Costanza Miriano's Blog, page 9
May 6, 2024
Lo Spirito Santo faccia di noi un’offerta perenne a te gradita #monasteroWiFi Roma

Entrare nella stanza al piano superiore
Ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, ogni volta che adoriamo l’Eucaristia, come faremo fra un po’, e per analogia ogni volta che si parla dell’Eucaristia, veniamo introdotti nella stanza al piano superiore di cui parla Gesù nel vangelo di Marco. (Mc 14,15).
È la stanza bella, la stanza adorna di tappeti.
È la stanza al piano superiore, cioè sottratta all’andirivieni caotico dei piani bassi.
È bello che Gesù la chiami “la mia stanza” (Mc14,14). Ogni volta che parliamo dell’Eucaristia è come entrare in questa stanza bella, in questa stanza intima, in questa stanza che appartiene a Gesù.
Significa diventare suoi ospiti.
Allora lasciamoci introdurre da Lui in quella che chiama “la mia stanza”, in un’esperienza di bellezza, di intimità, in un’esperienza in cui al di là delle formule, sia il cuore a parlare al cuore. Cor ad cor loquitur.
Preghiera Eucaristica III
Il messale ha divere preghiere eucaristiche e ogni sacerdote ne predilige qualcuna. C’è il sacerdote che va con il pilota automatico della preghiera seconda “Padre veramente santo” e il sacerdote invece che, per una sottigliezza teologica, predilige qualche altra. Quello che vedo, quello che sperimento su di me ed anche su altri confratelli è che in realtà quando un sacerdote si affeziona ad una preghiera eucaristica è perché quella preghiera, oltre ad essere una formula consacratoria, inevitabilmente diventa la parabola della sua esistenza, diventa il paradigma di quello che si sforza di vivere. Il giorno dell’ordinazione, quando il vescovo consegna il pane e il vino, pronuncia tre imperativi che fanno tremare le gambe al neo sacerdote. Dice così:
– Renditi conto di ciò che farai
– Imita ciò che celebrerai
– Conforma la tua vita alla croce di Cristo.
Allora ogni volta che il sacerdote sceglie una preghiera eucaristica piuttosto che un’altra, è perché spera che la sua vita possa essere raccontata da quelle parole, spera che la sua vita possa ritrovarsi in quella manciata di parole. Tra le diverse preghiere eucaristiche io sono affezionato alla preghiera eucaristica terza. In questa, subito dopo le parole della consacrazione, c’è una perla di cielo, c’è quella che, secondo me, è proprio una vera feritoia sull’eterno.
Il sacerdote quasi a voler raccogliere in un pugno di parole la realtà lì presente, quasi a sentire che non calpesta più il pavimento della Chiesa, ma il suolo del calvario, in un crampo di tempo in cui tutto l’eterno vi è racchiuso, parla:
dell’Agnello immolato sul talamo della croce
dell’Agnello immolato e vivo di cui racconta Giovanni nell’Apocalisse
dell’Agnello che ricapitola in sé tutte le cose. Lo aveva promesso Gesù: Quando sarò innalzato attirerò tutti a me (Gv 12,32). È Lui il centro gravitazionale di tutte le vite, che lo si sappia o no. È Lui l’unica soluzione all’enigma dell’esistenza umana.
Allora subito dopo la consacrazione sentite le parole che il sacerdote pronuncia:
Celebrando il memoriale della passione redentrice del tuo Figlio, (l’agnello immolato)
della sua mirabile risurrezione e ascensione al cielo, (l’agnello vittorioso)
nell’attesa della sua venuta,
ti offriamo, o Padre, in rendimento di grazie, questo sacrificio vivo e santo.
Ogni volta che io pronuncio quell’aggettivo VIVO, sento la necessità di fermarmi. VIVO. È VIVO.
Non è un oggetto, non è un’idea. È VIVO.
Io mi arrischio a dire che in quel momento c’è uno stupore maggiore di quello che c’è stato a Nazareth. A Nazareth si è giocato una partita tra giganti. C’era la Madonna, la prediletta da tutta l’eternità. C’era la Madonna che aveva corrisposto senza deviazioni all’amore del Padre e l’arcangelo Gabriele non aspettava altro che poter dare il fischio d’inizio alla partita della rivincita. Eravamo a Nazareth, c’era Maria e c’era l’arcangelo.
Ma durante la messa ci siamo tu ed io.
Eppure Dio non si tira indietro, Dio non fa il permaloso. Che abbia dato il Figlio alla Madonna, ci sta; ma che Lo dia VIVO a noi durante la messa, no non è così scontato. Noi pensiamo che durante la messa il paradiso assista un po’ come noiosamente possono fare gli addetti ai lavori nella stanza VAR a bordo campo. O come si può lavorare affannati e annoiati in una torre di controllo di un aeroporto internazionale. Gli angeli, i santi, quindi, starebbero lì con i monitor. No, in ogni messa le viscere di misericordia del Padre hanno un sussulto: è il Figlio Vivo. In ogni messa Gesù dice al Padre con le parole del profeta Isaia: Padre, manda me, ecce venio. E poi in ogni messa c’è il fiondarsi dello Spirito Santo, come in certi affreschi del Beato Angelico in cui si vede la colomba che sembra prendere la rincorsa, l’accelerata. Solo in cielo capiremo quello che avviene in ogni messa nel Cuore materno di Maria. Cuore tutto di carne, perché Lei è stata assunta in anima e corpo. Solo in cielo capiremo quello che la Madonna con il suo cuore materno e di carne vive durante ogni celebrazione eucaristica.
Prosegue poi il sacerdote rivolgendosi al Padre:
Guarda con amore e riconosci nell’offerta della tua Chiesa
la vittima immolata per la nostra redenzione…
Guarda con amore. Bellissimo! È come se il sacerdote dicesse: Padre, guarda con amore il Figlio Tuo vittima, il Figlio Tuo crocifisso e con lo stesso amore guarda noi, la causa, il motivo di tutto questo. Guarda con amore Lui e noi. Ancora di più, guarda noi attraverso le piaghe del Tuo Figlio qui vivo e immolato e guardaci con lo stesso amore. Allora quasi storditi da questa eccedenza di amore, la Chiesa ci fa pregare con delle parole straordinarie sulle quali vorrei fermarmi assieme a voi. Dinanzi a tutto questo, che è tanta, tanta roba, ad un certo punto il sacerdote dice: Lo Spirito faccia di noi un’offerta perenne a te gradita. È come se dopo tutto questo amore ricevuto, dopo tutta questa cascata di misericordia viva e non concettuale – su questo non mi stancherò mai di soffermarmi-: è vivo, e dinanzi a Qualcuno che è vivo e palpita d’amore per te e palpita di un amore che è passione, il termine stesso lo dice: passione quindi sofferenza, che cosa fare, come contraccambiare? Sei preso dal panico, come ne esci? Con l’unico modo possibile, perché l’amore o cerca simili o rende simili e dinanzi a questo amore c’è un’unica possibilità: Prendimi, eccomi, ci sono. Se tu ci sei per me, io ci sono per te. È il linguaggio sponsale. È un vero e proprio patto sponsale. Il giorno del matrimonio lui dice a lei: il mio corpo non mi appartiene più, è tuo. Non il mio cuore, ma il mio corpo, tutto, tutto l’essere mio, tutto. Tu mi appartieni tutto, io mi ti consegni tutto. In quel momento non è che Gesù dice: Ti do il mio cuore, ma dà il Suo corpo vivo. Allora ci deve essere uno scambio, uno scambio sponsale. A Cristo sposo che si offre, la Chiesa sposa si dona, l’anima sposa si dona. Corpo per corpo, corpo a corpo e non è una mia invenzione, è l’apostolo Paolo che lo dice. Dice così: Non sapete che i vostri corpi appartengono a Cristo, non sapete che chi riceve Cristo fa del suo corpo il corpo di Cristo. Ascoltate come Benedetto XVI commenta queste parole. “Ricevere l’Eucaristia significa, secondo questo testo, fusione di esistenze, una sublime analogia con ciò che avviene nell’unione tra uomo e donna a livello fisico, psicologico e spirituale. L’eros della creatura viene raggiunto dall’agape del Creatore e si realizza così quell’appagante abbraccio. Meraviglioso! Per papa Benedetto che cos’è l’Eucaristia? Un appagante abbraccio. Siamo tutti mendicanti di amore, siamo tutti mendicanti di tenerezza e poter vivere l’Eucaristia così, come un appagante abbraccio, è stupendo. E nell’abbraccio non do il concetto di me, do tutto me stesso. Allora vediamo questa formula di consegna sponsale passo per passo.
Il primo passo: Lo spirito Santo faccia.
È azione dello Spirito santo. Il soggetto agente è lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo faccia, non la mia bravura, la mia forza di volontà, il mio eroismo. Lo Spirito Santo
faccia. Questa è la prima verità di ogni cammino spirituale, ma è anche la più disattesa. Noi pensiamo che la nostra vita spirituale sia la parabola ascendente delle nostre virtù al cui apice viene apposta la coccarda della vittoria dello Spirito Santo. E poi constatiamo facilmente che la colonnina di mercurio che dovrebbe segnare la temperatura del nostro spirito cala in picchiata e dinanzi a questo fallimento ci sono due possibili reazioni. La prima: l’avvilimento, lo scoraggiamento, demordiamo. “Non è per me, non ce la faccio, ci ho provato, sono sempre lo stesso” La seconda, peggiore della prima, è bleffare dicendo:” In fondo faccio bene così, io sono così, sono fatto così” Tra questi due poli, tra il polo dello scoraggiamento e il polo dell’accomodamento c’è la consegna di tutto se stesso allo Spirito Santo. È la cosa più difficile, ma è la verità dell’Eucaristia. Nell’Eucaristia c’è un morso di pane e un sorso di vino, come tanti altri, che, attraversati dalla fornace ardente dello Spirito Santo della Pentecoste, vengono trasformati nel corpo e nel sangue di Cristo. È quello che è avvenuto nel grembo ormai avvizzito di Elisabetta. Arriva lo Spirito Santo e in questo grembo avvizzito c’è un sussulto, quasi un rigurgito di vita. Dice così Luca: Il Bambino danzò nel Suo grembo. Un’eccedenza impensabile persino per la stessa Elisabetta la quale pensò bene di tenersi nascosta per ben cinque mesi. Non riusciva a crederci neanche lei che il suo grembo avvizzito, per opera dello Spirito Santo, non per le sue tecniche, non per la sua caparbietà, sarebbe stato capace di generare. Persino Zaccaria aveva gettato la spugna! È quello che succede nel grembo acerbo di Maria! Non importa se la tua vita assomiglia al grembo avvizzito e stanco di Elisabetta o se la tua vita somiglia al grembo acerbo e impreparato di Maria. Io so che se consegni la tua vita allo Spirito Santo sperimenti quanto sia vero che nulla, nulla è impossibile a Dio. Solo lo Spirito Santo è capace di rendere possibile ciò che per noi resta impossibile. Consegnati allo Spirito Santo. Lasciare agire lo Spirito Santo è la sola possibilità per uscire dal corto circuito delle nostre esistenze. Quanto abbiamo bisogno oggi di invocare lo spirito Santo! Parola di Teresina di Lisieux, dottore della Chiesa, la quale diceva: Dio può rendere possibile in un solo minuto ciò che noi non siamo riusciti a fare per un’intera vita. Tutte le altre trasformazioni sono solo apparenti, accidentali. Solo lo Spirito Santo cambia la sostanza, come avviene nell’Eucaristia. Il pane e il vino all’apparenza non cambiano, cambia la sostanza. Oggi, poiché manca lo Spirito Santo, la sostanza rimane sempre la stessa, ma cambiamo le apparenze continuamente. Ci manca il coraggio di consegnarci allo Spirito Santo. Oggi come non mai, sperimentiamo una povertà spaventosa: siamo poveri di fede, siamo poveri del pensiero di Cristo, siamo poveri del vangelo sine glossa, siamo poveri di padri e di madri spirituali che indichino la strada, siamo poveri di verità perché c’è tanta confusione; oggi come non mai, siamo poveri e confusi perciò abbiamo bisogno di invocare Colui che nella Sequenza viene chiamato Padre dei poveri.
Sento di dover dare una piccola testimonianza. Con un gruppo di ragazzi della mia parrocchia, che si prepara alla cresima, ho commentato la Sequenza allo Spirito Santo. Quando ho commentato il verso: “Manda a noi dal cielo un raggio della Tua luce” ho detto loro che la provenienza della luce su un oggetto, ne determina non solo l’illuminazione, ma anche l’ombra. Da dove la luce colpisce è determinata l’ombra. Allora quando noi diciamo: “Manda a noi dal cielo un raggio della Tua luce” stiamo dicendo dal cielo non perché è romantico, non perché Dio sta in cielo e quindi mandala dal cielo. No, perché se illumini la tua vita con le luci della terra, dal basso, avviene che più sono basse le luci e più l’ombra è grande. Se invece la luce viene dall’alto come a mezzogiorno, l’ombra c’è, ma è piccola, è vivibile. Lo Spirito Santo non annulla tutte le tue ombre. neanche a livello psicoanalitico, di inconscio, subconscio, ma te le rende vivibili. Se illumini la tua vita con le luci della terra, avrai solamente ombre che incutono paura, insicurezza e ti paralizzano. Se invece illumini la tua vita con la luce dello Spirito Santo, tutto diventa vivibile. Io avevo dimenticato questa catechesi, ma dopo un po’ di tempo è ritornato un ragazzo e mi ha detto che sentiva di dovermi ringraziare, perché nella scelta della scuola superiore, tanti gli avevano dato consigli pensando all’accesso al lavoro e ad altre motivazioni che solo consideravano le luci della terra. Ma più gli proponevano scelte secondo luci della terra, più illuminavano questo problema con luci terrene, più il ragazzo andava in tilt. Allora ad un certo punto si è detto: “Basta, accendo una luce dall’alto”. Ed è tornato sereno, perché ha detto che le ombre sono rimaste, ma più piccole e affrontabili. Qual è il problema della tua vita che stai cercando di illuminare con la luce della terra? Proietterai ombre troppo grandi che ti incuteranno timore. Questo vale anche per la scelta matrimoniale. Quando la scelta matrimoniale è illuminata da luci terrene, incombono ombre ingestibili. Quando invece c’è la luce dall’alto, l’ombra rimane ma è vivibile. Solo così la vita diventa come un grande grembo e tutte le circostanze sono altrettante annunciazioni, proposte dello Spirito Santo che vuole fecondare la tua esistenza perché tu venga alla luce, perché tu nasca e rinasca costantemente. È il mistero dell’incarnazione, è il mistero di Nazareth. Mendichiamo costantemente lo Spirito Santo, con la bella giaculatoria: Vieni Santo Spirito per Maria. Se posso usare qualche espressione particolare, dico che la Madonna è la calamita dello Spirito, perché in Lei lo Spirito si sente a casa.
Allora, lo Spirito Santo faccia. Ma cosa deve fare lo Spirito Santo?
Manteniamoci forti:
Un sacrificio perenne
Un sacrificio e per giunta perenne!
Vi svelo un segreto: nell’universo, senza sacrificio non esisterebbe nulla. Sapete come nascono le stelle? Ad un certo punto i gas della stratosfera cominciano a girare vorticosamente, è come un grande mal di pancia e mentre girano e girano, in questo dolore, in questo vento cosmico ad un certo punto si accende la luce. Senza questo vortice doloroso non ci sarebbero le stelle. Avete presente il ramo di un albero con la sua corteccia, con la sua durezza? Se non accettasse di essere vulnerabile e ferito dalla gemma, non ci sarebbe la primavera
Dalle mie parti si coltivano le viti e si vede che quando la vite gemma, lascia cadere la linfa e i vecchi contadini dicono che la vite piange. Senza sacrificio la vita non è più bella, la vita è semplicemente banale. Senza sacrificio la vita è insipida. Io inorridisco quando sento che nelle scuole vogliono mettere l’ora di educazione sessuale, di educazione affettiva, di educazione relazionale. No, non è solo a scuola che i ragazzi imparano a relazionarsi, è prima di tutto a casa che imparano l’alfabeto del sacrificio. Ricordate? “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Io mi sacrifico per te, perché tu vali, perché la tua esistenza vale, perché tu sei prezioso. Dire “Ti amo” a una persona significa: La tua vita ha un valore superiore alla mia e io mi offro per la tua vita. Invece oggi dire “Ti amo” a una persona significa fare un prelievo forzoso di vita sull’altro. Ti amo, quindi prenditi cura di me. Ti amo, quindi fammi sentire importante. Sono prelievi da bancomat. Nei corsi prematrimoniali dico sempre di non abortire, non solo perché è un delitto terribile contro il bambino che viene rifiutato, ma dico non abortire anche perché se abortisci tu uccidi il figlio successivo che accoglierai, perché indirettamente gli stai dicendo: Ti ho accolto perché rispetti gli standard, ma il giorno in cui non li rispetterai potrò rinunciare a te. Anche quando la coppia è comunemente d’accordo sull’aborto, implicitamente si sta dicendo che c’è uno standard da reggere e il giorno in cui questo standard verrà meno, uno dei due potrà essere eliminato. Dietro l’aborto c’è questo pensiero: tu corrispondi a uno standard, il giorno in cui i parametri caleranno potrai essere eliminato. Per il sacrificio non è così. Tu vali, non tu mi appaghi. Se Gesù dovesse incarnarsi, venire a noi solo per le volte in cui Lo appaghiamo, inserirebbe la retromarcia. Non quindi, tu mi appaghi, ma tu vali. Allora il sacrificio non è un’obiezione alla nostra realizzazione, il sacrificio è l’unica condizione perché l’uomo si realizzi. Se non accetti il sacrificio tutto si disfa, tutto viene inghiottito nel buco nero del tuo egoismo. Il sacrificio è un atto d’amore. Il sacrificio è l’altra faccia della medaglia dell’amore. Vuoi sapere quanto ami una persona? Non da quanti weekend trascorri con lui/lei, ma da quanto sei disposto a sacrificarti. Questo dice il valore di quella persona, come le nottate passate in bianco ad aspettare che il figlio rientri. Nulla si costruisce gratuitamente, tutto si costruisce attraverso l’accettazione di questo mistero. Guardate, tutto è racchiuso nel racconto della Genesi, del peccato originale. Che cosa reggeva il paradiso terrestre? Il sacrificio, il rinunciare ad una mela. Per non rinunciare ad una mela hanno rinunciato all’intero paradiso. Oggi se non accetti il sacrificio, rinunci a tutta l’esistenza. Ecco perché la nostra è la società della morte, prenatale e postnatale, perché senza il sacrificio la vita non ha senso.
Vi porto due esempi pratici. Il primo: Teresina di Lisieux. Questa ragazza ventenne in monastero deve aver cura di una suora anziana che barcolla nel camminare ed è cosa difficilissima, perché se la si tiene troppo stretta, si lamenta per la presa e se la si tiene in maniera troppo delicata, teme di cadere. Teresa scrive nella sua autobiografia: “Una sera d’inverno, svolgevo come al solito il mio piccolo servizio. Faceva freddo, era buio. Ad un tratto udii in lontananza il suono armonioso di uno strumento musicale. Allora immaginai un salone ben illuminato, tutto splendente di ori e ragazze elegantissime che si facevano complimenti a vicenda, convenevoli mondani. Poi il mio sguardo cadde sulla povera malata che sostenevo. Invece di una melodia, io sentivo ogni tanto i suoi lamenti; invece degli ori vedevo i mattoni del nostro chiostro rischiarato a malapena da una debole luce. Non posso esprimere ciò che accadde nella mia anima; so solo che il Signore la illuminò con i raggi della verità e che non potevo credere alla mia felicità. Per godere mille anni di feste mondane non avrei dato in cambio i dieci minuti impiegati a compiere il mio umile ufficio con quell’anziana”. Bellissimo! Non è una vita da bere, quasi fosse uno spritz. È nel sacrificio che Teresa dice: Questa vita ha senso.
Ancora: i pastorelli di Fatima. Non so se avete letto le loro vite: essi sono straordinari, coraggiosissimi, e inventano penitenze difficili. Ad un certo momento è dovuta intervenire la Madonna per dire: Basta, di notte non mettete la corda, dormite. Interessante non è il sacrificio in sè, ma quello che c’è a monte. Sentite: la Madonna il tredici luglio del 1917 chiede – attenzione alle parole – “Volete offrirvi a Dio per i peccatori?” All’inizio della nostra preghiera eucaristica abbiamo letto: Guarda questa offerta, è la vittima immolata per la nostra redenzione. È come se la Madonna dicesse ai pastorelli: “Volete diventare eucaristia? Volete che la vostra vita diventi eucaristia?” E tutti e tre dicono “Sì, ci stiamo” Quello che a me importa e vorrei condividere con voi, non è tanto la capacità di sacrificio e di sofferenza di questi bambini, quanto il fatto che essi ad un certo momento avevano a cuore, così tanto a cuore la salvezza dei peccatori che collaboravano con Dio: volevano che proprio nessuno si perdesse. Quello che è importante non è la sofferenza; ad esempio, si può anche rinunciare a bere un intero bicchiere di acqua e berne solo metà, non viene chiesto di lasciarsi morire di sete. Importante è che la vita che accoglie la sofferenza diventa come la vita di Dio che vuole tutti salvi. Diventa una proesistenza: io esisto per l’altro, la mia vita ha senso per l’altro. È la vera extasis, è l’uscita da sé e se non c’è il coraggio di questo passaggio, è chiaro che i nostri giovani e, ahimè, a volte anche gli adulti faranno ricorso all’extasis artificiale. Se non fa uscire da sè l’amore, farà uscire da sè il paradiso artificiale. La parola entusiasmo viene da En e Theos, da Dio. Si prova entusiasmo, la vita ha entusiasmo se solamente, come i pastorelli, si è in Dio. Se si è troppo chiusi in se stessi si muore soffocati, si respira solamente l’anidride carbonica dell’aria viziata dei propri ragionamenti. Allora come i pastorelli – e mi avvio alla conclusione – facciamo della nostra vita un’eucaristia, offriamo la nostra vita per la salvezza degli altri e non vi chiedo di offrire della vostra vita solamente gli atti liturgici, religiosi. Gesù in croce non ha offerto un atto religioso, ha offerto un processo iniquo, una condanna a morte ingiusta. Tutto quello che era mondano lo ha offerto al Padre perché diventasse redenzione. Tutto, tutto della tua vita, se offerto al Padre, diventa motivo di redenzione. Ed è meraviglioso. Allora smettiamola di essere un po’ come il figlio maggiore della parabola del Padre misericordioso, cui il capretto era rimasto in gola. No, a noi non è andata male perché Dio ci ha coinvolti per la salvezza del mondo. Non dobbiamo essere invidiosi degli operai dell’ultima ora che hanno passato tutto il giorno a bivaccare nel mercato mentre noi eravamo impegnati nella nostra conversione o nelle attività del monastero WIFI. No, non ci poteva capitare nulla di più bello, nulla di più grande. Dobbiamo smetterla e liberarci dall’idea folle secondo cui la disoccupazione spirituale sia migliore del coinvolgimento che Dio chiede alla nostra esistenza, perché non ci poteva capitare nulla di più grande. E io vi dico che Gesù poteva dire al Padre dall’eternità: Padre manda me. Ma perché potesse essere mandato, c’era bisogno che al suo sì si aggiungesse il sì di una donna, di Maria. Tutt’oggi Cristo dice al Padre: manda me, ma c’è bisogno che al Suo sì si aggiunga il tuo sì, perché Dio non abita in case fatte di pietra, ma Dio abita nello spazio del tuo sì e tornerà ad essere il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio di ciascuno di noi. Lo Spirito Santo faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito, perché non c’è avventura più bella, non c’è avventura più grande, non c’è avventura più entusiasmante che dare la vita per la salvezza del mondo. Questo è essere graditi, non i like su Facebook. Dai un senso alla tua esistenza. Suonino tutte le musiche del mondo, noi continueremo a camminare assieme a Teresina di Lisieux e ai pastorelli di Fatima sapendo che reggiamo il mondo e sorte più bella non ci poteva capitare. Amen
April 22, 2024
Visita alle Sette Chiese nella notte – Venerdì 10 maggio 2024 – UNICA DATA
Con immensa gioia vi annunciamo che Venerdì 10 Maggio 2024, a Dio piacendo, torneremo pellegrini insieme sul cammino delle Sette Chiese.
Sarà un’edizione speciale che precede quella del Grande Giubileo del 2025.
Avremo con noi il maestro Ambrogio Sparagna, i musicisti dell’Orchestra Popolare e un coro diretto dalla direttrice Annarita Colaianni.
***
La tradizionale Visita delle Sette Chiese nell’arco di una notte ci porta a un incontro profondo con noi stessi e con Dio pregando secondo lo schema delle antiche orazioni composte da San Filippo Neri. Questo pellegrinaggio ci aiuta inoltre a scoprire Roma e in un certo senso ad appropriarci della città in cui ci muoviamo convulsamente tutti i giorni.
Sarà l’UNICA DATA del 2024!
Le catechesi saranno proposte da Padre Maurizio Botta e dai padri della Congregazione.
PARTENZA
Chiesa Nuova – Santa Maria in Vallicella
Piazza Chiesa Nuova (a metà di Corso Vittorio Emanuele II; alle sue spalle, poco distanti, Piazza Navona e Castel Sant’Angelo)
Il ritrovo è VENERDI’ 10 Maggio 2024 alle 19.00 (puntuali!) all’aperto in piazza della Chiesa Nuova (i bagni interni non sono accessibili per lavori in chiesa).
ARRIVO
L’arrivo è “indicativamente” previsto tra le 6.00 e le 7.00 di SABATO 11 Maggio alla Basilica di “Santa Maria Maggiore”.
CONSIGLI:
1) Il percorso è di circa 25 km per questo motivo si consigliano scarpe molto comode. Se qualcuno non ce la facesse può tranquillamente e in qualsiasi momento tornare a casa. Non è necessaria nessuna prenotazione previa.
2) Sono richiesti per l’iscrizione 5 euro per il libretto della Visita e per il noleggio delle cuffiette per agevolare l’ascolto delle catechesi. Chi per gratitudine vorrà aiutarci lo potrà fare con un’offerta superiore ai 5 euro donata all’Associazione Oratorium che affianca economicamente i padri della Congregazione nel rendere possibili le tante attività dell’Oratorio di San Filippo Neri di Roma.
3) Si consiglia di portare una felpa o maglietta più pesante perché la notte le temperature scendono un po’.
4) Portare un ROSARIO.
5) ATTENZIONE: PORTARE LA CENA AL SACCO! Ci si fermerà alla parrocchia di San Filippo Neri in Eurosia alla Garbatella. Lì oltre a spazi per mangiare all’aperto o se necessario al coperto, ci saranno anche bagni per tutti. In Chiesa i padri della Comunità della Garbatella e i sacerdoti che fanno con noi il pellegrinaggio si renderanno disponibili per le Confessioni.
6) Conviene lasciare la macchina parcheggiata intorno a “Santa Maria Maggiore” (all’arrivo la mattina si è stanchissimi).
7) Confessarsi prima, durante o dopo il pellegrinaggio (entro 8 giorni) .
8) Portare una torcia (pila elettrica) può far molto comodo per illuminare la strada nei punti più bui, soprattutto verso le 3:00-4:00 di notte.
9) Caldamente consigliato portarsi un OMBRELLO, oppure un K-WAY, una MANTELLA per la pioggia oppure un PONCHO impermeabile da pellegrino.
Indicazioni importanti su Sante Messe e Confessioni
Per chi volesse partecipare alla Santa Messa prima del pellegrinaggio ci sono le seguenti possibilità: alle ore 18.00 Santa Messa presso la Parrocchia di San Salvatore in Lauro che dista 5 minuti a piedi dalla Chiesa Nuova; alle ore 18.00 Santa Messa alla Parrocchia di San Giovanni Battista dei Fiorentini che dista 6 minuti a piedi dalla Chiesa Nuova; alle ore 18.30 alla Chiesa di Santa Lucia al Gonfalone a 2 minuti dalla Chiesa Nuova.
Per le confessioni il nostro consiglio, visti i numeri e la natura di questa notte di preghiera, è di confessarsi con calma o prima o dopo il pellegrinaggio, ma alla fermata della Garbatella subito dopo la cena al sacco ci saranno in chiesa alcuni sacerdoti a diposizione per celebrare il sacramento della riconciliazione.
Alla Chiesa Nuova causa lavori di restauro i bagni sono inagibili. Vi consigliamo, quindi, di recarvi prima nei moltissimi bar vicini alla Chiesa Nuova.
leggi anche LE SETTE CHIESE NELLA NOTTE, UN PELLEGRINAGGIO CHE APRE IL CUORE
April 17, 2024
Più che un libro un’occasione di crescita
di Costanza Miriano
Domani (giovedì 18) sarò alle 14 su Rai1 a parlare di denatalità. Pur essendo io sempre un po’ Alice nel paese delle meraviglie quando vado in tv, stavolta alla fine della telefonata con l’autore – al quale, poraccio, ho raccontato metà della mia vita, dai pesci rossi all’allattamento passando per le politiche fiscali europee – mi sono almeno ricordata di chiedere chi fossero gli altri ospiti, perché da quello di solito si può intuire quale sarà l’andamento della trasmissione.
Lo so che la logica della tv, anche di quella garbata che non cerca necessariamente la rissa, è quella di mettere insieme punti di vista diversi, però bisogna un po’ prepararsi a dire le cose giuste in quaranta secondi. Ho scoperto quindi che ci sarà l’autrice di un libro che afferma che le donne devono essere libere di scegliere se fare figli o no (come se la contraccezione non ci avesse già fin troppo liberate, consegnandoci una scelta che molto spesso gestiamo senza consapevolezza) e che quelle che lo fanno perdono sicuramente qualcosa nel campo professionale, perché “Chi riesce a tenere insieme carriera e figli in una società che ti vuole performante, solitamente ce la fa grazie a una situazione di privilegio. Il mito del “puoi essere tutto quel che desideri” anche da mamma è una bugia che fa male alle madri”.
Mentre leggevo l’intervista a questa collega, mi compariva sempre più netto il volto della mia amica Elisabetta Buscarini che alzava il sopracciglio e diceva il suo “ma figurati”, che è una specie di sentenza di Cassazione. Elisabetta ha avuto quattro figli (il settimo e l’ottavo nipote sono in preparazione) ed è primario di gastroenterologia , specialità di cui è stata anche presidente dell’associazione nazionale, autrice di studi e pubblicazioni molto quotata. E per dire alle altre donne che sì, si può fare, ha scritto un libro, (Al Mio Posto, confidenze quasi serie sul mestiere di Moglie Mamma Medico) , che, oltre a raccontare la sua storia, solleva molti temi, mooolto (con tre o) interessanti. Temi sui quali ogni donna, che abbia figli o no, che lavori o no, mette la testa prima o poi nella vita.
Non sempre io e lei siamo d’accordo su tutto, ma sempre facciamo un lavoro (i nostri mariti pensano che chiacchieriamo insieme al telefono, ma noi stiamo lavorando in realtà) su noi stesse, cercando di capire come stare al meglio nella nostra vocazione, che è fatta di tanti ruoli e di molte variabili. Per molti anni, per esempio, io ho invidiato le mamme a tempo pieno, ma lei che è poco più avanti nel cammino della vita, è sempre stata più di me una sostenitrice della bellezza del lavoro fuori casa. Io penso che sia bellissimo poter contribuire a rendere il mondo un posto migliore anche al di fuori della famiglia, ma che ci deve essere concesso di farlo con uno stile femminile, dove cioè le esigenze del lavoro di cura vengano contemplate come un diritto, e non come una concessione. Su questo credo che ogni donna abbia da dire la sua, e come dicevo le variabili sono tante. Quello che è intollerabile è che la scelta sia forzata dalla necessità economica, come purtroppo avviene in tanti casi (la Costituzione irlandese, per esempio, grazie al fatto che il referendum proposto per abrogarlo ha fallito, ha mantenuto l’articolo che afferma che le donne che non vogliono lavorare fuori casa non siano costrette a farlo per bisogno).
Sono questioni di cui ho scritto tanto (soprattutto in Quando eravamo femmine) e non posso qui riaprire tutti i temi, di queste cose bisogna chiacchierare due a due, se possibile davanti a una tazza di caffè o anche a un biberon, oppure si possono fare incontri come quello di qualche sera fa a Piacenza, dove dopo la presentazione del libro di Elisabetta c’è stata una specie di condivisione comunitaria delle esperienze di maternità, che ha fatto toccare con mano ancora una volta come le donne che sanno fare rete insieme sono una benedizione, sempre, e un aiuto reciproco. L’esempio e l’esperienza delle altre sono una grande consolazione, un incoraggiamento, e dovremmo cercare di farle circolare. Ci sarebbe da parlare di nuovi schemi lavorativi (tipo che negli anni dei figli piccoli, caro datore di lavoro, mi dovresti regalare delle agevolazioni, perché i figli sono un bene della società, che ti restituirò quando sarò matura ed esperta), di politiche fiscali, di educazione dei figli, di gestione della casa, di paternità, di differenza tra carriera e lavoro, di senso profondo di tutto (lavori per realizzarti o per servire?). Intanto, questa è la mia prefazione a un libro che provoca la riflessione di tutte.
Innanzitutto faccio outing. Io sono quella Costanza che compare nel libro come spacciatrice di rosari kitsch e infilatrice compulsiva di messe da condividere con Elisabetta in mezzo a giornate al cardiopalma in qualunque città riusciamo a incrociarci. Lo dico perché si deve sapere che questa non è la prefazione di una giornalista che valuta la riuscita di un’opera con occhio professionale, ma le parole di un’amica che ha il telefono di Elisabetta tra i preferiti, che considera la sua amicizia uno dei punti fermissimi della sua vita degli ultimi anni. E la considero tale esattamente da un’ora dopo il momento in cui ci siamo conosciute, a una messa – e dove sennò? – grazie all’invito di un’altra amica, e in un attimo ci siamo trovate a parlare fitto proprio di lavoro, figli, mariti, vita spirituale, cura di sé, amicizia. Cioè esattamente degli ingredienti che compongono questo libro. Eravamo sconosciute ma è stato subito chiaro a entrambe che ci univa un comune desiderio di essere mogli madri e lavoratrici secondo il cuore di Dio, e quindi era indispensabile fare un “lavoro” su noi stesse insieme.
Una volta confessato il mio punto di osservazione da amica, spero che ci si fidi lo stesso di me se dico che questo libro, che mi ha tenuta incollata in una lettura avida nonostante avessi – abbia, ahimé – molte altre scadenze da rispettare, è imprescindibile. Andrebbe fatto leggere a tutte le giovani donne che si apprestano alle decisioni importanti della loro vita, tipo libro di testo obbligatorio. Perché ogni donna oggi, grazie a Dio, è libera di scegliere come comporre, tenere insieme, armonizzare i ruoli che ci è donato di ricoprire. Dico donato perché la cosa non è scontata, però forse bisognerebbe specificare che si tratta di un regalo ma anche di un dovere: tutte noi rispondiamo alla domanda con la d maiuscola. Che tipo di donna vorrei essere? La fatica di poter scegliere è un vero e proprio regalo che abbiamo ricevuto dalle generazioni precedenti di donne, e il primo merito del lavoro di Elisabetta è ricordarci la battaglia che ci ha portate alla libertà di votare, studiare, poter ambire a qualsiasi ruolo nel mondo del lavoro, cose non scontate fino a solo qualche decennio fa.
Il secondo, grande, merito è mostrare con il racconto della trama fittissima di una vita stupendamente feconda che è possibile scegliere tutto, come Teresina di Lisieux. È possibile, a costo di una disciplina da navy seal e una fede da vedova importuna, essere una figlia, una sposa, una madre, un medico, una scienziata, una zia, un’amica e poi una nonna, insomma una donna che cerca di mettere i suoi talenti a frutto, di fare meglio che può in ogni circostanza, nonostante a volte le condizioni in cui siamo chiamate a operare non siano eque.
E questo è il terzo merito: sollevare con lucidità la questione conciliazione dal punto di vista legislativo e anche culturale, dando un contributo che vale oro, una voce che invita a considerare con più attenzione e flessibilità il lavoro di cura che ogni donna deve e desidera fare. Non sono solo “fatti nostri”, sono fatti di tutta la società: ciò che siamo chiamate a fare riguarda tutti, ed è per il bene di tutti, non solo al lavoro, ma anche a casa.
Mi auguro che tante giovani donne leggendo queste pagine decidano di lanciarsi nella vita, di aprirsi alla vita accogliendo i figli che verranno ma anche scegliendo il lavoro col quale possano contribuire meglio al bene di tutti, pretendendo, non chiedendo ma pretendendo, sottolineo, di poterlo svolgere in un modo che non necessiti il loro annullamento come madri e come figlie, insomma come coloro che si prendono cura.
Un quarto merito è la gratitudine. L’autrice non dimentica nessuno di coloro che hanno contribuito a rendere la sua vita un capolavoro, dai bisnonni all’ultimo paziente incontrato in corsia, passando per tantissimi, tantissimi volti, a cominciare da quello che mi è più caro (e che è più caro a lei, soprattutto) quello del marito Nanni, prototipo di maschio base solidissimo con pochi optional ma funzionante alla perfezione (come la Land Rover, “quel che non c’è non si rompe”). E se come dice Chesterton la misura di ogni felicità è la riconoscenza, questo è un libro felice, felicissimo.
Il quinto merito è il non tralasciare nessuno dei temi che ci stanno o dovrebbero starci a cuore, tra cui la cura dell’aspetto e del vestire, ma prima, molto prima, il tema dei metodi naturali (detti anche “il metodo Tardelli”). Anche su questi temi la voce dell’autrice – perché anche se è medico qui secondo me siamo davanti all’opera di una scrittrice – è coraggiosamente estranea alla vulgata del mondo, come è stata ed è tutta la sua vita.
L’ultimo merito che vorrei menzionare infatti è la scrittura elegante e mai scontata, sicura e mai noiosa che rende questo racconto più simile a un romanzo che a un saggio, del quale conserva però la capacità di sollevare e affrontare questioni. Una vera sorpresa per me che credevo di conoscere la mia amica, di avere già potuto apprezzare tutti i suoi talenti, e invece non sapevo che avesse anche questo. Spero che ci sia almeno qualcosa in cui non riesca, altrimenti scatta l’invidia.
E qui veniamo all’ultimo punto. Il “nostro” padre Emidio – che compare anche qui – diceva che una donna non ammette che nel suo raggio di azione ci possa essere una donna migliore di lei in tutto. Ecco, io devo ancora trovare un ambito in cui Elisabetta non sia migliore di me. Una donna che dovesse leggere, magari in un punto della sua vita in cui le scelte decisive sono compiute, potrebbe provare un po’ di sgomento (leggi invidia, competizione, inferiorità). Ecco, io che la conosco, vi prego di credermi: questo libro non serve a dire “guardate come sono stata brava”, ma “forza, ragazze, potete farcela, costruite anche voi una vita feconda, senza paura, senza complessi”. E questa decisione di essere fonte di vita in ogni circostanza possiamo prenderla tutte, in qualsiasi posto siamo chiamate a stare, qualsiasi ruolo a ricoprire, qualsiasi circostanza a vivere. Possiamo prenderla anche se la nostra esistenza ha già una forma ormai definita. Non è tardi. La decisione se essere fonte di vita per coloro che ci sono affidati spetta solo a noi, e possiamo scegliere di farlo, sempre, in qualsiasi giorno ci sia dato di vivere.
April 7, 2024
“Un solo corpo e un sol spirito” Monastero WiFi di Roma- Incontro mensile
Ricordiamo che oggi, lunedì 8 aprile, vi aspettiamo al battistero di san Giovanni in Laterano per l’incontro mensile con gli amici romani ( o di passaggio) per fare uno spuntino alle 20.30 e cominciare alle 21, avremo con noi dalla Puglia don Daniele Troiani che ci parlerà di come offrire noi stessi durante l’eucaristia: “Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito”. Qui invece la trascrizione della bellissima catechesi di marzo.
“UN SOLO CORPO E UN SOLO SPIRITO”: il dinamismo della Liturgia Eucaristica”
Catechesi del 5 marzo 2024 di don Filippo Ciampanelli
Buonasera a tutti allora, è bello vedervi, è bello stare con voi, grazie di essere qua.
Possiamo fare una piccola preghiera all’inizio?
Invochiamo lo Spirito Santo, ogni cosa deve cominciare con Lui.
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo
Vieni o Spirito Santo, scendi nei nostri cuori, rendici docili alla tua presenza, vieni nelle nostre menti, aprile a Dio, tocca i nostri cuori, rendici umili, semplici, tu che sei il Consolatore vinci ogni solitudine, tu, fortezza di Dio, vieni a rinfrancare i nostri cuori. Vieni Spirito Santo di Dio come sei sceso nel cenacolo, sugli apostoli e su Maria. Ripetiamo nel nostro cuore l’invito: vieni Spirito Santo, vieni Spirito Santo, vieni, scendi su di me, vieni nel mio cuore! Grazie Signore! “Gloria”
Dunque cari amici, cari fratelli e sorelle, il tema di questa sera è la liturgia eucaristica, state trattando la Messa, no?
Allora nella S. Messa, all’interno della Messa, c’è una parte che è la liturgia eucaristica.
Di cosa stiamo parlando?
Quando andiamo a messa sappiamo che ci sono dei riti introduttivi, poi sappiamo che ci sono le letture, c’è sempre la preghiera del prete, dopo la quale la professione di fede, poi ci si siede e c’è la presentazione dei doni.
Da lì in poi, un po’ una nebbia, non si capisce bene cosa succede.
Diciamo la verità, la maggior parte dei cattolici fanno fatica a capire poi cosa succede. Hanno in mente i più credenti, diciamo così, che avvengono due cose: la consacrazione, dove il pane e vino non sono più pane e vino ma Corpo e Sangue di Cristo e la comunione. Ma tutto ciò che avviene in quel tragitto… diventa un po’ oscuro. Allora io questa sera vi parlerei proprio di questo che nella liturgia si chiama “liturgia eucaristica”.
La percorriamo insieme e vediamo che c’è molto di più e che c’è qualcosa di veramente, credo, molto molto bello.
Dunque, comincia tutto sull’altare, quando si portano il pane e il vino. Il prete fa delle preghiere, si possono fare dei canti, immancabilmente si raccolgono le offerte, però ad un certo punto venite interpellati voi: il prete dice: “Pregate fratelli e sorelle perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre Onnipotente” …
“Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa chiesa”.
Queste parole che dite sempre, sicuramente ci credete, non so se anche le capiamo bene, perché? Perché diciamo, lo avete detto voi, “riceva dalle tue mani questo sacrificio”.
Ma che sacrificio avete fatto, scusami! Non sta parlando dell’offerta (della questua) , chiariamo, ecco! Sta parlando del pane e del vino.
Ora, questo pane e vino voi li avete mai visti, confezionati, regalati?
No, allora che sacrificio è?
Allora qui cominciamo a capire cosa avviene: quel pane e quel vino sono due simboli, simboli vitali: il pane rappresenta la dimensione della quotidianità, è il pane quotidiano, è il lavoro, è la fatica, è “portare a casa il pane”. Il vino rappresenta, invece, la dimensione della straordinarietà, della festa.
Diciamo che il pane sta all’utile come il vino sta al dilettevole. Sono le due dimensioni della nostra vita: una “ferialità”, fatta di lavoro, fatta di fatica, fatta di ripetitività (mi veniva da dire fatta di Costanza) e poi c’è la dimensione di festa, di sorpresa, di gioia: pane e vino rappresentano questo!
Allora, dentro questi due simboli c’è la nostra vita, la vita di ciascuno di noi che va, ha portato i doni all’altare e, anche quando non si portano all’altare, il sacerdote è chiamato a riceverli da qualcuno, in modo tale che vengano portati sull’altare di Dio. Lì dove arriverà a Cristo ciò che simboleggia tutta la nostra vita.
E allora l’assemblea viene convocata dal sacerdote che dice poche parole, ma quelle che nella liturgia eucaristica sono fondamentali.
Gli viene chiesto, in sostanza: “fratelli sorelle che volete fare? E l’assemblea risponde: “Il Signore riceva… questo sacrificio” (dal latino sacrum facere, fare sacro).
Vedete, ciò che noi facciamo nella vita rischia di rimanere “desacralizzato”.
Quand’è che diventa sacro?
Quando noi entriamo in relazione con Dio. Allora vedete che la vita non va solo vissuta, non va solo benedetta ma va anche celebrata.
Quando la vita è in unione col Signore, quando è sul suo altare, allora questa vita è celebrata. E diventa qualcosa di più grande.
Quando noi diciamo: “Signore tutto quello che ho vissuto in questa settimana, anche le cose più faticose – come il mio collega che mi cammina sul sistema nervoso, mia suocera e mio suocero – adesso trova un senso”.
E il senso non è nelle cose stesse, ma nel fatto che io le condivida con te, Signore. Queste cose messe sul tuo altare possono diventare qualcosa di meraviglioso e già capite cosa diventeranno.
Comincia così questa offerta. Si comprende, dunque, quanto sia importante andare a Messa e “portare la nostra settimana al Signore”, andarci quotidianamente invece significa “portare la giornata a Lui”, quindi, dare un senso alle cose che di senso ci sembra non ne abbiano.
Mi viene in mente una frase della Liturgia delle ore, in cui il Signore dice: “Amore voglio, non sacrifici, non offerte ma comunione con me”. Il Signore vuole comunione con noi.
Il senso di tutta la liturgia eucaristica, che è il cuore della Messa, infatti, è la comunione: fare comunione tra noi e Dio.
Come si fa a fare questa unione comune tra la terra e il cielo? Noi mortali, terrestri, dobbiamo salire verso il cielo, verso l’immortalità, e il Signore deve scendere.
Ecco, allora, il primo movimento eucaristico della liturgia, che chiamerei ascensionale, comincia proprio da qua. Portiamo al Signore quello che viviamo, con il pane e con il vino, e gli diciamo che vogliamo fare una offerta a Lui.
Poi, il sacerdote dice una preghiera: “Il Signore sia con voi”. E inizia da qui un dialogo con Dio, che è il più lungo e importante della messa.
Questa preghiera, che è stata già recitata prima della lettura del Vangelo, si ripete per una seconda volta. Ma perché il Signore deve stare di nuovo con noi? Il motivo è che comincia il momento più importante.
E per segnare questo momento il sacerdote fa una seconda affermazione: “In alto i nostri cuori”, che significa proprio che si entra nel clou della celebrazione.
Si risponde: “Sono rivolti al Signore”. Questo è l’inizio della fase più importante e paradossalmente è quella che conosciamo meno.
Poi c’è un terzo invito: “Rendiamo grazie a Dio”. L’assemblea risponde “È cosa buona e giusta” e da ora comincia un’altra fase, un secondo scatto.
Dopo aver portato al Signore la nostra offerta nei segni del pane e del vino sull’altare, inizia una preghiera in cui il sacerdote prega a braccia aperte.
Quando il sacerdote si pone con le braccia aperte è un simbolismo, significa che la preghiera è solenne, non prega per sé ma intercede per il popolo (come ad esempio faceva Mosè nell’Antico Testamento quando pregava per il popolo durante la battaglia).
Ma quale è la preghiera più grande che una creatura, un figlio di Dio, può rivolgere al Padre? Quella di lode, di ringraziamento. Il termine Eucarestia, deriva dal greco antico (εὐχαριστία) e significa rendimento di grazie.
La preghiera più bella è proprio quella di lode, di grazie, non quella in cui preghiamo e facciamo la lista di richieste dei nostri bisogni al Signore, ma quella in cui preghiamo per dimostrare a Dio che gli vogliamo bene, come un figlio fa con i suoi genitori.
Questa preghiera commuove il Padre, infatti, Lui ci risponde riversando su di noi lo Spirito Santo, che rappresenta la sua commozione.
Allora la chiesa ci fa fare una preghiera di lode: È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie”.
E cominciamo a rendere grazie.
Ora noi siamo latini in senso liturgico (anche in tutti gli altri sensi), ma siamo latini e quindi noi abbiamo un rito che è il rito latino, che è sintetico, conciso, il più conciso della Chiesa. Il che ci va anche bene, in tre quarti d’ora ce la caviamo a fare la Messa, però ci sono molti altri riti nella Chiesa (che so: etiopico, maronita, bizantino, caldeo, armeno, eccetera), dove invece la liturgia è anche più bella, va detto, anche se è un po’ più lunga.
E qui, questo momento di ringraziare, questa preghiera di ringraziamento che si chiama prefazio, cioè che si dice davanti a Dio, è molto più estesa, molto più lunga. Si ringrazia per tutto, si parte dall’inizio, dalla creazione, la storia della salvezza… Tutto quanto, no?
E qui una piccola parentesi comica, visto che siamo a una certa ora… Mi viene in mente che quando ero in Azerbaijan fui invitato ad una divina liturgia in una chiesa ortodossa, di tre ore e mezza. Allora, nella nostra preghiera, nel prefazio, noi ringraziamo Dio. Sostanzialmente ringraziamo il Padre nello Spirito per una cosa. Siamo latini, sintetici, e lo ringraziamo perché ci ha dato Gesù. Poi i vari prefazi cambiano a seconda dei momenti dell’anno, ma tendenzialmente noi ringraziamo per Gesù. E quindi abbiamo offerto la vita, abbiamo ringraziato, in questo cammino ascensionale per arrivare verso Dio, e c’è ancora un passaggio, l’ultimo che è bellissimo. E finisco nel prefazio dicendo: “Insieme con i cori degli angeli e dei santi cantiamo insieme la tua gloria: Santo, Santo, Santo, il Signore, Dio dell’universo…”.
Allora: perché questa cosa degli angeli e dei santi?
Perché il Santo non è stato inventato e scritto dagli uomini, come la gran parte delle preghiere liturgiche, scritte da Papi, Dottori della Chiesa… Il Santo è copiato dal cielo. Nella Bibbia ci sono due momenti: il profeta Isaia e San Giovanni (nell’apocalisse, l’ultimo libro della Bibbia) hanno delle visioni: vedono il Cielo, vedono il paradiso, vedono il trono di Dio e ascoltano questo canto che avviene attorno al trono di Dio e sentono le schiere celesti dire: “Santo, Santo, Santo, (tre volte Santo: Padre, Figlio e Spirito Santo) il Signore, Dio dell’universo. I cieli e la terra sono pieni della sua gloria.” A cui abbiamo aggiunto una parte che è l’acclamazione prima di accogliere Gesù a Gerusalemme: “Benedetto colui che viene”(perché sta per arrivare). Ecco però quella preghiera è scritta in cielo (“Made in Heaven”), non l’abbiamo fatta noi.
Che vuol dire?
Che in quel momento noi ci uniamo, noi chiesa terrestre, con la chiesa celeste.
Siamo veramente l’unica Chiesa, unita per cantare la lode più grande. Perché la nostra preghiera salga verso l’alto, ci uniamo con coloro che sono già in alto.
Allora tu vai a messa, ricordi i tuoi defunti, magari li porti con una grande fatica nel cuore, perché hai una grande nostalgia, ti mancano, non li hai più accanto a te, e in quel momento lì, durante il Santo, loro sono più vicini a te come mai.
Perché non solo tu li pensi, non solo preghi per loro, ma preghi con loro, con le loro stesse parole e in unione liturgica con loro.
Allora se noi avessimo non solo questi sensi corporei, ma i sensi dello spirito, potremmo sentirli. Potremmo sentire che loro cantano, pregando con noi.
E’ bella questa cosa, no?
Sapete che c’era Santa Monica, la mamma di Sant’Agostino, che andava sempre al cimitero e Sant’Ambrogio che era il vescovo di Milano le disse: “Sì, vai pure al cimitero, se vuoi, però vai a messa, perché è lì che sono vivi.”
Allora noi pure andiamo al cimitero, poi i fiori costano… Invece vai a messa, che è gratuito, e lì stai con loro, lì il cielo si apre… Allora capite che questa è la preghiera più grande che c’è e infatti va cantata, possibilmente, nella messa questa lode.
Allora questo è un momento ascensionale: portiamo la nostra vita, tutta la settimana la mettiamo sull’altare. Poi facciamo questa grande preghiera di gratitudine, alzando i cuori e rendendo grazie. E poi ci uniamo con il coro degli angeli e dei santi in Cielo. Abbiamo fatto il nostro percorso ascensionale.
Il nostro l’abbiamo fatto, tocca a Dio. Che fa Dio?
Si lascia vincere in generosità da noi?
No. Allora: arriva Dio e guardate… Che cosa fa?
Lo sapete: ci dona se stesso!
Il Padre manda lo Spirito perché su quel pane e quel vino arrivi Gesù. Dove arriva Gesù, lì dove noi ci siamo dati a Lui, gli abbiamo dato il pane e il vino simboleggia la nostra vita, Lui vieni lì in quello che gli abbiamo dato. Dio non si impone, ma si propone, ma appena gli apri la porta, entra da quella porta che gli hai aperto.
E succede come succede nell’incarnazione.
Il Padre manda lo Spirito perché ci sia Gesù, perché nell’incarnazione il VERBO SI FECE CARNE IN MARIA, e qui il VERBO SI FA CARNE nel PANE EUCARISTICO. Succede questo grande dono Trinitario, noi abbiamo dato qualcosa di nostro a Dio, DIO DA SE STESSO A NOI.
Sentite le parole che belle: “Veramente Santo sei tu o Padre, fonte di ogni Santità, ti preghiamo, santifica questi doni.”
Non c’è una parola un po’ ripetuta qua?
Santo! Perché Santo?
Perché lo fa lo Spirito Santo, quello lo fa solo lui.
Lo Spirito Santo è uno che per deformazione professionale è il Ministro degli Esteri di Dio, cioè è colui che porta Dio fuori da Dio.
Allora come fa Dio a venir fuori dallo Spirito Santo: chi è che ti dà il perdono nella confessione, chi è che ti porta Gesù nell’eucarestia? Lo Spirito Santo.
Quello che non capiamo è la Persona che più sperimentiamo in realtà delle Tre persone della Trinità.
Lui ha questa specialità di azzerare le distanze temporali e spaziali. Gesù si è incarnato 2000 anni fa, e morto e risorto 2000 anni fa, ecco Lui lo ripresenta lì, non simbolicamente, ma veramente.
E cosi fa anche per gli spazi, distinti, dispersi, diversi, Lui ci fa un solo corpo. Vediamo un attimo.
Allora sapete cosa succede, non mi soffermo più di tanto. Quel pane rimane pane da vedere, ma è Dio quel Pane, Tutto Dio come Pane e tutto Pane quel Dio, è bellissimo. Dio ci lascia quel segno di pane e a me piace molto questa cosa, perché vedete il pane è PRENDETE E MANGIATE, ma non c’è intimità più grande guardate.
Credo che il rapporto intimo e grande che ci sia al mondo, sia quello di una madre col proprio figlio o con la propria figlia. In natura è così.
E però qui Dio va oltre, perché una mamma, per quanto ami suo figlio o la sua figlia non può darsi da mangiare, non può entrare dentro a suo figlio o a sua figlia. Dio SI, Dio si fa pane per entrare in noi cosi intimo da essere dentro di noi. Questo Dio che si fa così intimo, fa Pasqua con noi.
Si dicono le parole dell’ultima cena. Perché le parole dell’ultima cena? Vedete Gesù ha inventato l’ultima cena, dicendo “FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME”, perché tutto ciò che ha vissuto dopo, cioè la Passione e la Risurrezione, il centro di tutto, dove siamo stati salvati, Dio che ha assunto tutta la nostra umanità fino in fondo, fino all’abbandono sulla Croce, fino al sepolcro, fino alla morte, fino a prendere su di se il peccato e questo l’ha preso con amore per risolvere e vincere ogni nostra distanza, solitudine, paura, morte, peccato.
Ecco tutta la nostra salvezza, Dio ce la ripresenta. Gesù ha fatto un rito, dicendo “FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME”, così che in questo rito è presente Lui nel momento della morte e della Resurrezione.
Noi siamo qui al calvario a Gerusalemme, 2000 anni fa, davanti al sepolcro a Gerusalemme 2000 anni fa. Questo momento è il momento nel quale non viene rappresentata la Passione di Gesù, ma RIPRESENTATA. Ecco, proprio lì.
Noi siamo portati dallo Spirito Santo alla verità della nostra salvezza. Andiamo a messa e incontriamo quello. Guarda che dono che ci fa il Signore, infatti diciamo “MISTERO DELLA FEDE”. “ANNUNCIAMO LA TUA MORTE O SIGNORE E PROCLAMIAMO LA TUA RISURREZIONE, NELL’ATTESA DELLA TUA VENUTA”.
L’avete detto voi, vedete come sono importanti le cose che dite. Annunciamo la tua morte e proclamiamo la tua risurrezione. E sì. Ammetti tu che in quel momento lì hai vissuto la Pasqua. Signore la tua morte e la tua risurrezione.
Però ci sono anche tre momenti, San Tommaso D’Aquino lo spiegava che meraviglia… diceva così: nell’eucarestia noi abbiamo un po’ questa idea, che so arriva Gesù sono le 21 e 27, Gesù è arrivato alle 21 e 27, Gesù delle 21e 27. NO lo spiega bene San Tommaso D’Aquino, dice attenzione nell’eucarestia non c’è solo il Signore in questo spazio, c’è il Signore in tutta la sua temporalità. Che significa? Tutto il passato di Dio, dal momento della sua incarnazione, il farsi uomo, le parabole, i miracoli, la predicazione.
C’è tutto nell’Eucarestia: c’è Gesù adesso nella sua “annunciamo la tua morte” – il passato di Dio – “proclamiamo la tua Resurrezione” – il presente. Gesù adesso siede alla destra del Padre, risorto e vivo nel cielo. C’è Lui lì, adesso, a quest’ora è alla destra del Padre e poi “nell’attesa della tua venuta” – futuro. Questo Tommaso d’Aquino l’ha ricordato alla Chiesa dicendo che nell’Eucarestia non c’è solo il documento della nostra salvezza, il passato di Dio o Lui presente oggi, c’è il futuro di Dio, c’è già la fine della nostra vita. Tu sei davanti a Colui che ti giudica alla fine della vita, tu sei davanti all’eterno che, per sua grazia, vedremo per sempre nella beatitudine eterna. La storia è già finita lì, c’è già tutto lì. E’ il futuro che viene a noi.
L’Eucarestia è una finestra aperta dall’eternità.
Pensa, anche qui quando fai l’Adorazione, c’hai davanti il Paradiso e dici: “ma che bello, i miei cari li ricordo qui, Gesù sono qui con te, li vedo”. E’ il futuro che viene a noi e tu lo riconosci…“nell’attesa della tua venuta.
L’attendo perché so che Tu sei qua.
C’è questa dimensione. Allora vedete cosa ci offre Dio? La sua Pasqua, la sua Incarnazione, il suo corpo passato presente e futuro, il senso della vita e della storia. Che possiamo fare in più? …uno dice…beh…basta, ormai…più di così!…e invece io oserei dire, pensate, che il bello deve ancora venire!
Dopo questa cosa che avete detto c’è una preghiera che comincia il sacerdote a dire e che… questa è un po’ più difficile da ascoltare perché è la più lunga della Messa, che il sacerdote dice a braccia aperte …poi tu sei già lì da quaranta minuti…la digestione, la partita, la casa, la suocera, la nonna…cominci a pensare ad altro e invece in quel momento lì ci sono tre cose veramente straordinarie che vengono dette.
Io provo a raccontarvele anche leggendo un attimo il testo liturgico. Il sacerdote comincia così: “celebrando il memoriale della morte e Resurrezione del Tuo Figlio”…questa è la preghiera eucaristica 2, ce ne sono diverse. In genere facciamo sempre la 2 perché è la più breve però c’è anche la 3, la 4. Nella terza si dice: “celebrando il memoriale della passione redentrice del tuo Figlio e la Sua Resurrezione e ascesa al Cielo”, nella quarta “in questo memoriale della nostra redenzione celebriamo o Padre la morte di Cristo, la Sua discesa agli inferi, proclamiamo la Sua Resurrezione e ascensione al Cielo”.
Ritorna sempre una parola… “memoriale” …significa… non è la memoria psicologica, quella che abbiamo, la nostra idea, ma è una memoria viva…cioè noi, Signore, qui possiamo fare la memoria vivente di tutto ciò che Tu hai vissuto. Noi lo riconosciamo nella tua morte, Passione, Resurrezione ascensione in Cielo. Tutto questo quando Gesù disse: “fate questo in memoria di me” …non “ricordatevi” ma “fate” e io sarò sempre con voi.
Bene, questo lo richiamiamo, ma poi ci sono due cose spettacolari. Dicevamo, vi ricordate, che la Comunione, che l’obiettivo della Liturgia Eucaristica si realizza ascensionalmente, noi che andiamo verso Dio, con la nostra vita, ringraziamo, osanniamo insieme ai Beati e poi Dio che viene verso di noi, scende verso di noi…bene!…questi due momenti adesso si ripresentano ancora ma ad un livello più alto.
C’è un altro momento ascensionale: sono le parole dell’Eucarestia, ve le leggo così vedete che è vero: “celebrando il memoriale della morte e Resurrezione di Tuo Figlio ti offriamo” …siamo noi… “ti offriamo”, verso l’alto… “Padre il pane della Vita e il calice della salvezza e ti rendiamo grazie perché ci hai resi degni di stare alla Tua presenza a compiere il servizio sacerdotale”…poi ancora la preghiera terza… “ti offriamo Padre in rendimento di grazie questo sacrificio vivo e santo, guarda con amore e riconosci nell’offerta della Tua Chiesa la vittima immolata per la nostra redenzione” .Cioè che facciamo… siamo qui con Gesù, siamo intorno a Gesù, e diciamo “noi insieme a Gesù ci offriamo”…ci offriamo perché?
Per il rendimento di grazie, l’azione di grazie, lo dicevamo, ma anche per la salvezza del mondo e questo è il mistero grande.
Ogni Messa che celebri ci uniamo all’offerta di Gesù per la salvezza del mondo.
Com’è che siamo stati salvati noi?
Ci vorrebbe una sera, anzi una settimana per spiegarlo ma molto molto banalmente, noi siamo stati salvati perché Dio in Gesù, seconda persona della Trinità, Figlio di Dio, per fare noi Figli di Dio, è sceso verso di noi; scendendo verso di noi ha abitato con il suo amore ogni nostra distanza. Noi eravamo finiti nella morte, nel peccato, nella paura e Lui ha abitato morte, peccato e paura con il suo amore così da redimere tutto ciò che viviamo.
Scendendo in noi ci ha salvati, ma non solo: ci ha salvati anche offrendo, perché, vero Dio, è sceso verso di noi e ha trasformato tutta la nostra verità e realtà col Suo Amore; anche vero Uomo Gesù, e da uomo ha fatto quello che nessun uomo è riuscito a fare, cioè, senza peccato ha detto sì a Dio, nei momenti in cui l’uomo non riuscirà mai: nell’abbandono, nella sofferenza, quando ti mettono i chiodi ai polsi, quando ti lasciano i tuoi, quando ti condannano ingiustamente; quando trovi l’abbandono di Dio sulla croce, la Sua offerta così che Dio dica : “ che bello, tutto riconciliato”.
Dio è sceso nelle profondità dell’uomo, l’uomo Gesù dice sì a Dio per sempre, in ogni situazione.
Ecco, questo brevemente, come siamo stati salvati, in un modo banalissimo scusate, ma è il modo in cui siamo stati salvati. Ecco allora qui diciamo “Gesù, anche noi partecipiamo a questa salvezza, e noi, come Tua chiesa, visto che Tu sei venuto nelle nostre mani, Ti offriamo ancora al Padre, per intercedere per il mondo. Capito perché ricordiamo anche i nostri defunti nella messa, o offriamo la messa, offriamo la messa per la pace, per la salvezza, per la vita, per la famiglia; ecco perché c’è questa potenza salvifica che si sprigiona nella messa, offerta in rendimento di grazie.
Allora tutta la nostra vita non la offriamo da soli con il pane ed il vino, ma l’offriamo anche in un secondo momento con Gesù al Padre. Allora sì che tutto quello che viviamo assume un grande valore. Ho questo peso, questa fatica, Signore, questo non senso nella mia vita, ma adesso sul mio altare ho quel pane, quel pane l’ha abitato Gesù.
Allora Gesù prende la mia sofferenza, la mia fatica, la mia angoscia, la mia croce e ne fa una meraviglia, ne fa una resurrezione. Capite che roba eh! Ma c’è qualcosa che mi piace più di tutte, ve la dico adesso : va avanti così, prendiamo sempre la Preghiera Eucaristica II, dice così: “ Ti preghiamo umilmente, (c’è una preghiera ancora che si fa…. Ti preghiamo umilmente) per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo“.
Preghiera Eucaristica III : “A noi che ci nutriamo del corpo e sangue del Tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo ed un solo spirito.”
Parole un po’ tecniche e concise. Provo a spiegarle un attimo.
Invochiamo una seconda volta lo Spirito Santo. La prima volta, pochi minuti prima, lo abbiamo invocato quando c’è stato il “Santo, santo, santo…”, perché il pane e il vino diventassero il Corpo ed il Sangue di Cristo. Bene, è uscito lo Spirito Santo, tecnicamente si chiama ‘Epiclesi’ l’invocazione allo Spirito Santo; ma c’è una seconda invocazione dello Spirito santo che facciamo adesso. Su chi? Qua c’è il corpo e sangue di Cristo, su chi questa invocazione? Su di noi, su di noi. Noi siamo qua, abbiamo bisogno dello Spirito Santo.
Preghiera eucaristica IV, dice così : “ Guarda con amore o Dio il sacrificio che tu stesso hai preparato per la tua chiesa, e a tutti coloro che partecipano a quest’unico pane e a quest’unico calice concedi che uniti in un solo corpo dallo Spirito Santo diventino offerta viva in Cristo, a lode della Sua Gloria”
Allora, provo a spiegare un attimo.
Invochiamo lo Spirito Santo, perché quello Spirito Santo adesso scenda su di noi, perché anche noi siamo corpo di Cristo.
San Paolo dice : “ Quanti sono stati battezzati in Cristo formano con Lui un solo corpo.”
Siamo un unico corpo. Allora diciamo: Spirito Santo vieni, non solo su quel corpo lì, ma su questo corpo qua, perché trasformare il pane ed il vino in Gesù non è difficile per Dio, li ha inventati Lui il pane ed il vino, obbediscono. Ma fare di noi che siamo litigiosi, riottosi, di destra, di sinistra, conservatori, progressisti… non so cos’altro… romanisti, laziali,… io tifo Novara… non c’è problema; invocare lo Spirito Santo perché faccia di noi un solo corpo, quello è il miracolo di Dio, e l’obiettivo dell’Eucaristia è questo, cioè la parte ‘clou’ dell’Eucaristia è proprio questa cosa qua ; e ve la dico con i Padri della Chiesa.
Sant’ Agostino spiegava così : diceva, ma la liturgia dice così, avete sentito, tutti noi che riceviamo un solo corpo, fa che noi diventiamo un solo corpo. Cioè noi facciamo la Comunione, mangiamo tutti lo stesso corpo, per essere tra di noi un solo corpo. L’obiettivo della liturgia Eucaristica è unirci, è stare tra di noi.
Sant’Agostino diceva così “stai attento nelle catechesi mistagogiche quando tu partecipi all’eucaristia ci sono due Corpi di Cristo: uno è sull’altare e lo veneri, ti genufletti, lo adori, fai benissimo, ma ricordati che c’è un secondo Corpo di Cristo che è attorno a te e non succeda che tu adori il primo ma profani il secondo, perché ogni gesto di distanza e divisione è ferire il Corpo di Cristo”.
Pensate che nel primo millennio cristiano si parlava di due Corpi, questo è chiaro, del corpo reale e del corpo mistico. Oggi noi diciamo il corpo reale è l’eucaristia e il corpo mistico è la Chiesa. Nel primo millennio cristiano era il contrario: Corpo mistico era l’eucaristia perché è mistico, perché proprio del mistero dell’eucarestia, quindi durante un Sacramento (mysterion in greco significa Sacramento), ma il Corpo reale era la Chiesa.
Allora durante la Messa c’è questo movimento qua, pensate che bello, noi chiediamo e preghiamo per l’unità e Dio desidera questo e per questo invochiamo lo Spirito Santo. Allora l’unità è la cosa più importante. Sapete Gesù nel suo testamento – Giovanni 17, 21 – “perché siano una cosa sola Padre, come Tu in me ed io in loro, una cosa sola perché il mondo creda” ultime parole di Gesù prima della passione, ultima preghiera-testamento di Gesù. Questo mi chiede
Chi è nostro amico nella fede? Si chiama diavolo, “diaballo” dal greco, “divisore”.
Dio punta all’unità, lui alla divisione. Allora stiamo attenti perché se noi diventiamo eucaristici, qual è la prova dell’essere eucaristici spirituali?
Essere nell’unità e non è facile. Non è facile nella famiglia, non è facile nella comunità, non è facile nella Chiesa, quante polarizzazioni. Però attenzione, noi non dobbiamo essere di destra o di sinistra ma di Gesù. Non progressisti o conservatori ma cattolici e cercare sempre l’unità. Questo succede nell’eucaristia, lo Spirito Santo scende su di noi per questo.
Allora capite tutto quello che c’è dopo. Dopo che lo Spirito Santo è sceso su di noi, cioè su di noi in ogni eucaristia, se lo accogliessimo diremo “che bello Signore riaccendi in me la fiamma dell’unità, della comunione e dell’amore nonostante tutto quello che vivo e la messa fa miracoli”.
Sei lì con tuo marito, fai fatica con tua moglie, a messa ti tieni per mano, Spirito credo in te, vieni qua, ci riunisci e ci fai vedere oltre.
Ecco, questa cosa qua, questa unità della Chiesa è quello che si evince da ciò che succede, poi ricordate si dice “ricordati Padre della tua Chiesa diffusa su tutta la terra”, del nostro Papa, Vescovo, dei Sacerdoti, Presbiteri, Diaconi, defunti…
perché c’è sto’ elenco?
Perché stiamo pregando per la Chiesa, diciamo “Signore davanti a te con Gesù sull’altare che ci fa un solo corpo, con lo Spirito che scende su di noi ti portiamo davanti la tua Chiesa e preghiamo anche per i defunti”, è lì che li ricordiamo “ricordati anche dei nostri fratelli e sorelle che si sono…” perché fan parte anche loro della Chiesa, poi “di noi tutti abbi misericordia”, tutti preghiamo per tutti.
E’ la preghiera di tutti per tutti vale più di quella che uno fa per gli altri.
Quindi questo momento è il momento grande dove la Chiesa trova sé stessa. Vedete che bello. Cioè allora c’è questa ascensione nell’offerta con Gesù e questa seconda discesa dello Spirito Santo che dopo essere sceso sul pane e sul vino scende sul corpo della Chiesa. E così si è realizzata la comunione.
Vedete com’è la liturgia eucaristica che si conclude con la dossologia che è quel “per Cristo, con Cristo, in Cristo”.
Se ci pensate il sacerdote da terra al cielo alza, vedete il movimento ascensionale, e la comunione è realizzata, abbiamo fatto tutti i movimenti possibili e immaginabili allora dice “per Cristo, con Cristo, in Cristo, a Te Dio Padre Onnipotente nell’unità dello Spirito Santo”, noi uniti dallo Spirito Santo, “ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli” cioè adesso, tutto e per sempre. E qui scoppia l’amen.
Perché ho detto scoppia? Perché i Padri antichi, Sant’Agostino diceva: questo amen durante la liturgia andrebbe gridato. Gridato perché è l’amen definitivo.
Sapete cosa significa la parola amen? AMEN: Sì e tra l’altro è la parola che Maria ha detto sicuramente all’angelo. Sia fatto, fiat, ma Maria non parlava latino quell’espressione in greco ghenoito –avvenga- è come l’ebraico, visto che Maria parlava ebraico, amen.
Sicuramente era quello. Allora Maria dice “amen, sì lo voglio” sì con tutto me stesso. Allora tu dici sì alla comunione con Dio realizzata da noi che gli abbiamo offerto la vita prima sull’altare poi con Gesù verso il cielo…. e dal Signore che è sceso, con Gesù sul nostro altare, e dello Spirito sulla nostra assemblea.
Ecco, questa è la Liturgia eucaristica, capite quant’è bella la nostra fede eh? quanto è bello quello che viviamo? Non so quanto sarà, sette- otto minuti ogni settimana per questa parte della Messa che realizza la Salvezza in noi.
Cosa succede dopo? Accenno solo: a quel punto lì, ci si prepara alla Comunione, perché appunto dobbiamo ricevere quel Gesù che venga nella nostra vita e ci faccia un solo corpo con Lui.
E come si fa a prepararsi alla Comunione? Nessuno è degno.
La Chiesa ci fa fare due cose. Quali sono i due grandi comandamenti? Ama Dio, ama il prossimo. Ama Dio: preghiamo il Padre Nostro, la preghiera in cui c’è dentro tutto. Allora diciamo insieme il Padre nostro, che tra l’altro è nostro, non mio, quindi la preghiera della comunione, della comunità, la preghiera di –Cristo che, sull’altare, parla con Cristo no? tutto torna. E poi c’è lo scambio di pace, quindi, ama il prossimo.
Ecco lì la Chiesa latina ci mette lo scambio della pace perché noi confermiamo questo prima di ricevere il Signore Gesù, e ci prepariamo. Poi c’è molto altro, c’è anche l’Embolismo: “liberaci Signore da tutti i mali…” si attacca alla fine del Padre Nostro, è una preghiera di liberazione.
Liberaci, Signore, da tutti i mali. Si parla anche di turbamento, la parola è presa dall’ultimo discorso di Gesù: ”Non sia turbato il vostro cuore”.
Turbamento non è la paura esteriore, ma quella profonda, ecco, è la vittoria sulla paura, quindi c’è una preghiera di liberazione già nella Messa- quante cose, c’è tutto nella Messa! -però arrivo invece alla Comunione, così per riassumere qualcosina di importante.
Quando riceviamo la comunione, sappiamo a Chi andiamo incontro, gli diciamo il nostro Amen, (tra l’altro c’era un Padre che quando diceva: E’ il corpo di Cristo! Amen! Diceva: Ricordati che dici amen a due cose: a quello che stai per ricevere, è il Corpo di Cristo, ci credo che questo che sta per venire nella mia bocca è il corpo di Cristo, ma anche a te. Tu dici: Il Corpo di Cristo. Si, lo sono anch’io. Io sono membra del corpo di Cristo).
Dico questa realtà che appartiene alla mia esistenza. Dal Battesimo in poi, io faccio parte del Corpo di Cristo, che è la Chiesa.
Allora, vorrei dirvi tre cose sulla Comunione, che mi piacciono tantissimo:
La prima: Lessi una volta, quando stavo studiando in seminario- non ho mai più trovato quel libro-, un libro di Karl Rahner, dove lui raccontava di uno storico che spiegava una cosa molto bella, mi ha affascinato, e diceva questo: I cristiani hanno designato con il termine Comunione (Communio) questo ricevere il Corpo di Cristo. Bene, che cosa significa Communio? Communio pare che nel I sec. d.C a Roma, tra gli altri significati, avesse anche quello di matrimonio. Pensate che forza i cristiani, che chiamano matrimonio l’unione con Dio e noi! Tu vai a Messa tutte le domeniche e celebri il tuo matrimonio. Ma matrimonio con Dio, e certo! Se tu diventi con-corporeo e con-sanguineo perché ricevi il Suo corpo e ricevi il Suo sangue, diventi un solo corpo con Lui.Perché si portano all’altare gli sposi? Perché li portiamo all’altare?
Perché li si dice ”Prendete e mangiate, questo è il mio corpo offerto per te” che è quello che dice uno sposo alla sua sposa e viceversa. Prendi, questo è il mio corpo offerto per te!
Nel peccato, Eva e Adamo, prese e mangiò.
Con Gesù: ”Prendete e mangiate”. Ecco, quindi guardate che bella questa cosa della Comunione e matrimonio! Anche se la vita porta a celebrare un matrimonio, che è una festa grande ed eterna.
2) la seconda, il significato spirituale. Ora, tu ricevi questa ostia e dici: ”Eh, è uguale a quella di prima!” Io 20 minuti fa l’ho portata sull’altare nella processione offertoriale, dicendo “Signore ti presento la mia vita così come è, questo pane del lavoro quotidiano, te lo porto davanti”, e poi la ricevi e dici: ”da vedere è uguale”, questo si, che da vedere rimanga uguale. Perché poi esci da chiesa e non è che la tua vita cambi, il tuo datore di lavoro. Anzi torni a casa e trovi le peggio cose, ma quale è la differenza? La differenza è che adesso con te c’è Gesù, è questo il significato spirituale dell’eucarestia. Il Signore viene lì dove tu hai portato qualcosa, tu hai portato l’ostia e quell’ostia torna a te: sembra uno a uno palla a centro, invece no, c’è la differenza ed è che Gesù è con te, perché tu porti la sua presenza in giro. Che bella questa cosa!
Noi usciamo per fare qualcosa di diverso nel mondo.
Ultima cosa e poi chiudo, il tempo è scaduto, riceviamo quel pane spezzato, avete presente quello durante la comunione il pane si spezza e ricevi l’agnello di Dio, bene allora quando anche tu nella vita ti senti spezzato o spezzata capisci in quel momento che non è perduto, perché Gesù ti da la vita di Dio attraverso il pane spezzato.
Non attraverso il pane intero che rimane lì tranquillo e bello ma attraverso il pane spezzato ricevi Gesù.
Gesù ti dice nel Vangelo che il segreto per possedere la vita è donarla e che se vuoi trovarla devi perderla, allora ti dice non devi aver paura. Hai una croce, una fatica, hai qualche legame spezzato, qualche fatica che porti dentro? Ricevi Gesù, pane spezzato e capisci che quando soffri è ancora una possibilità di dire “io offro quando soffro e capisco che se offro apro all’amore di Dio la possibilità di compiere meraviglie nella mia vita.”
Ecco tutte queste cose ci dice l’eucarestia insieme a molte altre.
Allora per concludere abbiamo visto che la comunione è lo scopo della liturgia eucaristica , comunione con Dio è matrimonio con Dio, è comunione tra di noi.
Oggi cari amici la vita è estremamente dispersiva. Noi non possiamo fare nulla di fronte ai ritmi che abbiamo, anzi siamo dentro anche noi nel vortice della vita che gira, ma cosa ci manca in questa vita estremamente dispersiva? Un centro unificatore, ma dove lo troviamo?
Nella dispersione della vita il Signore ci aspetta al suo altare per proporci una comunione che ci rimetta a posto, perché ci rimetta a sesto, perché ci dia un ordine e un’armonia. E quest’ordine e quest’armonia non è un’idea, ma un fatto che accade, una comunione nella quale diventiamo parte, diventando Corpo di Cristo e ancora Corpo di Cristo tra noi, usciamo e siamo più intimi con Gesù, usciamo e siamo più affiatati, ecco il mistero che compie la liturgia eucaristica.
Adesso fissiamo l’adorazione, voi sapete adorare meglio di me, sicuramente durante l’adorazione, non so se adorate qualcosa dentro di voi, non se vi è utile, a me piace far questo durante l’adorazione: lasciarmi guardare.
Non siamo noi a far qualcosa, vedi cosa succede durante l’eucarestia se tu dici poche parole accade tutto perché tu sei per ricevere, l’adorazione eucaristica è il prolungamento della liturgia eucaristica e quindi correttamente non siamo noi a far chi sa che cosa, pregare, meditare, NO, lascia stare, stiamo lì davanti, noi guardiamo lui, quello si devi guardare.
March 28, 2024
Quella voce del Signore che mi chiede tutto
Nel giorno in cui Gesù istituisce il sacerdozio, condividiamo questa riflessione di don Luca Civardi, anche come segno di gratitudine verso i sacerdoti, tutti, quelli che lavorano sulla via della santità e anche gli altri, per i quali dobbiamo pregare ogni giorno, perché comunque alle loro mani benedette – povere e umane ma benedette – dobbiamo l’accesso al corpo e al mistero di Dio.
di don Luca Civardi
Nell’intimità del cenacolo, il Signore Gesù istituisce il ministero ordinato come strumento privilegiato di accesso al suo mistero, al suo amore infinito, alla grazia che sgorga da un cuore capace di amare oltre la morte. Si tratta di un sacramento, non di una modalità: c’è molto di più che la sola assegnazione di un ruolo. Proprio in questo giorno, ancora una volta meravigliato per quel che mi è stato chiesto nel mistero della vocazione sacerdotale, rifletto a voce alta e a parole scritte su che cosa significhi essere prete.
Sono sacerdote da quasi sedici anni, ho celebrato circa 7000 Messe e un numero maggiore di confessioni, ho distribuito migliaia di volte la comunione, ho battezzato, ho celebrato le nozze, ho dato l’olio degli infermi, ho pregato ogni giorno il breviario, ho cercato di dare il massimo nelle attività pastorali, offrendo la brillantezza dell’amore più che lo scintillio dell’originalità. Mi accorgo che niente di questo assomiglia a un vanto. Non mi vanto per quello che ho fatto, ne sono semplicemente meravigliato: mi faccio volentieri da parte, fino a scomparire, perché resti soltanto Chi mi ha chiesto tutto questo. Il prete è come se non esistesse: fa ciò che Cristo gli chiede e scompare, senza lasciare traccia, senza occupare il posto, senza pretendere un microfono o un video, senza invocare un consenso o un’ammirazione che sono decisamente fuori luogo. La gioia della vocazione sacerdotale ha un sapore intimo, profondo al punto che difficilmente può essere spiegato a parole e gesti: se si vuole capire un prete, lo si può fare solo accentando che la maggior parte di lui resta indisponibile e viene totalmente annientata perché brilli solo il Signore. I preti non brillano per la propria virtù, per il proprio entusiasmo, per la propria abilità: se si accontentano di questo sono fuori strada. E lo sono stato anche io, molte volte. La Chiesa ha bisogno dei sacerdoti solo se essi hanno piena consapevolezza della loro inutile necessità, non se sono brillanti e affascinanti fino a distogliere dall’unico che è necessario.
Tra i molti aspetti che la vita del prete fa brillare c’è il celibato. Oggi lo si ossequia fino a farlo percepire come superato dai fatti, come se fosse un’antichità ammirevole, ma stonata e inutile, come se fosse un mobile barocco in una casa moderna. Il celibato è una forma di libertà, non una castrazione o un’imposizione. La Chiesa sceglie i preti tra i celibi, senza chiedere a quelli che sceglie di essere celibi. Il celibato, ben lungi dall’essere una forma meramente costrittiva dell’ambito affettivo-sessuale, è la chiamata a una libertà grande, forse troppo grande perché oggi possa essere compresa. I preti di oggi hanno molti legami: ne sono, per certi versi addirittura dipendenti. Si legano a molte cose, persino materiali, lasciando piano piano sullo sfondo l’unico legame che conta. Non è un giudizio, ma una sensazione: case, macchine, oggetti tecnologici, animali e, qualche volta, famiglie o persone. Abbiamo bisogno di legarci, ma non possiamo scegliere sempre e soltanto quali legami preferire. Questo è il punto del celibato che è difficile da comprendere. Sento già l’obiezione: “saremmo mutilati, così”. No. Proprio no. Saremmo donati a chi ci ha chiamato, senza curarci minimamente né del nostro valore né delle nostre miserie. La libertà del sacerdote è grande e assoluta solo in ragione di Colui al quale egli si è legato, non in relazione a ciò che potrebbe fare, nonostante il suo ministero.
Mi fermo ancora una volta ai piedi del Signore, oso porgere il capo sul suo petto, per ascoltare ancora una volta quella voce che mi chiede tutto. E non mi stanco di riascoltarla, neppure dopo sedici anni.
March 24, 2024
Dammi da bere – Ritiro di Quaresima 2024

Dammi da bere – Ritiro di Quaresima 2024 – don Paolo Prosperi
“Così dice il Signore:
Ritornate a me con tutto il cuore,
con digiuni, pianti e lamenti;
laceratevi il cuore e non le vesti;
ritornate al Signore vostro Dio,
perché Egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore,
pronto a ravvedersi riguardo al male” (Gl 2, 12-13).
Non è certo un caso, se la prima grande parola che “fere l’orecchio” di chi ogni anno partecipa alla messa del Mercoledì delle Ceneri (perlomeno nel Rito Romano), è questo ribattuto richiamo del profeta Gioele: “Ritornate a me con tutto il cuore (…), ritornate al Signore vostro Dio!”.
La Quaresima, lo ha richiamato Camu poco fa, è tempo di conversione. Ma che vuol dire conversione? Ebbene, uno dei significati del termine latino cum-versio è proprio ritorno. Convertirsi vuol dire ri-tornare, cioè invertire la rotta per ritornare al luogo che si è lasciato, alla dimora da cui ci si è allontanati.
Quale luogo? Quale dimora?
In senso ultimo, quella grande dimora, quella grande fortezza, come dicono i Salmi, che è il Signore stesso: “Il Signore è la mia rocca, la mia fortezza, la mia rupe (…), il mio alto rifugio” (Sal 18, 2).
Tutto qui? È in questo “tornare al Signore” tutto il contenuto della conversione?
Mi permetto di suggerire: sì e no. Sì e no, nel senso che essere nel peccato – ci insegnano tutti i grandi maestri della fede, don Giussani incluso – significa essersi distanziati non solo dal Signore, bensì anche da se stessi, dalla verità di sé. Sì e no, nel senso che essere nella menzogna, significa vivere dimentichi non solo “dell’ampiezza, della lunghezza, della profondità, dell’altezza dell’amore di Cristo, che sorpassa ogni conoscenza” – per citare le parole di San Paolo risuonate più volte nella lezione di padre Lepori (Cfr. Ef 3, 18) – bensì anche dell’ampiezza, della profondità, dell’altezza del proprio desiderio, della sete del proprio cuore.
Il ritorno cui la Quaresima ci invita, non è quindi solo ritorno a Dio. È anche ritorno a ed in noi stessi, nella verità autentica del nostro io, poiché in realtà l’una cosa “tira l’altra”. Solo il cervo arso dalla sete, corre all’impazzata all’acqua viva (cfr. Sal 41). Se non sentisse la sete, perché mai dovrebbe correre? Così l’anima che non conosce se stessa – insegna san Bernardo –, cioè l’anima che vive dimentica del proprio stato di “siccità” interiore, non può conoscere veramente neanche Dio, poiché essa non sentirà in sè la fiamma di quel santo desiderio, che fa correre chi ne è arso al pozzo della Grazia.
Last but not least, a completare il quadro, un terzo e ultimo ritorno: il ritorno nella dimora della comunione fraterna, della fraternità. Il peccato, secondo tutti i grandi della tradizione, non ci distanzia e divide solo da Dio e da noi stessi, ma anche gli uni dagli altri. Mentre il frutto ed il segno inconfondibile del nostro ritorno a Dio, della presenza attiva, viva di Cristo in noi è il l’affiorare in noi della carità – è il sentire, il ricominciare a sentire l’altro come parte di noi, per quanto diverso da noi possa essere, per quanto profonde possano essere le ferite che si sono aperte nel rapporto tra noi.
Il segno più chiaro, la cartina al tornasole del crescere in me dell’esperienza di Cristo, dello scorrere in me dell’acqua viva del Suo Spirito – secondo quanto insegnano all’unanimità tutti i grandi maestri della tradizione – non è il benessere psicologico, il “sentirsi giustificati”; bensì è la carità, ossia il riflettersi nel mio sguardo su di te, dell’amore con cui mi riconosco amato.
Bene, in questa meditazione vorrei quindi riflettere con voi su questi tre “ritorni”, che mi pare trovino una non casuale corrispondenza proprio nelle tre grandi vie di penitenza che la Chiesa ci raccomanda di vivere in Quaresima.
Cos’è infatti il digiuno, se non un attivo lasciare che la fame e sete del nostro cuore tornino a manifestare la loro vera profondità e grandezza? E cos’è la preghiera se non un rivolgere lo sguardo del cuore – di questo cuore arroventato dalla ridestata coscienza della sua grande sete – al volto di quel Tu “misericordioso e pietoso” che Unico questa sete può lenire? E infine, che cos’è l’elemosina (pensiamo al posto della caritativa nella nostra vita) se non il gesto semplice ma grande, con cui ci educhiamo a sfondare la distanza che ci separa gli uni dagli altri, per tornare a riconoscere nell’altro un fratello, uno che ha nel cuore la nostra stessa sete?
Ritornare nella verità di sé: il coraggio del silenzio.
Giustamente siamo soliti associare il digiuno all’astensione dal cibo. Astenersi da cibi e bevande è infatti il modo più concreto e semplice di fare memoria del fatto che c’è in noi una fame e una sete che nessun cibo, nessun bene finito può saziare.
Non è questa, tuttavia, l’unica forma di digiuno. Qui mi permetto di segnalarvene una che ritengo oggi più che mai urgente riscoprire, vivere e praticare: il silenzio.
Di fatto, il mezzo più potente con cui il potere oggi ci blandisce e aliena, cioè ci tiene lontani dalla verità di noi stessi, il mezzo con cui ci mantiene direi alla superficie di noi stessi, non son tanto “cibi e bevande”; quanto il frastuono di immagini, notizie, input d’ogni genere che attraverso nuove tecnologie e social media ci bombardano vorticosamente, invitandoci a trascorrere le nostre giornate – senza che nemmeno ce ne accorgiamo – a “surfare” sulla cresta di questo e quel video dai colori eccitanti, di questa e quella chat che ci aiuti a sentirci un po’ meno soli. Guai a lasciare dei momenti di vuoto, dei momenti in cui semplicemente tacere in silenzio. Stolti che siamo! Perché invece proprio il silenzio, è forse il più importante digiuno di cui abbiamo bisogno, per continuamente ritrovare il senso della “profondità, dell’ampiezza, e dell’altezza” (cfr. Ef 3, 18) del nostro cuore, del nostro desiderio, per tornare a sentire la “voce del silenzio”, per dirla con Mina, cioè la voce di quella solitudine profonda che giace al fondo del nostro essere, “croce e delizia al cor” (passando da Mina a Verdi): croce, perché questa voce mi fa sentire tutta la mia miseria, la mia pochezza, la pietosa pochezza; delizia, perché insieme alla percezione dolorosa del mio nulla, delle mie debolezze, delle mie ferite, nel silenzio affiora anche un altro suono: la voce della grandezza di questo mio cuore, della sterminata attesa che in questo mio cuore è intessuta: “Ci sono cose in un silenzio che non mi aspettavo mai”. Come è vero! Come ha ragione Mina! E quanto tempo perdiamo stupidamente nel non dar credito a questa semplice verità: “Ci sono cose in un silenzio che non mi aspettavo mai”.
C’è una grande figura femminile su cui non la liturgia della Quaresima ci invita a posare lo sguardo, che meglio d’ogni altra può aiutarci a capire tutto questo: è la donna samaritana, che Gesù incontra al pozzo di Sicàr, nel capitolo quarto del Vangelo di Giovanni. È un racconto a tutti voi noto e probabilmente caro, trattandosi di uno dei testi più sublimi di tutta la Scrittura. Tuttavia val la pena meditarlo insieme ancora una volta, tanto esso è ricco di inesauribili suggestioni.
In apparenza, Giovanni non ci dice alcunché sull’interiorità di questa donna, su quel che ella avesse nel cuore, mentre si avvicinava al pozzo di Giacobbe, forse con l’anfora sulla spalla, come le donne dell’epoca usavano fare (cfr. Gen 24, 11!). In realtà, quel sommo poeta che è Giovanni, attraverso il “quasi nulla” che dice, ci dice molto, anzi moltissimo:
“Vi era là un pozzo di Giacobbe. (…)
Era circa l’ora sesta (cioè mezzogiorno, nda).
Giunge una donna samaritana ad attingere acqua” (Gv 4, 6-7).
Innanzitutto, chi di voi è stato in Palestina – e soprattutto chi di voi è stato nella zona semi-desertica dove ancora si trova questo pozzo, sa che all’ora sesta (cioè a mezzogiorno) può fare un caldo davvero infernale. Viene così alla luce la prima misteriosa “sgrammaticatura” (= dettaglio fuori posto) del nostro testo : perché questa donna va ad attingere a un’ora simile?
Per rispondere bene a questa domanda, dobbiamo volgere l’attenzione all’Antico Testamento. C’è infatti nella Scrittura un altro passo in cui si parla dell’ora in cui le donne vanno al pozzo ad attingere: è quel capitolo 24 della Genesi, in cui si narra del viaggio del servo di Abramo nella città di Nacor, in cerca di una moglie da dare al giovane Isacco (Gen 24, 10). Giunto a Nacor, il servo decide di piazzarsi presso il pozzo fuori dalla città “nell’ora della sera, quando le donne escono ad attingere”, (Gen 24, 11), evidentemente al fine di incontrare qualche bella fanciulla nell’unico posto ove ciò era possibile (le donne dell’epoca, si sa, non avevano molta libertà di movimento!).
Cominciamo così ad intuire: se questa donna va al pozzo a mezzogiorno e non alla sera, è perché vuole andarci senza correre il pericolo di incrociare anima viva. E perché non vuole incrociare anima viva? Proprio il seguito del racconto di Genesi 24, con cui il racconto di Giovanni è in realtà segretamente in dialogo, ci dà la risposta.
Fermati i cammelli, il servo di Abramo invoca il Signore chiedendogli di fare in modo che la ragazza cui egli chiederà da bere e che gli risponderà: bevi! (ci ricorda qualcosa?!) – possa essere la fanciulla giusta per Isacco (Gen 24, 12-14). E infatti, di lì a poco, ecco che arriva Rebecca, figlia di Betuel, “molto bella” e vergine, “che nessun uomo aveva ancora conosciuto” (Gen 24, 16): insomma, la ragazza perfetta per Isacco!
Iniziamo così a capire: anche Gesù, secoli e secoli dopo il servo di Abramo, si trova a chiedere da bere ad una donna, seduto su un pozzo in terra (semi) straniera. Ma la donna che si trova di fronte è ben diversa da Rebecca. Non solo non è vergine. Come presto verremo a sapere, ella “ha avuto cinque mariti e l’uomo con cui sta ora non è nemmeno suo marito”, il che la rende una disonorata non solo agli occhi dei giudei, ma anche a quelli dei suoi stessi compaesani (il numero massimo di mariti che era consentito avere, anche tra i Samaritani, era tre).
Ecco dunque spiegato l’arcano: la donna va ad attingere a mezzogiorno perché è e si sente una reietta. La calura soffocante dell’ora a cui va al pozzo, diviene così il simbolo, sottile e struggente, della tragica spirale in cui la sua stessa “sete” l’ha trascinata. Tutti i suoi tentativi di riempire il vuoto del suo cuore, non solo non hanno ottenuto gran che. L’hanno precipitata in uno stato di siccità e di solitudine sempre più penoso.
“Ritornate a Me”: guardare in faccia a Cristo.
Forse è proprio a questo che sta pensando, mentre s’avvicina come ogni giorno al pozzo. Se non che, qualcosa d’improvviso la strappa ai suoi malinconici pensieri: al pozzo c’è qualcuno. Seduto sul parapetto, c’è un uomo che guarda giù, come assorto, nel profondo del pozzo.
Non appena la donna si avvicina, lo sconosciuto solleva la testa e la guarda dritto negli occhi. Sembra sfinito, come da un lungo cammino; e assetato, tremendamente assetato – a giudicare dalle labbra gonfie e screpolate. Chissà da quanto è lì seduto che aspetta qualcuno che gli dia da bere. Possibile che nessuno gli abbia detto che la città non dista che un miglio? Un sussulto, come di umana compassione, la afferra. Ma no, non si tratta appena compassione. C’è dell’altro. Nonostante l’aspetto trasandato, nonostante la polvere che ne copre la barba ed il volto, c’è nello sguardo di questo straniero qualcosa che le penetra dentro, nel fondo del cuore, e lo costringe a battere forte.
Istintivamente, quasi a difendersi dall’intensità di quello sguardo, la donna si dedica alle solite operazioni necessarie a calare l’anfora nel pozzo. Ma a questo punto l’uomo rompe il silenzio e le rivolge quelle parole, quelle tre parole che da quel giorno – così almeno mi piace immaginare – rimbomberanno nel suo cuore per tutta la vita: “Dammi da bere” (Gv 4, 7).
“Dammi da bere…”
Quid animo satis? Che cosa basta all’anima? Che cosa può davvero lenire la sete del nostro cuore? Se dovessi dare una risposta sintetica, a partire da quel che ho vissuto in questi ormai quasi cinquant’anni di vita, penso risponderei proprio così: l’incontro con un’altra Sete, l’impatto con un’altra Sete infinitamente più ardente della mia.
Quale sete? Quella sete che nella carne assetata e stanca di quest’uomo Gesù si rende sensibilmente, carnalmente percepibile: la sete che l’Immenso Dio ha di darsi a me, di riversare in me la Sua vita.
Dio soffre una passione d’amore – diceva Origene. Il che vuol dire: Dio ha sete di riversare in me la Sua Vita, più di quanto io abbia sete di vita. Dio ha sete di attirarmi a Se, così come un uomo disidratato, sente il bisogno di bere. È questo che facendosi carne Dio è venuto a rivelarci. È questo che soffrendo la sete al pozzo, Gesù è lì a dirci. Dio non solo vuole donarci la Sua vita. È di più di così: Egli ha sete di darsi a noi. Sembra la stessa cosa. E invece è molto di più, è infinitamente di più – un di più che però noi possiamo scoprire solo guardando alla carne di quest’Uomo – l’uomo Gesù.
Di cosa ha sete il cuore? In definitiva, ciascuno di noi lo sa – oscuramente lo sa: ha sete d’amore, come dice in modo così semplice e vero Violetta Valéry nella Traviata: “Oh gioia ch’io non conobbi, essere amata amando!”. Gira e rigira, è questo che il nostro cuore inquieto cerca: il grande amore. Non un amore qualunque, però. Come amava dire Benedetto XVI, quel che cerchiamo è l’amore infinito. L’amore infinito: che bella espressione!
Ebbene, questo Amore infinito non solo esiste, ma ci è venuto incontro, si è fatto carne per farsi vedere e toccare, per farsi gustare dal nostro cuore assetato.
Giovanni ci fa capire tutto questo ancora una volta attraverso tanti piccoli dettagli, che è come se fossero lì per aiutarci a intravedere l’abisso di questo Amore, che nella carne di Gesù si nasconde e insieme risplende. Come la donna, nell’andare al pozzo, era arsa da una sete più profonda di quella fisica, così Gesù siede al pozzo a causa d’una sete assai più ardente di quella del Suo corpo. E come Giovanni ci aveva aiutato a intravedere la sete “invisibile” della donna usando d’una semplice annotazione temporale, così trapunta il racconto dell’arrivo di Gesù al pozzo di tutta una serie di dettagli, che hanno il compito di aiutarci a percepire il grande Mistero di cui la carne assetata di Gesù è segno. Vediamone qualcuno.
Innanzitutto, l’antefatto (Gv 4, 1-3) : Giovanni ci informa che Gesù ha deciso di fuggire dalla Giudea e fare ritorno in Galilea, poiché a Gerusalemme sono ormai in molti ad odiarlo. In apparenza, Egli giunge dunque al pozzo di Sychar per caso, mentre sta scappando dai suoi fratelli Giudei. Il “caso” non è però senza precedenti. Già qualcun altro era presso un pozzo in terra straniera in modo simile: non tanto il già menzionato servo di Abramo, quanto Giacobbe, in fuga dal fratello Esaù (cfr. Gen 29). Con un importante nota bene: nonostante il diverso movente, il viaggio di Giacobbe nella terra di Nahor, aveva avuto un esito in tutto simile a quello del servo di Abramo: anch’egli aveva incontrato, presso lo stesso pozzo ove il servo aveva incontrato Rebecca, una splendida fanciulla, Rachele, la quale sarebbe infine divenuta sua sposa. Le cose si fanno così più intriganti ancora: sullo sfondo dell’incontro tra Gesù e la donna di Samaria al pozzo, non c’è dunque solo il fidanzamento tra Isacco e Rebecca, ma anche l’incontro tra Giacobbe e la bella Rachele. Vi torneremo tra breve. Passiamo ora all’inizio vero e proprio del racconto:
“Doveva perciò attraversare la Samaria. “Giunse pertanto a una città della Samaria chiamata Sicar, vicino al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio. Qui c’era un pozzo di Giacobbe” (Gv 4, 4-6)
“Doveva perciò attraversare la Samaria” (Gv 4, 4):
Veramente doveva?? Altra “sgrammaticatura”! In realtà, nessun Giudeo del I secolo che volesse recarsi dalla Giudea in Galilea, avrebbe mai scelto di passare per la Samaria, essendo che Samaritani e Giudei – come il nostro stesso racconto attesta (Gv 4, 9-10) – si odiavano e disprezzavano a tal punto, che per un Giudeo poteva essere fin pericoloso aggirarsi per certe contrade. Per andare in Galilea, si percorreva perciò un’altra strada, quella che costeggiava il fiume Giordano. Perché allora Giovanni ci dice che Gesù doveva attraversare la Samaria? In che senso doveva attraversarla? È chiaro: doveva attraversarla, perché voleva attraversarla. E voleva attraversarla, perché questo era l’unico modo per incontrare una precisa persona: la “traviata” di Sychar.
“Giunse pertanto a una città della Samaria chiamata Sicar, vicino al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio” (Gv 4, 5),
Anche qui, bisogna leggere tra le righe. Raramente in Giovanni le informazioni geografiche son buttate lì per puro amor di cronaca. Spesso e volentieri, i luoghi sono invece “pregni” di significato, soprattutto se si tratta di luoghi ricchi di storia. Mi viene in mente la scena del Signore degli Anelli, in cui Legolas e Gimli entrano nella antichissima foresta di Fangorn, e Legolas, come in un momento di chiaroveggenza, dice a Gimli: “questo luogo è pieno di ricordi…”. Ecco: immaginiamo Gesù che arriva in questa terra, cammina in mezzo a questi campi, in cui forse mette piede per la prima volta, e mentre si guarda in giro, è come se vedesse in flashback tutta la storia di questa terra. Risalendo la corrente del tempo, vede quanto belle fossero queste terre all’epoca dello splendore di Samaria, prima della decadenza e del crollo del regno del Nord. E poi, spingendosi ancora più indietro, vede Giacobbe, che ormai morente (cfr. Gen 48-49), dona proprio questa terreno in eredità a Giuseppe, il figlio suo prediletto. Prediletto…perché?
Gesù ben lo sapeva: prediletto perché figlio di Rachele, la moglie amata (cfr. Gen, 29, 16-18), l’unica che Giacobbe aveva scelto (Gen 29, 18). Se ne era innamorato a prima vista, quel giorno al pozzo. E così, per far colpo su di lei, aveva fatto (non sapeva bene come) quel gesto un po’ folle di sollevare tutto da solo la grande pietra che chiudeva il pozzo (Gen 29, 2.9-11). Per averla, poi, aveva accettato di faticare sette anni al servizio di Labano. Eppure né il faticare né l’aspettare gli erano stati di peso, tanto l’amava.
Cominciamo così a capire: chi è la donna Samaritana? In un certo senso, ciò che rimane di Rachele. Da Rachele era nato Giuseppe, da Giuseppe Efraim e da Efraim era derivato il popolo di Samaria. Ma questo popolo aveva nel tempo perso il primitivo splendore: “Rachele”, da sposa prediletta di Giacobbe e perciò benedetta, s’era ridotta ad essere un popolo promiscuo, semi-pagano. Nella donna che Gesù incontra al pozzo, Gesù incontra in realtà qualcosa in più d’una donna dal passato discutibile. In lei, è come se si personificasse l’umiliazione d’un intero popolo – un popolo del quale Gesù ben conosce l’originaria dignità. A tutto questo egli pensa, quando il suo sguardo cade infine sul pozzo di Giacobbe.
Qui c’era un pozzo di Giacobbe.
Infine il pozzo. È chiaro, a questo punto, che nel guardare al pozzo che tanti secoli prima Giacobbe aveva lasciato a Giuseppe, Gesù pensa ad un altro, più famoso “pozzo di Giacobbe”: quello dove il patriarca aveva incontrato Rachele. Egli è infatti venuto per ricapitolare quella storia interrotta e portarla a compimento. Egli è venuto per redimere la casa di Rachele, e darle una gloria ancora più grande di quella che ha perduto: “Sei forse tu più grande di Giacobbe che ci ha dato questo pozzo?” (Gv 4, 12) – gli chiederà di lì a poco la donna.
Sì, Gesù è più grande di Giacobbe. E perché è più grande?
È più grande perché Egli presto solleverà, con la forza del Suo amore, una pietra ben più grande di quella che Giacobbe aveva spostato per amore di Rachele. Quale pietra? La pietra del peccato del mondo – quella pietra che rende il nostro cuore duro, incapace di dissetare la sete del Signore. Il vero pozzo cui il Signore desidera poter bere, infatti, altro non è che il cuore stesso della donna, cioè dell’umanità perduta – quel cuore che fatto per adorare il Signore “in spirito e verità” (Gv 4, 23-24), non fa che correre dietro ad idoli e falsi signori.
Così finalmente capiamo: sì, anche il Signore, come ogni vero amante, ha sete d’essere riamato. Ma non è in ciò che risplende la Sua superiore grandezza. La Sua superiore grandezza, sta nel fatto che Egli, con la forza stessa del Suo amore, ha il potere di redimere il cuore inquinato di colei che ha scelto una volta per sempre, ri-trasformandola in pozzo d’acqua viva (Gv 4, 15).
In sintesi, c’è un’innegabile “allure romantica” in questo incontro tra Gesù e la donna Samaritana. E tuttavia si tratta d’una “love story” diversa da ogni altra. Perché diversa? Non solo perché l’unione cui il Signore tende non è carnale (l’incontro non termina infatti con alcun fidanzamento); quanto per il fatto che l’amore di questo Amante, contiene in sé il potere di “ricreare” il cuore di chi ad esso s’abbevera:
Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4, 15).
Vengo così all’ultimo accenno, che ha a che fare col nesso che segretamente lega la sete patita da Gesù al pozzo, al mistero di un’altra sete: quella della croce (Gv 19, 28). A ben guardare, infatti, la sete patita da Gesù al pozzo di Sychar, non è che la prefigurazione d’una sete ben più atroce: quella che egli patirà (Gv 19, 28) quando al termine d’un cammino ben più sfibrante, si siederà sulla croce, spinto dalla brama di raggiungere la donna-umanità nel cuore di un inferno ben più torrido della calura dell’ora sesta a Sychar. Solo in quell’ora la Sua sete sarà davvero saziata (Gv 19, 34). Poiché solo in quell’ora Egli potrà infine far scorrere dal Suo fianco squarciato, l’acqua viva del Suo amore redentore (Gv 19 34!).
Possiamo a questo punto fare il passo decisivo. Tutto quanto detto è bello, commovente. Ma come può impattare la mia vita? Come può diventare esperienza mia?
Torniamo alla donna Samaritana e domandiamoci: di tutto quel che s’è detto, di tutta la bellezza racchiusa nella scena che di cui ella stessa è protagonista, che cosa ella capisce, che cosa è in grado di capire, al momento in cui Gesù comincia a parlarle?
Nulla, quasi nulla. Se sapesse! “Se tu conoscessi il dono di Dio e Chi è chi ti ha chiesto da bere…” (Gv 4, 10). Ma il punto è proprio questo: che la donna non sa! Non sa Chi si nasconda sotto le spoglie di quest’uomo che le chiede da bere, e perciò non può percepire “il dono di Dio”. Tuttavia qualcosa percepisce, e per questo chiede:
“Come mai tu che sei Giudeo chiedi da bere a me, che sono donna samaritana?” (Gv 4, 9).
“Perché quest’uomo mi ha chiesto da bere? Che vuole da me?”
Cruciale, decisiva domanda! Tanto che l’intero dialogo tra Gesù e la donna, a ben guardare, non è che un cammino in crescendo, attraverso cui Gesù conduce pian piano la donna ad una risposta sempre più piena, sempre più profonda ad essa. Certo, lo si è detto, ci deve essere stato qualcosa nel modo in cui Gesù l’ha guardata e le ha parlato, che fin da subito deve aver destato in lei il desiderio di capire chi fosse e cosa da lei volesse. E tuttavia: mai avrebbe immaginato, mentre Gesù le chiedeva da bere, quanto “dissetante” sarebbe stata la risposta all’enigma (cfr. Gv 4, 28)!
Si capisce così che cosa sia il cammino della fede. Il cammino di fede della Samaritana, non è stato un cammino che l’ha condotta oltre il fascino della carne di Gesù – oltre la carne di quel volto assetato. Piuttosto, è stato un cammino che l’ha portata a gustare e vedere l’altezza, la profondità dell’Amore di cui quel volto assetato era segno.
Non è in qualche modo lo stesso per noi? Non è questo il cammino della fede? Non c’è data, la vita, per imparare a vedere nella “povera carne” di moglie e marito, di figli, amici e circostanze date, il volto di questo Dio, che assetato attende d’essere da noi riconosciuto Presente?
Giungiamo così al punto chiave.
Abbiamo detto che la vera sete che spinge Gesù a parlare alla donna, è il desiderio di rivelarle il Mistero del Suo amore. Ebbene, siamo sicuri che questo è l’unica cosa di cui Egli ha sete?
Si noti: Gesù le ha chiesto da bere. Il che vuol dire: se non fosse lì che per dare, se non volesse ricevere nulla da lei, allora avrebbe di fatto mentito – il che è da escludere (Gesù non mente mai!). Che cosa dunque vuole? La donna fa in fretta a capire che non è acqua che vuole (Gv 4, 10). Che cosa allora? Tralasciando l’ipotesi seconda, che con ogni probabilità deve essere passata per la mente della donna -prima che Gesù fughi ogni dubbio dicendole di andare a chiamare suo marito! –, vengo alla risposta a mio avviso più giusta, peraltro contenuta nel versetto 21:
“Credimi, donna!…”
Di fatto l’unica richiesta reale che Gesù fa alla donna, è di credergli. Di qui la conclusione che fu già del grande Agostino: è della fede della donna che Gesù aveva sete. Perché?
Perché senza la fede, senza cioè dare fiducia a quel che quest’uomo infine le dirà di sé (Gv 4, 26), sarebbe stato impossibile per la donna arrivare a capire il dono che le era stato fatto. Se non fosse giunta alla fede, che cosa la nostra Samaritana avrebbe trovato di così “dissetante”, nel ripensare al volto dell’uomo che le aveva chiesto da bere?
Si capisce così, perdonatemi la crudezza, a “che serve” la fede. A un certo punto bisogna farsi nuda e cruda questa domanda: a “che mi serve” in fin dei conti la fede? La fede “mi serve” – anzi: mi serve più d’ogni altra cosa – perché io non posso entrare in contatto con l’acqua di dell’Amore di Cristo, che è ciò di cui ultimamente il mio cuore ha sete, se non attraverso la fede. È la fede che arroventa il volto di quell’uomo inchiodato a una croce, e lo rende segno dell’Amore di Dio per me. E per questo non c’è nulla di cui Cristo abbia più sete, che della nostra fede.
“Che siano una sola cosa come Noi”
Non è però finita qui. Se non c’è nulla di cui il Signore abbia più sete che della nostra fede, c’è però qualcosa di cui mi pare si debba dire che ha almeno altrettanta sete – qualcosa che è della fede il frutto ed il segno più importante: la carità fraterna. Veniamo così al terzo e finale punto, su cui, vista l’ora, mi soffermerò più brevemente.
Uno dei passaggi che più mi ha colpito della seconda lezione degli esercizi di padre Lepori, è stato il commento alla grande preghiera sacerdotale di Gesù, al capitolo 17 del vangelo di Giovanni – in particolare il suo insistere sul fatto che nell’ora in cui Gesù sta per andare a morire in croce, ciò che più ha a cuore, ciò che Egli chiede al Padre, in risposta al suo sacrificio d’amore, è la comunione tra i suoi (cfr. Gv 17, 20-23). In effetti, se si legge d’un fiato il cosiddetto grande discorso dell’Addio, dal capitolo 13 al 17 del Quarto Vangelo, è impressionante accorgersi di quanto quest’unità gli prema: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato” (Gv 13,34; cfr. Gv 13, 12-16; Gv 15, 10-17). Nel momento estremo, è come se Gesù non avesse altro da chiedere ai suoi. Perché? Perché in effetti è proprio questo lo scopo per cui Gesù va a morire in croce: per generare la comunione tra i suoi.
È bellissimo, in questo senso, che il comando dell’amore, sia preceduto da una frase importantissima, che ne chiarisce il senso: “Vi do un comandamento nuovo”. Perché nuovo? In che senso nuovo? Non è il comandamento dell’amore ad essere nuovo. La legge già prescriveva l’amore del prossimo. La novità, è invece tutta in quel “come io vi ho amato”, che in realtà vuol dire: “con l’amore che scaturisce da me, con l’amore che è il frutto in voi del mio sacrificio, del Mio dare la vita per voi”.
Così capiamo. Da un lato, Gesù sta dicendo: “il segno che uno si apre a Me, che si abbevera a me, è il fatto che desidera amare e guardare chi gli è messo accanto d’un amore che sia come il riverbero dell’amore che da me riceve”. “Tu non puoi vivere la fede” – è come se Gesù dicesse – “se questo tuo abbandonarti a Me non diventa – almeno come desiderio! – impeto ad amare chi ti metto accanto così come Io ho amato te” (cfr. 1 Gv 4, 20-21!).
C’è però anche l’altro lato della medaglia: per non fraintendere queste parole, cioè per non intenderle come un fardello che grava tutto sulle nostre spalle – “adesso dovete volervi bene!” –, dobbiamo leggerle tenendo sullo sfondo un’altra scena: quella della morte in croce di Gesù. Infatti, quell’amore reciproco che nel cenacolo il Signore chiede, sulla croce lo dona, lo fa erompere come Acqua Viva dal suo cuore squarciato (cfr. Gv 19, 34). E sotto la croce vi è chi è pronto ad accoglierlo: Sua madre ed il discepolo amato: “Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre” (cfr. Gv 19, 25-27).
Che bello: il frutto del dono totale che Cristo fa di sé sulla croce – di più: il fine di questo dono di sé totale – qual è? È la nascita di una familiarità nuova, prima impossibile, tra Maria e Giovanni: una familiarità così vertiginosa, da essere come un riflesso dell’unità che c’è tra Gesù e Sua madre. Questo è il frutto dell’amore della croce. Questo è il fine per cui Cristo dà via se stesso sulla croce. “Ho sete!” (Gv 19, 28) – grida appena prima di spirare. Di cosa ha sete? Della mia e tua fede, senza dubbio. Ma non solo. Ha sete del mio e tuo desiderio di darci, di spenderci, di darci per costruire la Chiesa, per costruire la comunione tra noi.
Permettetemi allora di chiudere con un ultimo spunto. Rileggendo la lezione di padre Lepori, mi ha colpito molto la menzione che fa di santa Teresina di Liseux: “Non è forse evidente – cito – palpabile, nelle nostre comunità, che chi più si consacra e si sacrifica alla comunione fraterna ha più consistenza come persona? Magari è più carente di doni e carismi, il meno capace di agire e parlare, il meno intelligente. Eppure, come è evidente che la comunità tiene perché c’è quella persona, c’è quell’umiltà, quella presenza, quello sguardo, quell’attenzione, quella carità, quella fede!” E poco dopo prosegue: “Pare che al momento della morte di Santa Teresa di Lisieux le monache non sapessero cosa scrivere su di lei nel necrologio, proprio perché aveva ‘solo’ amato e favorito la comunione in comunità. Non aveva fatto niente altro di speciale”. Non aveva fatto niente di speciale, osserva padre Lepori. E nello stesso tempo, era ben cosciente di aver fatto la cosa più speciale. Infatti, se andate a leggere, nel Manoscritto B degli scritti della santa, il famoso racconto del momento chiave del suo cammino interiore, scoprirete che la grande “illuminazione” che ha fatto fare a Teresina il salto di qualità decisivo nel suo rapporto col Signore, ha a che fare proprio con la scoperta del primato della carità, intesa nel senso detto, come offerta totale di sé per il bene della Chiesa. Tormentata dalla grandezza dei propri desideri – voleva essere tutto: voleva essere martire ed essere missionaria, voleva essere apostolo ed essere prete (molto moderna come santa, no?) –, un bel giorno si mette a leggere i capitoli dodicesimo e tredicesimo della Prima lettera ai Corinzi, che non sono altro che una sinfonia sulla questione del giusto posto dei diversi carismi nella Chiesa. Ebbene, ad un certo punto l’occhi le cade sul seguente passaggio, che la folgora: “Aspirate ai carismi più grandi, ed io vi mostrerò una via migliore di tutte. Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” (1 Cor 12, 31-13, 1). Il che lei intende più o meno così: “sì, è giusto aspirare ai carismi più grandi. Ma signori, il dono più grande di tutti, quello che davvero innalza, è la carità. Chi è più grande nella Chiesa? Chi ama di più, cioè chi più si dà per servire il tutto, il Corpo totale:
“Siccome le mie immense aspirazioni erano per me un martirio, mi rivolsi alle lettere di san Paolo per trovarvi finalmente una risposta. Gli occhi mi caddero per caso sui capitoli 12 e 13 della prima Lettera ai Corinzi, continuai nella lettura e non mi perdetti d’animo. Trovai così una frase che mi diede sollievo: ‘Aspirate ai carismi più grandi e io vi mostrerò una via migliore di tutte” (1Cor 12,31). L’Apostolo infatti dichiara che anche i carismi migliori sono un nulla senza la carità; e che questa medesima carità è la via più perfetta che conduce con sicurezza a Dio’”.
Che grande mistero! Dio rischia così tanto sulla nostra libertà, è così rispettoso della nostra libertà, che quando ti dà un carisma, quando ti dà un dono, se lo usi male, se non lo metti al servizio della comunione, non te lo toglie. Se te lo togliesse, non sarebbe un dono, poiché il dono – come ricorda san Paolo – è per essenza “irrevocabile” (…). Di qui il paradosso per cui uno può convertire le masse in forza del carisma che Dio gli ha dato – pensiamo a Martin Lutero: chi può dire con sicurezza che non avesse ricevuto un grande carisma? – e non per questo essere un santo. Chi l’ha detto che se uno ha una grande “gratia gratis data”, per usare la terminologia di San Tommaso, cioè un grande “carisma”, allora è un grande santo? Non è così. Uno potrebbe aver ricevuto un carisma grandissimo, col quale scaccia i demoni e converte i leoni, e tuttavia sentirsi dire dal Signore: “Io non ti conosco”. Perché? Perché la gratia gratis data, cioè il dono che Dio liberamente dà a Tizio o a Caio a beneficio della Chiesa (ad utilitatem ecclesiae) non è la gratia gratum faciens, cioè non è quel che ti rende santo. Quel che ti rende santo sono la fede, la speranza e la carità e basta. Il che vuol dire: se anche tu fossi l’ultima vecchietta Siberiana che nessuno conosce e di cui nessuno saprà mai nulla, puoi essere più santa di Giovanni Paolo II, di don Giussani e Madre Teresa di Calcutta messi insieme.
“Considerando il corpo mistico della Chiesa non mi ritrovavo in nessuna delle membra che san Paolo aveva descritto, o meglio: volevo vedermi in tutte. La carità mi offrì il cardine della mia vocazione. Compresi che la Chiesa è un corpo composto di varie membra, ma che in questo corpo non può mancare il membro necessario e più nobile. Capii che solo l’amore spinge all’azione le membra della Chiesa, e che spento questo amore gli apostoli non avrebbero più annunziato il Vangelo, i martiri non avrebbero più versato il loro sangue, allora gridai: o Cristo, ho trovato finalmente la mia vocazione, ho trovato il mio posto nella Chiesa e questo posto me lo hai dato Tu. Nel cuore della Chiesa mia madre io sarò l’amore e in tal modo sarò tutto, e il mio desiderio si tradurrà in realtà”.
Testi:
Quaresima. Dio è misericordia, in Luigi Giussani, La familiarità con Cristo. Meditazioni sull’anno liturgico, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, pp.47-48
Mauro-Giuseppe Lepori, Gli occhi fissi su Gesù, origine e compimento della fede, Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione, Rimini, 14-16 aprile 2023
Vangelo di Giovanni
Santa Teresa di Lisieux, Manoscritti autobiografici
***
Cfr. G. Leopardi, Ritratto di una bella donna sopra il monumento sepolcrale della medesima, v. 47.
“Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, 18 siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, 19 e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3, 17-19).
Giovanni nasconde spesso i “misteri più profondi”, per dire così, sotto il velo di dettagli fuori posto, che alcuni specialisti chiamano ungrammaticalities (sgrammaticature volontarie). Si tratta di una strategia letteraria ordinata a spingere il lettore a cercare il senso profondo di un testo, proprio in forza dello straniamento che il lettore prova nel trovarsi davanti a dettagli del racconto che di primo acchito sembrano fuori luogo, bizzarri. In questo modo, Giovanni ottiene un duplice effetto: suscitare nel lettore la percezione della presenza di un “mistero intrigante”, che si cela “sotto li versi strani”, senza però dargliene la soluzione. È il lettore stesso a doverla trovare, così come ogni uomo e donna è chiamato a penetrare con gli occhi della fede il velo della carne dell’uomo Gesù, per vedere in essa “le meraviglie” che vi sono nascoste.
“Fece inginocchiare i cammelli fuori della città, presso il pozzo d’acqua, nell’ora della sera, quando le donne escono ad attingere” (Gen 24, 11).
“E disse: «Signore, Dio del mio padrone Abramo, concedimi un felice incontro quest’oggi e usa benevolenza verso il mio padrone Abramo! 13 Ecco, io sto presso la fonte dell’acqua, mentre le fanciulle della città escono per attingere acqua. 14 Ebbene, la ragazza alla quale dirò: Abbassa l’anfora e lasciami bere, e che risponderà: Bevi, anche ai tuoi cammelli darò da bere, sia quella che tu hai destinata al tuo servo Isacco; da questo riconoscerò che tu hai usato benevolenza al mio padrone» (Gen 24, 12-14).
Si noti che, essendo Betuel figlio di Nahor, che è fratello di Abramo, Rebecca e Isacco sono anche cugini di secondo grado, così come Giudei e Samaritani, nonostante l’odio che al presente li oppone e la promiscuità semi-pagana dei secondi, rimangono comunque parenti, in forza delle lontane comuni origini. Il parallelismo Gesù : donna Samaritana = Isacco : Rebecca, è dunque più stretto di quel che appare a prima vista!
“15 Non aveva ancora finito di parlare, quand’ecco Rebecca, che era nata a Betuèl figlio di Milca, moglie di Nacor, fratello di Abramo, usciva con l’anfora sulla spalla. 16 La giovinetta era molto bella d’aspetto, era vergine, nessun uomo le si era unito. Essa scese alla sorgente, riempì l’anfora e risalì. 17 Il servo allora le corse incontro e disse: «Fammi bere un pò d’acqua dalla tua anfora». 18 Rispose: «Bevi, mio signore». In fretta calò l’anfora sul braccio e lo fece bere”.
“1 Quando il Signore venne a sapere che i farisei avevan sentito dire: Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni 2 – sebbene non fosse Gesù in persona che battezzava, ma i suoi discepoli -, 3 lasciò la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea”.
“9 Ma la Samaritana gli disse: «Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani” (Gv 4, 9-10).
La povera Lia, come noto, gli era stata infatti “appioppata” con l’inganno dall’astuto Labano (cfr. Gen 29, 21-26).
“1] Poi Giacobbe si mise in cammino e andò nel paese degli orientali. [2] Vide nella campagna un pozzo e tre greggi di piccolo bestiame, accovacciati vicino, perché a quel pozzo si abbeveravano i greggi, ma la pietra sulla bocca del pozzo era grande. [3] Quando tutti i greggi si erano radunati là, i pastori rotolavano la pietra dalla bocca del pozzo e abbeveravano il bestiame; poi rimettevano la pietra al posto sulla bocca del pozzo. (…). 9]Egli stava ancora parlando con loro, quando arrivò Rachele con il bestiame del padre, perché era una pastorella. [10] Quando Giacobbe vide Rachele, figlia di Làbano, fratello di sua madre, insieme con il bestiame di Làbano, fratello di sua madre, Giacobbe, fattosi avanti, rotolò la pietra dalla bocca del pozzo e fece bere le pecore di Làbano, fratello di sua madre. [11] Poi Giacobbe baciò Rachele e pianse ad alta voce.
“Così Giacobbe servì sette anni per Rachele: gli sembrarono pochi giorni tanto era il suo amore per lei” (Gen 29, 20).
Se l’associazione sposa – pozzo d’acqua viva può suonare ai nostri orecchi un po’ strana, non così era nell’ambiente in cui la Bibbia si pian piano formata. Non è certo un caso che ben tre delle più importanti scene di fidanzamento della Bibbia si svolgano presso un pozzo (cfr. Gen 24; Gen 29, 1-14; Es 2, 15-22). In una terra semi-desertica come la Palestina, come non trovare proprio nella sete d’acqua, il simbolo più naturale del desiderio amoroso? E come non trovare proprio nel pozzo, la metafora più naturale di ciò che lo soddisfa? Si comprende così perché nel poema Israelitico dell’eros per eccellenza, il Cantico dei Cantici, (Cant 4, 12.15) il pozzo possa essere preso ad immagine regina di ciò che la donna, quando ama davvero, diviene per il suo sposo: quella fonte di acqua viva che continuamente gli dà vita e gioia:
[12]Giardino chiuso tu sei,
sorella mia, sposa,
giardino chiuso, fontana sigillata. (…)
[15]Fontana che irrora i giardini,
pozzo d’acque vive
e ruscelli sgorganti dal Libano.
Molti altri dettagli del testo lo confermano. Su tutti il battere (Gv 4, 9) e ribattere (Gv 4, 27) sul fatto che tanto la donna stessa prima, quanto i discepoli poi, si stupiscono del fatto che Gesù le parli non solo (e nel caso dei discepoli addirittura non tanto) perché Samaritana, bensì prima di tutto perché donna (Gv 4, 9): “[27] In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: «Che desideri?», o: «Perché parli con lei?».
La ragione dello stupore è presto detta: come noto, non era considerato decoroso, secondo il codice etico della società giudaica dell’epoca, che un uomo parlasse da solo ad una donna, a meno che ella fosse sua madre (o nonna), sua sorella, la sua fidanzata o sua moglie.
Giovanni allude al “dissetamento” avvenuto, quando nota che la donna, prima di correre in città a raccontare l’accaduto, lascia l’anfora al pozzo. Ebbene sì, la promessa di Gesù (Gv 4, 13-14), si è davvero realizzata, se è vero che la gioia e lo stupore che riempiono il cuore della donna quando Gesù “getta la maschera” (Gv 4, 26) è tale, che ella si dimentica in effetti della sete che l’aveva spinta al pozzo: “[28] La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: [29]«Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?”
Gv 4, 16-18: Le disse: «Và a chiamare tuo marito e poi ritorna qui». [17] Rispose la donna: «Non ho marito». Le disse Gesù: «Hai detto bene “non ho marito”; [18] infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Come è stato messo in luce dall’esegesi più recente, l’apparentemente brusco “cambio di tema” di Gesù, cessa di apparire tale e diviene al contrario un intervento perfettamente “in tema”, se se si tiene presente non solo la forte ambiguità della situazione, ma anche e soprattutto le risonanze “romantiche” della metafora dell’acqua di fonte nella tradizione Israelitica. In altri termini, mettendosi nei panni della donna: una volta intuito (come è più che probabile), che non è affatto acqua materiale che il fascinoso straniero le sta promettendo (quello stesso straniero, non dimentichiamolo, che inizialmente le ha chiesto da bere…), che tipo “d’acqua viva” la donna può aver immaginato egli le stesse “offrendo”?
Padre Lepori lo diceva agli esercizi con altre parole: “La fede è quello sguardo, quell’ascolto, quell’attenzione del cuore che vede, che sente, che si ricorda, che fa memoria che non è più possibile uscire, trovarsi fuori dall’ampiezza, dalla lunghezza, dall’altezza e dalla profondità dell’amore di Cristo”.
[20] Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; [21] perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. [22] E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. [23] Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.
“Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. 21 E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello”.
Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». [27] Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.
March 21, 2024
La chiamavano Trinità – Cinque Passi
Cari amici,
siamo giunti all’ultimo dei Cinque Passi al Mistero di quest’anno.
Il tema è quello del grande Mistero della Trinità, Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo.
Mistero di Dio, Mistero dell’Uomo!
Vi aspettiamo Sabato 23 Marzo 2024 alle ore 16:00 alla Chiesa Nuova (Santa Maria in Vallicella).
Per chi non potrà partecipare in carne ed ossa, l’incontro verrà trasmesso in prima serata Mercoledì 27 Marzo 2024 alle ore 21:00 sul canale YouTube di Oratorium.
Non perdete questa grande occasione di riflessione insieme! Avremo con noi il Maestro Ambrogio Sparagna che insieme al Coro Popolare San Filippo Neri diretto da Annarita Colaiannin impreziosirà questo incontro conclusivo.
Non mancate.
padre Maurizio
March 16, 2024
Monastero WiFi MILANO – 4° capitolo
Il 20 aprile sarò a Milano a fare un’iniezione ricostituente di bellezza, amicizia, grazia, Verità. Siamo tutti invitati, per tenerci in allenamento in vista del Capitolo generale del 9 novembre a San Pietro!
PRENOTAZIONI E INFORMAZIONI QUI
March 11, 2024
La Liturgia della Parola – Catechesi #monasteroWiFi Roma, 5 febbraio 2024 Liturgia della Parola
Ecco la Catechesi di don Nico Rutigliano – Monastero Wi-fi Roma, 5 febbraio 2024 . Vi ricordiamo che questa sera ci sarà la Via Crucis del M0nastero Wi-Fi Roma al Palatino.
***
Dalla regia mi dicono che devo iniziare dicendovi che sono un sacerdote guanelliano, vengo dal don Guanella. L’Opera don Guanella si dedica ai ragazzi, disabili e anziani. Abbiamo diverse case con persone con disabilità cognitiva. A Perugia c’è una casa per disabili in via Tuderte, ed io ho vissuto lì due anni, da chierico, mentre andavo a studiare filosofia ad Assisi.
I ragazzi (li chiamiamo “ragazzi” anche se hanno 70 anni) parlavano sempre di una signora, chiamata Rita, la quale ogni tanto veniva a trovarli e portava loro dei regalini. Una volta l’anno, sotto Natale, si andava a Perugia, a casa sua, e lei preparava un rinfresco e dava loro dei doni.
In quella occasione andai anch’io e con la chitarra animavo i canti. C’era lì una ragazzina molto attenta ed interessata. Quando ho conosciuto di persona Costanza Miriano, ormai diventata famosa per i suoi primi due libri sul matrimonio, mentre si parlava, abbiamo realizzato che quella preadolescente era proprio lei, nipote di zia Rita di Perugia.
Io non so perché hanno chiamato me. Fuori, venendo qui, dopo aver parcheggiato, c’era una coppia di Cremona, li indico con il naso: sono timidi perché sono qui la prima volta ma loro fanno il tifo per voi. Quindi sentitevi onorati, ma anche più impegnati a pregare. Bene, mi hanno detto: “Ma lei è quello che viene qui a tenere la catechesi?”. Ed io ho detto: “Non lo so neanch’io perché… purtroppo si, cioè spero bene per voi”. O non hanno trovato nessuno… e se non galoppano i cavalli, corrono gli asini; oppure confidiamo nel Signore perché, Lui che con una mascella d’asina ha fatto fare a Sansone una strage di Filistei chissà cosa potrà fare con me che sono un asino tutto intero.
Bene, il tema di questo primo lunedì del mese è quello della Liturgia della Parola. La liturgia della Parola è una delle due parti della Santa Messa. A me piace sempre iniziare con una “declaratio terminorum”, cioè chiarire sempre i termini, così comprendiamo meglio. “Perché si dice Messa? Ve lo siete mai chiesti?”
A questa domanda molti rispondono: “perché alla fine della messa in latino si diceva “Ite missa est”. Sì, però questa risposta non è esaustiva, non spiega perché l’intera azione liturgica sia denominata “messa”.
Quando c’era la liturgia eucaristica ed i neofiti iniziavano a parteciparvi, al momento della richiesta di perdono, la nostra attuale liturgia penitenziale (all’epoca c’era la confessione pubblica), questi nuovi adepti erano invitati ad uscire: erano mandati (in latino “missi”), dimessi.
E così i catecumeni, che si avvicinavano alla fede, quelli che avrebbero ricevuto il battesimo nella la notte di Pasqua, partecipavano alla prima parte dell’Eucaristia, cioè quella della Liturgia della Parola, e poi anch’essi venivano dimessi, “missi”, mandati. E quindi, alla fine della messa tutta la comunità era mandata (“missa”) ad annunciare il Vangelo, a testimoniare con la vita quello che avevano vissuto. Quindi la parola “messa” viene da “missa”, mandata. Il termine “missa” finì per definire questa liturgia, che serviva ai primi cristiani per parlare tra di loro e non farsi capire. Come saprete, per non far capire ai pagani che stavano parlando della liturgia eucaristica (siamo in tempo di persecuzione), usavano parole segrete.
Si riconoscevano fra loro con il simbolo del pesce. Ichthus” è la parola che in greco (ΙΧΘΥΣ) significava “pesce”, da cui “ittico” per esempio, ed è un acrostico: Iēsous Christos Theou Yios Sōtēr”, che significa “Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore”. Serviva loro per riconoscersi, facevano il disegno del pesce che gli altri non capivano. Per inciso va detto che questo segno ed altri simboli, come l’ancora, il pellicano, l’alfa e l’omega, le iniziali di Kristòs, sono immagini più antiche della croce, che diverrà diffusa e comune solo con l’Imperatore Costantino (morto nel 227 d.C).
Ecco da cosa deriva la parola Messa: da Missa, perché tutta la comunità cristiana è mandata, inviata.
La santa Messa è divisa in due parti: la Liturgia della Parola e la Liturgia Eucaristica. Perché due parti?
Perché i primi cristiani, i giudeo-cristiani, ossia i cristiani che si erano convertiti dal giudaismo, frequentavano ancora le sinagoghe e nelle sinagoghe c’era la Liturgia della Parola.
Nelle sinagoghe i rabbini e gli scribi, dopo la lettura dell’Antico Testamento (soprattutto la Legge e i Profeti), spiegavano la Parola con aneddoti, con testimonianze, ma soprattutto citando autori del passato, rabbini famosi.
Poi la domenica, nel giorno del Signore, cominciarono pure a fare la “fractio panis” nelle case. E questo fino agli anni 60-70 d.C. perché i cristiani, ascoltando la Parola di Dio, quella dell’Antico Testamento, cominciarono a dire: “ma tutte queste cose che ascoltiamo sono riferite a Gesù”. Lo dicevano anche ai giudei: “guardate che tutte queste realtà che ascoltiamo stanno parlando di Gesù Cristo”. I giudei non potevano però accettare che i cristiani dicessero che si parlava di quel famoso Cristo che trent’anni prima era stato messo in croce.
Di conseguenza i cristiani furono cacciati dalle sinagoghe.
E allora, dovendo continuare a pregare, per cui la domenica, alla “fractio panis”, aggiunsero le letture, cioè la Liturgia della Parola. Questo deve essere avvenuto negli anni 80 d.C. Siamo alla fine del primo secolo.
Ci sono delle testimonianze: per esempio quella di S. Giustino, del II secolo, il quale dice che nelle liturgie nelle case si riportavano le testimonianze dei primi Apostoli. Subito dopo la Resurrezione di Cristo erano ancora presenti gli Apostoli, coloro che avevano conosciuto Cristo. Erano testimoni oculari e quindi cominciano a raccontare quanto avevano visto ed ascoltato. Loro l’avevano visto de visu, l’avevano sentito, quindi tramandavano i detti e le ipsissima verba di Cristo e riferivano i racconti e le parabole. Immaginate che fervore poteva esserci nelle prime comunità dei cristiani.
Il messaggio più corposo era il “kerigma”. Sapete il kerigma è il primo annuncio: Cristo è risorto ed io l’ho visto. Quel Cristo che è stato condannato a morte e giustiziato, è risorto il terzo giorno, ed io l’ho conosciuto. Anche noi abbiamo occasione di esprimere il kerigma: sì, io l’ho visto, ha trasformato la mia vita, mi ha chiamato e io dono la mia vita per Lui. Questo annuncio ha una forza dirompente anche nella testimonianza, nell’evangelizzazione. Possiede una energia che sconvolge e smuove gli animi, converte.
Quale è lo scopo della Liturgia della Parola? Perché c’è questa liturgia prima della liturgia Eucaristica, della Consacrazione, della Comunione?
Ci affidiamo alle illuminate espressioni del Card. Raniero Cantalamessa, il quale due anni fa ha tenuto una sapiente conferenza al Papa e alla Curia Romana (Prima Predica, Quaresima 2022), proprio su questo aspetto.
1). Cantalamessa dice che la prima caratteristica della Liturgia della Parola è quella di preparare alla liturgia Eucaristica. L’ascolto della Parola cioè, aiuta le persone, gli uditori a saper riconoscere quel Cristo che viene sotto le spoglie del pane e del vino. La Liturgia della Parola mette in rilievo alcuni aspetti particolari del grande mistero di Cristo. Allora, questa è la prima dimensione: la Liturgia della Parola è propedeutica alla comprensione del mistero eucaristico. D’altra parte, ricordiamo Emmaus: i due discepoli si sentono affiancare da uno sconosciuto. Questo viandante è Gesù Cristo che spiega loro le scritture. È grazie a questa spiegazione delle Scritture che loro, dopo, capiscono quella fractio panis: era Lui, ci ardeva nel cuore! Questo avviene nell’Eucarestia, nella Santa Messa. La liturgia della Parola ci prepara alla liturgia Eucaristica.
2). Un altro aspetto è quello che la Liturgia della Parola ci fa rivivere i fatti raccontati. Cosa vuol dire rivivere? Quanto è narrato è reso presente e noi lo riviviamo. Dice Cantalamessa: “noi non siamo soltanto spettatori; noi siamo attori durante la proclamazione della Parola di Dio. Quella che è la memoria dei fatti diventa presenza; la memoria diventa realtà. E allora non siamo più uditori, ma dobbiamo prendere parte, essere quasi interpreti di quelle narrazioni”. L’esempio più chiarificante è la lettura del “Passio”. Dopo l’ascolto della Passione di Cristo siamo chiamati a prendere il nostro posto in quel racconto. Chi vuoi essere? Uno che si lava le mani? Uno che dice: “la colpa è dell’altro?”. Vuoi aiutare Cristo a portare la croce? Ce n’è per tutti! Questo è rivivere il racconto biblico: viverlo oggi, perché la Parola di Dio parla adesso, a me.
Pensiamo ai vari esempi che lo stesso racconto biblico ci presenta. Nell’Antico Testamento incontriamo l’episodio di Mosè e il roveto ardente. Anch’io sto per ricevere questo fuoco ardente dentro di me, che è Cristo. E quel Cristo che ha portato un fuoco nel mondo ci ha detto pure: “come vorrei fosse ancora acceso”. Oppure guardiamo ai profeti, tra i quali Geremia: “un tizzone ardente mi è stato posto sulle labbra”. Io sto per ricevere il fuoco che è Cristo nella Comunione. Ma il Nuovo Testamento, pure, contiene episodi che ci interpellano e ci coinvolgono: l’emorroissa, che tenta di toccare il lembo del mantello di Cristo. Altro che mantello noi tocchiamo: tocchiamo tutto Gesù nella Comunione, nell’Eucarestia.
E così Zaccheo: io sono Zaccheo, perché Gesù viene in casa mia? Prima della comunione diciamo: “Signore non sono degno che tu entri in casa mia”. E poi c’è il centurione che dice: “Oggi la salvezza è entrata in casa tua”. Nell’Eucaristia Gesù lo sta ripetendo a me. Ma sono anche quell’uomo dalla mano inaridita, e Gesù mi dice: “Stendi la tua mano”. Sono anche il lebbroso e il Maestro mi monda dai miei peccati… Quindi io devo entrare nella narrazione: la Parola si fa, diventa presenza per me.
3). Un’altra dimensione, un’altra caratteristica della Liturgia della Parola è quella della guarigione. Nella Liturgia della Parola noi siamo guariti anche dai peccati, peccati veniali chiaramente. Alla fine della proclamazione del Vangelo, il sacerdote, dopo aver baciato l’Evangeliario, dice: “la Parola del Vangelo cancelli i nostri peccati”. I nostri, di tutti, non soltanto quelli del sacerdote. Ma allora, uno dice: “che mi vado a confessare a fare? Ho sentito la Parola di Dio…”. No! I peccati gravi dobbiamo confessarli (è importante fare una buona e sincera confessione con l’assoluzione).
4). La Parola di Dio ha il potere di convertire. Se tu ti poni con l’atteggiamento giusto, se tu accogli la Parola di Dio nel tuo cuore, certo che ti convertirai.
Un giorno un giovane entra in chiesa e, ascoltando la Parola di Dio di quel giorno, (c’è il Vangelo del giovane ricco), si sente dire: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi”. Questo giovane esce fuori dalla chiesa, è convertito, vende tutto, assicura una dote a sua sorella e si ritira nel deserto. Chi è? È S. Antonio Abate.
Un altro giovane, secoli dopo, con un suo amico entrano in chiesa. La Liturgia della Parola, quel giorno, proponeva il brano del mandato: “non portate con voi né denaro, né bisaccia, né due tuniche, né sandali, né bastone”. Allora si rivolge al suo compagno: “hai visto? Il Signore ci sta parlando, è questo quello che dobbiamo fare”. Escono fuori dalla chiesa di San Damiano e iniziano una nuova avventura. È San Francesco di Assisi con i suoi primi compagni.
5). C’è un’altra dimensione della Liturgia della Parola. Se la Messa non avesse la Liturgia della Parola sarebbe monotona. La Liturgia della Parola, avendo la capacità di mettere in rilievo un aspetto particolare di Gesù Cristo, della sua poliedrica persona divina, ci dona ogni volta questa novità e questa creatività. Quindi la Parola di Dio rende tutta la Liturgia sempre nuova.
Una parola sull’omelia: quanto deve durare? In realtà l’omelia fa parte della Parola di Dio. L’omelia non è una cosa, che se non c’è è pure meglio, perché stiamo più tranquilli, soprattutto se è soporifera. L’omelia è la spiegazione, l’attualizzazione di quello che è stato appena proclamato.
Allora il suggerimento è che se anche il nostro parroco è un po’ noiosetto, anche se si perde negli avvisi, dobbiamo ascoltarlo. Dobbiamo ascoltare i nostri pastori, perché loro hanno una visione più ampia rispetto alla nostra più domestica. I pastori conoscono bene l’ambiente ecclesiale, il territorio, conoscono noi e poi il Signore si serve di loro. Ad ognuno Dio dà il prato adatto dove andare a brucare l’erba: è inutile andare a brucare sempre nel prato del vicino. Dobbiamo fidarci di Dio.
Ci sono due modi per preparare l’omelia.
1). La prima modalità è quella di sedersi a tavolino, mettere giù delle idee, cercare i biblisti che piacciono di più e poi chiedere al Signore la grazia di preparare una bella predica. È una maniera lecita di preparare l’omelia, ma occorre riflettere che non è Dio che deve essere a servizio della nostra cultura, ma è la nostra cultura che deve essere al servizio di Dio.
2). Per cui è preferibile un secondo modo di preparare l’omelia: occorre prima chiedere al Signore il dono dello Spirito perché ci ispiri il messaggio che Dio vuole trasmettere agli ascoltatori e poi sedersi a scrivere una scaletta o uno schema della predica. Prima di sedersi a tavolino bisogna mettersi in ginocchio e chiedere: “Signore cosa vuoi che io dica?”. “Quale messaggio vuoi comunicare?”.
Il Signore parla aldilà di quello che possiamo dire con le nostre povere parole. Effettivamente è così. Molti preti ve lo avranno già detto. A me è capitato. Una signora mi dice: “Padre, quello che ha detto in predica mi è servito tanto!” Ma che ho detto? Riporta un pensiero che io neanche ricordo di averlo detto! “Ma lei è sicura che lo ho detto io?”
Un sacerdote ha raccontato che è venuto un signore, che non veniva da tanto tempo in chiesa, e gli ha raccontato quanto gli è accaduto. Passava davanti alla chiesa, e vista la porta aperta, vede che sta predicando, entra, lo ascolta e da allora viene sempre in chiesa. “Padre, dopo che io l’ho ascoltata vengo sempre la domenica a messa perché le cose che ha detto sono state per me proprio un miracolo!”. “E cosa ho detto?”. Quella volta ha detto: “Bisogna andare a messa la domenica”. “Io? Ma non fa proprio parte della mia predicazione invitare ad andare a messa la domenica!”.
Invocazione dello Spirito Santo
Il Signore dice oltre le nostre parole, per cui bisogna prima pregare e poi mettersi a preparare qualcosa da dire, da raccontare, da spiegare sulla Parola di Dio.
Lo dice anche il Papa che bisogna impegnarsi al massimo e quest’impegno deve essere sia da parte del ministro che da parte dei fedeli. “Chi tiene l’omelia deve compiere bene il suo ministero offrendo un reale servizio a tutti coloro che partecipano alla Messa, ma anche quanti l’ascoltano devono fare la loro parte” (Udienza di Mercoledì, 7 febbraio 2018). Si tratta cioè di impegnarsi al massimo nel vivere bene questo momento della Liturgia della Parola.
Su questo argomento il Card. Cantalamessa dice: “non basta il nostro impegno, non basta il nostro sforzo. Occorre la forza dall’alto. E spiega: “ci vuole l’azione dello Spirito Santo che si chiama l’unzione spirituale”.
Per vivere bene il momento dell’ascolto della Parola bisogna chiedere allo Spirito il dono della illuminazione, perché come dice Sant’Agostino: “le parole esterne non servono se non c’è il maestro interiore. Le parole esterne saranno soltanto un semplice strepitio”. Allora “unzione spirituale” vuole dire invocazione dello Spirito, sia per chi legge e spiega la parola di Dio, sia per chi si mette in ascolto.
Bisogna leggere le Sacre Scritture sotto l’egida dello Spirito Santo, cioè sotto la guida di colui che le ha scritte! La differenza tra il Corano e la Bibbia è proprio questa: secondo l’Islam il Corano è stato dettato, invece per il Cristianesimo i Testi Sacri (questi 73 Testi Canonici che sono entrati nella Bibbia) sono stati ispirati dallo Spirito Santo. Infatti, gli autori sacri, coloro che hanno scritto i testi biblici, sono chiamati “agiografi”, cioè hanno scritto cose sacre.
Testi canonici e testi apocrifi
Perché i testi entrati nella Bibbia cattolica si chiamano “canonici”? Perché essi sono entrati nel “canone”, a differenza degli “apocrifi”, che non sono rientrati (“apocripto” da cui “cripta”, vuol dire nascondere, mettere da parte). Gli apocrifi sono stati messi da parte dalla Chiesa cattolica per dare spazio soltanto ai canonici. Questi 73 libri sono canonici, da “canon”, greco, che vuol dire “canna”, un’unità di misura.
Come si è formato questo insieme di testi?
Il popolo ebraico era un popolo nomade. E prima di entrare nella terra processa, la Palestina, non aveva la possibilità e il tempo di mettersi a scrivere per trasmettere ricordi, tradizioni e norme. Si affidava quindi alla trasmissione mnemonica. Ma quando si stabilisce nel territorio un regno di pace e di stabilità, col Re David, questi ricordi passano dalla memoria allo scritto. La maggior parte dei testi sono stati scritti quando il popolo è diventato sedentario, quando con Davide, intorno all’anno 1000, sono sorte le scuole di pensiero che riflettevano sulle grandi questioni sull’uomo, su Dio, sulla creazione, sullo scopo della vita, ecc.
Il ricordo più bello che andava tramandato era il fatto che il Signore aveva liberato il popolo dalla schiavitù. La liberazione dall’Egitto è l’evento più importante che loro hanno raccontato e tramandato a memoria. Poi la tradizione orale è diventata scritta, tramandando così ai posteri l’evento salvifico della Pesach (Pasqua), del passaggio del Mar Rosso.
Un altro tema molto importante, un evento accaduto anch’esso nella penisola sinaitica, è stato il patto del Sinai, cioè l’alleanza tra Dio e il suo popolo. Lì il popolo di Israele ha detto sì, Signore nostro Dio, noi ci affidiamo a Te, vogliamo la Tua protezione, la Tua liberazione, noi Ti apparteniamo. E viene fatta l’Alleanza. Intorno a questi eventi nasce il Pentateuco.
E col passare del tempo, la polvere dell’abitudine copre tutto e fa dimenticare quello che è accaduto e che è stato importante per la propria storia ed identità di popolo. La gente si allontana da Dio e diventa infedele a quel patto, anzi approda ad adorare dèi pagani. Nascono allora i profeti per ricordare quello da cui si era partiti, le radici del loro essere popolo, nazione. Chi ci ha dato la terra? “Ha Harez”, la terra, ce l’ha data Dio, e questa terra va difesa, non con le armi, bensì con la Parola di Dio, con l’obbedienza. Ecco che avviene il ritorno all’osservanza della Legge e il ritorno all’Alleanza, grazie al richiamo dei profeti.
Allora abbiamo la composizione della Torah, i primi cinque libri del Pentateuco, chiamata anche “La Legge”; poi nascono i profeti, il profetismo, i libri dei Profeti. E siamo in epoca ellenistica quando il popolo ebraico, Israele, incontra la cultura greca, e si scontra con un nuovo modo di pensare ed intendere i valori dell’uomo, della vita, della religione. Gli Ebrei non si ritrovano nei valori dei Greci, e allora nascono le Scritture Sapienziali, i libri Sapienziali. Questi e cercano di dare una risposta ebraica alle domande greche.
A questo punto la maggior parte dei testi che arriveranno ai Cristiani sono, per la maggior parte, già formati. Dopo la morte di Cristo, i cristiani dicono: “Ma c’è la predicazione degli Apostoli, mettiamola giù per iscritto prima che si perda”.
Gli apostoli narrano i detti e i fatti di Cristo, ci sono molti testimoni oculari, si mette mano ai Vangeli: la fonte Q seve da base, il primo è Marco, poi c’è Matteo, e comunque i quattro evangelisti scrivono il cuore di tutta la Bibbia. I quattro vangeli sono poca cosa rispetto alla voluminosità del resto dei libri sacri. Se voi prendete la Bibbia e andate a vedere quanto spazio occupano i Vangeli, vi accorgete che rappresentano una minima parte, però lì ci troverete il centro della Sacra Scrittura, la chiave di lettura di tutto il resto della Bibbia.
E noi nella Liturgia della Parola tutto questo lo esprimiamo con il portare l’Evangeliario in processione, l’uso dell’incenso, la presenza di due ceri, il bacio al Lezionario alla fine della proclamazione del Vangelo.
Quel testo si chiama Lezionario perché contiene le lectiones, cioè le letture, mentre il libro che sta sull’altare si chiama Messale perché contiene tutte le parti della Messa. Si dà tutta questa importanza alla lettura del Vangelo perché non si può comprendere l’Antico Testamento se non si parte dal Vangelo.
Se volete leggere la Bibbia e se volete anche consigliarla sempre dite: prima il Vangelo.
Nel leggere i Vangeli partite da Marco: 16 capitoli, il più piccolo, il più semplice. Marco scrive ai romani che non conoscono i termini aramaici, li spiega ogni volta: è il primo testo da cui partire.
L’importanza del Vangelo. E dove viene letto il Vangelo?
Quando inizia la Liturgia della Parola, la nostra attenzione dalla presidenza si sposta su un altro luogo della Messa: l’ambone. Lo sguardo si volge all’ambone mentre ci mettiamo seduti.
L’ambone dovrebbe essere “corposo”, perché “ambone” viene da “ambon” che vuol dire pancione, superficie convessa. Non può essere confuso col leggio.
Conosco la chiesa delle Pie Discepole del Divin Maestro sulla Via Portuense a Roma. Il loro ambone è una cosa enorme, è proprio un ambone “pancione”. Tu sali sopra e senti che stai facendo qualcosa di solenne. Così dovrebbe essere se vuoi dare la giusta importanza alla Parola di Dio e in modo più chiaro al Vangelo. Il leggio è un’altra cosa: dal leggio si fanno le monizioni, si guidano i canti, si leggono le introduzioni, si danno gli avvisi. Ma all’ambone si dà tutta la cura riservata al Vangelo. Perché? Perché sono le stesse parole di Gesù Cristo, sono i fatti di Gesù, il centro della nostra vita, della nostra esistenza.
Mi piace riportare a questo punto il pensiero di don Fabio Rosini. Egli afferma: “Se ascolti la Parola di Dio e non capisci molto, non ti preoccupare. Tu ascolta! Tieni dentro! Se senti un pugno nello stomaco e fai finta che non è a te, tienilo quel pugno, è per te”. Se la Parola di Dio ti mette in crisi, se ti disturba, se t’inquieta, quella è Parola di Dio! Se ti lascia calmo, sereno, inerte, non stai leggendo la parola di Dio, stai facendo altro.
È interessante perché Rosini dice: “proprio quando ti sta disturbando, la Parola sta dicendo qualcosa a te”. Ma se il Padre Eterno, così alto e onnipotente, ha delle cose da dirti, è normale che tu non le capisca tutte e subito. Tu tienile, poi le capirai. Sono per te.
Riporta quindi l’esempio dell’Annunciazione. Maria dice: “Ma com’è possibile? Non conosco uomo!” però si fida. Poi il racconto del Vangelo conclude: “Maria meditava tutte queste cose nel suo cuore”! Tieni quelle parole per te, medita, vai avanti perché il Signore ti sta portando un messaggio di bene.
Purtroppo, succede che quando uno parla del bene tutti dormono, se parli del male si svegliano. Ed è vero! Quali sono le trasmissioni che tirano di più? Quelle sui guai degli altri! Il noir, lo splatter, la cronaca nera. Invece una bella vita di santi oggi non attira nessuno!
Io ricordo, ho fatto a Roma il liceo, al seminario minore romano in viale Vaticano 42, che avevamo l’ora di religione il sabato: la sesta ora del sabato. Eravamo tutti seminaristi di diversi Istituti, avevamo già in casa le catechesi, la formazione, i ritiri spirituali, le conferenze, le meditazioni, non avevamo voglia di fare religione, per di più alla sesta ora del sabato! Per fortuna nostra, il professore di religione era don Giancarlo, orionino, un sant’uomo, ed era anche esorcista. Allora gli chiedevamo: “Don Giancà ha fatto qualche esorcismo ‘sta settimana?”. Lui raccontava e noi eravamo attenti, tutti svegli…
Ma Dio ti porta un messaggio di bene per te, non ti addormentare!
La Parola di Dio che noi ascoltiamo ci racconta tutta la storia della salvezza. Ma ce la racconta a tratti, a pezzi: non potremmo digerirla tutta intera.
Ma chi ha fatto questa scelta? Chi è che si è presa la briga di scegliere i contenuti biblici per la Liturgia della Parola: prima lettura, seconda lettura, salmo, vangelo… “Chi l’ha fatto?
È la Sapienza cristiana che ha fatto questa scelta per noi. È la Chiesa, la Santa Madre Chiesa, con la sua tradizione millenaria, che per noi ha fatto questo lavoro. Con un profondo discernimento, “ruminando” anni e anni la Parola (come dicono i padri della Chiesa), con oculata scelta la Chiesa ci propone, nell’arco di un anno, l’ascolto, centellinato e calibrato sui tempi liturgici, di tutte le letture bibliche.
Ecco perché, dice l’introduzione al Lezionario: “non si può omettere o cambiare un testo della Parola di Dio” prevista per quel giorno.
Perché è stato scelto per noi! Parola di Dio è Parola di Dio. Basta. Non si può sostituire una lettura della messa con un testo di una canzone o una lettera del Santo Fondatore e neanche con un brano tratto dal Magistero.
La Prima Lettura è tratta dall’Antico Testamento. Il salmo previsto è tratto dal Libro dei Salmi e dovrebbe essere cantato (almeno il ritornello). I salmi sono 150, attribuiti a Davide (anche se Davide avrà scritto il Miserere, forse, ma non tutti i salmi…). La Seconda Lettura invece, è tratta dal Nuovo Testamento.
Chi proclama il Vangelo deve leggere per gli altri, non per sé stesso. Ecco perché è importante una buona acustica, il saper porgere la Parola di Dio, il declamare e non sbiascicare sottovoce delle parole!
Chi legge, il Lettore, svolge un ministero (il ministero istituito del Lettorato) e deve essere preparato anche a saper leggere per porgere la Parola di Dio!
Sant’Agostino dice: “Il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico Testamento e l’Antico testamento è rivelato nel Nuovo”.
Se vogliamo comprendere l’Antico Testamento troviamo la spiegazione nel Nuovo Testamento. Ecco perché bisogna partire dal Vangelo, perché il Vangelo è la chiave di lettura di tutta la Bibbia.
Occorre anche saper ascoltare. Ascoltare non è soltanto “sentire”, ma è entrare in empatia.
Quando due persone dialogano davvero? Non quando parlano di sport o di clima atmosferico; bensì quando si coinvolgono nel discorso dicendo qualcosa di sé, quando riescono ad aprire il loro cuore, quando esprimono desideri, impegni, valori, aspirazioni, paure.
Bene, nella Liturgia della Parola c’è questo dialogo, dove Dio apre il cuore dell’uomo e gli chiede di aprire il suo.
I Padri della Chiesa dicevano: “Nella Parola di Dio noi scopriamo i battiti del cuore di Dio”. Cioè scopriamo quanto Dio ci ama.
Il suo messaggio è un messaggio d’amore: i Vangeli sono una lettera d’amore che Cristo ha scritto per noi.
E la nostra risposta alla Parola qual è?
Quella immediata è il Credo. Però, la vera risposta è quella che diamo con la nostra vita.
Papa Francesco al termine di una sua catechesi ha detto che la Parola di Dio deve passare nelle orecchie, arrivare al cuore e raggiungere le mani. “La Parola di Dio fa un cammino dentro di noi. La ascoltiamo con le orecchie e passa al cuore; non rimane nelle orecchie, deve andare al cuore; e dal cuore passa alle mani, alle opere buone. Questo è il percorso che fa la Parola di Dio: dalle orecchie al cuore e alle mani” (Papa Francesco, Udienza Generale in Piazza San Pietro, Mercoledì, 31 gennaio 2018). Deve cioè diventare azione. Se la Parola non ci converte, non ha raggiunto il suo scopo.
C’è un breve racconto – storia vera – sul santo curato D’Ars, san Giovanni Maria Vianney, il quale fu mandato dal suo vescovo in un paesino sperduto, Ars. Qui divenne famoso per la sua santità di vita, per la sua predicazione e la sua capacità di convertire il cuore dei penitenti. La gente accorreva da lui, non solo da Parigi, ma da tutta la Francia. A Parigi, nella Cattedrale di Notre Dame, c’era un altro predicatore, il famosissimo padre Lacordaire. Questi venne a sapere che anche in un piccolo paese come Ars c’era un bravo e promettente predicatore che attirava una platea sempre più numerosa di fedeli. “Devo andare a vedere”, disse, non per civetteria, ma per conoscere di persona. E quando lo incontrò gli disse: “Padre io mi inginocchio ai suoi piedi, ho sentito parlare tanto bene di lei, della sua santità e della sua predicazione”. “Padre Lacordaire ma lei viene da me? Ma che dice? Ho saputo che quando lei predica la gente per stare in chiesa sale sui confessionali.” Dice padre Lacordaire: “È vero padre Giovanni, io li faccio salire sui confessionali, ma lei li fa entrare dentro”. La Parola di Dio, allora, ci deve convertire!
Il silenzio
Mi hanno insegnato che nella santa Messa si devono rispettare quattro silenzi, due piccoli e due grandi. I due piccoli silenzi sono all’atto penitenziale, quando si riflette sulle proprie mancanze per chiedere perdono, e dopo che il sacerdote dice “Preghiamo” nella preghiera di Colletta. Qui il ministro dell’eucaristia raccoglie (da “colligo”, raccolgo) tutte le intenzioni dei fedeli per porgerle al Padre: tra il “preghiamo” e l’orazione ci deve essere il piccolo silenzio.
I due grandi silenzi riguardano 1). la meditazione personale, dopo l’ascolto dell’omelia, per prendere un impegno di vita da quanto il Signore mi ha detto e 2). la riflessione su quanto ho ricevuto nell’Eucaristia, dopo la Comunione.
Padre Pio proprio riguardo ai silenzi della sua celebrazione della santa messa ha per noi un grande insegnamento. È risaputo che la sua messa celebrata come fosse la prima, come fosse l’unica, come fosse l’ultima, durava tantissimo. Quando faceva l’elevazione, impiegava 20 minuti. I pellegrini e i partecipanti occasionali apprezzavano il lungo tempo che Padre Pio riservava alla Santa Messa. Il sagrestano e i confratelli un po’ meno. Il padre guardiano allora, un giorno, gli chiese: “Padre come mai impiega 20 minuti solo per la elevazione?”. Padre Pio spiegò: “In quel momento offro al Signore tutte quelle persone che mi chiedono di pregare per loro”. “Ma proprio tutte?!?”. Padre Pio: “Sì, ricordo tutte le persone che mi chiedono un aiuto, una preghiera, un consiglio!”. “Ho capito: lei mette tutto nel calderone e affida il tutto alla misericordia di Dio”. Padre Pio: “No! Nel calderone metto lei e vi accendo sotto una fiamma”.
Concludo con piccoli suggerimenti pratici.
1). È importante leggere la Parola di Dio prima di partecipare alla santa messa. Grazie a Dio ci sono i messalini, ci sono i foglietti della messa, c’è Internet. Leggere la Parola di Dio ci aiuta alla precomprensione, che è utile per accogliere la Parola. Il seme, cioè, quando cade trova un terreno fertile.
2). Secondo suggerimento: nel foglietto, soprattutto se è il nostro messalino, sottolineare le cose su cui abbiamo un dubbio o che vogliamo approfondire. Poi dopo che abbiamo partecipato alla santa messa, ascoltato l’omelia, meditare la Parola, durante la settimana “masticarla”, “ruminarla”.
2). Poi se abbiamo un nostro quaderno spirituale, un diario, è utile segnare, scrivere qual è l’impegno che mi sono preso, cosa mi ha colpito questa domenica e poi in ultimo fare quella sana pratica della nostra tradizione cristiana che è l’esame di coscienza. È utilissimo l’esame di coscienza serale. Serve a verificare se ho messo in pratica il frutto della meditazione mattutina. Se non ho espletato i buoni propositi, chiedo perdono e riprendo. Mi sforzo di dare così sempre il meglio di me stesso/stessa. Faccio un passetto ogni giorno nella crescita spirituale.
Buon ascolto, allora, della Parola di Dio e buon cammino, nell’unione con Dio e nell’amore al prossimo!
March 9, 2024
Presidenta anche no, Resistere al fascino del neofemminismo
di Costanza Miriano
Cercherò di usare un tono pacato, perché Raffaella è un po’ più di un’amica, un po’ più anche di una sorella di carne, è una sorella di elezione, e quindi so che devo cercare di essere lucida. E infatti sono giorni che leggo e rileggo il suo libro, sottolineo, prendo appunti, mi segno i dati, approfondisco, provo a seguire le tracce delle piste che apre (ogni capitolo sarebbe un libro a parte), vado a leggere notizie ulteriori sulle storie che ha scovato. E niente, mi dispiace, anche cercando di essere obiettiva lo devo dire. Presidenta anche no, Resistere al fascino del neofemminismo (Ed. Il Timone 2024) è un capolavoro. È una pietra miliare della riflessione sul ruolo femminile, e l’unica voce fuori dal coro.
A differenza delle paginate dei giornaloni mainstream, basate sul nulla, gonfiate ad arte, ideologiche e piene di bugie (Cosmopolitan coi suoi falsi “racconti veri” e le sue ricerche inventate ha fatto scuola, come spiega bene questo testo), giornaloni che – compatti come un sol uomo – ripetono le parole chiave, i ritornelli vuoti e falsi della propaganda ignorando completamente la realtà, in questo libro ci sono fatti. Storie, dati, fatti raccontati, messi in fila, verificati, letti insieme, uno dopo l’altro, per dire una cosa: quello che cercano di raccontarci della donna non è la verità, o, se non vogliamo scomodare categorie ontologiche così alte, non è ciò che realmente corrisponde alla vita delle donne in carne ed ossa.
Questo libro proclama che il re è nudo, che c’è stato e c’è tuttora un disegno orchestrato e molto ben finanziato per convincere le donne che la maternità è un fardello, a meno che non sia tu a scegliere dovecomequando, e allora tutto è consentito, compreso produrre bambini in laboratorio senza pensare che ci sono vite che verranno sacrificate per questo, che gli uomini sono tutti violenti e cattivi, che le donne sono sfruttate e sottopagate, o comunque pagate meno degli uomini a parità di lavoro svolto, che lavorare fuori casa è comunque e sempre meglio che in casa, perché il direttore cretino è comunque meglio di tuo marito, che la contraccezione è un dono meraviglioso, che l’aborto è un diritto e quindi non ci farà soffrire, che si può decidere se si è maschi e femmine e che si può passare da un sesso alla brutta copia dell’altro senza pagare un prezzo enorme in termini di dolore psichico e gravi problemi fisici.
Raffaella ha letto un sacco prima di scrivere questo capolavoro: giornali, siti, profili social e libri, molti libri, anche in altre lingue, e in uno (The Anti-Mary exposed – Rescuing the culture from toxic femininity di Carrie Gress) ha scovato un’immagine geniale, che fotografa con un’immagine iconica quello che abbiamo capito tutti , almeno tutti noi che non ci siamo bevuti le balle del sistema: racconta quella scena de Il diavolo veste Prada in cui Miranda tratta malissimo la sua assistente (Anne Hathaway) che sembra non considerare importante la scelta fra due cinture identiche, e spiega che invece quella scelta ben lungi dall’essere irrilevante, condizionerà i consumi di tutti per molti anni a seguire. Prima i grandi della moda poi i negozi di lusso, le catene della moda e alla fine i grandi magazzini dove noi “plebei” compreremo molti anni dopo nell’angolo occasioni capi e modelli e colori che imitano scelte fatte ai vertici molto prima. Il mercato delle idee funziona esattamente come il mercato della moda – scrive l’autrice, citando poi la Gress: “è un’élite politica a fornirci i parametri di ciò che pensiamo. Le idee di alcuni personaggi sono entrate nella vita quotidiana di milioni di persone” senza che ce ne rendessimo conto. E così la gente si trova a pensare cose come “le donne possono essere libere solo se sono in grado di abortire i loro figli” o “il genere è una cosa fluida” senza averle mai veramente pensate.

Non è facile smontare le bugie, perché il sistema mediatico è “uno strumento potentissimo che orienta messaggi e linguaggio per veicolare contenuti precisi… un’idea dell’essere umano concepito come un individuo isolato, che si autodetermina, la cui bussola è unicamente il benessere personale, da raggiungere consumando, non solo cose ma relazioni ed esperienze”. E la donna, proprio perché fonte della vita e generatrice di bene, è il bersaglio principale; se vincono le bugie su di lei, la società cambia, irrimediabilmente. Sulla donna “al momento l’unico discorso socialmente accettabile a livello pubblico è quello postfemminista, l’unico considerato dalla parte giusta della storia. Ma c’è un’altra parte della storia, quella vera. Quella che non trova spazio sui grandi media e magari viene sbeffeggiata…” E invece Presidenta anche no offre una serie di spunti, occasioni per ascoltare, anche solo per curiosità, un’altra campana.
Il libro non trascura nessuna delle questioni vitali: il tema del linguaggio, il cosiddetto patriarcato, i giornali che dagli anni ’60 diffondono il Verbo della donna che lavora molto, fa tanto sesso ed è libera da qualsiasi relazione, i Trans che diventano miss al posto delle belle donne, i corpi mutilati di chi affronta l’incubo della transizione di genere, il dramma dei detransitioners, l’incubo e il dramma dell’aborto volontario, le bestialità della fecondazione artificiale, gli agglomerati queer che vorrebbero chiamarsi famiglie, l’utero in affitto, la solitudine delle donne che usano il sesso per avere amore, la trasgressione della castità, l’odio verso il matrimonio, la questione del lavoro femminile che viene sempre trattata come la battaglia delle donne per stare di più lontane da casa (quando invece la realtà dice che tante donne vorrebbero stare meno lontane da casa), il dramma delle donne uccise non dal patriarcato ma da uomini fragili e poco virili, incapaci di reggere le passioni, la menzogna delle parole (l’unico vero femminicidio, cioè l’uccisione di una vita solo perché donna, è l’aborto selettivo), la violenza che va sempre condannata tranne quando “sanziona” la sede di ProVita, vandalizzandola e lanciando minacce. Vorresti che non finisse mai, e invece purtroppo finisce, troppo presto, ma non senza lanciare l’auspicio più bello.
“È tempo di stabilire un’alleanza del tutto nuova con l’uomo che ci sta accanto… esiste un altro modo di vivere la femminilità, di amare e di trovare compimento. Ed è alla portata di tutte”.
Costanza Miriano's Blog
- Costanza Miriano's profile
- 22 followers
