è incominciato a utilizzare i barili non all’inizio degli eventi in Siria, ma solo quando la comunità siriana delle regioni interne si è trasformata in un’incubatrice di terrorismo e che perciò la cosa deve essere affrontata con ogni mezzo possibile.


Questo argomento non sembra convincente per Human Rights Watch né per le Nazioni Unite o il Commissariato per i diritti umani. Pare non convincere neppure Nazih mentre siede a contemplare il Mediterraneo dal balcone della sua tranquilla casa a Baniyas, lontano dalla guerra feroce che continua senza sosta nel Paese. Vede un elicottero decollato dal vicino aeroporto di Jabla e non può fare a meno di pensare che ci siano un paio di barili caricati al suo interno prodotti dalla fabbrica della morte vicino a casa sua.


Nazih segue la graduale ascesa dell’elicottero nel cielo. Il velivolo va a est e si dirige nell’interno del Paese, verso una nuova campagna di morte e guerra che sembra non avere una fine all’orizzonte. (Tamaddun, 19 maggio 2015)

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Published on July 01, 2015 01:11

June 26, 2015

I nuovi lavori dei siriani in tempo di guerra

suq_Damasco(di Mustafa al Haj, per al Monitor. Traduzione dall’inglese di Patrizia Stellato). Dietro la Moschea degli Omayyadi, nella città vecchia di Damasco, dove le strade sono ancora affollate durante il giorno, Abu Muhammad siede su una sedia di legno di fronte al suo negozio di oro e gioca a backgammon la maggior parte del tempo. Ne ha molto a disposizione, poiché il commercio dell’oro non è più in voga, essendo drasticamente diminuito il numero dei clienti.


Abbiamo incontrato Abu Muhammad nel suo negozio, diventato un posto dove trascorrere il tempo invece di lavorare. “Due anni fa i clienti si fermavano a visitare il negozio, mentre pochi entravano per vendere i propri averi e chiedere i prezzi dell’oro costantemente in ascesa, a causa del tracollo della lira siriana rispetto al dollaro”, racconta.


“Questo commercio non è più redditizio. Molti proprietari di negozi di gioielli hanno chiuso le loro attività e si sono dati a nuovi lavori. Si direbbe che io sia il prossimo. Se le cose continuano così, cercherò un’altra occupazione”.


Non distante dalla bottega vuota di Abu Muhammad si trova il negozio di regali e accessori di Adnan, un tempo anch’esso una gioielleria.


“In passato erano poche le persone che acquistavano oggettini per un regalo o come gesto d’amicizia, perché preferivano l’oro. Ora avviene il contrario, soprattutto alla luce delle terribili condizioni economiche affrontate dai siriani, che preferiscono non comprare più oro. Sono contento di aver trovato un’alternativa al mio vecchio lavoro. Anche se frutta di meno, riesco ad arrivare a fine mese”, racconta Adnan.


Il commercio dell’oro è senza dubbio una delle professioni più colpite dalla guerra civile siriana, ormai nel suo quinto anno. Dall’altra parte, sono diventate popolari altre professioni, come il giornalismo, che ora garantisce un’entrata fissa a un buon numero di giovani siriani.


“Un articolo giornalistico vale quanto un mese di lavoro nel settore medico (circa 300 dollari), considerando naturalmente la differenza del tasso di cambio”, dice il dottor Nael, che parla a condizione che non venga rivelato il suo nome completo. Nael è arrivato da Aleppo a Damasco per lavorare come giornalista, lavoro che è stato per lui una grande fonte di guadagno dopo aver perso il suo, a causa della guerra, in un ospedale di Aleppo a nord della Siria, di cui preferisce non riferire il nome.


“Dal 2012 il settore medico ad Aleppo è stato colpito dalla guerra e per questo ho smesso di lavorare negli ospedali, il cui numero si è ridotto di molto”, afferma Nael. Ci sono tre ospedali pubblici e sette privati nelle zone controllate dal regime, mentre in quelle sotto il controllo dell’opposizione sono due gli ospedali statali e quattro quelli privati. Quattro dei principali ospedali di Aleppo sono stati distrutti a causa dei bombardamenti e delle esplosioni.


“A Damasco non sono riuscito ad aprire un ambulatorio o a trovare lavoro in ospedali privati, perciò ho iniziato a scrivere articoli per la stampa, soprattutto ora che tutti gli organi di stampa sono alla ricerca di notizie provenienti dalla Siria. Il giornalismo è diventato la mia fonte primaria di guadagno. Tuttavia, quando la guerra sarà finita, mi concentrerò di nuovo sul mio sogno nel settore medico”.


Mentre alcuni damasceni hanno cambiato le loro professioni volontariamente, altri invece si sono trovati costretti dallo sfollamento e dalle condizioni di guerra a intraprendere una carriera diversa.


Abu Radwan racconta che, prima di trasferirsi a Damasco, era proprietario di un negozio di mobili ad Arbin, nella Ghuta orientale, che è stato completamente bruciato. “Ora lavoro come tassista e ho saputo che la città di Arbin è stata rasa al suolo in seguito ai pesanti bombardamenti da parte delle forze del regime”.


“La guerra ha sconvolto tutto: alcuni hanno fatto fortuna, mentre altri hanno perso tutto quello che avevano”, aggiunge.


Anche altre attività hanno iniziato a prendere piede, soprattutto tra i giovani, come il volontariato e il lavoro nelle organizzazioni non governative (Ong), il cui numero a Damasco è cresciuto negli ultimi due anni e con l’aggravarsi della guerra.


Maher, neolaureato alla facoltà di Economia dell’Università di Damasco, parla del suo lavoro da volontario. “Ho provato tanto a cercare un impiego nel mio campo ma senza risultato, perché Damasco ormai ha una popolazione ad alta densità, per le tante persone che vi si sono trasferite. Inoltre, a causa dei grandi numeri di giovani sfollati provenienti da altre città, è diventato ancora più difficile trovare un’occupazione e perciò ho deciso di lavorare come volontario per l’organizzazione Jozour”, afferma.


“Anche se ricevo solo uno stipendio simbolico per il mio lavoro, sono felice. Lavoro per campagne di soccorso e fornisco assistenza umanitaria, impiegando così il mio tempo per qualcosa di utile”.


Khaled, giovane laureato al dipartimento di Biblioteconomia e Scienza dell’Informazione all’Università di Damasco che lavora per una Ong a Damasco di nome Mobaderoon, ha un’idea diversa in proposito. “Se riuscissi ad assicurarti un posto di lavoro statale – dice – subiresti accuse da parte dell’opposizione. In più è molto difficile trovare lavoro nel settore privato per i neolaureati senza esperienza come me”.


“Lavorare con le Ong è molto più facile, perché il lavoro non necessita di esperienza pregressa e devi solo conoscere gli aspetti amministrativi e le lingue. Posso fare esperienza qui e poi, quando la guerra finirà, cercherò un lavoro vero e forse anche fuori dalla Siria”, aggiunge.


I siriani sperano che la guerra finisca presto, in modo da poter ritornare ai loro lavori di una volta. Abu Muhammad si augura di vendere di nuovo l’oro come faceva quattro anni fa, quando il suo negozietto si riempiva di clienti provenienti da Damasco e dalla campagna.


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Published on June 26, 2015 02:00

June 6, 2015

Non sono più salito sul barcone per l’Europa

Migrant boat sinks in the southeastern Aegean Sea - 20 Apr 2015


(di Ali Sandid, per The Guardian. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). Circa un anno fa ho pensato di pagare un trafficante per salire su un barcone verso l’Europa.


Molta gente in Europa pensa che noi rifugiati non sappiamo che possiamo morire in mare, che non abbiamo visto le orribili immagini dei cadaveri dei rifugiati, che non sappiamo che decine di migliaia di persone sono state sepolte sulle coste europee.


Ma io guardo i telegiornali ogni giorno e avevo visto che oltre 500 persone erano morte a pochi chilometri dall’isola italiana di Lampedusa nell’ottobre 2013. Conoscevo le statistiche, conoscevo i rischi. Avevo anche perso degli amici, che sono alcuni dei “rifugiati senza volto e senza nome”, come li definiscono i media. Eppure, così come molti rifugiati siriani che, insieme agli eritrei, costituiscono circa la metà dei rifugiati che hanno viaggiato sui barconi verso l’Europa nel 2014, ho pensato che questa fosse la mia unica possibilità.


Sono un rifugiato siriano del campo palestinese di Yarmuk a Damasco. Quando ero piccolo, mia nonna ci raccontava come si era sentita quando era stata costretta a scappare in Siria dalla sua casa in Palestina nel 1948, e quanto sperasse che i suoi figli e i suoi nipoti non dovessero mai provare come ci si sente a essere un rifugiato. Ma l’abbiamo provato. Sono nato rifugiato palestinese e quasi tre anni fa sono diventato rifugiato un’altra volta, quando io e la mia famiglia siamo dovuti scappare dalla guerra siriana fino in Libano.


La nostra casa, il campo palestinese, si è trovato sotto l’assedio più duro che si possa immaginare. Sono ancora in contatto con famigliari e amici che non hanno potuto lasciare il campo di Yarmuk. Per un’assurda crudeltà, a volte hanno Internet, ma non hanno cibo. Molti di loro sono morti per la fame o perché non hanno accesso a farmaci o a cure mediche.


I miei amici e la mia famiglia mi hanno sempre considerato una persona molto ottimista. Amo la vita, amo la gente. Lavoravo a Cipro e anche quando non potevo tornare a casa nella mia amata Siria perché la guerra era già cominciata, gettare la spugna era l’ultima cosa che avessi in mente. In Libano ho iniziato a sostenere gli altri siriani e siro-palestinesi. Avevano bisogno di me e i loro sorrisi e il loro apprezzamento mi ha fatto andare avanti. Mi svegliavo ogni mattina per lavorare come volontario della DPNA (Development for People and Nature Association), una organizzazione partner di CARE.


Ma più o meno un anno fa, non riuscivo più a sostenere la situazione. Sentivo la sofferenza dei rifugiati – quella dei siriani, dei palestinesi, dei siro-palestinesi. Sentivo la loro tristezza, le loro speranze e i loro sogni distrutti. E ho pensato anche alla mia vita, al mio futuro. Avevo perso la speranza. Prima che iniziasse la guerra in Siria, avevo tutta la vita davanti. Poi però, a 27 anni, la mia vita così com’era allora si è bruscamente interrotta. Non potevo più esercitare in modo legale la mia professione di ingegnere. Avevo studiato, avevo soldi, un buon lavoro. D’un tratto, mi ritrovavo lì senza nulla in mano. Essere un rifugiato significa anche perdere il tuo futuro, i tuoi sogni.


Non sono salito sul barcone per andare in Europa. Dopo lunghe discussioni con la mia famiglia e i miei amici, sono ancora in Libano, e sto ancora aiutando i miei compagni rifugiati.


Sto guidando un progetto per formare altri volontari ora. I rifugiati hanno bisogno di sostegno umanitario. I rifugiati con cui lavoro erano ingegneri come me, erano dottori, insegnanti, agricoltori e operai. Avevamo vite normali e, per quanto noi rifugiati possiamo apprezzare l’Europa per quel che è, non è il “paradiso in terra” per noi.


Come me, la maggior parte dei rifugiati sogna di tornare a casa, di tornare in Siria. Ma se non viene riportata la pace e i Paesi vicini continuano a lottare col fardello dell’accoglienza di quattro milioni di rifugiati siriani, l’Europa per alcuni sembra essere l’unica opzione per vivere una vita con dignità. Noi esseri umani siamo tutti piuttosto simili: amiamo i nostri amici, le nostre famiglie, la nostra casa. Non vi rinunciamo facilmente. Ma bombe e proiettili ci tengono lontani dal luogo che amiamo di più.


Seguo i telegiornali, seguo i dibattiti. Sento politici parlare della necessità che l’Unione Europea ripristini le sue missioni di salvataggio, parlare del garantire asilo ai siriani e ad altri rifugiati prima che debbano viaggiare in acque non sicure.


Sono sinceramente toccato dal fatto che così tante persone nel mondo gridino la nostra sofferenza, che alla gente nel mondo importi. Capiscono che non ho scelto di nascere palestinese o siriano, così come voi non avete scelto di nascere europei. Non auguro la mia situazione a nessuno.


Ma spererei che potessimo rendere questo momento della Storia un momento di cambiamento. Gli europei hanno attraversato un dolore simile solo poche generazioni fa. Anche gli europei sono stati rifugiati, sono stati la ragione per la quale sono stati innanzi tutto redatti grandi progetti di diritto internazionale come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e la convenzione del rifugiato del 1951. Spero davvero che in Europa ci si possa ricordare del legame dell’umanità che connette tutti noi e che resta la medicina più forte contro la disperazione e l’impotenza.


Ma più di tutto spero che i leader europei e gli altri leader del mondo riprendano i loro sforzi nel fare pressione per colloqui di pace. Alla fine, la maggior parte dei rifugiati spera che si possa smettere di chiamarli rifugiati, che nei loro Paesi si ricostruisca la pace e che possano tornare ai luoghi che amano di più: le loro case. (The Guardian, 24 aprile 2015).

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Published on June 06, 2015 04:46

Syria and the war economy

Insorti, Ghuta, Damasco, 1925 (Internet)(Omar Abdulaziz Hallaj, NOREF) The conflict in Syria is forging new forms of territorial control, and a political economy that is not unlike the patronage system that was previously fostered by the ruling Ba’ath party.


As a result of the extended war efforts and the need for revenues to fund them, the national economy is now deeply affected by illicit activities such as trade in antiquities, oil and drugs, as well as smuggling, kidnapping, looting and extrajudicial land expropriations.






Warlords and armed groups such as the Islamic State of Iraq and al-Sham (ISIS) and Jabhat al-Nusra (or the al-Nusra Front) must fund their military campaigns. However, at the same time, they have to balance the extraction of local revenues with the loyalty of the civilian populations they control. At stake are their reputations and their abilities to raise money from foreign donors and to perpetuate their coercive governance.


This paper proposes a rough estimate of the size of the funding streams used by loyalist and rebel militias. The paper also argues that the creeds and beliefs that initiated the conflict are no longer the sole motors of violence; indeed, greed is increasingly shaping the nature of hostilities and the strategies adopted by armed groups.


As a result, the framework proposed in the Geneva Communiqué for achieving peace in Syria is not likely to succeed alone in solving the conflict. Recent experiences in other countries   suggest that transitional political arrangements for the transfer of power are failing to dislodge war profiteering.


Additional approaches to enable a progressive recovery of livelihoods and the provision of local services should be considered a key part of the peacebuilding process. It is also vital to consider other factors sustaining the war economy, including international sanctions and external funding. Read the full report.

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Published on June 06, 2015 04:43

Lorenzo Trombetta's Blog

Lorenzo Trombetta
Lorenzo Trombetta isn't a Goodreads Author (yet), but they do have a blog, so here are some recent posts imported from their feed.
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