Costanza Miriano's Blog, page 8

June 18, 2024

Resistere al fascino del neofemminismo

Non organizzo mai i miei incontri e quindi non sono mai in ansia, non mi importa di quanta gente venga, come direbbero i ciellini sono libera dall’esito. Non importa se vengono quattro persone o cinquecento. Sono successe entrambe le cose (ora che ci penso pure oltre 3mila, al Monastero wifi, e una marea infinita al Family Day) e noi non sappiamo i frutti che può produrre un incontro indipendentemente dai numeri. Però l’incontro di domani lo ho proposto io e quindi mi sento responsabile… ho la sindrome festa delle medie, quando organizzi tutto e hai paura che non venga nessuno e i panini rimangano ammucchiati sul tavolo .Per favore spargete la voce: alle 21 al Cinema delle provincie parleremo di donne e vita e gender e pornografia e conciliazione lavoro famiglia e di tutto quello che vorrete con Raffaella Frullone e Maria Rachele Ruiu
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Published on June 18, 2024 12:40

Gesú o pazzo o Figlio di Dio


da “il cristianesimo così com’è”  di C.S. Lewis 


«Sto cercando, qui, di impedire che qualcuno pronunci la frase davvero sciocca che spesso si sente ripetere su di Lui: “sono pronto ad accettare Gesù come grande maestro morale, ma non accetto la Sua affermazione di essere Dio”.



Questa è proprio la cosa che non bisogna dire: un uomo che fosse soltanto un uomo e dicesse le cose che diceva Gesù non sarebbe un grande maestro morale. Sarebbe un pazzo – al pari di uno che affermi di essere un uovo in camicia – oppure sarebbe il diavolo in persona.
Dobbiamo fare la nostra scelta. O quest’uomo era, ed è, il Figlio di Dio; o altrimenti era un folle o peggio ancora. Possiamo rinchiuderlo come pazzo, possiamo coprirlo di sputi e ucciderlo come demonio; o possiamo cadere ai Suoi piedi e chiamarLo Signore e Dio. Ma non ce ne usciamo con condiscendenti assurdità sul Suo essere un grande maestro umano: Gesù non ci ha lasciato questa scappatoia. Non ha voluto lasciarcela. »





 

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Published on June 18, 2024 08:11

June 13, 2024

Benedetto il giorno che ha deciso di scriverlo

di Raffaella FrulloneLa prima intervista a Costanza Miriano è del marzo del 2011. Avendo ricevuto il comunicato dell’uscita di “Sposati e sii sottomessa”, mi feci mandare il libro, lo lessi, e trovai dentro una ventata di aria fresca, abbondanti dosi di quanto avevo fatto mio ai corsi di Assisi, una visione finalmente libera sul matrimonio e sulla donna, e la totale assenza quell’alone di sfiga che davano – e danno tutt’ora – in omaggio con gran parte della saggistica cattolica.Chiesi il contatto dell’autrice, mandai una mail. Il passato remoto è perché è passata più o meno un’era geologica. Ricordo dove ero quando Costanza mi telefonò. Da Yamamay, alla ricerca di un paio di slip lasercut. Da lì venne fuori la prima di una lunga serie di interviste, ogni volta che ha pubblicato un libro ho scritto almeno un articolo, se non di più e poi post, presentazioni, e chi più ne ha più ne metta, a casa ho uno scaffale chiamato “regali” che contiene libri che acquisto per essere regalati e metà sono suoi. Ma da lì venne fuori anche qualcosa che è riduttivo chiamare amicizia (per dare l’idea, dico solo che io io la ho addirittura vista struccata, e posso testimoniare che l’unica differenza che si nota sono gli occhiali), per questo dico subito che comprendo la – legittima – obiezione di chi dice “sai che novità, la Frullone che ci viene a proporre un libro della Miriano”.

La sua ultima fatica però, vale davvero la pena. Non che i precedenti non l’avessero (anche se qualcosa da obiettare su “obbedire è meglio” potrei anche trovarla), ma “Benedetto il giorno che abbiamo sbagliato” è il libro che tutti dovrebbero leggere. Non tutti quelli con il matrimonio in crisi, non tutti quelli che vorrebbero fuggire ovunque purché lontano dal coniuge, tutti, anche quelli non sposati, non fidanzati, e persino non credenti. Per diverse ragioni.

Per il tema innanzitutto, il vero titolo del libro poteva essere “perché il divorzio non è una soluzione” e ci vuole coraggio a scriverlo, non basta il quadricipite da runner, ci vuole del fegato perché non ne parla più nessuno, nemmeno in casa cattolica, il referendum di 50 anni non ha solo legalizzato la pratica, la ha completamente sdoganata, il dissenso degli anni del referendum si è polverizzato velocissimamente e le coscienze sono state narcotizzate, introiettato l’equazione legale=giusto, anzi buono. Il risultato è che oggi si fa persino fatica ad ammettere che i figli soffrono se i genitori si separano. “Dipende da come ci si separa, dipende dall’età dei figli”. No. Il quanto si soffre dipende da molte variabili, è vero, ma il se si soffre, purtroppo non esiste, si soffre sempre. Soffre chi resta, soffrono i figli, soffrono i parenti, soffre anche chi si ne va. E’ nel pacchetto.

Secondariamente scrivere questo libro significa toccare corde delicatissime, dire a persone anche amiche, amiche strette, a cui si è legati da affetto fraterno, che tutto si vorrebbe fuorché soffrissero, esattamente quello che non vorrebbero sentire. Significa parlare di indissolubilità a chi vive sulla propria pelle delle fatiche atroci, pesi della propria storia passata non ancora risolti, tradimenti o tentazioni di tradimento, problemi di dipendenze, fatiche psichiche, problemi legati ai figli che vanno a incrinare quell’unione sacra logorandola e trascinandola in un baratro. Significa dire che non solo la soluzione non è non dirsi addio, ma benedire quella fatica perché porta a qualcosa di più grande. Certo, questo è accettabile solo nell’ottica del cielo, nell’ottica della vita eterna, ma c’è forse qualcosa di meno in ballo?

Questo libro restituisce giustizia non solo a chi si impegna a vivere il proprio matrimonio o la propria separazione – magari subita – in modo cristiano, ma a vivere ogni giorno la propria vita in modo cristiano. E qui viene il terzo punto. Questo libro è per tutti perché parla di come stare davanti ad una fatica che il mondo ti propone semplicemente di aggirare, di saltare come un ostacolo lungo la corsa. Eppure lì dentro c’è la storia che Dio ha scritto con la nostra stessa vita, con gioie dolori ed errori. Una storia che sempre generato vita. E che merita parole più vere di quelle illusorie che offre il mondo.

 

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Published on June 13, 2024 13:08

June 10, 2024

Pippo Corigliano: in missione per conto di Dio

di Costanza Miriano

“Salve, sono Pippo Corigliano. Ho letto del suo libro. Mi piacerebbe conoscerla. Se avrà la bontà di incontrarmi possiamo scambiarci i nostri rispettivi volumi con dediche”.

Il primo contatto fra di noi avvenne su Facebook. Quando mi scrisse un messaggio così, Pippo, per me era l’inarrivabile personaggio che era amico del Papa (il Papa con cui sono cresciuta, GPII) e di Navarro Valls, una specie di mito vivente, il prestigioso portavoce dell’Opus Dei, quello che ai tempi del Codice da Vinci aveva dovuto spalare montagne di balle sull’Opera, raccontata come la massoneria cattolica, una specie di mafia in talare. E io tra l’altro il suo libro già lo avevo, non era necessario per me andare a prenderlo, ma era lui che volevo conoscere. Ero emozionatissima all’idea di incontrarlo, mi ricordo che corsi da mio marito annunciando la mia decisione, quella che ogni saggia donna avrebbe preso in una circostanza del genere: vado all’OVS a comprarmi un golfino. (Certo sarebbe stato meglio da Chanel ma si fa quel che si può).

Arrivai alla residenza di via Pompeo Magno tutta emozionata.  Non escluderei di essere arrivata, stranamente, anche puntuale. Non vorrai mica far aspettare un ingegnere così importante? Ero intimidita e non sapevo come avrei potuto sostenere una conversazione con cotanto personaggio. Ne uscii un’ora dopo con le mascelle che mi facevano male dalle risate: inventava proverbi inesistenti, raccontava episodi esilaranti, incantava e interessava, sarei rimasta ore, se non fosse stato per il male alle mascelle. Aveva conosciuto mezzo mondo, e di sicuro tutta l’Italia che contava: però lui non cercava i potenti, lui conosceva le persone che erano dietro la facciata, ne voleva incontrare l’umanità perché desiderava che incontrassero Cristo. Uscii, insomma, completamente conquistata da quest’uomo che poi negli anni è diventato un caro amico di tutta la famiglia, a partire dalle nostre figlie femmine che adoravano i suoi complimenti eleganti e galanti ma sempre senza un pizzico di malizia. Quando riuscivamo ad averlo a cena, le ragazze non si staccavano dalla tavola, perché si sentivano apprezzate, valorizzate, guardate con affetto ma anche con ammirazione per la loro femminilità che negli anni lui ha visto sbocciare. Se dico “un gran signore” io penso a Pippo.

Come dicevo, i complimenti che faceva Pippo erano dei capolavori. Perché fra tutti i suoi talenti, quello che io più di tutti ho apprezzato, oltre all’umorismo, è stata la capacità di vedere il bello e il bene nelle persone. In questi dodici anni di amicizia non l’ho mai, e sottolineo mai sentito dire una parola negativa su nessuno. Se non c’era niente di bello da dire su nessuno parlava del tempo, o in casi estremi fingeva di non conoscere quella persona. O forse, mi viene il dubbio, non è che fingesse. Lui dimenticava proprio le cattiverie.

Ovviamente Pippo è stato molto più di questo che racconto. È stato un ingegnere prestato per oltre quaranta anni alla comunicazione dell’Opus Dei, alla quale aderì come numerario a 18 anni, folgorato dal Vangelo e da una vita tutta dedicata a Dio nel celibato, nonostante all’epoca avesse una fidanzata e dei seri progetti familiari. Quello che lo affascinava era la possibilità di vivere nel mondo ma completamente orientato a Dio, seguendo un piano di vita e un continuo lavoro su sé stesso, un lavoro spirituale che in lui aveva fatto meraviglie. Era stato vicino al fondatore dell’Opus Dei e poi aveva accompagnato l’Opera dagli anni ’70 in tutte le sue svolte più importanti. Come dicevo, ha conosciuto una gran parte dell’Italia che contava, me non era per quell’opaca ragnatela di relazioni che nascondessero chissà cosa – come è stata raccontata da certa stampa l’Opera fondata da Escrivà – bensì per un limpido desiderio di seminare Vangelo dove potesse portare più frutto, cioè nella vita di persone che a loro volta avevano influenza su altre. Una rete di bene, questo cercava di tessere Pippo. Per lui da questo nessun vantaggio personale, nessun arricchimento, anzi: viveva in una sobrietà rigorosissima.

E così capitava che raccontasse episodi inediti, tra gli altri, sul Papa, Montanelli, Messori, Mondadori, Bernabei, con il quale era oltre l’amicizia: si potrebbe parlare di Pippo ed Ettore come due fratelli. Quando io l’ho conosciuto era appena andato in pensione, aveva cominciato a scrivere libri (imperdibile l’ultimo su Sant’Alfonso) e mi ha cercata solo perché incuriosito da me. Non ha mai tentato di conquistarmi a nessuna causa, non mi ha mai chiesto o proposto nulla che non fosse una compagnia nella ricerca di Dio attraverso l’ironia, il divertimento, il sorriso. Mi viene in mente ora, tra i tanti episodi, un memorabile viaggio in macchina per presentare i nostri libri a Latina, tra buche della strada, risate, contemplazione della bellezza del creato (solo lui poteva vedere la bellezza nelle ex paludi pontine, ma si sa che sono gli occhi a fare la differenza) e decine di rosario che diventavano quindicine, perché ci distraevamo, e perdevamo il conto. Poi alla fine mi stupì con le litanie lauretane in latino, a memoria.

Il giorno del suo ultimo compleanno, il 31 maggio, l’ho chiamato per invitarlo a cena, e il suo entusiasmo da ventenne mi ha messo di buon umore solo al sentire il “pronto” squillante, con la r moscia da nobile napoletano (sì, era anche nobile di nascita).

Un caro amico ha voluto provvedere al dolce, e ha fatto fare due gigantesche torte, una a forma di otto e una a forma di due, con la scritta “Ingegnere, anche lei su questa nave?” che cita una celebre battuta dal suo Best seller, Preferisco il paradiso (se non lo avete letto dovete farlo, quella scena anche da sola merita l’acquisto). Pippo ha spento le candeline ridendo. Quando meno di 48 ore dopo ho saputo che era morto, ho avuto la certezza che la sua vita si era compiuta nel modo più bello. Perché lui davvero ha preferito il paradiso.

 

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Published on June 10, 2024 09:33

June 8, 2024

E ora sei con Lui!

Non ci credo, Pippo! Amato amico, maestro, fratello maggiore, zio per i nostri figli, simpaticissimo elegante intelligente uomo di fede, non puoi essere morto, hai spento le candeline l’altro ieri a casa nostra! Non ci credo… Eri come sempre dolcissimo, e profumavi di Cristo. E ora sei con Lui!

 

Contento

di Pippo Corigliano

Ho già scritto sul buon umore del cristiano ma mi sembra utile ritornare sull’argomento perché forse è più importante di ciò che appare. Scrivo ”forse” per correttezza ma non ho dubbi.

Stare contenti è essenziale per il cristiano perché così  si dimostra consapevole del gran contenuto  della grazia di Dio: “contento” viene da contenere.

Perciò mi sembra importante partecipare alla santa messa quotidiana, o almeno frequente, con la relativa comunione. E’ il mezzo a nostra disposizione per essere meno indegni del favore di Dio. Non siamo mai degni di ricevere il Signore. Ogni giorno mi sembra più evidente, ma Dio tutto può e così, malgrado tutto, lo riceviamo. Stare uniti a Gesù durante la giornata è il programma di vita che ci tocca. Gesù stesso ci aiuta ma la battaglia resta aperta.

Ci sono alcuni appuntamenti che servono per risvegliare il mio desiderio: per esempio il mezzogiorno con l’Angelus oppure la lettura del Vangelo e di un libro “spirituale”; l’esame di coscienza la sera o un tempo di meditazione alla presenza di Dio nel pomeriggio. Ciò nonostante arrivo alla sera insoddisfatto. Naturalmente sarebbe sciocco desiderare di essere “soddisfatto”, però si può fare di più senza essere eroi, come diceva quel tale. Cospargere la giornata di altri piccoli appuntamenti: questa è la strada. Stare contenti è il sintomo che la stiamo percorrendo, o quasi…

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Published on June 08, 2024 13:13

May 31, 2024

“ADORAZIONE: abitare nell’Eucarestia” – MonasteroWiFi Roma

Se esci dalla messa e due secondi dopo stai con le testa al cappuccino o al pranzo, ti perdi quell’intimità con Cristo che è il più grande regalo dell’eucaristia… Ecco, rimanere in Cristo è stato il tema dell’ultima catechesi al battistero, tenuta da don Fabio Bartoli, che qui vi proponiamo trascritta. E vi invitiamo alla prossima, tenuta da padre Nicola Commisso, che verrà a proporci un modo di vivere la Messa che può darci una consapecolezza e un’intimità nuove.Come sempre l’incontro si tiene dalle 21 al Battistero di San Giovanni in Laterano, ma dalle 20.30 saremo in una sala vicina (si entra sempre dalla sbarra della Lateranense, si può parcheggiare, parola d’ordine Monastero wifi) a fare uno spuntino insieme: siete tutti invitati, sia che portiate qualcosa, sia a mani vuote.L’ultimo incontro prima dell’estate sarà il 1 luglio.Qui sotto la catechesi di lunedì 6 maggio di don Fabio Bartoli

Monastero Wi-Fi Roma

CATECHESI del 6 MAGGIO 2024 di don Fabio Bartoli

“ADORAZIONE: abitare nell’Eucarestia”: la continuità tra la Santa Messa e l’adorazione

Ci mettiamo, per prima cosa, alla presenza di Dio: “ Nel nome del Padre….Gloria al Padre….Amen. Madre della Sapienza prega per noi, San Tommaso D’Aquino prega per noi…”.

Allora, prima di tutto sento il bisogno di confessare una mia mancanza. Mi spiego meglio; sapete che in questo periodo nella nostra parrocchia, un po’ in tutte le parrocchie naturalmente, stiamo facendo le prime Comunioni, e questo significa che il tempo dei poveri vice-parroci è molto complicato.                                                                   Allora avevo pensato di ricorrere ad un vecchio trucco, da predicatore esperto: cioè quello di tirare fuori una scheda di un ritiro che avevo fatto anni fa, e di rivenderla…. Per cui ho detto a Costanza va bene, commentiamo l’Adoro Te Devote, tanto poi ero sicuro che nel computer avrei trovato la scheda in questione.

Stamattina vado, e la scheda in questione…. Non c’era! Quindi ho detto: “Vabbè, poco male, prego un po’ oggi, studio un po’ e… oggi naturalmente è successo di tutto…. E quindi , a questo punto,  non rimane che farsi prendere per mano dallo Spirito Santo, e sperare che ci porti Lui.

Io ho abbastanza chiaro da dove voglio partire, e dove voglio andare.                                     Tutto quello che succederà nel mezzo non lo so. Sinceramente non lo so. Quindi vedremo un po’ appunto, cosa ci suggerisce il Signore.

La prima considerazione che volevo fare con voi è legata al Vangelo di ieri.                     Avete sentito il Vangelo si ? Ecco, c’è una parola chiave, che è essenziale per capire l’Eucaristia. Non capiamo l’Eucaristia se non partiamo da quella parola, che è il verbo RIMANERE.

Il vangelo di Giovanni è tutto centrato su quest’idea del “rimanere”.                         Specialmente l’ultimo e straordinario discorso di Gesù, il cosiddetto discorso dell’addio, quello che comprende i capitoli dal 13 fino al 17. “Io dal Padre, il Padre in me, voi in me nel Padre,  rimaniamo l’uno dentro l’altro. Rimanete nel mio amore , se conoscerete la Mia Parola rimarrete nel mio Amore”.

Decine di volte lo ripete, “ Rimanete”.  Del resto fin dall’inizio Giovanni ce lo presenta così:  “ Il Verbo è venuto per rimanere, ha posto la Sua tenda in mezzo a noi”.  Dunque, appunto, è venuto a “Rimanere”.

Nel battesimo di Gesù nel Giordano, lo Spirito Santo scende, e rimane su Gesù, e così via.  Continuamente Giovanni usa questo verbo “Rimanere“, che è fondamentale, e si capisce, perché chi ama rimane.

Il rimanere è proprio una caratteristica essenziale dell’amore; e si capisce che facciamo così fatica a capirlo , in questo nostro tempo così fluido, così mobile, no… c’è l’esaltazione della mobilità : il lavoro mobile, l’abitazione mobile,… la donna è mobile… qual piuma al vento…e così via.. allora viviamo in un tempo fluido.

Ecco, questa idea del rimanere ci risulta estranea, anche forse perfino un po’ fastidiosa… sempre uguale, sempre la stessa cosa eh; si, si, sempre  uguale, sempre la stessa cosa, perché questa qui è la natura dell’amore.                                                         L’amore consiste nel rimanere, nel non andarsene, nel non avere paura di restare anche nel momento della difficoltà, anche nel momento della paura, anche nel momento dell’incomprensione. L’amore consiste nel rimanere: chi ama rimane.

Chiaro che Gesù non poteva non desiderare di rimanere con noi.                                                      E l’Eucaristia è proprio il modo che Lui ha inventato per rimanere con noi.

Ad un certo punto il popolo cristiano ha cominciato a sentire il desiderio di rimanere con Gesù,  visto che Gesù vuole rimanere con me; però per rimanere bisogna essere in due, e allora dovremmo anche noi desiderare di rimanere con Lui.

L’adorazione eucaristica nasce precisamente come una risposta a questo desiderio del popolo cristiano di rimanere con Gesù.

E notate che è una cosa piuttosto recente eh… per tutto il primo millennio cristiano non si parla di adorazione eucaristica.                                                                                               Diventa veramente popolare soltanto dopo il Concilio di Trento.  Forse il frutto più bello del Concilio di Trento è l’adorazione eucaristica.

Perché?  Perché i Padri Conciliari la vedono, giustamente, in funzione anche dei luterani.

Come sapete, i nostri fratelli luterani hanno un’idea dell’Eucaristia completamente diversa dalla nostra.  Per loro l’Eucaristia è un simbolo, dunque non c’è una permanenza, e allora, naturalmente, non ha senso un’adorazione eucaristica in un contesto protestante, perché Quello è soltanto un pezzo di pane che mi ricorda Gesù: mi metto davanti una fotografia dell’attore che fa The Chosen, ha lo stesso effetto, no..?                                                                                                                                                     In realtà no, in realtà appunto l’esperienza cattolica è tutta centrata su questo, e nel corso dei secoli, dal Concilio di Trento ad oggi, l’adorazione eucaristica acquista sempre più significato, sempre più importanza, sempre più valore, e ha forgiato centinaia di santi.

Oggi è talmente intrinseca alla spiritualità cattolica, l’adorazione eucaristica, che quasi non ci viene in mente un altro modo di pregare.                                                                       Se noi pensiamo alla preghiera, intesa come momento individuale, contemplativo, personale , la pensiamo davanti al Santissimo Sacramento.

È sorprendente immaginare che almeno fino a sei, sette secoli fa, nessuno la immaginava così la preghiera personale.

La preghiera personale si faceva di solito all’aperto, in uno spazio verde, per lo più, potendo, in qualche giardino – ecco perché i conventi hanno questi giardini meravigliosi – ma non c’era l’idea di fermarsi a pregare davanti al tabernacolo.

Questa è proprio una intuizione – ripeto – recente, ma che è diventata talmente intrinseca – per fortuna eh, sono felice di questo, che sia diventata così intrinseca – è diventata talmente intrinseca al nostro popolo che non riusciamo a pensare la preghiera diversamente da questo.

La maggior parte di voi siete abbastanza giovani per non ricordare che, negli anni 80, nella facoltà pontificia, c’era un po’ di casino. Io ricordo, in quel periodo, una discussione molto accesa che ebbi – ahimè – con un professore (di cui taccio il nome per carità cristiana) proprio a proposito dell’adorazione eucaristica. Questi diceva anche in tono piuttosto veemente: “ma se Gesù avesse voluto essere adorato, avrebbe scelto di farsi pietra non di farsi pane. Si è fatto pane perché vuole essere mangiato non perché vuole essere adorato”. Questo per dire il clima culturale di quel tempo.

Come spesso succede alle idee balzane, la storia lo ha giudicato in maniera piuttosto impietosa, diciamo così … e va bene… Ma lo dico per dire che, fino a poco tempo fa, realmente, c’era ancora un certo sospetto, una certa diffidenza verso questo modo di pregare: troppo intimista, troppo personale, troppo individuale.

In quel periodo si puntava tanto sul collettivo, si puntava tanto sull’esperienza comunitaria, quindi c’era una bella attenzione alla liturgia, lodevole, non dico di no, mancava questa dimensione personale, mancava questa dimensione individuale.

Il mio obiettivo, dove voglio arrivare, appunto, è farvi comprendere come la messa e l’adorazione eucaristica non sono due cose contrapposte, ma sono il logico prolungamento l’una dell’altra e sono due aspetti di un’unica cosa, due facce di una stessa medaglia. Questo appunto è il punto di arrivo.

Per partire ecco partiamo dall’ Adoro Te devote. Questo testo che ho in mano, formidabile, che è presumibilmente scritto da San Tommaso D’Aquino, dico presumibilmente, perché non abbiamo attestazioni di questo inno se non la prima, la più antica che abbiamo, è di 50 anni dopo la morte di San Tommaso, quindi non siamo sicurissimi che lo abbia proprio scritto lui. Però diciamo che è quanto meno probabile, sarebbe uno dei cinque inni che San Tommaso ha scritto, commissionato da papa Urbano IV, in occasione della costituzione della festa del Corpus Domini.

Ora a prescindere dal fatto che l’abbia scritto San Tommaso o meno – in realtà questo è un dettaglio secondario –  l’Adoro Te Devote è un testo di una ricchezza spirituale pazzesca e mi piace commentarlo con voi perché siccome di solito lo si legge in latino (e meno male perché le traduzioni, compresa questa che abbiamo qui adesso, sono piuttosto spaventose, senza offesa per chi lo ha tradotto, ma è difficile il latino dell’Adoro Te Devote), allora meno male che lo cantiamo in latino perché così non ne perdiamo il senso. Però bisogna conoscerlo.

Adoro Te devote , latens Deitas,/ Quae sub his figuris vere latitas: / Tibi se cor meum totum subiicit, / Quia te contemplans totum deficit.

Ti adoro devotamente – se permettete traduco io, voi seguite la vostra traduzione, io correggerò due o tre parole – Ti adoro devotamente, Dio nascosto, che veramente Ti nascondi sotto questa apparenza – evidentemente l’apparenza del pane eucaristico a Te tutto il mio cuore si sottomette perché contemplando Te tutto svanisce.

Fermiamoci su questa prima strofa un momento. “Latens Deitas, Dio nascosto, le Verità nascoste…, il Dio della Bibbia è un Dio che ama nascondersi. Perché Dio si nasconde? Dio si nasconde perché vuole essere cercato. Dio si nasconde perché nascondendosi ci incita. È come se si ritirasse apposta per eccitare il nostro desiderio, per stimolarci a cercarlo di più. È una strategia di seduzione tipica, sono sicuro che non sto dicendo niente di nuovo.

Mi nascondo per essere cercato e in questo modo eccita il nostro desiderio, aumenta la nostra volontà di cercarlo. Si nasconde dietro il volto del nostro prossimo, si nasconde dietro il volto del cosmo, si nasconde dentro la Parola, si nasconde in tutti i sacramenti. Si nasconde perché noi non potremmo sopportarne la visione diretta. Anche vedendolo nascosto, appunto, facciamo questa esperienza che davanti a Lui “Te contemplans totum deficit”, quando Lo guardiamo tutto svanisce.

Svaniscono i problemi, svaniscono le difficoltà , svaniscono le paure.

Come diceva Leopardi un grande mare in cui “è dolce naufragar”, con la differenza che in Leopardi questo naufragare era un mistero sconosciuto, per noi è naufragare in un mistero conosciutissimo.

Ci sono due eccezioni in italiano della parola mistero: si può dire mistero nel senso di qualche cosa che non si può conoscere, qualcosa che è al di là della nostra comprensione, troppo oscuro per esser visto; oppure si può dire mistero anche di qualche cosa di talmente grande che ci separa in ogni direzione. In questo caso la non conoscibilità del mistero non dipende dal fatto che il mistero è troppo scuro ma dal fatto che è troppo luminoso.

Non posso conoscere il mistero eucaristico perché non posso sopportarlo, è come se cercassi di guardare fisso il sole, dopo un po’ mi brucerebbero le retine!.
Totum deficit”: tutto viene meno, è talmente grande questa realtà che mi sgomenta. È talmente grande la realtà eucaristica che mi incute timore.

È il timore di Dio. Oggi va di moda dare a Gesù dell’amico, del compagno. Lui lo è, non è che non lo sia, ma accanto a questo è il Signore e guai a dimenticarlo perché allora lo facciamo una sorta di pupazzo buono per ogni cosa. Invece l’eucarestia ci pone continuamente davanti a questo mistero e ci suggerisce questa diminuzione del timore.

La vista, il tatto, il gusto con te falliscono. Solo l’udito crede con sicurezza..” cosa sta dicendo S.Tommaso?

Sta dicendo che non credo nell’eucarestia per esperienza ma per fede e la fede nasce dall’ascolto, dall’udito. Ecco perché solo l’udito crede con certezza.

Credo perché credo a quella Parola, “quidquid dixit Dei filius”. Credo a tutto ciò che ha detto figlio di Dio. Nulla è più vero di questa Parola di verità.

La fede nasce dall’ascolto: anche qui il legame tra l’eucarestia e la Parola è un legame intrinseco, strettissimo, è la Parola che ci porta all’eucarestia, senza la Parola l’eucarestia resta un mistero incompiuto, troppo alto, troppo lontano, irraggiungibile. È la Parola che mi porta lì ed ho bisogno della Parola per arrivare davanti al Signore e poter rimanere lì.
Sulla croce era nascosta solo la divinità. Mentre qui ugualmente è nascosta pure l’umanità. Dunque mentre Gesù morendo sulla croce nasconde la sua divinità, mentre la sua umanità è evidente proprio nel fatto che sta morendo, qui nel pane eucaristico è nascosta sia la divinità che l’umanità. Eppure credendo e confessando l’una e l’altra, cioè la divinità e l’umanità, chiedo ciò che ha chiesto il ladrone penitente, quello che moriva accanto a Gesù sulla croce, quello che gli ha detto:” Signore, ricordati di me quando sarai nel tuo regno!”. Così, come S Tommaso, cioè non vedo le tue piaghe quelle che ha visto S Tommaso, ma tuttavia come lui io ti confesso ”Mio Signore e mio Dio”.

Ecco, questa è la prima preghiera da fare durante la celebrazione eucaristica. S.Tommaso ci sta offrendo un modello di preghiera. E come S.Tommaso protende la mano nella ferita di Cristo, attraverso il pane eucaristico io protendo per così dire i miei occhi dentro il Gesù crocifisso, perché è quello che era nascosto sulla croce e continua ad esser nascosto nel pane. Innanzitutto perché il pane eucaristico è il memoriale della morte del Signore, quindi è quel Gesù morente che io vedo in quel pane.

Come Tommaso quindi stendo, protendo me stesso dentro questa ferita e prego: mio Signore e mio Dio.

C’è tutta una spiritualità medioevale, San Francesco (ma anche prima di San Francesco) che invoca di nascondersi dentro le ferite del Signore, conoscete sicuramente l’inno anime Christi, “intra vultiera tua absconde me”, dentro le tue ferite nascondimi.

Cosa vuol dire? Come si fa a nascondersi? Un po’ cruenta anche l’immagine, fra l’altro; se voi doveste pensare così, fa un po’ senso!

Cosa vuol dire nascondersi dentro le ferite di Gesù? Vuol dire questo: vuol dire rifare la stessa esperienza di San Tommaso: stare davanti a Gesù nello stesso modo, contemplando la stessa ferita, contemplando lo stesso squarcio d’amore verso di te e dirgli, nello stesso modo, mio Signore e mio Dio!

E ti credo che di fronte a questo, totum deficit, tutto scompare; se arrivi a focalizzare questo dentro di te, veramente, al paragone di questo, tutto scompare.

“O memoriale della morte del Signore”. Il memoriale è qualcosa di più di un ricordo, non è semplicemente un ricordo. È un ricordo che rende presente.

In genere quando spiego ai bambini del catechismo questa cosa utilizzo, per capirci, l’immagine della fede nuziale. La fede nuziale non è semplicemente un ricordo del matrimonio, in qualche maniera è qualcosa che rende presente il matrimonio, tant’è vero che se un uomo vuole tradire sua moglie per prima cosa si sfila la fede vero? (voi non ne avete esperienza, per carità!).

Però è importante capire questo: non è semplicemente un oggetto estrinseco che mi ricorda qualcosa, capite? Ma è la stessa sostanza dell’evento che è reso presente dal memoriale. La bandiera è il memoriale di un concetto astratto come la patria, ma in un certo senso la rende presente, tant’è vero che addirittura la legge italiana, non so adesso, ma almeno una volta, riconosceva il reato di vilipendio della bandiera.

Dunque, l’Eucarestia è un memoriale, cioè, è qualche cosa che rende presente la morte del Signore.

Così torniamo al discorso del rimanere. Se mi permettete il gioco di parole, non rappresenta ma ripresenta, cioè, rende nuovamente presente.

A un certo punto, specialmente seguendo la filosofia scolastica, ci siamo imbarcati in una serie di discussioni infinite a proposito di essenza, di sostanza, per capire in che modo fosse possibile questa benedetta presenza reale dentro il pane Eucaristico.

Non è mia intenzione stasera annoiarvi con queste questioni che sono estremamente sofisticate e, oltre tutto secondo me, lasciano il tempo che trovano; trovo più bello lasciare spazio al mistero piuttosto che pretendere di spiegare tutto. Io più che un teologo sono un poeta e ragiono da poeta. E ragionando da poeta mi sembra perfettamente comprensibile quello, perché provo a capirlo al rovescio. Mi spiego meglio. In che senso dentro questo pane c’è la presenza reale di Gesù? Che cosa è questo pane?

San Paolo ci dice che alla fine dei tempi tutto sarà Eucarestia. Ci dice che Gesù Cristo sarà tutto in tutti; dunque, non soltanto il pane Eucaristico sarà Eucarestia. Anche questo leggio a cui sono appoggiato sarà Eucarestia, anche la balaustra a cui si regge il leggio sarà Eucarestia, anche il microfono dentro cui sto parlando sarà Eucarestia, io sarò Eucarestia.

Se Cristo sarà tutto in tutti, allora tutto è Eucarestia. Quel pane è un pezzo del mondo nuovo trapiantato nell’oggi. È una anticipazione di ciò che tutti noi saremo alla fine dei tempi

In questo è presenza reale del Signore, perché anticipa la realtà di quello che sarà tutto il mondo. Tutto il mondo è in cammino verso l’eucarestia, tutto il mondo è in un processo di EUCARESTIZZAZIONE, se così si può dire, ma compreso evidentemente.
Allora questo vuol dire “memoriale”, capite.

Tutto questo sta dentro questa parola, “MEMORIALE”, bellissima.
Pane vivo che dai vita all’uomo

Sant’Agostino spiega questa cosa in maniera molto divertente, lo dicevo l’altro giorno ai bambini della prima comunione e si sono fatti un sacco di risate. Dice Sant’Agostino “se io mi mangio una bistecca, quella bistecca diventa parte di me, non tutto, parte la butto via, ma il grosso, la parte importante diventa me in un certo modo. Il Pane Eucaristico è diverso, se io mangio di quel pane, io divento quel pane che mangio. Non sono io che trasformo il cibo in me, ma è il cibo che mi trasforma e mi rende più simile a Lui. Per questo, spiegavo ai bambini, c’è una comunione che conta molto di più della prima comunione, che è la seconda comunione, e più della seconda comunione conta la terza, e poi la quarta perché evidentemente non serve a niente fare la comunione una volta sola. Se ogni comunione è un passo avanti in questo processo di CRISTIFICAZIONE, quando avrò fatto 10mila comunioni, forse sarò più vicino a essere Cristo di come sono adesso, capite. Appunto perché, più mi comunico più mi cristifico. Questo avviene nella Santa Messa.

Come avviene nell’Adorazione? In realtà è la stessa cosa. Ed è la stessa cosa per un principio molto semplice e molto umano, molto naturale. Gli uomini diventano ciò che ammirano. Ci avete mai fatto caso. Le vostre figlie si vestono come le cantanti che gli piacciono, le attrici che gli piacciono. I vostri figli vanno alla scuola calcio, sognano di essere Totti, sognano di essere Dibala; si vestono nello stesso modo, si atteggiano, si pettinano, fanno gli stessi gesti.

Gli uomini diventano ciò che ammirano. L’ammirazione è la cosa del linguaggio laico più simile alla contemplazione. L’uomo è l’unico animale capace di ammirare e quindi a fortiori è l’unico animale capace di contemplare. Ecco io più ammiro e più contemplo e più assomiglio a ciò che ammiro e che contemplo. Quindi, così come nutrirvi dell’Eucarestia, vi rende sempre più simili a quel pane che mangio; così contemplarla mi rende sempre più simile a quel Cristo che “vere latitas, veramente è nascosto dentro quel pane.

Praesta meae menti de te vivere Et te illi semper dulce sapere”.  Che meraviglia “Dona, concedi al mio spirito, alla mia anima di vivere di te e di gustarti sempre dolcemente”.

E qui mi piace notare che San Tommaso si contraddice, succede raramente, ma quando succede mi piace mettere il dito “Tommaso si è contraddetto” perché un attimo prima aveva detto che il gusto falliva nel conoscere Gesù, e invece qui dice io voglio sentire il sapore di Gesù sulle labbra. Ma non è una contraddizione, perché non sta parlando del gusto della lingua, sta parlando di un altro gusto, di quel gusto che è il SENSO SPIRITUALE.

Che cosa vuole dire? Che cos’é il senso spirituale? Il senso spirituale è il senso della presenza di Dio. Ce l’hanno tutti, anche i non credenti.

Altri lo chiamano il senso religioso, ma il concetto è lo stesso. Cioè è la consapevolezza del fatto che qui qualcosa di più grande è presente. Qui qualcosa di più grande sta agendo, e quel senso di dolcezza, di stupore, di incanto che ti prende in quel momento. Parlando un attimo di Leopardi, Leopardi è cintura nera di senso religioso. Ma c’è né tanti, di non credenti che hanno fortissima questa esperienza del senso religioso. Noi siamo più fortunati perché gli possiamo dare un nome, è il GUSTO DI DIO, LA DOLCEZZA DI DIO.

Diadoco di Fotice, Padre della Chiesa, dice “quando l’organismo è sano, l’uomo è capace di sentire questo gusto.” Cioè riconosce quella dolcezza che nasce dal senso della presenza di Dio.

Cerco di farvi capire con un esempio: quando posso a me piace tanto andare a pregare la liturgia delle ore in qualche abbazia, generalmente Cistercensi, cantano molto bene i cistercensi. Quando ascolto il canto dei vespri, di compieta; la compieta cistercense è un canto che… ecco io faccio diverse esperienze. Faccio l’esperienza dei sensi, quelli fisici, la bellezza dell’architettura, la bellezza della musica. Dunque c’è una prima esperienza di dolcezza che è legata ai sensi fisici. Poi c’è un esperienza di dolcezza che è legata alla mente, quelli che potremmo chiamare i sensi intellettuali.

Cioè sono lì, penso alla santità di questi monaci, penso alla loro devozione e questo mi comunica ugualmente un senso di dolcezza.

Però, se sono onesto con me stesso, devo dire che c’è un terzo livello, che non dipende né dall’intelligenza, né dai sensi fisici: io sento, so, che Dio è lì.

Ed è questa la vera dolcezza, quella che non si può paragonare con nient’altro, che proverei anche in una chiesetta di campagna deserta, senza tutto l’apparato e l’ambaradan dei monaci cistercensi. “Praesta meae menti de te vivere…”, dona alla mia anima di vivere di te, “…et te illi semper dulce sapere.”, e di sentire il tuo sapore dolcemente.

A proposito di cistercensi, San Bernardo di Chiaravalle spiegava questa cosa della dolcezza di Dio con un inno famosissimo, “Jesu dulcis memoria”, con delle parole che probabilmente nessun altro ha mai detto di uguale. Dolce memoria della presenza di Dio, che dai veramente gioia al cuore, “Jesu dulcis memoria, dans vera cordis gaudia”. “Sed”, tuttavia (nonostante che la memoria della presenza di Dio sia così dolce), “super mel et omnia”, ancora più del miele e di qualsiasi altra cosa, la sua dolce presenza. La memoria di Dio è dolcissima, la memoria di Gesù è dolcissima, ma la sua presenza è più del miele (super mel et omnia), più del miele e di qualsiasi altra cosa. E’ dell’eucaristia che sta parlando San Bernardo, eh?

Con tre secoli di anticipo, quattro secoli di anticipo, perché, come vi ho detto, non era così popolare ai tempi di San Bernardo l’adorazione eucaristica; lui aveva già capito tutto: non per nulla era San Bernardo!

 

“Oh pio pellicano”: vi sembrerà strano questo appellativo rivolto a Gesù come pellicano. In che senso Gesù è un pellicano? Dovete sapere che nella mitologia medievale il pellicano (ma non è vero storicamente, però nel medioevo così credevano) aveva questa abitudine di nutrire i suoi piccoli, in caso di necessità, ferendosi sul petto e nutrendoli con il suo sangue. In questo modo da qui si capisce l’immagine: cioè Gesù è il pellicano divino che si ferisce, o meglio che si lascia ferire, pur di nutrirci con il suo sangue.

O Pio pellicano, signore Gesù,me immundum munda”, purifica me che sono impuro con il tuo sanguecuiusdel quale una stilla, una sola goccia, “salvum facere totum mundum”, può salvare tutto il mondo.

Una sola goccia del sangue di Gesù può salvare tutto il mondo e Gesù quel sangue lo ha versato per me. Oh Gesù che ora guardo nascosto, ti prego, “oro fiat illud quod tam sitio”, ti prego perché accada quello che tanto desidero, affinché contemplandoti con il volto rivelato, “ut te revelata cernens facie, visu sim beatus tuae gloriae”, “affinché contemplandoti io finisca con l’assomigliarti”, quello che dicevamo prima: l’uomo diventa ciò che adora. Allora la preghiera finale di San Tommaso davanti all’eucaristia è questa: Signore fammi diventare come te, rendimi uguale a te, voglio essere come te, voglio somigliarti. Mio Signore e mio Dio (abbiamo detto), nascondimi nelle tue ferite (abbiamo detto), fammi sentire la tua dolcezza (abbiamo detto), ma lo scopo di tutto è questo (è lì che voglio arrivare): voglio essere come te, fammi come te, rendimi come te.

Ora, in che modo tutto questo si lega alla Santa Messa?

In una maniera fondamentale. Abbiamo detto che il Signore vuole rimanere, che il mistero dell’eucaristia è fondamentalmente un rimanere. Bene, quando noi facciamo la comunione tutto questo che io mantengo è dentro di me, realmente e mi si stringe il cuore, come prete, vedere alla fine della messa la gente che fugge e scappa via. Di solito, tipicamente, c’hanno i bambini sul collo che battono e piangono e quindi scappano di corsa, ma in realtà molte volte nemmeno quello: hanno soltanto bisogno di mettersi a chiacchierare.

E’ impressionante la rapidità: a volte, manco il tempo di dire il canto finale e già stanno lì a chiacchierare…. Ma volete dare due minuti, dedicare due minuti a contemplare il Signore che è presente dentro di voi, a gustarvi questa presenza che rimane.

C’è una messa, che dovrebbe essere il prototipo e il modello di tutte le messe, che si conclude con l’adorazione eucaristica, proprio è previsto statutariamente dal messale, ed è la messa del giovedì santo.

La messa del giovedì santo è l’unica messa che i non si conclude con i riti della benedizione, ma sfocia in maniera naturale nell’adorazione eucaristica. E quindi, al termine della messa, tutti accompagnano il Santissimo sacramento all’altare della reposizione e il popolo di Dio è invitato a rimanere in adorazione. Questo dovrebbe accadere in ogni messa. Qualche sacerdote un pò più coraggioso, dopo aver fatto la purificazione dei sacri vasi, ha il coraggio di mettersi seduto e di invitare il popolo di Dio a fare un momento di silenzio, che in genere dura pochi secondi, perché cominciano i brusii, le chiacchiere… allora a quel punto il prete si alza e finisce la Messa perché tanto non serve a niente che sta lì seduto se deve far chiacchierare la gente….ma…capite il valore, l’importanza di questa cosa?

Ci sono tre momenti di silenzio nella Messa e sono pochissimi i preti che li rispettano tutti e tre.

Il primo è all’inizio…c’è la colletta, quando il sacerdote dice: “Preghiamo”…poi fa una pausa di silenzio, pensa te!

Quella pausa di silenzio è fondamentale, perché quel “Preghiamo” non è tanto per dire…quel “Preghiamo” significa che tutte le vostre preghiere…voi siete venuti qui perché ognuno c’ha la sua preghiera dentro il cuore…c’ha uno che cerca lavoro, uno che c’ha il parente ammalato, uno c’ha il figlio che deve far l’esame…un’infinità di motivi…li mettiamo tutti insieme, li raccogliamo…per questo l’orazione si chiama “colletta” perché raccoglie le preghiere di tutti.

“Preghiamo”, attimo di silenzio, ognuno presenta a Dio la sua preghiera, il sacerdote le raccoglie e le presenta a Dio…primo momento di silenzio.

Secondo momento di silenzio…anche qui lo fanno in pochissimi: terminata l’omelia il sacerdote si siede…quel minuto o minuto e mezzo serve a darvi tempo di decantare, di memorizzare, di assorbire la parola che avete ricevuto…ora, già ti dicono che sei lungo quando parli più di dieci minuti, figurati se fai un minuto di silenzio dopo! Però di per sé andrebbe fatto.

Terzo è questo di cui stiamo parlando…è il silenzio dell’Adorazione Eucaristica che non va fatto al momento della consacrazione…ci sono sacerdoti che tengono alzato il calice e le specie consacrate per minuti …allora, se stai celebrando da solo lo puoi fare, ha senso, ma in una celebrazione comunitaria non mi piace…non mi piace perché in realtà è un invito a fermare l’attenzione quando il mistero è ancora incompleto…è meglio fermare l’attenzione dopo che hai fatto la Comunione perché a quel punto il percorso dell’Eucarestia è completato …capite?…a quel punto l’Eucarestia è dentro di te e quindi è la presenza dentro di te che stai adorando, che stai venerando…non la vedi con gli occhi ma ce l’hai dentro, dentro al cuore e puoi sentire di più quel gusto di cui sopra.

Secondo la prescrizione liturgica quello è il terzo momento di silenzio della Messa e appunto, ahimè, anche lì…

Bene…allora…è bene concludere la meditazione con un invito pratico…l’invito pratico è questo, è molto semplice: scopriamo in silenzio l’Eucarestia al termine della Messa…se il sacerdote ha fretta di dare la benedizione e concludere, nulla vi vieta di fermarvi voi invece di fuggire a chiacchierare!

Concedetevi cinque minuti per adorare la presenza di Gesù dentro di voi…sono abbastanza sicuro che presto vi accorgerete che il tempo non vi basta…presto i cinque minuti diventeranno dieci, non perché ve lo dice qualcuno ma perché sarà il desiderio naturale del cuore, perché vi accorgerete che non è la stessa cosa rispetto ad altri momenti di preghiera e non è la stessa cosa perché realmente avete presente Gesù in voi…capite?…sentirete la differenza.

Bene, io avrei finito…sono arrivato dove volevo arrivare…adesso è molto più importante capire che cercheremo di tradurre in pratica tutto questo insegnamento mettendoci veramente alla presenza del Signore che rimane con noi.

Grazie e buona preghiera.

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Published on May 31, 2024 06:13

May 21, 2024

Quando la tua storia fa un’inversione a U

Un estratto da un capitolo del mio libro Benedetto il giorno che abbiamo sbagliato – Manuale di manutenzione del matrimonio. Una parte della storia della mia amica Martina, pazza come un cavallo, (il nome è falso ma la storia no) e di quel tedesco fighissimo e del suo innamoramento per il Signore che è meglio pure del tedesco cogli addominali di pietra.

di Costanza Miriano

[…]  Tu, Martina, hai avuto bisogno della rigidità iniziale per trovare un equilibrio, dopo essere stata una scheggia impazzita che elemosinava identità e approvazione innamorandosi pure dei pali della luce; come dici tu, hai trascorso «molti momenti giusti con tanti uomini sbagliati».

Adesso, però, smetti di fare la bigotta (spero che tu non ti offenda: il mio padre Emidio lo diceva sempre anche a me, quando volevo cambiare il mondo a forza di novene): temo di vederti comparire da un momento all’altro con una gonna a metà polpaccio e la calza color carne, ma non penso che sia la naturale reazione alla Martina in short inguinali e top micro (ci si può pure vestire da gente normale, sai?). Ora che ci ripenso, hai fatto casini veramente monumentali: ti ricordi di quello che è venuto a Creta quand’eri in vacanza con le amiche? L’avevi costretto a lasciare la fidanzata di sempre, solo che tu nel frattempo avevi cambiato idea, era tutto sold out e non c’era modo di tornare in Italia quella sera; così lui ha dormito in giardino, su una panchina, perché in casa c’eri tu con un tedesco dalla tartaruga scolpita – era così fantastico a letto che non l’hai mollato un minuto, peccato che poi al ritorno non ti ricordavi neanche come si chiamava, e per noi rimarrà sempre ’Abbellicapelli. O quando hai rubato il ragazzo alla tua compagna di classe – violando l’articolo 1 del Codice dell’Amicizia fra Donne, «il ragazzo della tua amica per te è morto; se le piace soltanto, è in coma» (può rinvenire se lei si mette con un altro, ma solo dopo tre mesi) –, salvo poi scoprire che Dio non ci proibisce le cose perché è sadico, ma ci indica il male e il bene per darci qualcosa di più grande. Così, cercando questo bene più grande, hai cominciato ad accorgerti che esistono anche gli altri, perché non avevi più bisogno di trovare conferme piacendo a tutti; le persone non esistevano più in funzione tua, non avevi più bisogno di usarle, perché Qualcuno aveva saziato la tua fame.

Il regno di Dio è capire che Dio è nostro padre e noi siamo suoi figli, ma piano piano dobbiamo imparare a perdere tempo con Lui, cioè con i suoi figli. A volte non ci chiede grandi cose: possono bastare piccoli interventi da 007 a cambiare la vita delle persone, e non è neanche troppo faticoso. Spesso non desidera atti eroici da noi, ma ci chiede di essere suoi strumenti. L’esempio di amore che ci propone è il samaritano, uno a cui non viene chiesto di stravolgere la sua vita: raccoglie il ferito, lo porta in albergo, lascia i soldi e va via. Fare la cosa giusta, quella mirata che sia davvero utile, vale più di mille sacrifici. È per questo che per amare ci vuole intelligenza. Noi non possiamo cambiare nessuno, tantomeno il nostro sposo. Capisco che sia un grande dolore non condividere con lui il cammino di fede, la cosa più preziosa che hai, il punto più intimo del tuo cuore; lo capisco perché ci sono passata anch’io, per qualche tempo. Noi, però, di fronte alla libertà dell’altro non possiamo che fermarci. Cristo promette pienezza e salvezza, ma non tutti le vogliono davvero. C’è una cosa che possiamo fare, questo sì: essere cristiani credibili. Dio ha te per agire, Martina. Ha noi.

Prendiamoci cura di qualcuno che gli sta a cuore, cioè la gente odiosa, quella che appiccicheremmo al muro. La tua vita di fede, la tua vita in generale dà una svolta quando cominci a prenderti cura di ciò che era perduto; quando, per grazia, intercetti la volontà di Dio e cambi i tuoi programmi per farla. È questo che interroga chi ci sta vicino: vedere che perdiamo qualcosa di nostro, che ci becchiamo il male degli altri. È l’unico modo che abbiamo per toccare i cuori, per diventare soci di Dio. Allora, quando qualcuno ti provoca o ti offende, anziché reagire allo stesso modo ricordati che è un fratello da salvare (vale anche per i colleghi, pensa). Devi beccarti il male degli altri. Tutti noi siamo malati nelle reazioni, nelle scelte, nelle abitudini; tutti noi facciamo pensieri orribili, insensati, indicibili; se si alzasse il sipario sul nostro cuore, si scoprirebbe che siamo tutti un po’ fuori di testa, almeno a momenti.

La tentazione a cui si cede più spesso è il rifiuto della realtà (perciò la tecnologia sta aumentando i disturbi mentali, ma questo sarebbe un altro tema a parte). Dietro ogni mormorazione c’è qualcuno che non vuole stare al suo posto. Quello che ci viene chiesto, invece, è di arrenderci alla nostra storia anche quando non la capiamo, perché oggettivamente sono tante le cose incomprensibili, il caos impazza, e alla fine a volte siamo un po’ fuori bolla anche noi. Pure la tua nuova versione saggia, Martina, non è che sia sempre proprio sana di mente, eh; il tuo perfezionismo coi figli ogni tanto mi inquieta: prendi esempio da me, che non mi sono neanche suicidata quando la maestra ha scoperto che la mattina non li lavavo né li sfamavo perché avevo troppo sonno; e non l’ho fatto neppure quando Tommaso, alle elementari, ha detto in classe che avrebbe voluto essere irlandese per potersi ubriacare prima del tramonto. Si possono avere figli imperfetti essendo comunque buone madri. Piuttosto, cerca di ricordare che avresti potuto non riceverlo mai questo regalo, che sei stata miracolata. Il Signore è cortese e all’inizio ha tanta pazienza con noi, poi quando ingrani vai veloce, diceva sempre padre Emidio. A quel punto, Dio vuole che ci prendiamo cura degli altri, che andiamo da chi ha bisogno di noi: si tratta di capire come muoverci, come fare finezze per le persone che Dio vuole riacchiappare, perché non può fare a meno di noi. Ci chiede di intervenire subito, in modo che poi Lui possa fare quello che deve. Abbi pazienza con tuo marito, che è il primo con cui devi cercare di applicare il Vangelo.

[…]

 

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Published on May 21, 2024 14:04

May 15, 2024

Felice errore. Ecco perché restare insieme conviene, sempre

 

di Raffaella Frullone  iltimone.org

Restare. Anche quando tutto intorno sembra suggerire di andare, anche quando la ragione lo dice. Rimanere. E far di tutto per far andar bene le cose. Perché è il Sacramento che rende vero il sentimento. Restare per una pienezza, quella promessa da Dio. Questa volta Costanza Miriano non esorta soltanto a dire sì, a lanciarsi nella luminosa, faticosa e rocambolesca avventura matrimoniale, ma vuole convincere chi è dentro una crisi a benedirla, ad affrontarla, a superarla e in ogni caso, a non lasciarsi. Whatever it takes. E’ il cuore del suo ultimo lavoro Benedetto il giorno che abbiamo sbagliato, edito da Sonzogno, che parte dal presupposto che non sono in pochi ad aver preso un abbaglio, e sono tantissimi, diciamo praticamente tutti, coloro che fanno fatica a vivere questo mistero in cui i due diventano una carne sola. Ne abbiamo parlato con lei.

Cinquant’anni dopo il referendum sul divorzio non si sentono molte voci,  anche in casa cattolica, sul tema, ora Costanza Miriano ha avuto l’ardire di scrivere un  libro, non è un azzardo?

«Venti anni fa perseguitavo le mie amiche per convincerle a sposarsi, adesso mi rendo conto, guardandomi intorno, che dobbiamo aiutarci a vicenda a vedere la bellezza nascosta tra le pieghe del quotidiano, ma facendo una rivoluzione copernicana: non chiederci se le cose vanno bene, ma come farle andare bene a qualsiasi costo. Le leggi cambiano la mentalità, e così ha fatto quella sul divorzio. Quando ci si sposa lo si fa pensando, in qualche angolo nascosto dell’inconscio, che se le cose non funzioneranno, ci sarà sempre il piano B. Anche chi non lo pensa è imbevuto di questa mentalità, ed è veramente da eroi opporvisi. Credo che le coppie che rimangono unite, non semplicemente insieme ma in comunione, oggi compiano un capolavoro, che questo libro vuole celebrare».

Non c’è il rischio che molte persone possano vivere questo libro, questo titolo, o la scelta di  affrontare questo tema, come un rigirare coltello nella piaga, un rinnovare sensi di colpa nei confronti di una strada, quella del divorzio, che hanno magari preso di malavoglia o peggio ancora subito?

«Spero proprio di no, perché come dicevo il contesto culturale oggi è tutto contro l’unità della coppia, e quindi credo che chi non ce la faccia abbia davvero tantissime attenuanti. Quindi far sentire in colpa è l’ultimo dei miei pensieri. Piuttosto spero che possa servire a qualcuno che sta combattendo per rimanere, perché si fermi a riflettere. Sapere che tutte le coppie vivono difficoltà simili, al netto delle differenze, secondo me è tanto consolante. Per esempio quando qualche mia amica dal matrimonio perfetto (o che a me da fuori sembra tale) ascolta qualche mia lamentela e mi dice “benvenuta nel club”, io la bacerei. Mi solleva e mi fa sentire normale, questo è lo scopo del libro. E poi penso sempre, ma questo perché io sono testarda, che ci sia quasi sempre un modo per recuperare, anche se ci si è già separati. Infine tengo molto al capitolo che invita i genitori a riflettere sulle sofferenze che dalle separazioni vengono ai figli, un tema rimosso e intoccabile. Bisogna per forza dire che se i genitori si separano in modo non conflittuale i figli non soffrono. Non è vero, anche se non si può dire (pensiamo alle polemiche sullo spot dell’Esselunga…)».

Mi pare che una delle illusioni più diffuse quando si parla di fatica e dolore dentro al matrimonio sia che con la separazione, o il divorzio, il dolore sparisca come per magia, lasciando spazio alla felicità, per tutti quanti. No?

«Ecco, appunto. Sulla sofferenza dei figli non ho dubbi. Certo, è ovvio che se i genitori si separano, meglio in modo abbastanza pacifico che conflittuale. Ma meglio di tutti è stare insieme, anche se c’è qualche conflitto. Però restare, tornare a dormire insieme la sera, scegliere di rimanere, è un grande segno per i figli. Vuol dire che vale la pena voler bene, sempre. Si può anche litigare (per me c’è solo il confine invalicabile della violenza fisica, quello è un altro tema, ricordo solo che in certi casi ovviamente anche la Chiesa suggerisce un allontanamento temporaneo, al fine di ricostruire). Il problema dicevo non è litigare, ma il non riconciliarsi. Si discute, si può fare anche un’urlata da perdere la voce ogni tanto (non è il mio stile, io piuttosto vado a correre per smaltire la rabbia, però capisco che possa succedere): l’importante è poi sedersi e parlare e usare la crisi per fare un passetto in avanti verso la comunione, che non è quello stato magico in cui si entra il giorno delle nozze, ma è piuttosto la meta finale. Se c’è conflittualità, lavorare per risolverla. E anche per gli adulti, che dopo il divorzio si stia meglio è tutto da vedere. Io penso che il nostro problema siamo sempre noi, la causa della nostra sofferenza è dentro il nostro cuore, ed è pericoloso accusare qualcun altro, perché quando lo elimini dalla tua vita scopri che stai male lo stesso».

Ma che fare se ci si rende conto di aver davvero sposato la persona sbagliata, di aver preso un abbaglio colossale, di essersi sposati per immaturità o per altre ennemila ragioni che nulla hanno a che fare con l’aver coscienza del Sacramento?

«A parte che come dice Chesterton tutti i mariti e tutte le mogli sono male assortiti, come un coltello e una forchetta, che però funzionano insieme, a parte questo sì, è vero, ci sono matrimoni più riusciti e altri oggettivamente più faticosi. Alcuni segnati dalla croce di una seria immaturità e infinite possibili problematiche. A volte ci si sposa per dei motivi che poi con l’evolversi della vita vengono meno. Si cambia, si cresce. Ecco, io credo che rimanendo fedeli alla storia in cui ci troviamo, ci salviamo perché non è il sentimento che fa vero il sacramento, ma il sacramento che fa sempre più vero il sentimento. Ho visto storie rifiorire, persone rinascere, ho visto la felicità riaffacciarsi, persone scoprire che avevano accanto la persona giusta, anche se prima non lo sapevano».

Stare quindi non significa per forza votarsi al martirio e vivere nell’eterno dolore della croce?

«Assolutamente no. Stare significa innanzitutto fidarsi di Dio, perché tu puoi sbagliare, ma lui no, e se hai sbagliato strada lui ricalcola il percorso (cit. don Fabio Rosini) e ti porta comunque alla meta. Stare vuol dire non vivere secondo il mondo, dove la gente si chiede solo come stare bene, non soffrire, ma vivere secondo il Battesimo, quindi per incontrare Dio. La croce ci trasforma e ci permette questo incontro. Perché – e chiudo citando il nostro amato don Vincent Nagle – l’inferno è quel posto dove si avverano tutti i tuoi desideri, ma non incontri nessuno».

fonte: IL TIMONE

fonte foto: Imagoeconomica

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Published on May 15, 2024 07:01

May 14, 2024

BENEDETTO IL GIORNO CHE ABBIAMO SBAGLIATO – Manuale di manutenzione del matrimonio

di Costanza Miriano

È uscito ieri il mio nuovo libro, “Benedetto il giorno che abbiamo sbagliato – Manuale di manutenzione del matrimonio” perché dopo avere cercato di convincere un po’ di gente a sposarsi (poi lascia stare che quasi tutti i miei tentativi di abbinamento sono andati a vuoto, la materia prima se la sono trovata da soli) mi è sembrato urgente convincere altra gente (o forse la stessa, ma con una dozzina di anni in più) a rimanere insieme. Non “tanto per”, ma in comunione vera, che è non lo stato iniziale del matrimonio, ma la meta finale. Diventare una carne sola è l’arrivo di un cammino di una vita, e vale la pena continuare a provarci. Non era calcolato, ma il libro è uscito proprio nei giorni dell’anniversario del referendum sul divorzio: sono cinquanta anni che hanno aperto per tutti noi l’uscita di sicurezza. Non voglio entrare nelle storie e nei dolori personali, ognuno conosce la propria, ma questo libro vorrebbe al contrario provare a dire che anche quando sembra difficile, vale la pena, anche se… anche se qualsiasi cosa. Vale la pena per i figli ma prima ancora per noi, perché il matrimonio, per chi è chiamato a questo, è il luogo della nostra conversione, è il posto dove sperimentare la salvezza. Ecco, nel libro l’ho detto molto meglio, spero, insomma ho usato le parole migliori che ho trovato. Pertanto qui pubblico l’introduzione, sperando che qualcuno abbia voglia di leggerlo.

Ps Per i maschi: se le vostre mogli vi costringono e non avete voglia, andate all’ultima pagina. C’è un decalogo per i mariti; dieci righe, ve la cavate in venti secondi. E se lei vi interroga, rispondete che avete studiato fino alla fine. Dai, è quasi la verità.

***

-Bello, ma forse dovresti ricordare che il matrimonio non è solo questa valle di lacrime, non è la terra di Mordor dove Sauron…

-Allora, ti fermo subito, amico che mi parti con le citazioni del Signore degli anelli, perché io non l’ho letto, non riesco mai a farlo slittare in cima alla pila, lo so, sono uno scarto della società, facciamo che me lo dico da sola e ti prometto che rimedierò o al più tardi me lo farò mettere nella bara, però non mi andare oltre col paragone perché poi non ti seguo. Soprattutto, io non volevo consigli, volevo solo complimenti e invece tu, siccome sei maschio, pensi di dover svolgere una funzione, tipo fare una lettura critica.

Detto questo, lo ammetto: questo libro racconta di matrimoni in cui uno dei due, o entrambi, a un certo punto o in molti punti sentono la fatica, o vengono sfiorati dal dubbio o assaliti dalla certezza di avere sbagliato, tentati dal pensiero di un’alternativa, oppure hanno chiarissimo che vogliono restare ma non sanno come. Sentono una mancanza, che – non vorrei svelare la soluzione del giallo – può colmare solo chi è più grande. D’altra parte, anche i discepoli di quello lì rimangono sconvolti e dicono che “allora non conviene sposarsi”. Tutti i matrimoni felici che ho incontrato sono così, figuriamoci quelli infelici, e ce ne sono.

Sicuramente il tuo è molto sopra la media, e probabilmente questo libro a te non serve. Non mi offendo, anzi sono felice per te. Certo vi siete scelti molto bene, e, certo, quello che manca alla pienezza sapete farlo colmare da Dio. Ma per tutti gli altri forse queste pagine possono essere un promemoria del fatto che la fatica non è mai un’obiezione, ma anzi un richiamo, è una nostalgia di pienezza, una nostalgia preziosa per ricordarci di mettere il cuore nella posizione giusta, orientato verso l’unico che lo sana, lo sazia, lo consola. Per questo possiamo dire “benedetto il giorno in cui abbiamo sbagliato”, perché tutti i matrimoni sono circostanze in cui cercare l’Altro uscendo fuori da noi, scomodandoci, accogliendo la conversione – piccola, a pezzi – che richiede quel mazzo di chiavi lasciato da tuo marito dove ti fa venire i nervi, o quella spocchia da Miss Punti Perfetti di tua moglie, per non parlare della spazzatura che in cucina sta per diventare una installazione artistica perché nessun figlio riesce a trovare nella sua fitta agenda (chattare con le amiche, farsi la piastra, giocare alla Play, dare un’occhiata a Tucidide e una a XFactor) uno spazio di tre minuti per buttarla, ma sono in corso trattative fra le parti (è atteso a breve il segretario generale dell’Onu).

Benedetto il giorno in cui abbiamo sbagliato perché solo dare la vita a qualcuno di diverso ci insegna ad amare, ci richiede di spaccarci, ci fa perdere i pezzi, tira fuori una bellezza che chi non perde la vita non scopre mai di avere. Il matrimonio ci salva da noi stessi, ci fa camminare, ci permette di amare, che è diverso dall’essere innamorati.

Detto questo, sì, il matrimonio non è certo sempre una valle oscura, io sono grata di avere sposato mio marito, il mio insostituibile modello base di essere umano, quello con pochi optional ma – come dice Henry Ford – “quello che non c’è non si rompe”; lui che mi costringe a riassumere in dodici secondi tutto quello che gli vorrei dire in tre ore perché dopo se ne va dalla stanza e così mi insegna ad andare all’essenziale; che si arrabbia per i miei viaggi assurdi e brontola ma poi mi fa trovare la macchina col pieno; che mentre io mi cambio quattordici volte perché non ho niente da mettere mi risponde quattordici volte va bene questo ma sbrigati senza neanche alzare la testa dal libro, tanto lui non distingue i vestiti (vede solo l’opzione nuda/vestita, quella differenza a onor del vero la nota); lui che sfoggia improponibili maglioni delle medie e giacche eleganti con la stessa totale noncuranza perché è di Roma e sa che le civiltà e gli uomini passano, figuriamoci i loro vestiti (ritiene peraltro che l’accappatoio sia sottovalutato); lui che, ammesso che mi ascolti, non percepisce il tono delle mie parole, non sa mai se sono arrabbiata o triste, ha rinunciato a decifrarmi e interrompe le mie contorsioni mentali con un “dimmi solo che devo fa’”, e così mi salva da me stessa svariate volte al giorno; lui che smorza i miei entusiasmi quando penso di avere generato figli che lasceranno un segno indelebile nella storia dell’umanità, sicuri Nobel e Pulitzer in pectore, e frena le mie cadute nella disperazione quando mi convinco che al massimo potranno fare i pelapatate, in nero; lui che ignora le scenate da pazze delle figlie adolescenti  stoppandole con uno dei suoi rarissimi e granitici no, mentre con me adotta la sua tattica preferita, fingersi morto; lui che mi rispiega per la ottomilesima volta cosa è il sionismo con lo stesso successo con cui io gli dico perché Francesca è in crisi col marito (zero); lui che smorza i miei entusiasmi, abbassa la mia autostima, mi critica con la libertà di un fratello, ma quando c’è bisogno si fa sfuggire delle preziose, centellinate parole di stima che io di solito faccio incidere su monili in bronzo e mi faccio bastare per un annetto (quella è la cadenza), perché so che, quando le dice, sono vere.

A lui dunque devo il ringraziamento più importante, perché se lui fosse stato come lo volevo io, non sarei mai diventata una donna.

 

BENEDETTO IL GIORNO CHE ABBIAMO SBAGLIATO – Manuale di manutenzione del matrimonio  AMAZON   –   SONZOGNO    –   IBS  – 

 

 

 

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Published on May 14, 2024 15:35

May 6, 2024

Viaggio nel cuore cristiano dell’identità occidentale

di Costanza Miriano

Dio abita in Toscana è un libro che mette voglia di infilare qualcosa in uno zaino e partire, ha fatto questo effetto persino a me che odio viaggiare, perché i luoghi non mi interessano; io infatti viaggio per incontrare le persone e, quando lo faccio, raramente saprei localizzare su una carta esattamente dove mi trovi (sopra o sotto il Po è il massimo della precisione a cui posso aspirare). Sarà perché gli itinerari che Antonio Socci propone con questo Viaggio nel cuore cristiano dell’identità occidentale non sono certo percorsi turistici ma sono in realtà indizi, tracce da seguire, piste tracciate per un favorire un incontro, e l’incontro è proprio l’unica ragione – per me – per cui valga la pena di spostarsi da casa.

Non si tratta certo di consigli per turisti. Quello che traccia questo libro è un viaggio nei luoghi della Toscana che conservano l’impronta dell’incontro che Dio ha avuto nei secoli con i suoi figli più dotati o più santi, cioè quelli che attraverso l’arte o la grandezza (o forse piccolezza) spirituale hanno attinto alle vette più alte dell’umanità. E bisogna ammettere che si tratta di una regione ricca in modo straordinario di queste impronte: una concentrazione, credo, unica al mondo, se si considerano non solo le opere che in Toscana sono nate e rimaste, ma anche quelle che i toscani hanno prodotto e disseminato nel mondo (tipo la Cappella Sistina, che non significa solo Michelangelo, ma anche altri grandi fiorentini e toscani, come Botticelli, Ghirlandaio, Cosimo Rosselli, Piero di Cosimo, Luca Signorelli e altri che in Toscana si sono formati come il Perugino e Pinturicchio; ma c’è un numero incalcolabile di opere di toscani in tutto il mondo). Per non parlare dei santi come Caterina o Filippo, solo per citare i primi che mi vengono in mente.

La buona notizia però è che non dobbiamo essere invidiosi se non siamo toscani, e non siamo nati nei secoli in cui si sono prodotti quei capolavori eterni: Dio quell’incontro lo vuole fare anche con noi, ed è questo il senso del libro. Dio non smette di cercare ciascuno dei suoi figli con amore tenero e tenace, e le opere che ancora si offrono ai nostri occhi postmoderni parlano anche a noi, e non fanno che dirci questo. Ti sta cercando, e guarda di quali meraviglie è capace un uomo che lo lasci entrare nella sua vita. Chissà che può fare con te…

Un piccolo inciso: una delle cose più insensate della scuola italiana per me è che l’ora di religione sia facoltativa. Non è possibile decodificare la maggior parte del nostro patrimonio artistico se non si hanno almeno i rudimenti di quella fede che per secoli è stata una presenza concreta e vera, una evidenza incontestabile nella vita di interi popoli. Non si può capire Dante, Boccaccio, non si può alzare lo sguardo e capire cosa dice un campanile, come è costruita una città, non si può capire di cosa parlano le nostre città se non si conosce la fede cattolica. È semplicemente un dato di realtà, un fatto storico. Come può uno studente completamente digiuno di cristianesimo – soprattutto ora che la cultura dominante gli è sempre più estranea – capire il senso, che so, del Duomo di Orvieto (e scusate il campanilismo se scelgo un esempio umbro), se non sa che coloro che lo hanno costruito hanno creduto che Dio si è fatto uomo e ha dato la sua carne da mangiare ai suoi figli? Non potrà capire, lo studente digiuno, che quella struttura maestosa, sproporzionata rispetto alla piazza in cui sorge, non è un’esagerazione, perché è nata per dare una casa minimamente adeguata al corporale bagnato del sangue di Cristo, un miracolo avvenuto in risposta ai dubbi di un sacerdote sul fatto che davvero in quel momento tra le sue mani ci fosse il corpo di Dio. O, per restare in Toscana, come si può capire Siena e i simboli di cui è piena se non si sa che è consacrata alla protezione di Maria, mentre Firenze è affidata direttamente a Cristo? Come si può, poi, comprendere l’importanza del corpo per coloro che credono nell’avvenimento storico di un Dio che si è fatto carne, e di cui ogni opera grida la meraviglia?

Tutto, tutto parla di Dio in Toscana, e il libro propone una serie di itinerari possibili per andare sulle tracce di questo Padre innamorato pazzo dei suoi figli: la via del mare, la via delle colline e quella dei monti. E poi due capitoli speciali dedicati a Siena e Firenze.

Non è più tempo di disperarci perché viviamo in un mondo scristianizzato, tanto da essere a volte poco diversi (parlo almeno per me) dalle mandrie di turisti incolonnati che pascolano alzando a mala pena lo sguardo, fotografando tutti sempre le stesse cose, senza capire niente e senza uscire mai dal percorso previsto, mandrie che sembrano avere trasformato molte delle nostre città più in parchi tematici che in luoghi da vivere. Non serve disperarci, dicevo. Serve imparare un nuovo sguardo. Benedire Dio che, oltre ad averci fatti come un prodigio, ci ha messi in questo tempo e in questi luoghi che sono esattamente quelli giusti per noi, per incontrarlo. Imparare un nuovo sguardo e quindi anche conoscere, leggere, studiare, cercare, imparare a vederlo e ad ascoltarlo e a riconoscerlo nella bellezza che tanti di noi hanno sotto gli occhi tutti i giorni e che forse non lasciano parlare.

Certo, a parte chi come me nel campo delle arti figurative può vantare, modestamente, un’ignoranza senza lacune (copyright Flaiano), anche tra chi ne sa qualcosa credo che pochissimi abbiano come Socci la cultura, la sensibilità spirituale e la capacità di destreggiarsi e di leggere tra le trame di tanta ricchezza, di mettere in fila le cose, di non lasciarsi sopraffare dall’ansia di sapere e vedere e scoprire tutto in una sorta di lussuria dello sguardo, mantenendo invece in mano il timone della navigazione. Per questo Dio abita in Toscana può diventare una sorta di guida per un pellegrinaggio, per degli esercizi spirituali itineranti, e forse anche un modello per un modo diverso di conoscere i luoghi.

Infine, aspetto che qualche cuore generoso scriva per me anche Dio abita in Umbria, lo aspetto proprio. Sull’arte non saprei da dove cominciare, ma quanto ai santi partirei da Francesco, Chiara, Benedetto, Scolastica, Rita, Angela e la mia nuova preferita, Margherita di città di Castello, tanto per cominciare: qualcosa da dire ce l’abbiamo anche noi umbri, a occhio e croce…

 

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Published on May 06, 2024 15:49

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Costanza Miriano
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