Fabrizio Ulivieri's Blog, page 110

January 2, 2019

Synopsis of "The day when Italy died" novel in progress







8th September 1943 is the Italian singularity. The climax point in which all the ills of Italy's universe from Unification up to that day, 8th September 1943, implode and then a new universe begins again because the old forms (ills) of the unitary state are replaced by two simple structures: the loss of honour and the loss of sovereignty. The 8 September 1943 both of them are zeroed out and remained as such until the present days.
Both of them were then loaded with other plus-structures that during the existence of the Italian Republic did not modify the two starting structures (the zeroed-out loss of honour and loss of sovereignty).
This is the analytical sense of the novel "The day when Italy died".
Through a binary code1-0 (Sabatina and Silvano from 1943 to 2018) and 0-1 (Sabatina and Silvano from 2018 to 1943) the history of Italy is unraveled between public and private .
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on January 02, 2019 15:43

Sinossi di "Il giorno in cui l'Italia morì" romanzo in progress




L' 8 settembre 1943 è una singolarità. Il punto culmine in cui tutti i mali dell'universo Italia dall'Unificazione fino a quell'8 settembre implodono per poi riesplodere in un nuovo universo in cui le vecchie forme dello stato unitario vengono ricomposte partendo da due strutture semplici che sono la perdita dell'onore e della sovranità, entrambi azzerati e rimasti come tali fino ai giorni presenti, caricandole poi di plustrutture che non riescono comunque a modificare quelle di partenza.
Questo è il senso analitico del romanzo "Il giorno in cui l'Italia morì".
Attraverso un percorso binario 1-0 (Sabatina e Silvano dal 1943 al 2018) e 0-1 (Sabatina e Silvano dal 2018 al 1943) si dipana la storia d'Italia fra pubblico e privato.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on January 02, 2019 04:54

January 1, 2019

Millenovecentosessantotto - pubblico e privato





Voi credete nella possibilità di una cultura rivoluzionaria? Noi crediamo nell’uso rivoluzionario della cultura.


Durante tutto il 1967 in molti cominciano a scendere in piazza per il Vietnam. Il lontano paese asiatico venne visto come un banco di prova per battere l’imperialismo americano e il capitalismo occidentale.
Ma c'era ancora l’altra Italia che l'11 giugno si esaltò per la vittoria di Felice Gimondi al grande Giro d'Italia del cinquantenario. Era l’Italia del boom, ben contenta di vivere nella società dei consumi e che di lì a poco, il 3 dicembre, avrebbe visto nel primo trapianto di cuore del chirurgo divo Christian Barnard la dimostrazione che il mondo si avviava verso il suo massimo splendore tecnologico. Un'Italia la cui società era ancora fondata sull'autoritarismo e in cui i figli si vestivano come i padri e le figlie come le madri e osservava stupita e preoccupata il dissenso dei giovani. In autunno il movimento studentesco si manifestò in tutta la sua forza. Il primo novembre a Trento partí uno sciopero che sarebbe durato più di un mese. Il 17 novembre l'assemblea degli studenti dell'Università Cattolica di Milano decise di occupare l'ateneo per protestare contro l'aumento delle tasse d'iscrizione e un sistema di selezione degli studenti che da molti era ritenuto classista…era un paese che si apriva ormai alla beat generation, ai cosiddetti capelloni che protestano contro la società stando seduti tutto il giorno su una gradinata non facendo niente, nemmeno parlare, e con ciò rifiutavano di essere travasati da una cultura di valori già pronti. Era un paese che si apriva al sesso libero, al movimento studentesco...alle rivolte...agli anni di piombo.

Sabatina stava in quell’Italia che credeva nella società dei consumi. Stava con l'Italia leggera e superficiale di Claudio Villa e Iva Zanicchi che avevano vinto quell'anno il festival di Sanremo con "Non pensare a me".
Silvano stava invece a metà strada, glielo dettava la sua posizione politica pubblica (non si potevano perdere voti) ma in privato dissentiva dalla sua posizione pubblica.
Una volta a Roma parlando a quattr'occhi con il giovane Craxi si era aperto e gli aveva detto in tutta confidenza:

- Io non capisco per quale ragione coloro che chiedono con diritto certe riforme della società le debbano imporre con la violenza di piazza in un paese in cui è aperta la lotta con il metodo democratico. Per quale ragione allora, io, che potrei non essere d'accordo su certe riforme della strutture dello stato le devo subire soltanto perché c'è una minoranza di studenti o di operai che in piazza occupano le sedi degli edifici pubblici, insulta le forze armate... Vorrei dai comunisti sapere che razza di democrazia è quella per cui una maggioranza di cittadini che votando dimostra di non avere nessuna intenzione di accettare un certo tipo di riforme, le deve invece accettare soltanto perché duemila, tremila o quattromila studenti appoggiati da operai - cosa della quale dubito perché non li ho mai visti in piazza con loro...gli operai hanno dimostrato maggiore buon senso...ripeto, vorrei sapere per quale ragione dobbiamo subire le loro imposizioni solo perché c'è gente che occupa le sedi pubbliche, piglia a sassate i carabinieri e perché ferma i treni alle stazioni ferroviarie? Vorrei sapere che razza di democrazia è questa che dobbiamo subire?

Come fanno i comunisti che promettono un comunismo che non s'è visto in nessuna parte del mondo neanche in Cecoslovacchia...un comunismo che rispetta i diritti dell'opposizione, la libertà dei cittadini, la libertà di stampa, il diritto di associazione...ad appoggiare poi queste forme di contestazione violenta...ma se lo vogliono fare è un problema loro, se vogliono ancora mentire come hanno sempre mentito facciano pure...ma noi, noi, perché dobbiamo farlo?"

- Silvano - gli rispose Craxi - dobbiamo fare fuori tanta gente nel partito perché non si commettano più errori simili. Questo sarà il mio obiettivo nel partito. Voglio ridare ai socialisti l'onore e l'orgoglio di sentirsi socialisti e non umiliati dai comunisti.

A Silvano quel ragazzone giovane dall'aria spavalda e dall'irruenza di un cinghiale piacque. Le sue parole e la sua sfrontatezza gli ricordarono quelle che un altro giovane tanti anni prima gli aveva detto in treno fra Bologna e Firenze.

Fu in quell’anno che Sabatina cominciò ad avere problemi al naso. Le furono diagnosticati due polipi al setto nasale. E quello fu il suo 68. Mentre fuori nelle strade si scendeva in piazza a contestare a scontrarsi con la polizia lei lottò con la malattia, con i dottori e con gli ospedali, con le operazioni chirurgiche e con i decorsi postoperatori. E anche con il nervosismo di Silvano che vedeva aumentate tutte le sue responsabilità. Si trovò solo con due figli. Si trovò solo a mandare avanti la casa.
E’ vero che Ida cercò di aiutarlo ma il rapposto con la madre era divenuto più formale, più difficile e evitava di chiamarla, se non lo stretto necessario. Era stanco di sentire sempre le solite parole, le solite critiche, le solite accuse. Sembrava avesse un disco rotto dentro se stessa che girava sempre sullo stesso solco e ripeteva sempre la solita melodia.

Quando ritornò dall'ospedale Sabatina si sentì più vecchia.
La malattia l’aveva spossata. L’anestesia e i medicinali le avevano cambiato l’umore e il corpo. E il ritorno alla realtà fu troppo brusco.
Le sue strutture cederono troppo presto. A causa di questo avvertì forse quel senso di invecchiamento in modo precoce.
Silvano no, era il cavallo di sempre. Non aveva il tempo per sentirsi vecchio. E poi la rabbia che aveva dentro lo teneva vivo e giovane.
Per Silvano il 68 non fu anno diverso da tutti gli altri. Percepiva ormai la realtà in virtù dei filtri del partito: comunicati, riunioni alla direzione, quello che si scriveva l’ Avanti!, quello che vedeva in TV, ma non ebbe mai un contatto diretto con quel movimento.
“Compagno” per Silvano era una parola che indicava solo il “compagno” socialista, i comunisti per lui non erano compagni. E il fatto che i comunisti tentassero di egemonizzare quel movimento ma vi rimanessero in rapporto conflittuale denunciava palesemente il tentativo di incassare voti e basta, che era esattamente quello che detestava in certe correnti socialiste.

Il divario fra Sabatina e Silvano andò ad aumentare.
Silvano accolse il ritorno di Sabatina da una parte come una liberazione dall’ altra come un fastidio, perché significò per lui fissare appuntamenti con i medici, accompagnare Sabatina a visite mediche, medicine, nuovi soldi da spendere…e lo spaesamento con cui Sabatina ritornò a casa lo innervosiva.
I bambini erano invece felici di rivedere la madre. Presero a raccontarle che avevano fatto nel tempo che la madre era stata all'ospedale. Di come Luigi avesse sempre preparatro il pranzo e la cena per loro due.

- Mamma, mi prendeva in giro Luigi.
- Ma che dici, Fabrizio?
- Non lo ascoltare, mamma.
- Faceva il furbo, Luigi.
- Come faceva il furbo?
- Sì, aveva inventato il “mangiare psicologico”?
- E che sarebbe?
- Una volta ha fatto il baccalà. C’erano solo quattro pezzi. Ho detto che erano pochi. IO avevo fame. Lui mi ha detto “Devi mangiare piano. In modo psicologico. Mangi piano e pensi che quello che mangi è tanto. Io ci credevo poco. Però ci ho provato. Io mangiato un pezzo e lui tre. Tutti i giorni faceva così. Alla fine ho smesso di mangiare psicologico. Mangiava tutto lui!”.

Sabatina scoppiò a ridere. Era tanto che non rideva così.

- Mamma, perché la polizia picchia quelle persone?

Fabrizio stava guardando delle immagini alla TV. Uno scontro fra polizia e studenti.

- Sono degli studenti, che contestano la scuola. Vogliono occupare l’università.
- Per questo la polizia li picchia?
- Credo di sì. Non vuole che stiano lì dentro.
- Non si può occupare.
- Non, credo.
- Ma la polizia è cattiva e gli studenti buoni?
- Non lo so. Ma la polizia non sempre è buona. Non credo dovrebbe picchiare così gli studenti.
- Anche io.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on January 01, 2019 04:36

December 30, 2018

1 9 6 8





Voi credete nella possibilità di una cultura rivoluzionaria?  Noi crediamo nell’uso rivoluzionario della cultura.

Durante tutto il 1967 in molti cominciano a scendere in piazza per il Vietnam. Il lontano paese asiatico venne visto come un banco di prova per battere l’imperialismo americano e il capitalismo occidentale.
Ma c'era ancora l’altra Italia che l'11 giugno si esaltò per la vittoria di Felice Gimondi al grande Giro d'Italia del cinquantenario. Era l’Italia del boom, ben contenta di vivere nella società dei consumi e che di lì a poco, il 3 dicembre, avrebbe visto nel primo trapianto di cuore del chirurgo divo Christian Barnard la dimostrazione che il mondo si avviava verso il suo massimo splendore tecnologico. Un'Italia la cui società era ancora fondata sull'autoritarismo e in cui i figli si vestivano come i padri e le figlie come le madri e osservava stupita e preoccupata il dissenso dei giovani. In autunno il movimento studentesco si manifestò in tutta la sua forza. Il primo novembre a Trento partí uno sciopero che sarebbe durato più di un mese. Il 17 novembre l'assemblea degli studenti dell'Università Cattolica di Milano decise di occupare l'ateneo per protestare contro l'aumento delle tasse d'iscrizione e un sistema di selezione degli studenti che da molti era ritenuto classista…era un paese che si apriva ormai alla beat generation, ai cosiddetti capelloni che protestano contro la società stando seduti tutto il giorno su una gradinata non facendo niente, nemmeno parlare, e con ciò rifiutavano di essere travasati da una cultura di valori già pronti. Era un paese che si apriva al sesso libero, al movimento studentesco...alle rivolte...agli anni di piombo.

Sabatina stava in quell’Italia che credeva nella società dei consumi. Stava con l'Italia leggera e superficiale di Claudio Villa e Iva Zanicchi che avevano vinto quell'anno il festival di Sanremo con "Non pensare a me".
Silvano stava invece a metà strada, glielo dettava la sua posizione politica pubblica (non si potevano perdere voti) ma in privato dissentiva dalla sua posizione pubblica.
Una volta a Roma parlando a quattr'occhi con il giovane Craxi si era aperto e gli aveva detto in tutta confidenza:

- Io non capisco per quale ragione coloro che chiedono con diritto certe riforme della società le debbano imporre con la violenza di piazza in un paese in cui è aperta la lotta con il metodo democratico. Per quale ragione allora, io, che potrei non essere d'accordo su certe riforme della strutture dello stato le devo subire soltanto perché c'è una minoranza di studenti o di operai che in piazza occupano le sedi degli edifici pubblici, insulta le forze armate... Vorrei dai comunisti sapere che razza di democrazia è quella per cui una maggioranza di cittadini che votando dimostra di non avere nessuna intenzione di accettare un certo tipo di riforme, le deve invece accettare soltanto perché duemila, tremila o quattromila studenti appoggiati da operai - cosa della quale dubito perché non li ho mai visti in piazza con loro...gli operai hanno dimostrato maggiore buon senso...ripeto, vorrei sapere per quale ragione dobbiamo subire le loro imposizioni solo perché c'è gente che occupa le sedi pubbliche, piglia a sassate i carabinieri e perché ferma i treni alle stazioni ferroviarie? Vorrei sapere che razza di democrazia è questa che dobbiamo subire?
Come fanno i comunisti che promettono un comunismo che non s'è visto in nessuna parte del mondo neanche in Cecoslovacchia...un comunismo che rispetta i diritti dell'opposizione, la libertà dei cittadini, la libertà di stampa, il diritto di associazione...ad appoggiare poi queste forme di contestazione violenta...ma se lo vogliono fare è un problema loro, se vogliono ancora mentire come hanno sempre mentito facciano pure...ma noi, noi, perché dobbiamo farlo?"
- Silvano - gli rispose Craxi - dobbiamo fare fuori tanta gente nel partito perché non si commettano più errori simili. Questo sarà il mio obiettivo nel partito. Voglio ridare ai socialisti l'onore e l'orgoglio di sentirsi socialisti e non umiliati dai comunisti.

A Silvano quel ragazzone giovane dall'aria spavalda e dall'irruenza di un cinghiale piacque. Le sue parole e la sua sfrontatezza gli ricordarono quelle che un altro giovane tanti anni prima gli aveva detto in treno fra Bologna e Firenze.


 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on December 30, 2018 13:54

December 29, 2018

Memoirs of a Martial Artist - The Jie (Who the hell are they?)





- If one punches with anger, his mind is dangerously sick. For this reason we must seek love in martial arts, love is fluid like smoke, it moves everywhere and in every direction. Only if love is the object of your mind your body becomes fluid. In anger, fear and in hatred body is rigid, hard. Love is energy, if you have love you have energy, an inexhaustible source of energy. After fifty years of age body needs elasticity and fluidity. Everyone love himself. Who does not love himself? Maybe a few...usually people love themselves, their ego. A martial artist must look inside and seek for love – The Master spoke.
The day I arrived in Vilnius my goal was to find a new martial art. The search for it took eleven months. Until I met The Master.
After moving to Vilnius I learned many things. A new reality. New people, new culture. New mentality. New colours , new flavours, new smells...a different world from the world I was coming from. 
But, the most important thing I learned was one truth regarding I found out Vilnius in a book written by a Lithuanian author, Kristina Sabaliauskaitė.
In Lithuanian it sounded like this "Niekas šiame mieste nėra tai, kas gali pasirodyti iš pirmo žvilgsnio".
It is important to quote it in the original kalba, language. Because you maybe realize the strange and incomprehensible sound that stroke me when I read it. Because that truth, hidden and unknown up to that moment, smogė, hit me, in the face with the gravity of its brutality.
"Nothing in this city may be what it seems to be at first glance". Yes, this flat translation into a language that was known to me and which, however, was not my mother tongue let me understand the meaning of that displacing sentence. But it had no impact on me.
A sort of tromp-l'oeil sentence was that sentence, in the original tongue.

- Martial arts and love are inextricably linked - was another usual sentence of The Master.

I was not looking for love when I arrived, I had love. I was in love. I came to Vilnius for love. Yes, I had love, as an object in front of a subject. As I in front of Me. As Myself between I and Me.
Or at least I was not looking for that love.
The love The Master was talking was not that love.

It was one night I saw The Teacher in a forest exposed to moonlight. He danced. It seemed electric. Perhaps half a tiger, half a snake. He moved like a dervish dancer and had the flexibility of a cat.
In front of him a woman with two knives tried to hit and cut him. The Master moved his body like a wave, like a stream that recoiled before the blade of the weapon that arose from right, left, top and bottom.
But he flinched back not in fear, not in horror. Just a serene sneer was giving strength to his action. He was possessed by Love. It was evident.

- The main question is how to transform our daily living in happiness. Without thinking what is very effective in martial arts. Not techniques work but works the man you are (it doesn’t count you are a fighter or not).

A later response to my questioning. To my being confused before the exaggerated number of martial arts, to the promise of being each one more effective than the other. A lot of styles, masters, approaches…that it seemed to me like a jungle.

- They won’t bring any calmness in your hearth – he responded to my silence.

It was vivid the calmness with which he danced in front of the woman's knives that night. In my eyes it was like a movie I was watching and watching again...
One thing that I soon experienced after my arrival in Vilnius was the feeling of being surrounded by enemies.
In Vilnius in fact what was lacking was kindness. I daily saw beautiful girls without a smile walking in the streets, sitting in coffee shops, working anonymously behind cash registers....most of them looked sad and discontented.
I didn't feel welcome. I even felt spied. But by whom?
By a system, I should say. By a live and organic system.

Vilnius toks miestas - gyvenimo logika čia ne visuomet veikia [...] Vilniuje nutikdavo ir nutinka tikrų monų, that Vilnius was a strange city, it was also confirmed by Kristina Sabaliauskaitė. A city where the logic of life not always worked, she said, where unusual things have often happened and still happen.
For all these reasons I presumed that the Love The Master spoke of should had different hues, more proper hues and suitable to the logic of this city.

- You must be gentle. No hatred, but love. Leave hate, leave anger, rancor to these people who work in the city offices or ministries who do not know how to get to the end of their days. Perfect slaves of a system of human annihilation. Remember the wave. Remember the wave. It goes up and when it reaches the highest point seems to stop for a moment and then comes down instead and brings destruction. But it does not immediately fall down, it has a pause, an apparent pause, before unleashing its violence. But the wave itself has no violence, it follows its nature. Thus the body, it must follow the wave of love, the nature of love, and not the stiffening of hatred. Feel the wave from your heel till your punch, feel the wave through your body, through your leg, through your back, until your final punch bursts!

This time The Master gave me a better definition of what he meant by "love". Love was nature, was energie, was not a personalized love but a natural love. A pure pervasive bodily energy.
I was surprised when I found a similar concept of love in Ričardas Gavelis, probably the most important Lithuanian writer.
Mano ūmi meilė buvo beribė, jos bruožai pernelyg kilnūs, pernelyg neapčiuopiami, kad būtų galima juos aprašyti. Tuo metu [...] toji meilė buvo mano rankos ir kojos, kūnas ir kraujas, mintys ir sapnai. Aš visas buvau išvien meilė. It was the same idea, an impetuous, acute, love - a pervasive, bodily love, completely spread throughout the body - hard to define what it was.



Once I met a photographer who took pictures of plants and flowers very closely. I asked her why. She answered me that in this way the real life changes could be grasped, not the surface changes that are simple adaptations and no real life change is implicated, because they are only modalities, modalities of adaptations.
She didn’t know anything about Tai Chi, but she had realized what was Tai Chi nature. 
Gyvenimas bėga lėtai. Medis auga neskubėdamas. Taiči yra tarsi viso gyvenimo tėkmė ir tas, kas susilieja su ja, tobulėja be pastangų. Visi greiti metodai yra trumpalaikiai ir dirbtiniai.
When The Master said those words, his face was elongated, his pale lips narrow, had slightly hollowed cheeks and his eyes seemed tormented. In pain. But why?

In Vilnius every day of mine began with a question. I don’t remember where I had read that sentence but somewhere I had read it. I was sure about that.
Who is then the secret Demiurge of my mind?

It was like every single day was selected by something that resonates in the silence of night and when I opened my eyes it pierced the still sleeping brain.
I thought (I hoped) that it would have disappeared but it was not so. It would have colored my entire day instead.
Maybe those blue eyes had the same sufferance of mine? The knowledge to involuntarily obey to a memory of the night?
What was that memory?
Honestly, I did not have a clue. But...
My first instinct was to think “Fear”. He had a fear, I was sure that he feared something. But why he had a fear? He was a Master. Masters shouldn’t fear anything. That was my logic.
I was blind. I was stupid. I had never considered that in martial arts as in life, fear are the roots of motivation, of energy. Without fear there is no real change. Without fear there is no progress, no result.
Fear is a subterranean work, sometimes deceitful, like a malarial fever.
But in the end fesr is just a stepping stone for love. Fear and love are connected. Entangled. There is no love without fear. There is an underhand continuity between the two. Like dark and daylight.


It was early December. It had snowed between 3:00 and 5:00pm. At 3:30pm it was already dark and cold, very cold. Quite common in Vilnius when the days are grey and snowy.
I checked the time. At 7:00pm I had an appointment with The Master.
In Vilnius there was a place called Art Café. The meeting was scheduled in there.
I felt quite lazy that afternoon and I hoped The Master had changed his mind and called me to cancell the meeting. But he didn't.
I felt unquiet, anxious.
Was I being had by a massive fear? In my nature, not seeing light made me feel scared. Hugely scared.
I felt tapped.
I went to the appointment.

- Do you know why we need love? – said me The Master – Do you know what’s the difference between “fear” and “love”?
- No – I replied.
- “Fear” causes loss of control, “love” generates control. When I fully possess love I fully possess control. 
My eyes narrowed with pleasure at seeing the way he spoke.

- Have you been watched?
- What do you mean?
- Have you been followed, trailed?
- By whom?
- Did you have the feeling that you are spied on?
- Why do you ask?

He watched me. He didn’t answer directly.

- I found a similitude between breeding and martial arts.
- What?
- My technique is coumponded by breeding several pieces of different martial arts in one combination. Which is not different from… - he paused. A too long pause for me.
- Which is not different from…- I insisted.
- …from the way they used to create our race – it came out from his pale lips.
- They?
- The Jie.
- Who the hell are the Jie?
- We have to go through a door to know it. To answer this question. Those creatures are trying to make themselves understood and they're trying to do it through me. I am the door.
- And this makes you scared?
- Yes, it does. That’s why I need control. That’s whay my technique is completely different from any other technique. Do you understand now?
- Perhaps.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on December 29, 2018 00:41

December 28, 2018

"Poker a Vilnius" di Ričardas Gavelis (traduzione in progress)



(foto di Živilė Abrutytė)

Una stretta fenditura fra due alti edifici, una breccia in una parete incrostata di finestre cieche. Uno strano passaggio a un altro mondo. Di là, cani e bambini scorrazzano, di qua, una strada vuota e grumi di polvere portati dal vento. Una faccia bislunga rivolta verso di me: labbra sottili, guance scavate, occhi silenti (forse marroni) - una faccia di donna, latte e sangue, richiesta e tormento, divinità e depravazione, canto e mutismo. Una vecchia casa nelle spire di pampani di uva selvatica nei recessi di un giardino. Più a sinistra meli rinsecchiti, a destra foglie gialle sparpagliate svolazzano nell'aria, anche se i rami dei cespugli non mostrano fremito...
Così mi svegliai quella mattina (come certe mattine) sotto i presagi di immagini dolorosamente chiare, che non è rimesso alle tue facoltà inventare o scegliere. Qualcun altro lo fa per te e risuonano nel silenzio e penetrano nel cervello che ancora dorme, e di nuovo scompaiono. Impossibili da cancellare. Quel silenzioso presagio colorerà il tuo giorno intero. Non sfuggirai, non potrai sottrarti a quel presagio. Dovresti non aprire gli occhi, dovresti non sollevare la testa dal cuscino. Ma tu obbedisci e apri gli occhi e di nuovo vedi la tua camera, i libri negli scaffali, gli abiti gettati sulla sedia. Involontariamente ti chiedi chi abbia scelto quella melodia in cui vivi. Perché puoi solo seguire quel suono e non un altro? Chi è il Demiurgo segreto della tua disgrazia? Ti è almeno concesso di scegliere la tua melodia, o la tua mente è già di Loro prigioniera e in catene?
È importante capire se queste immagini sono un groviglio di luoghi visti prima, di volti, o scene senza colore di eventi, o se per la prima volta si mostrano. I ricordi colorano la vita con tinte più o meno familiari. Ed è pericoloso quel giorno che inizia senza visioni. In quei giorni si spalancano abissi, e bestie fuggono dalla gabbia. In giorni simili le cose più lievi pesano più che le pesanti, le bussole indicano direzioni che non hanno nome. E simili giorni sono sempre inattesi. E così oggi (se oggi era oggi)...una vecchia casa nei recessi di un giardino, la faccia bislunga di una donna, una fenditura in un muro denso di finestre cieche...Subito riconobbi le smilze case di Karoliniškės e la strada vuota, riconobbi il cortile, dove persino i bambini passeggiano soli, giocano soli. Non mi sorprese dunque quella faccia, la sua faccia. La faccia bislunga di una madonna impaurita. Occhi, che guardavano non me, ma erano diretti dentro se stessa.
E l'angoscia crescevano una vecchia casa di legno dalle pareti annerite di pioggia e le foglie gialle, che vorticavano nell'aria portate da un vento giallo. Una casa che era ammonimento, premonizione sussurrata da labbra umide.
E l'angoscia cresceva il sogno, ripieno di uccelli, che picchiavano con le ali sui cumuli di neve bianca e sollevavano spruzzi di neve gelida, che aveva il colore di luce della luna.
Quanti uccelli può contenere un sogno?
Ve ne erano ovunque, un mondo che traboccava di un battito silente di ali impercettibili, di frasi sussurrate da un volto senza labbra e di un oppressivo vento giallo.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on December 28, 2018 10:59

December 27, 2018

"Moriremo babbo?"






- Che faremo babbo?
- Non lo so Fabrizio. Aspettiamo.
- Ma moriremo babbo?
- No, Fabrizio, non moriremo. Non sono morto in guerra e non moriremo ora. Morirò un giorno, ma non ora.

Verso le 6 del mattino l' acqua cominciò ad entrare nell'ingresso. Ora cominciava a far luce e si distingueva meglio l'immenso mare motoso che si spingeva verso la casa venendo a impattare in modo costante e senza impeto.
Entrò Alvaro Magazzini, il proprietario di casa, insieme a sua moglie Rosina.

- Che fate? Venite su da noi al secondo piano? Vi diamo una mano a portare su le cose che volete salvare.

Da sopra, Fabrizio e Luigi si affacciarono alla finestra della cucina di Alvaro, che dava sul dietro della casa. L' acqua che sul davanti giungeva senza impeti girando intorno alla casa formava un mulinello sul retro spruzzando onde sporche di mota nell'aria.
In quel gorgo videro apparire e scomparire tronchi d' albero, suppellettili, carcasse di animali e a Fabrizio sembrò di scorgere anche un grosso pesce fra le spire della corrente.
Il gorgo dietro casa incuteva timore. Su Montelupo si vedevano volare degli elicotteri che sembrava issassero delle persone che si erano rifugiate sui tetti delle case. Quelle immagini aumentarono il senso di prigionia e paura.
Luigi e Silvano, insieme ad Alvaro, andarono sul terrazzo davanti alla casa.
L'acqua nella parte destra sembrava calma, anche se in un punto fra la casa adiacente di Marzia e quella di Alvaro dove c'era un vialetto protetto da un piccolo cancello di ferro, che portava al retrocasa, si notava bene l'acqua avere più impeto e passare veloce.

- L'acqua ha smesso di crescere - disse Alvaro.

Silvano guardava su verso la Graziani, in direzione della curva del Cubattoli, dove l'acqua non arrivava perché la strada cominciava a salire verso l'alto del poggio su cui si trovava la Graziani, un paesetto di una decina di case.

- Guarda, l'acqua lassù non arriva. Alla casa del Lepri già si ferma. Da qui alla casa del Lepri c'è la casa di Marzia e del dottore. Potremmo provare ad uscire appoggiandoci al muretto delle due case attaccati alle ringhiere. Ci immergeremo nell'acqua fino alla vita più o meno. Fabrizio lo prenderò sulle spalle. Luigi è già alto, potrà farcela da solo - disse Silvano.
Alvaro non sembrava molto d'accordo.

- La nostra casa è solida. Resisterà. Non ci sono problemi. L'ho costruita io con le mie mani. Lo so.

Ma a Silvano quel mulinello dietro la casa non piaceva per niente. Temeva che la forza dell'acqua scavasse sotto e danneggiasse le fondamenta.
Ci pensò e ripensò. Vide che i bambini cominciavano ad aver paura. Sabatina dava segni di nervosismo.

- Sabatina, che facciamo?

"Sabatina, Sabatina, Sabatina!"

- Silvano, calmatevi - gli rivolse la parola la filippina - l' hanno portata all'ospedale. Ci è andato Luigi. Fra poco arriva Fabrizio dal lavoro. Non sarete solo.

- Ma chi t'ha chiesto nulla a te! - rispose male Silvano, con la bava alla bocca.

Nemmeno Silvano sapeva il perché della sua reazione. La pressione alta lo rendeva ebete, lo straniva, e solo nella rabbia trovava sfogo.
La filippina gli misurò un cazzotto.

- Bene, picchiami anche. Poi quando torna Fabrizio glielo dico.

La filippina si fermò e almeno lei ritrovò la ragione.
Silvano continuava a sentire il suono di quel mulinello e gli rimbombava nelle orecchie un ronzio. Continuava a udire "Sabatina, che facciamo?". Ma non sentiva la risposta di Sabatina. Non riusciva a ricordare. Solo il ronzio aumentava.
Vide delle immagini. Un cancelletto di ferro che si apriva, Sabatina che perdeva l'equilibrio e veniva presa dalla corrente.
"Mamma!"
Era la voce di Luigi, che lesto come un gatto l'aveva afferrata per un braccio prima che scomparisse e con una forza incredibile era riuscito a tirarla a sé.
"Sabatina!!!" urlò nell'aria Silvano.
Nessuno rispose, neanche la filippina.
Silvano appoggiò la testa indietro sullo schienale della poltrona. Era sudato. Rivoli di sudore gli scendevano per la schiena e gli macchiavano la canottiera bianca. Dalle finestre aperte entrava solo fuoco. Il fuoco dei 38 gradi di luglio.
Sbarrò gli occhi verso la luce e l'afa che entravano dal terrazzo. Strinse i denti cariati fino a farsi male. Si irrigidí duro come uno stoccafisso e serrò i pugni.
Avrebbe voluto batterli sul tavolo, come faceva alle riunioni di partito quando lo facevano arrabbiare.
Ma ora era lui, lui solo contro la vita, solo contro la morte, solo contro il mistero di un'esistenza di cui nemmeno più si chiedeva il senso.
Un mucchietto di carne e ossa e un grumo incerto di volontà a cui chiedeva di morire prima che fosse possibile.





 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on December 27, 2018 07:41

4 novembre 1966





Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
nuda e triste
(Vincenzo Cardarelli)

Da giorni pioveva. Eppure non era freddo, anzi le temperature tendevano ad alzarsi.
Ma Fabrizio era felice. Sua madre gli aveva comprato un vestito nuovo. Il giorno dopo, il 4 novembre, festa delle forze armate, lo avrebbe messo. Sarebbe andato alla messa a Montelupo con il vestito nuovo. Quasi toccava il cielo con un dito per la felicità. Voleva farsi vedere agli amici con il vestito nuovo.
La pioggia continuava a cadere incessante. Una pioggia spessa, pesante, che non dava respiro e aveva il senso dell’imminenza, di un voler annullare ogni creatura che era sotto quello strato di acqua senza fine.

I fiumi principiavano a preoccupare in tutta la Toscana.
Da Firenze arrivavano le voci che l’Arno era grosso e cominciava a far paura. Anche a Montelupo, punto di confluenza fra la Pesa e l’Arno si cominciava a temere il peggio. La Pesa non riusciva a confluire l’acqua in Arno che era troppo pieno e dava ormai evidenti segni di straripare.
Silvano, Sabatina, Luigi e Fabrizio abitavano in via Rovai, dopo la curva Baldini. Abitavano al pian terreno di una villetta a due piani di proprietà della famiglia Magazzini.

- Vai tu a letto, se hai sonno. Io rimango sveglio. Ho brutti presentimenti – disse Silvano a Sabatina verso mezzanotte – Secondo me prima che sia giorno la Pesa straripa.
- Non lo so. Forse la gente esagera. Certo che sia l‘Arno che la Pesa fanno proprio paura. Se la Pesa rompe non so come va a finire...Mi butto un po‘ sul letto, sono stracca. Ma se succede qualcosa chiamami – rispose Sabatina.

La loro casa si trovana in periferia a metà strada fra la casa di Baldini, a sinistra, sulla curva della strada che dalla Graziani portava a Montelupo, e altre villette costruite sulla destra dove la via cominciava un po‘ a salire verso la Graziani.
In linea d‘aria era proprio dirimpetto al punto in cui la Pesa avrebbe rotto gli argini e da lì si sarebbero scaraventati milioni di metri cubi di acqua melmosa, torbida, gialla come gli occhi dei gatti, a tratti quasi nera, con una violenza impressionante verso Montelupo dove avrebbe creato mulinelli che avrebbero scavato le case dirimpetto alla ferrovia.



La casa di Silvano e Sabatina si sarebbe tuttavia trovata non proprio al centro della corrente, ma quasi all‘angolo esterno del flusso, dove l‘acqua perdeva un poco della sua forza perché avrebbe formato una specie di risacca a causa della via che cominciava in quel punto ad aumentare di pendenza verso la Graziani. Fra la casa e la „terraferma“ della Graziani comunque vi erano almeno un centinaio di metri in cui la corrente aveva impeti ancora forti ma più contenuti rispetto alla parte sinistra che guardava verso casa Baldii che fu investita da un‘ondata dalla velocità impressionante, e tuttavia resistette.

- Svegliati Fabrizio! Svegliati!

Era suo padre.

- Che c‘è babbo?
- L‘alluvione.

Fabrizio non capiva quella parola. Non l‘aveva mai sentita.

- Che è l‘alluvione babbo?
- Vestiti e vieni a vedere.
- Ma che ore sono?
- Le cinque.

Silvano aprì la porta. Fabrizio si affacciò. Per un attimo non si rese conto bene di quello che vedeva, o meglio di quello che non vedeva più.
Um mare melmoso senza fine si estendeva davanti alla soglia di cinque scalini che separavano la casa da quel mare senza fine. Non più campi e alberi davanti alla porta di casa. Non più il canneto sulla nistra che costeggiava la vecchia gora e portava l’acqua dal mulino del Cioni fino alla Pesa. Solo la cupola brulla di qualche albero qua e là in mezzo a quella distesa senza fine di acqua motosa.

- Che è babbo?
- E’ l’alluvione, Fabrizio.

Sabatina era stata trasportata all’ospedale nel pomeriggio.
Quando la dottoressa che era arrivata con l’ambulanza era entrata in casa aveva avuto un malore momentaneo.
La cocciutaggine di entrambi di tenere tutte le imposte chiuse per combattere il sole e l’afa di luglio aveva prodotto una temperatura interna alla casa oltre i quaranta gradi.

- Dio mio! – aveva mormorato la dottoressa buttandosi su una sedia per non soccombere al capogiro.

Per fortuna la tempra della giovane donna reagì prontamente, grazie ad un bicchiere di acqua fresca.

- Presto apra tutte le finestre e faccia entrare aria, qui è una camera a gas! – aveva detto alla badante filippina.

Aveva misurato la pressione a Sabatina trovandogliela intorno ai duecento. Respirava male. Ad un primo esame le parve avesse i polmoni pieni di catarri.

- Presto trasportiamola subito all’ospedale. E mettetele una maschera con l’ossigeno.



Silvano aveva assistito alla scena gracchiando come un corvo appollaiato su un muro.

- Sabatina! Sabatina! Sabatina!
- Che vòi? – gli aveva risposto in toscano.
- Stai male Sabatina?
- O un lo vedi come sto! – Aveva urlato con l’ultimo filo di fiato che le era rimasto.

Poi l’avevano caricata su una sedia a rotelle per infilarla in ascensore. In fondo, al pianterreno l’aspettava la barella.
Il trambusto finì. Rimase un gran silenzio. Una calma umida, come lo scorrere di un’acqua melmosa. Gli pareva perfino di sentirla gorgogliare quella acqua e di vederne il colore giallognolo.
La sua mente labile lo portò fuori dalla realtà. Non sentì più le parole della filippina. Che gli importava a lui della filippina? Che aveva a che fare con lui quella donna? Non aveva mai fatto parte del suo mondo, e ora era lì e lo voleva comandare, lui che aveva sempre comandato.
Non sentì nemmeno il suono dell’ambulanza che partiva e non sentì neanche una porta che sbatteva per il riscontro a causa di un refolo di vento improvviso.
Sentì solo delle parole lontane salirgli confuse dalla pancia al cuore.

- E’ l’alluvione, Fabrizio.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on December 27, 2018 00:01

December 25, 2018

Natale 1966 - Babbo Natale non esiste



(foto di Živilė Abrutytė)


Quel Natale 1966, dopo l'alluvione, portò molte novità.
Per Fabrizio la novità fu che Babbo Natale non esisteva.
Uno shock, come se improvvisamente il Dio in cui credi non esistesse più; con la differenza che perdere la fede non è mai un evento improvviso. È solitamente un processo lento, legato a dubbi, delusioni, rancori per non essere stato ascoltato, rabbia per le tante preghiere mai esaudite.

Fabrizio era un sognatore e figurarsi modi alternativi in cui la realtà potrebbe essere era il suo gioco preferito. Lambiccarsi il cervello gli piaceva.
Come un vecchio potesse in una sola notte consegnare i regali in tutto il mondo e scendere con il suo pancione dalla stretta cappa del camino, non costitutiva un problema di adattamento per la sua fantasia, come per ogni fantasia di ogni bambino cresciuto in quella favola.
Ma è pure vero che le bugie quando si scoprono provocano traumi. Forse momentanei, ma pur sempre traumi più o meno lievi o forti.
Fino a cinque anni, di solito i bambini credono incondizionatamente a Babbo Natale. A sette sono in molti a dubitare, a nove non ci crede quasi più nessuno.
Fabrizio aveva decisamente sforato. A dieci anni (nel dicembre 1966 quasi undici) ancora ci credeva. E ciecamente. Non un dubbio, non un sospetto.
A dir la verità Silvano e Sabatina non avevano investito molto nel trasmettergli questa fantasticheria. Il minimo necessario e nulla di più. Come si era alimentata? Forse la scuola. Forse le pubblicità. Di sicuro la sua sensibilità che lo forzava a vagare ad altezze extraterrestri.
Finora aveva persino resistito agli assalti dei compagni di scuola che avevano ormai disvelato, o appercepito l'inutilità di quella menzogna e cercavano di instillare anche in Fabrizio l'evidenza comprovata della inesistenza dell'uomo panciuto con la barba bianca che veniva dal Polo Nord volando su una slitta colma di regali trainata da renne.
Ci voleva una donna. Ci voleva Eva, la donna traditrice, per farlo cadere dalla Luna alla Terra.
Eva, si chiamava Sonia. Ed era una sua cugina maliziosa, poco più grande di lui.


Il 26 dicembre, erano stati insieme al cinema Canneri a Montelupo, a vedere un film. Era verso le diciannove e trenta e stavano percorrendo via Rovai, allora male illuminata, che dal campo sportivo portava alla Graziani.
Sonia veniva a cena a casa di Fabrizio perché Silvano e Sabatina avevano invitato i suoi genitori per finire gli avanzi del Natale.
Per la strada Fabrizio raccontava a Sonia quello che Babbo Natale gli aveva portato, felicissimo mentre lo raccontava.

- Ma Babbo Natale non esiste! - scoppiò a ridere Sonia.
- Come non esiste?
- No, non esiste.
- Ma mi ha portato i regali.
- Ma quelli te li hanno comprati i tuoi genitori.
- Come???
- Sí, li comprano. Quando tu non li vedi li impacchettano e te li mettono sotto l'albero mentre dormi.
- Non ci credo. Io una volta l'ho visto.
- Ma sarà stato tuo padre che si era mascherato da Babbo Natale.
- No, non è possibile che non esista. Non ci credo.
- Fabrizio ma quanti anni hai?
- Dieci. Fra poco undici.
- E allora? Ancora continui a credere a Babbo Natale. Ma sei proprio uno stupido. Svegliati Fabrizino!

Fabrizio sentì la voglia di tirarle un pugno. Sentì fra le gambe nascere un brivido di rabbia e piacere che lo confuse.
Ma come? Come si permetteva di dire che Babbo Natale non esisteva? Come poteva mettere in dubbio la sua esistenza.

Sí sentì preso in giro da lei. Messo a nudo. Sbeffeggiato. Offeso. Odiò Sonia. La odiò allora e per molti anni a seguire. Come odiò sua madre che mai lo aveva avvertito di quella bugia. Perché anche sua madre aveva taciuto? Sua madre avrebbe dovuto dirgli la verità.
Le donne non le capiva. Per molti anni non le avrebbe capite. Solo quando avrebbe smesso di cercare di capirle gli sarebbero sembrati esseri naturali.



 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on December 25, 2018 00:04

December 23, 2018

Natale 1966 - il Natale dopo l' alluvione








Quel Natale fu diverso. Vollero sia Silvano che Sabatina che fosse diverso.
L'alluvione li aveva prostrati, ridotti in ginocchio, ma erano riusciti a riprendersi. Silvano aveva ricominciato subito a lavorare alla Federazione, più di prima. Sabatina aveva raddoppiato le forze e come per un effetto magico era riuscita quasi a competere con Rosina. Anche Rino aveva smesso di prenderla in giro e la riempiva ora di complimenti.

- Brava Sabatina. Ora sí che mi garbi. A te, ti ci voleva la piena dell'Arno per datti una smossa. Se continui cosí superi Rosina.
Era probabilmente nell'aria di quel Natale del 1966 il voler reagire. Si respirava un clima di voglia di uscire dalla calamità che si era abbattuta sulla Toscana
Sarà un Natale "duro" dicevano a Firenze, ma i fiorentini non mollavano. Riaprivano i negozi, decoravano la città, facevano gli alberi di Natale in casa, li addobbavano di palline colorate e lucine, ricominciava la vita.
Nel chiostro di Santa Maria Novella e nella cappella della Adorazione dei Magi fu allestito un singolare presepe per dimostrare la reazione della città. Gli allievi della scuola sottufficiali dei carabinieri truccarono e rivestirono duecento manichini con abiti rinascimentali prestati della Scuola dagli organizzatori del Palio di Siena. Un presepio nuovo, suggestivo, originale, il cui allestimento aveva richiesto più di venti giorni di lavoro.
In TV Sabatina vide un'intervista a una pittrice inglese che era venuta in Italia con una borsa di studio per studiare all'Accademia di Belle Arti e si era trovata poi a spalare la melma insieme agli altri Angeli del Fango calati a Firenze da ogni parte del mondo, senza nulla chiedere. Era felice la pittrice perché durante il servizio volontario aveva conosciuto un ragazzo che era diventato il suo fidanzato. Per lui sarebbe rimasta in Italia, a Firenze. Forse lo avrebbe sposato.
Vi era un clima positivo, diverso dalla tragedia dei giorni di Novembre.
Paolo VI venne a celebrare la Messa di mezzanotte. Voleva essere vicino alla città e alla sua popolazione.
Quando il Papa entrò in città, la folla di gente accorsa per strada fermò il pontefice che salutò e benedisse tutti. Il lungo percorso del Papa che, quella notte, toccò i vari punti più colpiti dall'alluvione, fu costellato di gente che si stringeva a lui per ritrovare la speranza. L'omelia di Paolo VI fu un vero inno alla speranza. "Siamo qua venuti - disse - nel giorno della tenerezza e della fortezza dell'amore per piangere con voi. Fiorentini, ai cento titoli che voi potete avanzare per la nostra affezione, si è aggiunto un altro titolo che ci ha messi in cammino: il vostro dolore, così grande, così singolare, così fiero e degno".
Quel Natale fu metereologicamente uno dei più freddi. Ma non nel cuore. Nel cuore ardeva il fuoco della speranza e della reazione. La volontà di ritornare come prima e meglio di prima.

Silvano e Sabatina non amavano molto le festività. Non celebravano mai i compleanni. Il Natale e la Pasqua si riducevano spesse volte a una misera riunione di poche persone. O venivano Ida e Beppe e o al massimo si andava a Castelfiorentino dalla sorella di Silvano. Nulla di più.
Le festività comandate erano per loro giorni di assoluto disturbo, dei quali avrebbero ben fatto a meno. Giorni che non vedevano l'ora finissero.

- Anche quest'anno è arrivato il Natale. In quest'anno di tragedia voglio riunire il mio sangue, tutto intorno ad una tavola - pronunciò drammaticamente Silvano.

Sabatina lo guardò. Talvolta la pomposità di Silvano la spiazzava. E non capiva.

- Voglio invitare tutti i miei parenti, a Natale! - aggiunse irato davanti alla evidente faccia spaesata di Sabatina.
- Ma chi vuoi invitare?
- Mio padre, mia madre, mia sorella, mio fratello con sua moglie, Livio e Giacco, Nella, Dosolina, Mauro...tutti i parenti di Poggibonsi e Colle Val d' Elsa...è tanto che non li vedo. Voglio fare una riunione prima che muoia qualcuno.
- Saremo una ventina. Chi lo fa da mangiare? Io da sola non ce la faccio.
- Farò venire mia madre ad aiutarti.
- Meglio di no. Farò da me. Quel demonio di donna non ce lo voglio. E che si fa da mangiare?
- Le bistecche. Io voglio le bistecche.
- Le bistecche? Ma c'hai presente che vuol dire fare le bistecche per venti persone? E poi io non le so coce. Mi vengano o troppo dure o troppo al sangue. E poi dove le facciamo?
- Dietro, sul terrazzino.
- A quel freddo? Entra esci, mi ci ammalo. Già ho avuto un broncopolmonite. Un altro non lo voglio.
- Te le cocio io.
- Ma che vuoi cocere te, nemmeno sai come si coce un ovo.
- Ecco lo sapevo che s'andava a finí co soliti discorsi!

Il 25 verso mezzogiorno campanello cominciò a suonare.

- Buon Natale!
- Buon Natale!
- Buon Natale!
- Buon Natale!
...
Arrivò Livio e Nella. Poi Giacco da solo, la moglie gli era morta un anno prima. Arrivò Silvana con il marito e Fabio, il cuginetto di Fabrizio e Luigi. Arrivò Loriano con Edy, la moglie. Arrivò Dosolina con il marito e i due figli, ormai grandi ma ancora giovanotti. Arrivò Mauro e la seconda moglie. Arrivò Beppe e Ida.
Sabatina aveva iniziato a cucinare la vigilia, e la mattina di Natale si era svegliata alle quattro. Ma aveva vinto lei questa volta. Le bistecche no, non si facevano.
Il menù prevedeva come antipasti, crostini col ragù di carne, crostini con fegato di pollo pasta d'acciughe e capperi. Affettati e sottaceti.

- Ma che bei crostini Sabatina. Meno male dicevano che non sai far da mangiare!
- Come un so far da mangiare? Vorrei sape' chi l'ha detto - Sabatina d'istinto guardò Silvano e Silvana.
- Eh Sabatina, si dice il peccato ma non il peccatore - rispose Nella guardando in aria.

Poi due primi: brodo di cappone con tortellini di carne e a seguire spaghetti al ragù.

- Fabrizio, vieni a aiutammi a gratta' i cacio pei tortellini e la pasta.
- No, mamma. Un c'ho voglia.
- Moviti, bighellone! Vieni a aiutammi.
- T'aiuto io Sabatina - Si alzò Silvana - Lascialo fa' c'ha da giocare con Fabio, che vuoi che gli importi di gratta' i' formaggio.

Come secondo, cappone bollito con peperoni verdi sottaceto e sottoli vari; cappone in umido e patate in forno rifatte nell'umido del cappone. Coniglio cotto nel forno con insalata verde.

- Oh Beppe che un lo mangiate i' coniglio?
- No, Mauro. Di conigli ne ho mangiati tanti che mi son venuti a noia.
- Beppe, lo potevate dire che i' coniglio un vi garba. V'avrei fatto qualcos'altro - si mise in mezzo Sabatina un po' risentita.
- Un ti preoccupare Sabatina, mangio un'attra cosa.
- Tu sei i' solito uggioso - gli disse Ida.

Noci, datteri, fichi secchi, mandarini, arance e banane l'aveva comprati Ida il sabato al mercato a Montelupo. Il parmigiano l' aveva portato Mauro da Poggibonsi: Mauro faceva i mercati e vendeva formaggi.
- Ve lo porto io, il formaggio bono, Silvano! Non lo comprate...a quello ci penso io - aveva detto al telefono quando l'aveva chiamato per invitarlo.
Poi ci fu la zuppa inglese e un dolce arrotolato chiamato "salame" fatto di crema e Alchermes. Panettone, cavallucci, panforte e ricciarelli.

- Sabatina, che un ti piace il panettone?
- Nella, a me l'uvetta e i candito mi s'allegano ai denti un lo posso mangia'.
- Dio Bono, tu sei un po' difficile anche te - aggiunse Silvana.
- O che a te ti piace tutto?
- Ma i datteri vedo che li mangi. O che quelli un ti s'allegano ai denti?

Il pranzo fu accompagnato da vino di Villambosco, spumante Gancia, Cinzano, Strega e Cynar. Acqua gassata e naturale, più caffè con la moka.


- Silvano, lo fai te il caffè?
- Si, ci penso io. Ve lo fo io un caffè bono. Me l'hanno insegnato i compagni di Napoli come si fa i caffè. Vi leccherete i baffi, dopo che l'avrete bevuto.

Tutto era stato preparato sulla cucina economica a legna, che aveva reso la cucina un forno e Sabatina sudata come un fochista.
Avevano apparecchiato nel lungo corridoio che dalla cucina portava all'uscita passando davanti al bagno, alla stanzina dove lavorava Sabatina e alle camere da letto. Era un luogo dove generalmente faceva sempre freddo. Ma quel giorno fin dalla mattina presto avevano acceso la stufa a cherosene, che di solito tenevano spenta per risparmiare, e lasciato la porta della cucina aperta perché penetrasse il calore. E venti persone, tutte insieme, finirono per riscaldare anche troppo quel corridoio di solito sempre freddo e umido, soprattutto ora dopo l'alluvione. Sembrava che l'acqua che aveva penetrato le pareti mai ne uscisse. Continuava a trasudare in macchie e funghe.
A tavola si parlò di politica e si urlò tanto. A parte Silvano, Beppe e Ida che come Sabatina non si interessavano di politica, gli altri erano tutti comunisti. Silvano si arrabbiò. Volarono bestemmie e cazzotti sul tavolo, insieme ai nomi di Nenni, Saragat, Togliatti, Longo e Moro...Ma alla fine erano tutti contenti e si salutarono con abbracci e baci.
Fu un bel Natale.

- Speriamo di rivederci presto.
- Sí, speriamo.
- Bisogna vedersi più spesso.
- Davvero!
- Per Pasqua venite da me!
- Il prossimo Natale lo faremo da noi a Colle.
- Ciao! A presto.
- Dammi un bacio, Sabatina!
- Mamma mia, Sabatina, quanto hai cucinato. Ma che sei pazza!
- Ma che vuoi che sia! Quattro cosine...

Tutti se andarono. Il sangue della famiglia si sciolse e ognuno prese le sue strade. Come erano arrivati scomparvero. Del Natale 1966 rimase una montagna di piatti, pentole, bicchieri, forchette, cucchiai e coltelli da rigovernare che coprivano la cucina in ogni dove ammucchiati e impilati qua e là.
Sotto la tavola era pieno di ossi, pelle di cappone e pezzi di pane. Quelli di Colle, contadini, in casa avevano due cani e un paio di gatti e quando mangiavano erano abituati e buttare gli ossi sotto il tavolo per dar da mangiare agli animali.

- Sei contento ora? - chiese Sabatina a Silvano.
- Eh son tutti comunisti. Abbiamo parenti tutti comunistacci. Bella parentela!





 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on December 23, 2018 13:37