Andrea Indini's Blog, page 186

February 27, 2013

Chi siederà al Quirinale?

Nessuno ne parla apertamente, ma il pensiero dei leader va inevitabilmente allo scranno del Quirinale che tra non molto sarà vacante. Entro il 15 aprile dovrà arrivare la convocazione del parlamento in seduta comune per eleggere al Colle il successore di Giorgio Napolitano il cui mandato scadrà il 15 maggio. La seduta comune potrebbe essere convocata per i primi di maggio, in modo da consentire ai Consigli regionali di eleggere i grandi elettori che li rappresenteranno. La partita per la presidenza della Repubblica è iniziata un minuto dopo la comunicazione dei risultati delle urne e andrà a influenzare le prossime mosse che determineranno la composizione del governo e la nomina delle più alte cariche dello Stato.


Nei giorni scorsi Silvio Berlusconi è stato sin troppo chiaro: dopo troppi capi di Stato di parte sarebbe il caso di eleggere un presidente della Repubblica super partes o, comunque, meno avverso al centrodestra. La battaglia che Napolitano ha intrapreso per sette lunghi anni contro il Pdl e la Lega Nord brucia ancora. Per non parlare di quella portata avanti dal suo predecessore. Tant'è. Adesso è il momento di guardare avanti e di arginare la pletora grillina che sbarca al parlamento con 108 debutati e 54 senatori. Per salvare il bipolarismo, che è l’unica vera conquista della seconda Repubblica, il Pdl propone una ritrovata serietà dei due maggiori partiti italiani. "Bersani guidi dunque il governo e Berlusconi vada al Quirinale - avanza Michale Biancofiore - si raggiungerebbe un equilibrio perfetto". In via dell’Umiltà sono convinti che i seggi conquistati a Palazzo Madama offrono al partito una chance rilevante per poter dettare le carte per l’elezione del nuovo capo dello Stato. Berlusconi in campagna elettorale ha più volte confidato di avere un nome pronto da spendere, ma non si è mai sbottonato per non bruciarlo. "Un nome - ripeteva l’ex premier - che sarebbe gradito anche al Pd". Adesso, però, gli scenari sono completamente diversi da quelli prospettati qualche settimana fa. Tra i berlusconiani doc c'è, appunto, chi torna alla carica rilanciando proprio il Cavaliere e chi, invece, avanza il nome di Gianni Letta.


Di certo, Pier Luigi Bersani & compagni non potranno contare sull’appoggio di Beppe Grillo per votare il candidato di Largo del Nazareno. Dopo aver proposto Dario Fo, il comico genovese ha infatti avanzato l'idea (impraticabile) di fare una sorta di primarie on line per scegliere il prossimo inquilino del Colle. Enrico Letta ha invece sottolineato che a chi ha vinto la Camera va "l’onere di fare le prime proposte da fare al capo dello Stato". E, come spiega Alessandra Sardoni sul Foglio, i nomi che si fanno avanti in uno scenario tanto complicato gravitano (ancora una volta) in area centro-centrosinistra. Nomi che godono di un ampio favore internazionale, che possono vantare amicizie importanti in Europa e ai tavoli dei poteri forti, nomi che da decenni manovrano come burattinai le politiche del Belpaese. La rosa di nomi che piace agli euro tecnocrati è presto fatta: si va da Giuliano Amato a Romano Prodi, da Mario Dragi a Mario Monti. Niente di nuovo. Un usato per nulla sicuro. "Sono stati tutti presidenti del Consiglio - spiega la Sardoni - hanno avuto incarichi di peso in Europa, sono stati punti di riferimento per almeno una generazione di grand commis. Sono stati invitati almeno una volta alle riunioni della Trilateral Commission e del Bilderberg". Qualche democratico, poi, si azzarda a fare il nome di Anna Finocchiaro, mentre il Professore aveva ventilato Emma Bonino. Due nomi in rosa per dare maggior respiro alla competizione.


Insomma, se Bersani riuscirà mai a formare il governo, non potrà pretendere di "mettere le mani" anche sul Colle. A quel punto dovrà scegliere se "cedere" terreno a favore del centrodestra oppure accettare i diktat dei Cinque Stelle.


Dopo la "sconfitta" di Bersani alle elezioni, il Pdl ha più voce in capitolo nella scelta. Il Cav vuole interrompere la scia di capi di Stato vicini alla sinistra. Ma il Pd torna a fare i nomi di Amato, Prodi e Monti





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Andrea Indini

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Published on February 27, 2013 06:39

La minaccia delle agenzie di rating

È una minaccia che abbiamo già sentito. È un'ingerenza che abbiamo già subito. Le agenzie di rating si avventano, fameliche, sul governo italiano: si preoccupano della scelta degli elettori e provano a influenzare il futuro governo che, nelle mani tremanti di Pier Luigi Bersani, dovrebbe essere formato sotto il diretto controllo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.


Nella nottata, Moody's ha calato la propria scure sull'Italia. Più che un avvertimento, una minaccia. Più che un report, una sentenza. L’incertezza dell’esito del voto in Italia è "negativa" per il rating italiano e aumenta la possibilità di nuove elezioni, prolungando potenzialmente l’instabilità politica del paese. Dopo aver assegnato una prospettiva negativa al rating italiano (Baa2) nel luglio scorso, gli analisti di Moody’s potrebbero "considerare una bocciatura nel caso di ulteriore, sostanziale peggioramento delle prospettive economiche del Paese o difficoltà nel realizzare le riforme" o anche di "peggioramento nelle condizioni di finanziamento". "Se l’accesso dell’Italia ai mercati dovesse risultare difficoltoso e il Paese dovesse richiedere assistenza esterna - è il monito dell'agenzia di rating - il rating sovrano del Paese potrebbe passare a livelli notevolmente più bassi". Nella nota diffusa nella notte, Moody’s parla di "rischi sostanziali per la realizzazione delle riforme strutturali e fiscali" dopo il risultato delle elezioni, il cui esito "aumenta la possibilità che la spinta riformatrice conseguita con il governo Monti finisca per rallentare, o andare completamente in stallo". Inoltre, secondo Moody’s, l'ottimo risultato dei partiti euroscettici (il Pdl e il Movimento 5 stelle) aumenta il rischio di un’inversione dei progressi fatti riducendo "la probabilità che nuove elezioni risolvano la situazione bloccata". Dal momento che l’Italia è la terza economia del blocco europeo e ilprimo mercato dei titoli di Stato, Moody's intravede la possibilità che le elezioni abbiano implicazioni che vanno oltre l’Italia e, indirettamente, siano negative per il rating di altri Paesi sovrani dell’Eurozona "con la possibilità che si riaccenda la crisi del debito".


Dopo una mattinata di euforia ingiustificata, lo scrutinio di lunedì pomeriggio ha subito fatto invertire i segni più di Piazza Affari e sbalzato all'insù lo spread tra Btp decennali e Bund tedeschi. E il differenziale si è trasformato, ancora una volta, in un'arma a doppio taglio per influenzare la formazione del governo e le alleanze. Dopo che per mesi hanno fatto un patto con Mario Monti tenendo lo spread sotto la soglia dei 300 punti base, gli speculatori sono tornati all'attacco scommettendo contro i titoli di Stato nostrani che, nelle ultime ore, risentono della fortissima volatilità dei mercati. La prima agenzia di rating a tirare la zampata su Palazzo Chigi era stata, a urne ancora calde, Standard & Poor's avvisando che il rating del debito sovrano italiano non sarà "immediatamente" influenzato dall’esito delle elezioni ma saranno le scelte politiche che farà il prossimo governo a determinare il voto che la società di rating statunitense attribuirà all’Italia. "Riteniamo che le scelte politiche del nuovo governo - si legge nella nota di Standard & Poor's - una volta che sarà designato da Napolitano, saranno il fattere chiave (per determinare) l’affidabilità del debito sovrano italiano". Adesso, però, il rischio più forte è che il prossimo governo e le future politiche economiche vengano dettate dai mercati e dalla finanza, proprio come era stato con il Professore. Se così fosse, l'Italia rischierebbe di diventare una colonia dell'Eurozona.


Mentre i partiti trattano per trovare la strada della governabilità, Moody's e S&P fanno leva sullo spread per influenzarli





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Andrea Indini

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Published on February 27, 2013 02:13

February 26, 2013

Bersani ammette la sconfitta: "Noi primi, ma non vincitori". E c'è chi vuole la sua testa

Nel 2008 l'allora candidato del centrosinistra Walter Veltroni aveva perso portando a casa 13.689.000 voti. Ieri Pier Luigi Bersani ha "vinto" con appena 9.963.390 preferenze. Sebbene cinque anni fa quella dell'ex sindaco di Roma venisse descritta come una sonora débacle, oggi la stampa progressista si stringe attorno al leader piddì per fargli coraggio e asciugargli le ferite. Non solo non ha smacchiato il ciaguaro ma Silvio il leone l'ha sbranato. Alle politiche che avrebbero dovuto sancire il grande rientro della sinistra a Palazzo Chigi, il segretario di Bettola fa poco meglio di Romano Prodi: nel 2006 il Professore aveva vinto per 24mila voti, adesso l'asse Pd-Sel hasuperato il Pdl alla Camera per 124.407 voti. Basta guardare il volto funereo del leader piddì che, dopo una nottata di silenzio, ha ammesso in conferenza stampa la propria sconfitta: "Non abbiamo vinto, anche se siamo arrivati primi e questo è anche l’oggetto della nostra delusione".


"Non c’è bisogno di chiedere le dimissioni di Bersani, perché Bersani non farà più il segretario del Pd come ha sempre detto lui per primo". Nelle parole di Giuseppe Civati, eletto alla Camera, emerge tutta la frustazione dei democratici per la finta vittoria di ieri. Adesso si gettano tutti sul cadavere del segretario del Pd che dovrà pagare una campagna elettorale vuota di contenuti e tutta tesa a rincorrere giaguari da smacchiare. Matteo Renzi lo sta aspettando al varco, i riformisti pure. Dal canto suo Bersani temporeggia. Sebbene, prima della fine degli scrutini, avesse promesso un commento sul risultato delle elezioni, a mezzanotte si è limitato a difendere la posizione: "Il centrosinistra ha vinto alla Camera e per numero di voti anche al Senato. È evidente a tutti che si apre una situazione delicatissima per il paese. Gestiremo le responsabilità che queste elezioni ci hanno dato nell’interesse dell’Italia". Punto. Nient'altro. Grazie e arrivederci. Poi, si è di nuovo chiuso col suo staff a macinare sui numeri e sui seggi e a valutare le prossime mosse da fare per riuscire a ottenere una maggioranza (un po' meno risicato) imbarcando i grillini. Alle 17 di oggi si è, infine, presentato in conferenza stampa e ha scaricato gran parte del flop sull'elettorato del centrosinistra: "Questa cosa non avverrebbe in altri Paesi dove un voto del genere avrebbe garantito comunque la governabilità".


Per il momento Bersani non vuole arretrare di un millimetro, né in parlamento né nella segreteria del partito. A chi nelle ultime ore sta caldeggiando le sue dimissioni dal vertice del Pd, ha ribadito che la ruota dovrà girare nel congresso del 2013: "Non abbandono la nave, dopodiché io posso starci da capitano o da mozzo". Al governo, però, vuole provare a starci da presidente del Consiglio. E così si presenterà dal capo dello Stato Giorgio Napolitano tentando di mettere insieme una maggioranza che gli permetta di tirare a campare per qualche mese. "La nostra ispirazione non è una diplomazia con uno o con l’altro né discorsi a tavolino - ha assicurato - ma alcuni punti fondamentali di cambiamento, un programma essenziale da presentare al parlamento per una riforma delle istituzioni, della politica, a partire dai costi e dalla moralità". Il leader piddì proporrà, quindi, alcuni punti fondamentali di programma da rivolgere al parlamento e, quindi, anche al Movimento 5 Stelle. "So che fin qui hanno detto 'tutti a casa' - ha continuato - ora ci sono anche loro, o vanno a casa anche loro o dicono che cosa vogliono fare per questo paese loro e dei loro figli". Con i grillini è disposto a scendere ai patti. A tal punto da offrir loro la presidenza di Montecitorio: "Sono il primo partito alla Camera, allora secondo i grandi modelli democratici ciascuno si prende le sue responsabilità...".


Sconcerto e incredulità sono sicuramente i due aggettivi con i quali chi ci ha parlato descrive lo stato d’animo dei dirigenti Pd riuniti nella sede nazionale. Mentre passano le ore, si fa sempre più notare la solitudine del capo: dopo aver atteso i dati ufficiali da solo nella sua abitazione romana, tenendo solo contatti telefonici con i piani alti di via del Nazareno, Bersani ha continuato a posticipare la conferenza stampa. Ieri notte, nella sala stampa allestita per accogliere le 600 testate che si erano accreditate e per commentare il voto, Davide Zoggia dopo un consulto con i vertici aveva fatto sapere che, "visti i dati discordanti", i commenti si sarebbero fatti solo una volta giunti i dati ufficiali. Ma, anche quando a notte fonda il Viminali li ha pronunciati, Bersani non si è fatto vivo. Vari dirigenti del partito (presenti tra gli altri Nico Stumpo e Anna Finocchiaro) si sono riuniti, sin dalle prime ore del mattino, per fare un’esame della situazione alla luce del risultato delle urne. "Adesso lasciamo depositare la polvere e vediamo come procedere - spiegano fonti del Pd - di certo c’è che si è determinata una maggioranza alla Camera. Da lì si può partire".


Alle politiche Bersani fa peggio di Veltroni: vince ma non ha i numeri. E, dopo un lungo silenzio, ammette il flop e promette al M5S la presidenza di una Camera





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Andrea Indini



Disfatta Bersani: perde anche a BettolaQuesta sinistra non vince neanche se gioca da solaBersani: "Noi primi, ma non abbiamo vinto"Bersani a Grillo: "Ci dica cosa vuole fare"Il giaguaro mi ha smacchiato
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Published on February 26, 2013 13:29

February 25, 2013

Disfatta Bersani: perde anche a Bettola

Chissà come si immaginava la serata dello spoglio elettorale. Sicuramente a festeggiare con i vertici del Partito democratico. Una stretta di mano a Matteo Renzi, un buffetto a Rosi Bindi e, poi, a brindare con i militanti e lo staff. Chissà se aveva già pronto un discorso strappa lacrime da leggere, con verve, agli italiani. Chissà se aveva intenzione di eccedere in bollicine e canticchiare coi suoi la canzoncina che lo ha accompagnato negli ultimi giorni di campagna elettorale. A Pier Luigi Bersani non solo non gli è riuscito di "smacchiare il giaguaro", ma non ha nemmeno conquistato il Senato.


Il simbolo indelebile della sconfitta di Bersani è il flop nella sua Bettola. Nel paesino in provincia di Piacenza, che ha dato i natali al segretario del piddì, ha vinto ancora una volta il centrodestra. Lo scorso 20 gennaio, proprio a Bettola, Bersani aveva festeggiato l’avvio della campagna elettorale. In piazza Cristoforo Colombo i suoi amici avevano appeso un "lenzuolata", un drappo con l’immagine del candidato premier del centrosinistra e la scritta "Bersani presidente". Adesso, però, gli hanno dato il benservito. Al Senato, infatti, la coalizione guidata da Silvio Berlusconi ha 659 voti (41%), mentre il centrosinistra si è fermato a 525 (32,6%). Anche a Bettola il Movimento 5 Stelle ha ottenuto un ottimo incassando il 17,8% delle preferenze. La disfatta firmata da Bersani è stata, poi, confermata alla Camera dove il centrodestra ha stravinto con 700 voti (41,9%) e il centrosinistra si è fermato a 534 preferenze (31,6%). Anche a Montecitorio i grillini hanno fatto un'eccellente performance (18,4%). Va, tuttavia, detto che si è ridotta la distanza rispetto a cinque anni fa, quando il Pdl e il Carroccio avevano raccolto il 55,1% contro il 27,6% incassato dall'asse Pd-Italia dei Valori.


Un flop a trecentosessanta gradi. Se qualcuno avesse pronosticato una disfatta del genere all'indomani delle primarie che lo avevano portato in trionfo sul sindaco rottamatore, Bersani non ci avrebbe affatto creduto. Eppure il peggiore degli incubi democrat si è avverato: Berlusconi ha fatto il miracolo e ha smacchiato il Pd che non brinda nemmeno a questo giro.


Puntava a guidare il Paese con percentuali bulgare, invece il segretario del Pd non riesce nemmeno a vincere nel suo paese. È la fotografia di un flop senza precedenti





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Andrea Indini


Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani vota a Piacenza
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Published on February 25, 2013 11:54

M5S, dal Popolo viola alle "linguacce" viola: farsa grillina nei seggi

I grillini si aggirano per i seggi in cerca del complotto, la lingua viola per aver testato il sapore della matita e aver verificato se è copiativa o meno. Era stato il guru pentastellato a parlare per primo dei brogli e del rischio che al Movimento 5 Stelle vengano soffiati sotto il naso voti importanti. "Ciucciate la matita che vi daranno al seggio – aveva avvertito il comico in un comizio in Val di Susa – perché è copiativa e si può cancellare". E così è stato. Dai social network ai seggi elettorali, l'esercito a Cinque Stelle ha ingaggiato una serrata polemica che è sfociata in una vera e propria farsa.


Complice anche l'ingenuità e l'inesperienza, l'ultima metamorfosi del popolo grillino avviene nel segreto dell'urna. Il popolo viola si è trasformato nel popolo dalla lingua viola. Gli appelli a succhiare, umettare, bagnare, inumidire, insalivare e leccare la punta della matita si sono moltiplicati nel corso delle ultime ore. Da Facebook a Twitter i post dei Cinque Stelle erano infarciti di consigli per evitare i brogli e preservare il voto. Nel mirino le fatidiche matite indelebili con cui l'elettore sceglie con una croce il partito da mandare in parlamento e scrive il nome e il cognome del candidato da spedire in Consiglio regionale. Negli ultimi giorni il livello di tensione è stato portato (appunto) alle stelle. Tanto che, dopo aver votato nel seggio della delegazione genovese di Sant’Ilario, lo stesso Beppe Grillo se ne è uscito con la matita in mano. Dopo pochi passi, il comico si è accorto e ha riconsegnato alla presidente del seggio. "È rimasto il segno - ha assicurato - non ci sono brogli, era copiativa". Il primo a lanciare l'allarme via Facebook è stato Matteo Dall’Osso, candidato in posizione eleggibile in parlamento. "Ho avuto conferma - ha tuonato sul social network - la matita copiativa in dotazione alle urne elettorali è completamente cancellabile (provato su carta semplice) a meno che non sia umettata: si sbiadisce leggermente, ma rimane". Ma per Marco Piazza, consigliere comunale "grillino", il consiglio di Dall’Osso nasconde delle insidie. "Per avere la certezza assoluta che la matita sia davvero copiativa e il segno effettivamente indelebile, alcuni votanti ciucciano la matita", ha sottolineato spiegando che, se bagnate, le matite "lasciano un caratteristico tratto tendente al violaceo con delle piccole sbavature". Col rischio, però, che le schede macchiate o con segni di riconoscimento vengano invalide: "Se pertanto vi capitasse di macchiare involontariamente la vostra scheda fatevene dare un’altra".


La vicenda, ampiamente dibattuta su Facebook, ha inevitabilmente scatenato l’ironia delle rete dopo che molti grillini hanno iniziato a lamentarsi per il fatto che a furia di ciucciare la matita si sono ritrovati con la lingua viola. "Usate l'acqua - consiglia un seguace di Grillo - portatevi una bottiglietta e immergete la punta". E ancora: "È una vita che la inumidisco con la lingua sperando di non beccarmi l'epatite". Qualcuno, più furbo, propone di sostituire la lingua con le dita: "Io ho inumidito le dita... col cavolo che mi metto in bocca una matita usata da altri". In molti, presi dal fervore della crociata contro i brogli, hanno fotografato con il cellulare la croce sul simbolo del Movimento 5 Stelle e l'hanno pubblicata su Facebook accompagnandola dalla scritta "mandiamoli tutti a casa". La prima foto è stata postata ieri da un profilo intestato a Roberto Buri, un attivista della provincia di Bolzano. Si vedono sia la scheda per la Camera sia quella per il Senato. La foto è accompagnata dalla domanda: "Si può?". Immediata la risposta: "Potresti incorrere in sanzioni. Lo sai che questo metodo è utilizzato dalla mafia per il voto di scambio?". Le foto delle schede elettorali con il voto al M5S sono apparse anche su Instagram, il social utilizzato da milioni di utenti per pubblicare i propri scatti. Lo ha fatto ad esempio un certo Vincenzo Bossa, che, prima di rimuovere anche lui la foto dal profilo, si è difeso cos�ì: "Non capisco cosa ci sia di sbagliato nel pubblicare la foto del proprio voto".


I grillini a caccia dei brogli nei seggi: "Leccate le matite prima di votare". Tutti si ritrovano la lingua viola. E il complotto diventa farsa


Speciale: Elezioni Politiche 2013


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Andrea Indini


Beppe Grillo con la moglie Parvin Tadjik al seggio per votare
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Published on February 25, 2013 04:08

Il topless delle Femen solo a disposizione del Pd

«Silvio, che cazzo fai?». Tra gli applausi e gli sguardi divertiti dei militanti democratici, tre vestali femministe sfilano in topless - solo gli slip a coprir le parti più intime - alla manifestazione organizzata dal Pd per chiedere le dimissioni da Palazzo Chigi dell'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. È il 5 novembre del 2011 e, mentre i leader democrat si alternano sul palco per lanciare strali e accuse contro il Cavaliere, Inna Shevchenko e altre due attiviste di Femen fanno il proprio desolante show in piazza San Giovanni a Roma.
I blitz delle femministe di Femen, il movimento di protesta ucraino fondato a Kiev nel 2008, non sono certo una novità agli occhi degli italiani. Lo scorso 15 febbraio le stesse ragazze che ieri, a seno scoperto, hanno cercato di aggredire il leader del Pdl al seggio elettorale, hanno contestato papa Benedetto XVI durante l'Angelus della domenica. Sebbene la fondatrice del movimento sia Anna Hutsol, alla testa della maggior parte delle scorribande in topless c'è sempre la Shevchenko. La 23enne ucraina, recentemente scappata in modo rocambolesco da Kiev a Parigi per sfuggire ai servizi segreti che le stanno dando la caccia, era presente anche alla manifestazione indetta da Pier Luigi Bersani il 5 novembre del 2011 per tentare di ribaltare il governo Berlusconi e andare a elezioni anticipate. La bionda antagonista si era presentata a Roma, insieme ad altre due ragazze, per appoggiare la sinistra italiana nella campagna di delegittimazione contro l'allora capo del governo.


Le tre erinni, sui cui capi dorati svettavano variopinte corone floreali, avevano sfoggiato i corpi nudi, completamente dipinti di vernice verde, bianca e rossa. E così, vestite dei soli colori della bandiera italiana, le Femen si erano concesse ai flash famelici dei fotografi voyeuristi rivolgendo i seni antidemocratici contro Berlusconi e il suo governo.


La Shevchenko e le altre sextremist avevano sfilato, indisturbate, mettendo in scena la classica azione di protesta. «Sono nuda perché sono una femminista», è il motto di Femen.
Secondo Elvire Duvelle-Charles, la francese presente ieri al blitz contro Berlusconi, il corpo svestito non è un'arma di seduzione, ma uno strumento di lotta: «È mai possibile che al giorno d'oggi, un seno non coperto, mostrato nella pubblicità di un profumo, non susciti scandalo, mentre portato nell'arena politica faccia stracciare le vesti?».


In realtà, alla manifestazione capitolina, i militanti del Pd non avevano trovato affatto scandalosa la marcia senza veli in piazza San Giovanni. Anzi, in molti si erano scorticati le mani per applaudire le bellezze ucraine, magre e slanciate, mentre usavano insulti e parolacce come un mantra in grado di cacciare Berlusconi dal governo.


Nessuno aveva mosso un dito per allontanarle dal corteo, nessuno aveva chiesto rispetto per il presidente del consiglio, nessuno si era sbracciato per strappare i cartelloni che intimavano Fuck you, Berlusconi.


Vecchie conoscenze le autrici della gazzara a Milano. Le militanti ospitate da Bersani&Co nel 2011 a una protesta contro il Cavaliere


Speciale: Elezioni Politiche 2013 Andrea Indini



L'arresto delle attiviste Femen dopo il blitz al seggioAttiviste a seno nudo tentano di aggredire il CavIl blitz delle Femen per contestare BerlusconiNel 2011 le Femen sfilavano col Pd contro il CavQuando le Femen contestarono il Papa all'Angelus
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Published on February 25, 2013 00:02

February 23, 2013

Monti si fa lo spot elettorale a spese dei marò

Dal 19 febbraio i marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, sono detenuti ingiustamente in India. Per oltre un anno il ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata ha tergiversato senza mai riuscire a imporsi sul governo indiano. Per oltre un anno il premier Mario Monti si è sempre disinteressato dell'ingiustizia subita dai nostri militari. A Natale, i tecnici erano riusciti a ottenere un permesso di qualche giorno per permettere ai marò di trascorrere le festività in famiglia. La stessa farsa si ripete anche in questo fine settimana elettorale: Latorre e Girone sono rientrati in Italia, quasta mattina, per poter votare. Il Professore ha colto l'occasione al volo e si è presentato all’aeroporto di Fiumicino per farsi fotografare al fianco dei due militari.


Ancora valigie e un nuovo viaggio aereo New Delhi-Roma per Latorre e Girone, bloccati in India da un anno perché accusati della morte di due pescatori indiani. Ieri, la Corte suprema indiana ha concesso ai due militari un permesso di quattro settimane per tornare in Italia dove potranno votare e riabbracciare i loro cari. Il volo della Klm, proveniente da Amsterdam, è atterrato alle 12,04 a Fiumicino. "Siamo felici di essere ritornati in patria", hanno detto i due all'arrivo. Ad accoglierli, oltre al presidente del Consiglio, erano presenti il ministro della Difesa Giampaolo di Paola, il capo di Stato Maggiore della Difesa Luigi Binelli e il capo di Stato Maggiore della Marina Giuseppe De Giorgi. "Dopo che per mesi e mesi non ha considerato come priorità assoluta la loro vicenda, oggi alla vigilia delle elezioni Monti sarà in aeroporto a farsi fotografare al loro arrivo". L'ex ministro della Difesa Ignazio La Russa non usa certo mezzi termini per condannare il lassismo del premier che ha colto l'occasione per strumentalizzare il rientro dei marò in chiave elettorale e farsi uno spot per provare a risollevare il continuo crollo nei sondaggi.


A Natale il Professore si era guardato bene dall’accoglierli, lo fa nel giorno del silenzio pre elettorale per chiare manovre propagandistiche. "Se non ha ritenuto di andare ad accoglierli a Ciampino a maggior ragione non doveva essere a Fiumicino - ha fatto notare il senatore della Lega Nord, Sergio Divina - uno spot elettorale e ci dispiace abbia usato i due nostri gloriosi fucilieri di marina". Quando infatti avrebbe dovuto agire con fermezza per imporre all'India di rispettare il diritto internazionale e far rientrare in Italia i due militari, il premier uscente non ha mai mosso un dito. "Avrebbe fatto meglio a difendere la dignità dell’Italia di fronte all’arroganza dell’India", ha chiosato Maurizio Gasparri (Pdl) accusando Monti di aver "sbracato del tutto".


I militari rientrati in Italia per votare. Li accoglie il Prof: mossa propagandistica nel giorno del silenzio pre elettorale





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Andrea Indini


Mario Monti con Massimiliano Latorre e Salvatore Girone
I marò: "L'India è un Paese democratico"
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Published on February 23, 2013 07:44

L'Italia è in vendita: così vengono "regalati" i nostri gioielli

Italia in vendita. O meglio: le punte di diamante della nostra economia sono svendute sul mercato internazionale. È tempo di saldi: complice la crisi economica, i colossi mondiali - famelici di fare affaroni nel Belpaese - azzannano i nostri goielli e se li portano a casa a prezzi scontatissimi. Non c'è campo che ne sia immune. La lista si fa sempre più lunga (guarda l'infografica). Negli ultimi anni l'assalto non arriva più dalle sole multinazionali occidentali che strappano assegni a svariati zeri, a richiedere i marchi del made in Italy sono anche Paesi emergenti, come il Brasile, la Cina e l'India, Russia, e soprattutto la penisola araba.


"Air France Klm non ha intenzione di prendere il controllo di Alitalia: lo abbiamo già detto a più riprese, viste le nostre priorità e i nostri mezzi, che sono limitati", ha assicurato nelle ultime ore il direttore finanziario del vettore franco-olandese Philippe Calavia a margine della presentazione dei conti del gruppo. Da settimane i media vociferano di una possibile svendita della compagnia di bandiera. Non è certo l'unico gioiello al centro degli interessi dei colossi internazionali. Il colpo inflitto dalla magistratura a Finmeccanica ha fatto saltare sull'attenti il presidente francese Francois Hollande che è volato subito dal premier indiano Manmohan Singh per firmare accordi commerciali da svariati miliardi. A chi giova un'Italia debole? Chi beneficia di una Saipem il cui margine operativo lordo nel 2012 si aggira intorno ai 1,5 miliardi di euro (circa il 6% in meno rispetto a quanto precedentemente annunciato)? Perché i nostri imprenditori non riescono a investire più in questi marchi? A far aprire gli occhi agli analisti era stato il "colpaccio" del marchio Luis Vuitton Moet Hennessy (Lvmh) che, comprando Bulgari nel 2011, aveva rivoluzionato il mondo del lusso. In realtà, è ormai un ventennio che, tra grandi affari e colossali svendita, l'Italia perde un pezzetto dopo l'altro. Si è iniziato con l'Iri e le svendite di Romano Prodi e da lì non ci si è più fermati.


Per ogni azienda italiana che si espande all’estero, ve ne sono tante altre che mettono le mani sui marchi made in Italy. Se Barilla compra la francese Harry’s o la svedese Wasa o se Luxottica di Leonardo Del Vecchio compra l’americana Ray Ban, un numero sempre maggiore di etichette italiane finiscono fuori dal Belpaese. "In alcuni casi è giusto vendere, poiché il prezzo offerto è fuori da qualsiasi logica economico-finanziaria - spiega l'analista Ulisse Severino - in altri casi si assiste al pagamento di quelli chiamerei veri e propri prezzi di liquidazione". Qualche esempio? È presto fatto. Bernard Arnault, proprietario della Lvmh, non è solo il padrone incontrastato di Bulgari. Lvmh possiede, infatti, anche Emilio Pucci, Acqua di Parma e Fendi. Gucci invece è sotto il controllo di Ppr, antagonista storico di Lvmh. François Henri Pinault, poi, controlla Bottega Veneta, Sergio Rossi e come prossimo obiettivo addirittura Edison, colosso energetico italiano. E ancora: Gianfranco Ferrè è stata ceduta a Paris Group di Dubai, holding che fa capo al magnate Abdulkader Sankari e che controlla 250 boutique tra Emirati arabi, Kuwait e Arabia Saudita. Stesso destino per la Safilo, che oggi confeziona occhiali per Emporio Armani, Valentino, Yves Saint Lauren, Hugo Boss, Dior e Marc Jacobs: è finita nelle mani del gruppo olandese Hal Holding.


Se il settore del lusso è preso d'assalto, il mercato degli alimentari viene continuamente saccheggiato. Anche qui, solo per fare alcuni esempio, abbiamo Carrefour e Auchan a farla da padroni nel campo del retail. La francese Lactalis ha messo le mani su Parmalat, Galbani, Invernizzi, Cademartori e Locatelli. Nelle mani del fondo di private equity Pai Partners è finita la catena Coin nata nel lontano 1916 quando il veneziano Vittorio Coin ottiene la licenza di ambulante per la vendita di tessuti e mercerie a Paniga. Stesso destino per la Standa, fondata nel 1931 da Franco Monzino con un capitale di 50mila lire. Agli spagnoli invece la Star, la società italiana leader nei dadi da brodo, controllata dal marchio iberico Agrolimen. Tra i maggiori compratori in Italia c'è la Société des Produits Nestlé, sicuramente la più grande azienda mondiale nel settore degli alimentari. A decine i marchi che la società ha comprato in Italia: si va dalla Buitoni alla Motta, dai Baci Perugina all'Antica Gelateria del Corso. "È davvero difficile trovare oggi chi investe in un Paese come l'Italia  - ha concluso Severino - frenato non solo da una crisi sempre più evidente, ma anche dall'assenza di una visione che vada oltre la logica delle prossime elezioni".


I pm feriscono Finmeccanica, il lusso finisce all'estero, il made in Italy viene svenduto: a chi giova un'Italia debole?  Guarda l'infografica





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Andrea Indini
Orazio Tassone



Ecco quando conviene
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Published on February 23, 2013 03:04

February 22, 2013

Il Fatto a 5 Stelle e Celentano tifano per Grillo e Ambrosoli

Prima ha scritto una canzone, poi una lettera. Nell'ultimo giorno di campagna elettorale arriva l'endorsement definitivo di Adriano Celentano: "Votiamo gli inesperti Grillo e Ambrosoli perché gli esperti li conosciamo bene...". A poche ore dall'apertura dei seggi, il Fatto Quotidiano, sempre più vicino al Movimento 5 Stelle, entra a gamba tesa pubblicando un appello del cantautore per invitare gli italiani a sostenere Beppe Grillo e i lombardi a votare Umberto Ambrosoli. Non ci gira troppo intorno. Il "consiglio" di Travaglio & Co. è schietto e immediato.


Da tempo il Fatto Quotidiano ha sposato le idee del guru pentastellato. Un matrimonio che, lo scorso giugno, aveva portato al divorzio con Luca Telese. "Diciamo che al Fatto eravamo divisi tra Bosnia-Erzegovina e Croazia e che politicamente, a un certo punto, hanno preso il potere i croati - aveva spiegato in quei giorni Telese in una intervista al Corriere della Sera - così dopo il primo turno delle amministrative Beppe Grillo è diventato Gesù. Casaleggio un guru. Ma il povero Tavolazzi non lo si poteva intervistare...". Allora, era il tempo della grande epurazione: nel M5S saltavano le prime teste e il movimento serrava i ranghi in vista delle politiche. Allora, Grillo aveva già iniziato a guardare, famelico, i palazzi romani dopo aver compiuto un exploit dell'altro mondo alle regionali in Sicilia. Nel giro di sei mesi il comico genovese, battendo l'Italia in lungo e in largo, ha portato i Cinque Stelle oltre il 20%. Sondaggi alla mano, i grillini potrebbero arrivare a Roma con un esercito di un centinaio di parlamentari, capaci di mettere i bastoni tra le ruote tanto alla sinistra quanto al centrodestra.


Lunedì pomeriggio sapremo se gli analisti ci hanno visto giusto. E capiremo la reale forza di Grillo. Per il momento, il leader dei Cinque Stelle ha raggiunto il suo scopo: sempre sulla cresta della campagna elettorale, tanti insulti e zero programmi, un bailamme infinito con Sky Tg24 per uno straccio di confronto televisivo, nessuno impegno in prima persona da parte di chi entrerà in parlamento. Del M5S nessuno ci ha messo la faccia. La campagna elettorale, l'ha fatta in tutto e per tutto Grillo. Con l'aiutino di qualche giornalista simpatizzante. L'ultimo assist è appunto quello del Fatto Quotidiano che dà voce a Celentano per sostenere Grillo. "Mancano solo tre giorni al responso e la sorpresa credo che sarà grande - spiega il cantautore - nonostante la partitocrazia si affanni a divulgare che, quand'anche Grillo vincesse, non sarebbe comunque in grado di governare perché non ha esperienza". Celentano, che negli ultimi anni ha smesso i panni del cantante per indossare quelli dell'ambientalista incallito, non usa mezzi termini: "Dobbiamo votare per Grillo, pur sapendo che qualche disagio non mancherà proprio a causa della sua inesperienza. Nessuno nasce imparato e il suo movimento imparerà presto".


Dal Fatto Quotidiano non manca un'indicazione di voto anche per le regionali lombarde. Dopo aver fatto una lunga e agguerrita campagna mediatico-giudiziaria contro il governatore Roberto Formigoni e contro il Carroccio, il quotidiano diretto da Peter Gomez s'inchina al candidato del centrosinistra. "Anche Ambrosoli, che è un bravo avvocato, non ha esperienza di governo - continua Celentano - ma dobbiamo votare per lui se vogliamo che le cose cambino, perché lui è il nuovo". Poi, se non fosse ancora chiaro, il cantante conclude: "La Lombardia è il grande punto di riferimento per tutta l'Italia. E Ambrosoli è l'uomo giusto".


Ultima stoccata del Fatto Quotidiano a sostegno del M5S. Il quotidiano pubblica un appello del cantautore in cui si augura una svolta politica: "Votate Grillo e Ambrosoli"





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Andrea Indini


Beppe Grillo con Adriano Celentano
Appartamenti, libri e dvd: gli affari della Grillo SpaQuelle sparate sui condoni (che ha sfruttato)Celentano: "Se non voti ti fai del male"
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Published on February 22, 2013 04:52

February 20, 2013

Giannino: "Dimissioni irrevocabili". Ma rimane candidato premier

Probabilmente, nelle prossime ore, nel curriculum di Oscar Giannino spunterà finalmente qualcosa di vero: ex leader di "Fare per fermare il declino". Dopo la bufera per il finto master all'Università di Chicago e le finte lauree in Giurisprudenza e in Economia, il giornalista ha deciso di fare (qualcosa) per fermare il (suo) declino: ha presentato "dimissioni irrevocabili" da presidente. Dimissioni farsa perché, almeno per il momento, rimane candidato premier. Insomma, Giannino non si sente degno di fare il presidente di "Fare per fermare il declino", ma di fare il presidente del Consiglio sì.


Dopo le dimissioni dell'economista Luigi Zingales e la selva di polemiche sui titoli di studio fasulli, il movimento di Giannino è finito nell'occhio del ciclone. Nelle ultime ore sono piovute accuse di ogni tipo. Questa mattina Eugenio Guarducci, capolista alla Camera in Umbria, è uscito di casa portandosi fisicamente dietro la laurea in architettura conseguita il 30 marzo del 1988 all’Università di Firenze. L’attestato originale con tanto di cornice dorata. "Un’ operazione trasparenza", ha sottolineato Guarducci. Quella stessa trasparenza che Giannino ha sempre predicato, usandola molto spesso per attaccare Silvio Berlusconi, e che adesso gli si è rivoltata come un pesantissimo boomerang. Mentre era ancora in corso il direttivo fiume all'Hotel Diana di Roma, Giannino ha annunciato su Twitter la decisione di lasciare il vertice del movimento: "I danni su di me, per inoffensive ma gravi balle private, non devono nuocere al partito". Una decisione netta e irrevocabile. "È una regola secca: chi sbaglia paga - ha spiegato il giornalista - deve valere in politica e con i soldi pubblici, io comincio dal privato". Adesso "Fare - Fermare il Declino" passa nelle mani di una donna, la giovane avvocato Silvia Enrico, che finora era stata coordinatrice prima della Liguria e poi nazionale.


"Giannino non ha voluto sentire ragioni, è stato irremovibile", ha raccontato uno dei 18 membri della direzione. Lo stesso Franco Turco ha raccontato che Giannino è "molto provato" dalla vicenda: "Ha avuto durante la riunione uno sfogo amaro e molto personale". Tuttavia, il suo è solo un mezzo passo indietro dal momento che non ci pensa nemmeno lontanamente di ritirarsi dall'agone politico e dalle prossime elezioni rimanendo, pertanto, candidato premier. La stessa Enrico ha confermato la decisione al termine della direzione nazionale spiegando che la decisione sulle eventuali dimissioni dal parlamento sarà presa dopo le elezioni, nel caso in cui Giannino venga eletto.


Il giornalista resta candidato premier. Non si sente degno di fare il presidente di "Fare", ma il presidente del Consiglio sì





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Andrea Indini


Oscar Giannino, ex leader di "Fare - Fermare il declino"
Il master di Oscar Giannino"Fatto il master a Chicago"Oscar Pinocchio GianninoRapallo, Oscar, il masterQuando Oscar si vantavaGiannino: "Fatto il master"
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Published on February 20, 2013 10:13

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