Lorenzo Trombetta's Blog, page 7

December 2, 2015

Cristiani e musulmani dialogano a Roma


(di Riccardo Cristiano). Rispondendo all’appello di papa Francesco,  la Federazione Nazionale della Stampa Italiana (Fnsi) e l’Associazione Giornalisti amici di padre Dall’Oglio hanno deciso di dare il loro contributo affinché questo Giubileo sia occasione di apertura e confronto nel segno della solidarietà.


Si terrà a Roma il 7 dicembre prossimo presso la sede della Fnsi, a Corso Vittorio Emanuele II 349, un confronto sul tema “cristiani e musulmani per la misericordia”. Ci è parso  importante in queste ore così difficili. I lavori apriranno alle 10:00 seguendo il seguente programma.


Giubileo della Misericordia. P. Antonio Spadaro, sj, direttore de La Civiltà Cattolica; Abdellah Ridwan, segretario generale del Centro Culturale Islamico di Roma; Yahya Pallavicini, vice- presidente Coreis.


La misericordia verso migranti e rifugiati. Saluto del *Cardinale Antonio Maria Vegliò*, presidente del Pontificio

Consiglio per i Migranti; p. Camilo Ripamonti*, sj, presidente Centro Astalli, Roma;


Voci dal Medio Oriente. Don Vittorio Ianari*, comunità di Sant’Egidio; Mohammad Sammak, segretario generale dell’Islamic Spiritual Summit; Antoine Courban, della Saint Joseph University di Beirut, Libano; Mohammad Hussein Chamseddine, co-fondatore a Beirut del congresso permanente per il dialogo islamo-cristiano, Libano.


“Uno stimato religioso” l’indispensabilità del vivere insieme. Paolo Branca, dell’Università Cattolica di Milano; Nader Akkad, Imam di Trieste; Adnane Mokrani, docente al Pisai, Roma.

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Published on December 02, 2015 08:30

Bassel e Nura. L’amore diviso dalla prigione

bassel_necklace(di Budur Hassan, per Electronic Intifada. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). I famigliari e gli amici di Bassel Khartabil sono all’oscuro della sua sorte. Anche se si crede che lo sviluppatore di software palestinese sia stato condannato a morte in Siria, la notizia non è stata confermata in modo ufficiale, ma alcune voci fanno intendere che l’esecuzione sia già avvenuta.


La mancanza di informazioni attendibili si sta rivelando molto stressante per sua moglie, Nura Ghazi.

“Sto perdendo peso e mi cadono i capelli”, dice. “Non so neppure se è vivo o morto”.


Lo scorso ottobre Bassel è stato trasferito da Adra, una prigione a Damasco, in una località sconosciuta. Il mese seguente Nura è stata raggiunta da persone che dicevano di avere contatti all’interno del governo siriano che le hanno riferito che Bassel era stato condannato a morte. Non le hanno fornito altri dettagli. L’unica cosa che Nura è stata in grado di verificare, con l’aiuto di altri detenuti di Adra, è che la polizia militare aveva prelevato Bassel dalla cella di quella prigione.


Bassel Khartabil, conosciuto anche come Bassel Safadi, è in carcere dal 2012. Di conseguenza, lui e Nura sono stati costretti a vivere separati la maggior parte della loro relazione. Si erano incontrati nell’aprile del 2011, in un momento in cui c’era molta speranza tra gli attivisti politici. Prendendo coraggio dalle rivolte pacifiche che avevano fatto cadere i dittatori in Egitto e Tunisia nello stesso anno, si sono uniti a un movimento sociale contro il governo autoritario di Bashar al Asad.


Il loro primo incontro, infatti, è avvenuto quando stavano entrambi tornando a casa dopo una manifestazione di protesta a Duma, una città vicino a Damasco. Bassel era in Siria in vacanza all’epoca. Aveva trovato un lavoro a Singapore e all’inizio aveva in programma di farvi ritorno. La storia, però, è cambiata quando ha incontrato Nura, avvocatessa per i diritti umani.


Bassel ha usato le sue competenze informatiche come parte di una ricerca di libertà. Ha fornito informazioni sui siti bloccati dal regime di Asad alla Electronic Frontier Foundation, un gruppo internazionale per le libertà civili.


Un tipo romantico


“Non è il tipico nerd di Internet”, ha detto Nura in una intervista via Skype da Damasco, dove si è ripromessa di rimanere. “È incredibilmente romantico. Mi portava una rosa rossa ogni giorno, da quando ci siamo innamorati fino al giorno in cui è stato arrestato”.


La coppia si sarebbe dovuta sposare nel marzo 2012, ma appena qualche giorno prima della data del loro matrimonio, Bassel è stato arrestato dai servizi segreti militari siriani. Interrogato e torturato per cinque giorni, è stato poi portato a casa, dove gli hanno confiscato i suoi computer. Nei nove mesi successivi è stato tenuto in isolamento in due centri di detenzione a guida militare.


Alla fine, nel dicembre 2012, è stato trasferito a Adra che formalmente è una prigione civile, anche se Bassel è stato processato da un pubblico ministero militare. Non gli è stato mai concesso un avvocato. Non è stato messo al corrente delle accuse imputategli.


Il trasferimento ha concesso allora un lieve sollievo a Nura: ora poteva fare visita al suo fidanzato. La coppia è riuscita a firmare il contratto di matrimonio in prigione.


Un dissidente politico detenuto a Adra nello stesso periodo di Bassel ha detto che era molto toccante vedere Nura far visita al suo neo-marito. “Mi riempivo di speranza ogni volta che vedevo quei due bellissimi innamorati ritrovarsi in un luogo tanto contaminato”, ha detto l’ex-prigioniero chiedendo di rimanere anonimo.


Bassel ha provato a tenere la sua mente attiva in prigione. Coi suoi compagni detenuti ha organizzato lezioni di arabo, inglese e matematica. Avendo il permesso di visitare la biblioteca del carcere solo una volta a settimana, i lettori più accaniti all’interno della prigione si facevano arrivare di nascosto libri dall’esterno. Eppure Bassel è diventato sempre più depresso. Sua moglie era la sua unica fonte di forza.


Messi a tacere dalla paura


Bassel è uno degli oltre mille palestinesi imprigionati in Siria. Dal 2011 almeno 427 palestinesi sono morti dopo aver subìto torture nelle carceri siriane, secondo il Gruppo di azione per i palestinesi in Siria. Quasi sicuramente queste cifre sono al ribasso. Secondo Nura “c’è da aspettarsi” che alcune famiglie abbiano scelto di non rendere noto l’arresto di un loro caro. “Per oltre 40 anni siamo stati messi a tacere dalla paura”, dice.


Nato a Damasco nel 1981, Bassel appartiene a una famiglia originaria di Safad, nella Galilea della Palestina storica. La regione venne attaccata dalle forze sioniste durante la Nakba, la pulizia etnica del 1948 di città e villaggi palestinesi.


Bassel era impegnato sia nella lotta per la liberazione della Palestina, sia per raggiungere un cambiamento politico in Siria. Nelle parole di sua moglie, si è impegnato per una “emancipazione collettiva”. È uno dei molti palestinesi che hanno rischiato tanto in Siria.


Il suo coraggio è simile a quello di Niraz Said, fotografo cresciuto a Yarmuk, il campo di rifugiati palestinesi a Damasco. Niraz ha fotografato Yarmuk mentre veniva bombardato dalle forze aeree del governo siriano. È stato arrestato e incarcerato nell’ottobre scorso.


Le convinzioni di Bassel sono state condivise da sua moglie. “Sono cresciuta in una famiglia [siriana] che considerava la causa palestinese come una nostra causa”, dice. “Le pareti della nostra casa erano pieni di cartine della Palestina e di immagini di Handala”, aggiunge, riferendosi al bambino rifugiato disegnato dal vignettista Naji al Ali che fu assassinato.


Quando Nura disse a Bassel che la Palestina era l’unico luogo in cui era disposta a vivere oltre alla Siria, gli occhi di lui si riempirono di lacrime. Affermare il diritto dei rifugiati palestinesi a fare ritorno a casa era “il suo sogno più grande”, dice.


Nura ha sempre saputo che sfidare il regime di Damasco comportava dei rischi. Suo padre, dissidente politico, era stato incarcerato negli anni ’80, quando Hafez al Asad, padre di Bashar, era presidente. Eppure non riesce a capire perché il regime è così determinato a punire suo marito in un momento in cui la Siria è messa a rischio da gruppi di estremisti come lo Stato islamico.


“Se c’è qualcuno che può offrire un’alternativa al terrorismo e all’estremismo e che può ricostruire il Paese e dargli un po’ di speranza, questo è Bassel e le persone come lui”, dice. “Ma queste persone sono in carcere, vengono torturate e minacciate di condanna a morte”.


Nura si è tenuta impegnata scrivendo un libro su suo marito. È in parte basato sulle lettere che gli ha scritto a Adra e che Bassel ha tradotto dall’arabo in inglese. Spera di pubblicare presto il volume e sogna che la pubblicazione coincida con il rilascio di Bassel dalla prigione, ma al momento le risulta difficile restare ottimista.


“Se lo vedessi di nuovo, potrei svenire”, dice. “Voglio solo abbracciarlo e non lasciarlo mai più andare. Voglio dirgli che la mia vita non vale niente se vissuta senza di lui. Il nostro Paese sta bruciando. Bassel e io siamo solo due piccoli dettagli tra le macerie”. (Electronic Intifada, 1 dicembre 2015)

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Published on December 02, 2015 03:24

November 30, 2015

Sostiene Rabia dalla sua tenda che guarda il mondo


(di Alberto Capannini* per SiriaLibano). Qui Internet funzionale male. Telefonare è difficile. Ci arrangiamo nel cercare di capire il mondo, parlando, ridendo e piangendo assieme. Siamo un gruppo di profughi siriani e volontari italiani che vivono da più di un anno in tende in un campo in Libano al confine con la Siria.


E di fronte agli ultimi avvenimenti di questa guerra – l’entrata in guerra di Russia e Francia, l’attentato a Beirut e quelli di Parigi – proviamo a raccontare la situazione dal nostro punto di vista. Viviamo qui perchè la violenza col suo volto più disumano, la guerra, tenta in mille modi di uccidere queste persone.


R. è il nostro vicino di tenda. E’ fuggito da Homs, nella Siria centrale. E ci racconta che almeno quattro governi cercano di ucciderlo. Quello siriano di Bashar al Asad, quello dell’Isis (Daesh), quello della milizia filo-iraniana Hezbollah e quello libanese, che gli rende la vita quotidiana invivibile.


Noi aggiungiamo – ma non lo diciamo a R. per non spaventarlo – che anche i russi bombardano. E bombardano anche la regione di Homs. E che anche gli iraniani sono presenti con truppe sul terreno.


Aggiungiamo che anche in Siria il freddo è alle porte, che persistono le difficoltà nel trovare aiuti, che le malattie si diffondono e che lo spiraglio di solidarietà europea ora pare chiudersi. Ma si sa, le cose belle durano poco. Nella invidiabile situazione di R. ci sono almeno un milione di siriani qui in Libano.


Sostiene il nostro vicino Rabia – oops, mi è scappato di dire il nome! – che il mondo che conta, quello dei governi e di chi ha soldi e libertà, è diviso in due grandi categorie: i bugiardi e i pazzi. I bugiardi, ad esempio, sono quelli che dicono bisogna distruggere l’Isis ma poi bombardano quelli che sul terreno lottano contro Asad e contro l’Isis stesso.


I bugiardi – qui parlo io – dicono che la guerra e il terrorismo sono orribili e inaccettabili e poi vendono armi all’Arabia Saudita che le usa per far vedove e orfani nello Yemen, e all’Iran che è parte attiva della guerra in Siria.


Sostengono tanti amici libanesi (e un nutrito gruppo di americani tra cui, persino, l’attore e regista Sean Penn) che tra i bugiardi c’è l’amministrazione Usa e la Cia, che mentre condannano e dicono di combattere l’Isis, hanno voluto la sua nascita, così come hanno creato l’attuale situazione in Iraq.


Sosteniamo noi che bisogna essere pazzi per credere che la risposta agli attacchi di Parigi sia il bombardamento. Perché bombardare era quello che la Francia stava già facendo in Iraq (dal 2014). E che la guerra in Iraq dal 2003 a oggi ha contribuito a far nascere l’Isis da una costola di al Qaida. Sostiene Ale, un volontario che ci chiama dall’Italia, che bisogna essere pazzi per arrendersi al clima di odio e di paura che c’è nel nostro paese. E che impedisce di respirare.


Sostiene ancora Rabia che ci sono molti pazzi tra quelli che lavorano nelle organizzazioni non governative (Ong), che con i loro costosi fuoristrada misurano le distanze tra gli incroci senza parlare mai più di un minuto con lui. Questi pazzi gli hanno portato come aiuto umanitaro dei bagni, mentre lui già se n’era costruito uno.


A lui servivano invece urgentemente un ospedale e medicine gratis per salvare il figlio malato. Gli hanno poi regalato cravatte e vestiti inutili, quando lui desiderava con tutto il cuore libertà e dignità. Sostiene Rabia che il rispetto e il bene che poco alla volta si è creato tra i volontari e i profughi è qualcosa che lo fa sentire a casa e che gli salva la vita (questo lo sostengo anche io nel mio piccolo).


Sostiene l’amabasciata d’Italia che la zona del nord Libano in cui viviamo è troppo rischiosa e che dobbiamo andarcene. Sosteniamo noi che è davvero troppo rischiosa. E che quindi vogliamo subito andarcene. Portandoci dietro una vagonata di esseri umani come noi che scappano dalla guerra perché non vogliono uccidere ed essere uccisi. (27 novembre 2015)



*Alberto Capannini è uno dei volontari italiani della missione Siria-Libano di Operazione Colomba. Una versione più lunga di questo articolo è uscita sul blog della missione a questo indirizzo.

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Published on November 30, 2015 01:18

November 26, 2015

Includere e non escludere. Per sconfiggere l’Isis

Vagoni dismessi della società ferroviaria irachena, Baghdad 2014. Foto di Bryan Denton


(di Alberto Zanconato, per Ansa). Per sconfiggere l’Isis “i raid aerei non bastano”. Occorre un accordo globale delle potenze mondiali e regionali che apra la strada a un nuovo assetto geopolitico con governi che assicurino “una condivisione del potere specialmente in Siria e Iraq” per mettere fine alle contrapposizioni confessionali. Ad affermarlo è Bassel Saloukh, professore associato alla Lebanese american university (Lau) di Beirut.


“Se non si arriverà a questo, lo Stato Islamico rischia di diventare una presenza permanente nella regione, come i Taleban in Afghanistan”, aggiunge Saloukh in un’intervista all’ANSA. E se un’azione congiunta a livello internazionale sembrava molto difficile fino ad ora, gli attentati di Parigi potrebbero spingere le grandi potenze verso una maggiore collaborazione.


“Per anni – sottolinea l’analista – si è pensato che le conseguenze della guerra in Siria si sarebbero limitate ai Paesi confinanti della regione. Ma ora si è visto che possono arrivare fino a Parigi, e oltre. E bisogna fare qualcosa”.


Le ragioni che hanno portato alla nascita del ‘Califfato’ di Abu Bakr al Baghdadi e alla sua conquista fulminea di vasti territori in Iraq e Siria non sono solo di carattere religioso, e non sono di oggi. Fin dall’invasione anglo-americana del 2003 in Iraq, che porto’ all’abbattimento di Saddam Hussein, vasti strati della popolazione sunnita si sono sentiti discriminati dalle politiche dei nuovi governi a guida sciita, vicini all’Iran. Anche questo ha favorito la diffusione di Al Qaida nel Paese, dalla quale e’ nato l’Isis.


Un’organizzazione che è riuscita a ottenere con la sua propaganda fondamentalista sunnita il sostegno di almeno una parte degli appartenenti a questa confessione e di diversi clan tribali sunniti. E nell’Isis sono entrati anche, con importanti incarichi di comando militari, ex dirigenti dello stesso regime di Saddam Hussein. “In Iraq stanno vincendo gli uomini di mio padre”, disse nell’estate del 2014 una raggiante Raghad Hussein, figlia dell’ex dittatore, dopo la presa di Mosul e Tikrit da parte dei jihadisti.


In Siria, sottolinea il prof. Saloukh, il conflitto non è nato per motivi confessionali, ma è stato in seguito “confessionalizzato”, con la contrapposizione tra maggioranza sunnita e minoranza sciita, alla quale appartengono gli alawiti del presidente Bashara al Assad. E se si riuscisse a eliminare questo fattore l’Isis non potrebbe piu’ contare sui territori e sui consensi che ha oggi.

“Per sconfiggere il confessionalismo – prosegue il docente della Lau – ci vuole una decisione politica di tutti per mettere fine alla guerra geopolitica che combattono in Siria. Questo potrebbe portare a un intervento militare anche sul terreno, a una guerra ideologica per demistificare la propaganda dell’Isis e al prosciugamento dei finanziamenti per i jihadisti”.


Ma tutto questo dovrebbe andare di pari passo con la formazione di “sistemi politici inclusivi” che mettano fine alle discriminazioni. Non solo in Siria e Iraq, ma anche in Yemen e in altri Paesi della regione.


“Per la Siria, per esempio, vedo una soluzione per la condivisione dei poteri come in Libano nel dopo guerra civile, almeno nel breve periodo”. In questa soluzione dovrebbero rientrare, secondo Saloukh, anche i curdi, oggi in prima linea nella guerra al ‘Califfato’. “Non sarebbe necessaria la creazione di uno Stato, ma, anche in Siria, la costituzione di una regione con forti poteri autonomi come nel Kurdistan iracheno”. (Ansa, 24 novembre 2015).

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Published on November 26, 2015 00:18

A ciascuno la sua Siria

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(di Lorenzo Trombetta, Ansa). La Turchia rafforza le sue posizioni al confine siriano, e la Russia a sua volta schiera i missili in Siria: un Paese sempre più diviso in zone di influenza degli attori regionali e internazionali coinvolti a vari livelli nel conflitto che, dal 2011 a oggi, ha causato la morte di oltre 250mila persone e costretto 12 dei 22 milioni di siriani ad avere urgente bisogno di aiuto umanitario.


La Russia è da decenni il principale sponsor del regime di Damasco. Affermando di voler sconfiggere lo Stato islamico (Isis) dal 30 settembre Mosca ha avviato una campagna aerea mirata a proteggere le linee di difesa lealiste.


La capitale e la costa – ribattezzata “Russialand” – passando per la Siria centrale sono oggi spartite tra russi e iraniani. La Repubblica islamica e i loro clienti Hezbollah già controllano una striscia di Mediterraneo in Libano e adesso si sono assicurati una fetta di “Siria utile”, in particolare attorno a Homs, città sempre più “iranizzata”.


Nel Nord-Est le milizie curde hanno stabilito una zona con una larga autonomia, ma devono rispondere all’esigenze di Ankara che tenta di usare i curdo-siriani per assicurarsi l’egemonia economico-commeciale nella fascia Nord della Siria.


Ankara si serve anche di milizie turcomanne presenti nel Nord-Ovest della Siria. Raid aerei russi hanno nei giorni scorsi costretto alla fuga circa tremila civili turcomanni dalla regione di Latakia, non lontano dalla zona frontaliera dove è stato abbattuto il jet russo.


Ankara condivide anche quote di influenza con Arabia Saudita e Qatar nel manovrare a distanza una coalizione di miliziani anti-regime, operativi nell’area di Idlib. Tra questi ci sono anche qaedisti. Altri qaedisti ma meno influenti si trovano nell’estremo Sud, nella regione di Daraa al confine con la Giordania.


Il regno hascemita, per conto anche degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita, esercita influenza sui gruppi di insorti del Sud siriano. E fa sì che l’ala locale di al Qaida non prenda lì il sopravvento. I qaedisti del Sud sono rivali di un gruppo di jihadisti affiliati all’Isis e operativi a ridosso delle Alture del Golan controllate da Israele.


Lo Stato ebraico esercita la sua influenza assicurandosi che nessun gruppo armato abbia il sopravvento sull’altro e si preoccupa principalmente che gli Hezbollah non si avvicinino troppo alle Alture.


Lo Stato islamico sembra oggi l’attore più autonomo degli altri, nonostante debba la sua ascesa tra Iraq e Siria al contributo, diretto e indiretto, di gran parte degli attori coinvolti in Siria. La Turchia ha lasciato di fatto aperte le sue frontiere Nord all’ingresso di migliaia di aspiranti jihadisti.


I governi dei Paesi arabi del Golfo sono d’altro canto accusati di non aver impedito l’afflusso di danaro nelle casse dei jihadisti. Mentre il regime di Damasco, l’Iran e la Russia sono invece da più parte indicati come coloro che hanno lasciato espandere l’incendio jihadista per poi mostrarsi oggi come i pompieri più affidabili. (Ansa, 25 novembre 2015).

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Published on November 26, 2015 00:18

Chi bombarda chi e dove in Siria


(Lorenzo Trombetta, per Ansa). I cieli della Siria sono sempre più affollati: 14 aviazioni militari diverse operano sopra le teste dei siriani. E il jet russo abbattuto oggi tra Siria e Turchia è l’ennesimo velivolo militare che precipita sul suolo siriano dopo esser stato colpito da miliziani o per guasti tecnici.


Numerosi rapporti umanitari e di stampa hanno di recente denunciato i bombardamenti russi su ospedali e zone civili, oltre all’uso di bombe al fosforo bianco sganciate dagli aerei di Mosca a partire dalla metà di ottobre scorso nella Siria nord-occidentale.


Da quando nel 2012 il governo di Damasco aveva cominciato a usare caccia e carri armati per reprimere con maggior violenza la rivolta popolare scoppiata un anno prima, il regime del presidente Bashar al Assad ha avuto il monopolio dell’aria. E può vantare il primato di aver bombardato in solitudine e in maniera indiscriminata la sua stessa popolazione per oltre due anni.


Da allora e ancora oggi l’aviazione governativa colpisce con bombe tradizionali e con i tristemente noti barili-bomba tutte le aree fuori dal controllo del regime e divise in aree dominate dall’Isis (Raqqa, Dayr az Zawr); altre in mano ai qaedisti (parte di Idlib e parte di Daraa); e altre ancora controllate da gruppi di insorti nazionalisti (parte di Aleppo, Idlib, Latakia, Homs, Daraa e Qunaytra).


Dal settembre 2014 nei corridoi aerei della Siria sono però entrati i numerosi jet della coalizione anti-Stato islamico guidata dagli Stati Uniti. Tra questi figurano i velivoli americani, australiani, canadesi, sauditi, del Bahrain, Emirati Arabi Uniti e Qatar, giordani, marocchini e turchi. I loro obiettivi sono posizioni dell’Isis tra l’est di Aleppo e Dayr az Zor, passando per Raqqa.


Dal 30 settembre scorso ha fatto ingresso la Russia. Grazie al suo decennale accordo di cooperazione strategico-militare con Damasco, la Russia è l’unico Paese straniero a far decollare i suoi caccia da basi all’interno della Siria. Finora ha usato l’aeroporto di Hmeimim, sulla costa mediterranea. Ma si parla dell’imminente apertura di due altri scali militari ad Aleppo e Homs.


Fino agli attacchi di Parigi, i jet di Mosca si erano concentrati in larga parte su obiettivi non-Isis, colpendo a Idlib, Aleppo, Homs, Latakia, Daraa, Damasco postazioni di insorti anti-Damasco, siano essi qaedisti o di altri gruppi nazionalisti che sul terreno lottano anche contro lo Stato islamico.


Dopo le stragi parigine, Mosca ha intensificato i raid su Raqqa mostrandosi un partner della “lotta al terrorismo”. Dopo il 13 novembre, anche la Francia ha cominciato a compiere raid in Siria, esclusivamente su obiettivi dell’Isis, a Raqqa e Dayr az Zor. (Ansa, 24 novembre 2015)

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Published on November 26, 2015 00:08

November 18, 2015

A Beirut cultura visiva ma non solo

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The Silence of Ani di Francis Alÿs, Beirut Art Center

Blazon di Marwan Rechmaoui e ExoStead di Martti Kalliala, Ashkal Alwan


Home_Works_7(di Vittorio Urbani*, per SiriaLibano). Nel giorno inaugurale di Home Works VII, l’importante forum di cultura visiva contemporanea ma non solo, Beirut è stata scossa da un duplice attentato costato la vita a più di 40 persone.


Home Works è creata a irregolari ritmi biennali dall’Associazione libanese per le Arti plastiche Ashkal Alwan, diretta da Christine Tohme, peraltro recentemente nominata curatrice della prossima Biennale di Sharja, un meritato, importante riconoscimento.


Beirut è importante scena di arte contemporanea e moderna per questa parte del mondo da molti decenni: nonostante la guerra civile (1975-90), nonostante i campi profughi palestinesi – i due più noti sono quelli di Sabra e di Shatila – nonostante le varie guerre con Israele, nonostante l’oscura influenza della Siria, nonostante Hezbollah, nonostante la crisi dei profughi siriani e, ora, il nuovo terrorismo di Isis che si affaccia al Paese. Manca qualcosa?


La capacità di rinascita e di sopravvivenza di questa città non ha eguali. Si potrebbe dire che se non esistesse Parigi, la modernità sarebbe stata inventata qui. Non teoreticamente, naturalmente. Ma nella attitudine coraggiosa al fare (e al rifare e rifare ancora).


Inutile lamentarsi del poco rispetto alle belle ville libanesi che si abbattano per i nuovi anonimi grattacieli: Beirut può essere viva solo così. È il contrario di Venezia, capitale del conservatorismo architettonico e culturale della Galassia.


Ho visto coi miei occhi pochi anni fa operai con seghe elettriche “limare” lo zoccolo di un tempio romano nella zona di Solidere perché “sporgeva” sul piano di una nuova strada. Un passante si tirava capelli dalla disperazione gemendo in francese “Perché noi libanesi siamo così?”. Ma alla mia proposta di chiamare i giornalisti usando il mio cellulare, non ha neanche risposto. Se ne è andato via, sempre ululando.


Dicevamo Home Works forum di arti visive ma non solo, perché al di là del formato mostra, fanno importante parte del programma tavole rotonde, letture, performance, teatro e danza. Ambiti che spesso si mescolano, come nell’Ode to Joy, una pièce teatrale al Theatre Tournesol per regia dell’artista Rabih Mroué – una lucidissima presenza della cultura visiva – che anche partecipa al lavoro come attore.


Riguardo alle arti visive, a parte diversi luoghi sparsi per la città, due delle sedi principali sono il Beirut Art Center – fondato da Sandra Dagher e Lamia Joreige, ora diretto da Marie Muracciole – e la sede di Ashkal Alwan, diretto appunto da Christine Tohme che è anche chief curator della programmazione di Home Works, insieme a Frie Leysen per il programma di performance, e Bassam el Baroni per le arti visive.


Le due sedi sono vicine, in edifici di una zona stranamente costituita da un bizzarro mix di officine, carrozzerie, rappresentanti di auto (per raggiungerla, bisogna dire al tassista di portarvi al incrocio “Chevrolet”, così chiamato per il rivenditore di auto americane) sovrappassi autostradali pericolosi mortali da attraversare (ma io sono sopravvissuto!) e nuovi grattacieli dai nomi tipo Platinum Towers, con terrazze alberate – questa degli alberi sui grattacieli è uno delle ultime ossessioni degli architetti – e finestroni di vetro. Chi mai pagherà milioni per un appartamento con vista su autostrada e sfasciacarrozze? Mah? A vederla, sembra una zona non riqualificabile decentemente nemmeno in cento anni, tantomeno trasformabile a breve termine in area residenziale di lusso.


Tornando alle mostre, esse svolgono il proprio discorso restando in qualche modo nel campo del concettuale, con proiezioni e interventi visivamente minimi o molto legati alla lettura di testi esplicativi. Una eccezione, al Beirut Art Center, il divertente video Parliament, della turca Inci Eviner.


Ad Ashkal Alwan nella mostra a piano terra, Martti Kalliala ha creato ExoStead, uno stage a tre gradoni, tra il teatrino e l’espositore di un fioraio di strada (troppo piccolo per essere l’uno, troppo grande per essere il secondo). Il depliant informativo di Home Works ci informa che i Seastead sono spazi artificiali costruiti sul fondo marino, fuori da giurisdizione nazionale ma reclamati come tali.


L’ExoStead sarebbe quindi come uno spazio immaginario di libertà? Ma ho il vizio di dire ciò che vedo. Alcune piante maltrattate, senza vaso, aggredite da una furia che non sappiamo da cosa originata, sono alla meno peggio disposte sullo stage: non sono piante che un arrangiatore floreale metterebbe insieme: Strelitzia reginae, Pothus species, Coleus hybridus ed Asparagus species. Non sono tutte piante da serra né tutte piante da giardino. Non stanno nemmeno bene insieme. È quindi un banco di fioraio colpito marginalmente da un attentato suicida? O un teatrino, scena di una misteriosa azione violenta? La coerenza che tiene unite le piante-attrici è solo quella loro qualità di essere maltrattati esseri viventi.


BlazonSul vasto tetto a terrazza di Ashkal Alwan è la grande installazione Blazon di Marwan Rechmaoui. Appese ad alti fili come da bucato, gualdrappe, stendardi e “stemmi” in tessuto portano ricamati i simboli a cui si aggrappano le mille piccole e grandi realtà di questa società: i blasoni che fanno la diversità di Beirut attuale. Sono gli edifici dei ministeri, la Ford, il Mac Donald’s; facce sorridenti di politici uccisi o viventi ancora; scritte in arabo relative a istituzioni, partiti eccetera.


Come se solo da questo caos si ritrovasse una unità e sorgesse, come infatti è, Beirut. Complessa, e condannata a lotte interne senza fine. Bellissima perché imperfetta (questa frase commento e responsabilità mia). A sigillo di questo importante lavoro ricordo la orazione inaugurale del primo Home Works, tanti anni fa: il poeta Adonis – tra i massimi poeti viventi in lingua araba – nella sua critica di Beirut la ammoniva a trovare una strada diversa, una strada propria a quella che la fa rimbalzare tra la Chiesa e la Moschea. Parlando di religioni, Adonis anche parlava di idee politiche e confessionali.


Ancora al Beirut Art Center il punto lirico forse più alto è il nuovo film breve, girato in un argenteo bianco e nero, di Francis Alÿs, The Silence of Ani, già visto in première alla Biennale di Istanbul dello scorso settembre. Un lavoro celebrativo della scomparsa città armena di Ani (distrutta dai Selgiuchidi già nel tardo medio evo). Ani – o meglio le sue affascinanti rovine – ancora sorge su aride colline erbose, senza segni di presenza umana, neanche un albero in vista.


Tutto sembra deserto, persino il cielo è vuoto. Nell’erba alta percossa dal vento, presenze fuggevoli si vedono qua e là: diresti animali che si nascondono. Qualche sibilo e fischio di uccello. Poi niente. Ancora, le fugaci presenze riappaiono, brevi corse tra l’erba, si comincia a intuire trattarsi di ragazzi. Capelli mossi dal vento, come gli steli delle erbe. I giovani nella loro corsa vanno verso l’alto della collina: paiono soldati alla conquista, e dopo brevi avanzate ancora si acquattano.


Il canto degli uccelli aumenta di intensità e di numero di voci, raggiunge un climax. Qua e là si comincia a capire che i ragazzi hanno dei richiami da uccellatori: il cielo è infatti vuoto, il canto è un richiamo d’artificio, un affascinante antico trucco. Lentamente vedi i ragazzi e le ragazze cadere esausti o addormentati fra le rovine: ed è una disagevole, strana bellezza fatta di carne giovane, fiori selvatici, severe forme architettoniche. Quasi una barocca Natura Morta. Solitudine, e ancora silenzio per mille e mille anni. È soltanto perfetto.


__________


* Vittorio Urbani è curatore di arte contemporanea; e il direttore artistico di Nuova Icona, Venezia.

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Published on November 18, 2015 01:11

November 16, 2015

Società civile siriana resiste all’Isis

Dayr az Zor (archivio. Internet)(di Lorenzo Trombetta per SiriaLibano) Il sapone bianco, l’acqua fredda e la vasca di plastica blu ricordano a Nizar quando da piccolo, con i suoi tre amici Zafer, Muhammad e Ahmad, si tuffavano nel fiume sotto casa e nuotavano fino al punto in cui le donne, tra cui sua mamma, lavavano i panni sporchi in quelle stesse vasche di plastica blu.


Nizar vive ora da solo, col fratello più grande, sulla stessa casa sulla riva del fiume. L’Eufrate è sempre stato lì. Ed è per lui una delle poche certezze a cui aggrapparsi in questa lunga notte buia siriana.


Persino il ponte sospeso, simbolo della sua città Dayr az Zawr, non c’è più. E’ stato distrutto dai bombardamenti della guerra. E nell’acqua marrone si tuffano ora immobili i pilastri arrugginiti e i cavi di acciaio.


Nizar insapona le mutande e i calzini dei suoi tre amici Zafer, Muhammad e Ahmad. Sciacqua i panni nella vasca blu posta in cucina. L’acqua e fredda e le mani sono rosse. Ma è contento, più di altri giorni. E’ riuscito a convincere i suoi tre amici a restare a dormire da lui stanotte.


Non torneranno alla base dello Stato islamico, l’organizzazione radicale che nel corso di pochi mesi è riuscita a conquistare Dayr az Zawr e ampie regioni della Siria e dell’Iraq.


Nizar, Zafer, Muhammad e Ahmad sono cresciuti assieme. Erano nella stessa classe e i pomeriggi giocavano sempre assieme. Non andavano solo al fiume ma si nascondevano nelle capanne sull’altra riva dell’Eufrate e fumavano di nascosto. Le sere d’estate, quando erano ormai grandi, si sedevano fuori la capanna e passavano la notte a fumare e a inventare storie di incontri segreti con le donne divorziate di Dayr.


Quando i jihadisti dello Stato islamico sono entrati in città, non hanno impiegato molto tempo a imporre la loro autorità. Con le armi, con un po’ di soldi e servizi, e con la parola.


Uno dopo l’altro Zafer, Muhammad e Ahmad hanno scelto lo Stato islamico. Non solo per uno stipendio a fine mese e una nuova posizione sociale in città, ma anche per colmare un vuoto interno che da troppo tempo ha riempito ogni angolo delle loro giornate.


Più di Nizar hanno sofferto le delusioni per una rivolta popolare che sul terreno, dopo almeno due anni, non è riuscita a dare speranze. Nizar si è aggrappato alle storie che la nonna gli raccontava da piccolo. E ai libri che sono sempre passati per le mensole della casa.


Aveva rincontrato Zafer e Ahmad a un posto di blocco. Assieme ad altri jihadisti più anziani avevano fermato l’auto sulla quale viaggiava. Aveva sorriso loro da dietro il finestrino. E loro avevano ricambiato il sorriso, timidamente. L’ufficiale aveva grugnito. Zafer e Ahmad erano tornati seri. Nizar si era allontanato a bordo della vettura evitando di fissarli troppo.


Era almeno due anni che Nizar non li aveva più visti. Partecipavano assieme alle manifestazioni del venerdì. Poi erano spariti. Temeva che fossero stati arrestati. Ahmad e Muhammad erano in effetti finiti in carcere. Poi Nizar avrebbe saputo che erano stati torturati a lungo dagli uomini della sicurezza politica.


Liberati dai miliziani che avevano conquistato quella parte della città, Ahmad e Muhammad erano tornati a casa. I genitori volevano che lasciassero la città con loro. In prigione avevano però conosciuto un jihadista che aveva combattuto in Iraq e che gli aveva promesso una nuova vita, in un vero stato islamico.


Per Zafer non fu difficile unirsi all’idea. Al posto dei jeans indossarono pantaloni corti sopra le caviglie. Si fecero crescere la barba senza i baffi e si presentarono così all’ingresso dell’ufficio di reclutamento aperto intanto alla periferia di Dayr dall’avanguardia dello Stato islamico. Erano dentro. Per diventare veramente qualcuno.


Nizar sapeva adesso dove li avrebbe trovati. Quella sera era tornato al tramonto al posto di blocco. Aveva atteso che l’ufficiale non fosse con loro per avvicinarli sul ciglio della strada e invitarli a casa sua. “Ci raccontiamo un po’ di cose. Mi mancate”. Impauriti, con frasi di circostanza chiusero la conversazione.


Per Nizar era cominciata la sfida: riportare a casa Zafer, Muhammad e Ahmad. Una sera riuscì a strappare loro la promessa che il giorno dopo sarebbero passati a salutarlo a casa. Passarono un’ora a ricordare i bei tempi sulla riva del fiume o all’ombra della capanna. Poi, l’austerità della nuova vita. La morte. Il sangue. Il vero islam. Il bene e il male. Il martirio.


Nizar non si era fatto illusioni. Sapeva che avrebbe dovuto lottare contro un gigante. Durante il secondo incontro propose loro di leggere e salmodiare assieme il Corano. Come lo avevano imparato nella moschea del loro quartiere. Passarono quasi tutto il tempo a imitare lo shaykh che ora chissà dove era sparito.


Rimasero in silenzio. Con la schiena appoggiata al muro fissavano le resistenze della stufa elettrica farsi incandescenti, arancioni. Nizar ripose il libro sacro alla sua destra, si alzò e fece le abluzioni rituali. Lo seguirono. Si inginocchiò per pregare. Si unirono a lui.


Si salutarono, con un abbraccio forte, da fratelli. E si dettero appuntamento al giorno dopo. Erano riusciti a convincere l’ufficiale che era utile farsi sostituire al posto di blocco e andare a ispezionare alcune case nel quartiere.


Così passavano il tempo con Nizar. Parlavano dello Stato islamico e della situazione in Siria. Degli sciiti uccisi dall’altra parte del fiume. E di quanto Dayr sia diventata una città di fantasmi. Discutevano. Nizar li lasciava parlare. Pregava con loro.


Un giorno, dopo la preghiera, tirò fuori dai pantaloni un pacchetto di sigarette. Ne accese una. Lo guardarono con sorpresa. Accettarono di fumare con lui. Si rilassarono. Non dissero nulla. Si salutarono quella sera con il fumo ancora in bocca.


La boccata più profonda Nizar l’ha presa pochi giorni fa. Quando Zafer, Muhammad e Ahmad lo hanno chiamato dal confine turco. Prima Muhammad e Ahmad, e poi Zafer, sono riusciti a lasciare la caserma dello Stato islamico e a fuggire in Turchia. Hanno attraversato il fiume in barca. Hanno superato decine di posti di blocco. “Andiamo a Raqqa” – la capitale siriana dello Stato islamico – è stato il loro lasciapassare.


Da Raqqa hanno camminato di notte verso ovest. Hanno attraversato il fiume, il loro fiume, forse per l’ultima volta. Hanno superato il confine dello Stato islamico e hanno puntato verso nord, verso la frontiera turca. Hanno chiesto a un siriano dall’altra parte del mondo di poter fare una telefonata dal suo cellulare. “Nizar! siamo noi!”. (SiriaLibano, 15 Novembre 2015).

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Published on November 16, 2015 12:52

November 6, 2015

Focus sulla Siria al MedFilm Festival di Roma

Adrian Paci, da Centro di permanenza temporanea


Dal 6 al 13 novembre torna a Roma il MedFilm Festival arrivato alla sua XXI edizione. L’edizione di quest’anno ha un focus speciale sulla Siria. Saranno proposti alcuni film e documentari di cui i lettori di SiriaLibano hanno già sentito parlare.


I nostri consigli:


- Sabato 7 novembre h. 18:00 – cinema Savoy: Torn, di Alessandro Gassman. I protagonisti del film sono i profughi siriani che vivono nel campo Zaatari, in Giordania, e a Beirut. Offrono un nuovo punto di vista sulla capacità di resilienza di un intero popolo. Non più solo vittime, rimangono aggrappati alle proprie radici, consapevole dell’importanza di preservare la propria identità e quella di una nazione intera attraverso l’arte.


- Domenica 8 novembre h. 22:30 – cinema Savoy: Home, di Raafat al Zaqut.


- Mercoledì 11 novembre h. 22:00 – cinema Savoy: The Immortal Sergeant, di Ziad Kalthum. A Damasco mentre il regista Mohammad Malas gira il suo film Ladder to Damascus, Ziad Kalthum è un soldato al mattino e suo assistente al pomeriggio. La guerra è ovunque, nei brandelli di città attraverso cui si muove la troupe, nei discorsi delle persone che lavorano al film, ognuna con le proprie storie e perdite alle spalle.


- Giovedì 12 novembre h. 16:30 – MACRO: Silvered Water (ma’ al-fidda), di Usama Muhammad e Wiam Simav Bedirxan.


Il programma completo si può scaricare a questo link.

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Published on November 06, 2015 00:44

November 4, 2015

Alcuni cristiani sotto l’Isis, meglio qui che morire

(foto di archivio, Internet)(di Lorenzo Trombetta) L’organizzazione dello Stato islamico avanza nella Siria centrale, ma numerosi capifamiglia cristiani della zona hanno scelto di rimanere sotto il controllo dell’Isis “per non perdere le case” di fronte all’alternativa di “morire in mare verso l’Europa”.


Le testimonianze raccolte dall’Ansa in Libano sono quelle di parenti di chi è rimasto in tre cittadine con forte presenza cristiana nella regione tra Palmira e Homs, lungo il confine mobile che separa lo Stato islamico dalle aree controllate dal governo di Damasco.


Chi è fuggito in Libano, e parla solo a condizione di essere protetto dall’anonimato, proviene da Qaryatayn, Mhin e Sadad, località lungo la via che collega l’antica oasi del deserto all’autostrada Damasco-Homs, vitale collegamento per le forze governative e i suoi alleati iraniani e russi.


Qaryatayn è caduta in mano all’Isis ad agosto scorso, Mhin da due giorni è in mano ai jihadisti, che in queste ore assediano Sadad e hanno conquistato postazioni sulle colline circostanti. Un’avanzata che l’aviazione russa ha tentato oggi di contrastare sganciando bombe su Qaryatayn.


Fonti da Sadad affermano che moltissimi abitanti, soprattutto cristiani, sono fuggiti verso località vicine in mano ai governativi come Fayruze e Zaydal. Ma a Sadad, Qaryatayn e Mhin sono oltre cento le famiglie o i capifamiglia che hanno deciso di rimanere.


“Hanno paura di perdere quel che hanno costruito per anni. Le case, le terre, la loro appartenenza…”, affermano i loro parenti e amici. Dopo aver preso Qaryatayn l’Isis ha deportato verso Raqqa e Palmira circa 200 cristiani della cittadina.


Dopo averli tenuti prigionieri per settimane ha proposto loro un accordo basato sulla sottomissione all’autorità dell’Isis in cambio di “protezione”. L’organizzazione jihadista si legittima usando una interpretazione tutta sua di un sistema islamico della “dhimma”, un patto di protezione che l’autorità musulmana stabilisce con i rappresentanti di comunità non musulmane, come cristiani ed ebrei.


L’alternativa che l’Isis ha offerto ai cristiani locali è stata l’esproprio totale. In altri casi la morte. La morte è descritta come “certa” da chi afferma di non voler “lasciare la terra per morire in mare verso l’Europa”, o “trovarsi sotto le bombe in altre zone della Siria”.


Diversi rapporti internazionali confermano che la maggior parte degli attacchi aerei condotti in Siria colpiscono zone che sono fuori dal controllo dell’Isis. “Si illudono di proteggere i loro interessi”, affermano altre fonti cristiane siriane in Libano che criticano la scelta di rimanere.


“Ora possono lavorare e rimanere nelle loro case, ma chi gli assicura un futuro?”. Questo, risponde chi è rimasto, è incerto per tutti. “Se moriremo, sarà nella nostra casa”. (Ansa, 4 novembre 2015).

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Published on November 04, 2015 08:51

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Lorenzo Trombetta
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