Paola Caridi's Blog, page 71

September 29, 2015

Il peso di Rosa

Che poi quel nome – Rosa – era sembrato strano a tutti, nel quartiere. Rosa, che non era rosa, il colore. Rosa, che era il fiore. Rosa, che in arabo si dice warda. E allora perché quella figlia arrivata dopo tanti anni d’attesa non l’avevano chiamata warda? “E’ così bello, warda. I vecchi, appena esciRead more
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Published on September 29, 2015 00:11

September 16, 2015

Gerusalemme come Hebron, da oltre 10 anni

spianata piccola


E’ che, ancora una volta, non si può dire che non lo sapessero, nelle cancellerie che si occupano del dossier Israele/Palestina. Gerusalemme si infiamma, soprattutto si infiamma la parte più delicata della Città Vecchia. Quella parte dove da 1300 anni pregano i musulmani, e si trova il terzo luogo santo dell’Islam, cioè la Spianata delle Moschee. Quella parte dove duemila anni fa venne distrutto il Secondo Tempio, il luogo più santo per l’ebraismo. Non si può dire che non lo si sapesse, della situazione delicatissima in cui si trovano i luoghi santi. Né si può dire che non si sapesse che i coloni israeliani, quelli più radicali, hanno un vero obiettivo: hebronizzare Gerusalemme. Un neologismo che non amo tanto. Vuol dire: rompere lo status quo, cambiare lo stato delle cose sulla Spianata delle Moschee. Così come, a Hebron, è cambiato tutto quando è cambiata la moschea di Ibrahim/Tomba dei Patriarchi.


Questo articolo l’ho scritto nel 2004. E non per il giornalino della parrocchietta. Me lo aveva pubblicato l’Espresso


RITORNARE ALLA CITTA’ SANTA. E REDIMERLA 20/9/04

C’è una road map, qui. E noi la stiamo seguendo. È scritta da Dio nella Bibbia. Ed è molto più forte di quella di Bush e Sharon”. Daniel Louria è un uomo senza dubbi, per sua stessa asserzione. Non ha dubbi che Gerusalemme sia unita, da 37 anni. Non ha dubbi che le radici ebraiche, anche nella zona est a maggioranza araba, vadano recuperate. Che quelle parti vadano “redente”, come dice lui. Redente come le terre dove i coloni hanno costruito gli insediamenti dentro la Striscia di Gaza. O dentro Hebron, in Cisgiordania.

Daniel Louria è uno dei leader di Ateret Cohanim. Un’organizzazione che ha un quarto di secolo di vita e che si occupa di chiedere la restituzione di vecchie proprietà ebraiche, ricomperare immobili nel passato posseduti da ebrei, ristrutturare appartamenti. Un’agenzia immobiliare, insomma, specializzata però in un’area decisamente particolare. Gerusalemme est. O per meglio dire, quella parte di Gerusalemme dov’è concentrata la popolazione araba. Louria, la sua organizzazione e un’altra decina di associazioni di questo tipo hanno un preciso obiettivo politico. Riportare vita e costumi ebraici in zone dove, ora, gli abitanti sono tutti arabi. “Per il popolo ebraico, il cuore di Gerusalemme è il Monte del Tempio e la zona intorno: dal punto di vista religioso, storico, tradizionale. Il monte degli Ulivi, la città di David, le sorgenti di Gihon, il Monte del Tempio. Tutta quell’area che oggi ha una maggioranza araba è stato il posto più importante per il mondo ebraico. E noi vi stiamo riportando le nostre radici”.

La mappa che Louria mostra ha già parecchie bandierine, nella fascia che si estende dalla Città Vecchia verso est. Dal Monte del Tempio, che per i musulmani è la Spianata delle Moschee ed è considerato terzo luogo santo dell’Islam. Verso Abu Dis, dove la barriera difensiva costruita dal governo israeliano (“muro dell’apartheid”, lo chiamano i palestinesi) è già cosa fatta. Indica anche l’appartamento che il premier Ariel Sharon ha affittato nella Beit Wittemberg, in quello che in tutte le altre cartine distribuite nel mondo viene definito come il Quartiere musulmano della Città Vecchia. A due passi dal mercato della Porta di Damasco. Sino a Ras al Amud, sede di un’altra delle “colonie” dentro Gerusalemme est, dove pochi giorni fa ha affittato un appartamento Effi Eitam, ex ministro dei lavori pubblici, ma soprattutto leader di uno dei partiti della coalizione di governo, lo NRP. Ci vive quando sta a Gerusalemme per i lavori della Knesset.

I coloni ebrei nella Gerusalemme (ancora) araba hanno la stessa carica messianica di quelli che, domenica scorsa, stavano in piazza a pochi passi dalla Città Vecchia. Decine di migliaia, forse settantamila rappresentanti del “popolo degli insediamenti” calati a Zion Square per l’ennesima prova di forza contro il governo. Per far sentire al loro sostenitore della prima ora, Ariel Sharon, che non ci stanno. Non ci stanno al piano di disimpegno. Dopo essere stati protetti per decenni, non ci stanno a essere liquidati in quella che chiamano “espulsione”, “pulizia etnica”, “crimine contro l’umanità”: l’evacuazione degli ottomila coloni di Gaza.

Ottomila coloni in un mare di oltre un milione di palestinesi, pigiati dentro la Striscia di Gaza. Indifendibili, ormai, sostiene quella parte del governo più vicina a Sharon: l’unica che vuole il disimpegno, e che si trova a lottare non solo contro gli irriducibili degli insediamenti, ma anche contro un congruo numero di ministri e deputati di peso del Likud e dei partiti alleati che sentono il fiato sul collo dei coloni. In testa, Benyamin Netanyahu, ministro delle Finanze, in costante attesa di succedere al generale Arik, che da mesi gioca al gatto e al topo col premier, facendo intravedere la possibilità di un appoggio condizionato al suo piano disimpegno. Per poi, il giorno dopo, chiedere di andare alle urne, con un referendum nazionale, per approvare l’uscita da Gaza. Ed evitare, in questo modo, una spaccatura politica che più di qualcuno, Sharon compreso, paventa possa trascinare Israele nella guerra civile.

Ai coloni, però, i numeri, i problemi della sicurezza, il realismo politico non interessano. Né nella Striscia. Né a Gerusalemme, dove gli insediamenti sono piccole macchie di leopardo. Come a Gaza. Come a Hebron.

Uno di quei puntini è ad Abu Tor, un chilometro di distanza dalle mura antiche di Gerusalemme. Quartiere considerato misto, Abu Tor è rimasta per alcuni versi ai tempi del 1967: da una parte gli ebrei, dall’altra i palestinesi. Nel mezzo, il ricordo di un confine che, poco meno di quarant’anni fa, separava Israele dalla Giordania. Il confine fisico non c’è più. Quello residenziale rimane. Salvo che per la casa di Ateret Cohanim, costruita nel cuore della Abu Tor araba. Un palazzetto a due piani. Muro, cancello di ferro, guardia privata armata all’interno di un gabbiotto, monitor e walkie talkie. Sicurezza privata pagata dal governo israeliano – dice Louria. Costo: 30 milioni di shekel all’anno versati dallo Stato per consentire ai coloni di Gerusalemme est, poco meno di duemila persone in tutto, una vita blindata. I bambini, dice Louria, non vanno a giocare per strada con i loro coetanei arabi. Anche se i bambini arabi, appena fuori dal cancello, hanno praticamente tutti il passaporto israeliano

Non giocano con i bambini palestinesi neanche quelli che vivono nel quartiere musulmano della Città Vecchia, dov’è frequente incontrare una famigliola scortata da imponenti guardie private tra le viuzze del suq. Non lo fanno quelli che abitano nelle due case di Ateret Cohanim a Shiloach, il vecchio villaggio yemenita. È la valle che corre tra il monte degli Ulivi e le mura della Città Vecchia. Per gli arabi si chiama Silwan, e sino a pochi mesi fa c’erano solo loro. Poi, un giorno, hanno saputo che il palazzo di sette piani che gli operai (arabi) stavano ristrutturando da tempo era stato venduto ad alcune famiglie ebree. Sotto l’ombrello di Ateret Cohanim, appunto.

La tensione è salita alle stelle. Anche quando, un mese fa, è stata inaugurata la seconda casa dell’associazione. Gli aderenti ad Ateret Cohanim sono arrivati scortati dalla polizia. “Non vanno in giro a piedi per Shiloach – precisa Louria -. Durante la settimana c’è una macchina che li porta in giro e li riporta a casa. Di shabbat, invece, vanno a piedi sino alla Città di Davide, scortati dalla sicurezza”. “E’ vero – continua – vivono in gabbia. Ma non certo per nostra responsabilità”.

Non tutti pensano che i coloni di Ateret Cohanim e delle altre associazioni siano pericolosi. “Irritanti ma irrilevanti”, li definisce per esempio Meron Benvenisti, per anni il vice di Teddy Kollek, il sindaco di Gerusalemme più famoso e amato. La questione è un’altra, dice. È definire il “problema Gerusalemme come conflitto di identità. Stabilendo, dunque, quanto profonda è la negazione dell’identità collettiva dell’altro”.

Per Daniel Seidemann, invece, sono un fattore di instabilità. “Stanno tentando di hebronizzare la città”, sostiene l’avvocato israeliano fondatore di Ir Shalem, un’associazione legata a Peace Now, che combatte in tribunale contro gli insediamenti ebraici dentro Gerusalemme araba. Seidemann paventa l’incubo di Hebron, o Al Khalil, come la chiamano i palestinesi. Poche decine di chilometri a sud di Gerusalemme. Cisgiordania. Ma è già un altro mondo. Una città di oltre 120mila abitanti – quella di Hebron – dove la tensione è alle stelle. Il confronto tra la popolazione e il piccolo insediamento ebraico, composto da una quarantina di famiglie, è sempre sul punto di esplodere. La presenza militare israeliana, poi, è l’elemento fondamentale in una vita quotidiana che ha ormai perso i colori di un tempo: poca vita commerciale, e la casbah di Hebron che velocemente si sta svuotando dei suoi abitanti.

Anche nella Gerusalemme araba, dove vivono almeno 200mila persone, i coloni sono pochi. Secondo i calcoli di Seidemann sono 1800, di cui 1200 residenti permanenti e 600 studenti delle yeshiva, le scuole religiose. “Il numero non può aumentare più di tanto, se non c’è un preciso sostegno da parte del governo – dice -. Resta il fatto, però, che nonostante il numero, il loro è un impatto importante su Gerusalemme”. Aspirano a “bloccare il processo di pace, e a prevenire la soluzione dei due Stati”. Le differenze al loro interno, prosegue Seidemann, sono tra gli estremisti che ritengono che Gerusalemme debba essere “esclusivamente ebrea” e quelli meno estremisti che pensano a una città a “larga predominanza ebraica con una minoranza formata da palestinesi che si comportano bene”.


La foto è conservata nella Library of Congress, nell’archivio di Eric Matson

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Published on September 16, 2015 07:51

September 12, 2015

La scommessa di Edgar Morin

Si può ancora scommettere a 94 anni? Si può, come se ci fosse ancora il tempo lungo del futuro. Che, in effetti, c’è se si pensa in termini collettivi, non più o non solo individuali. Si può ancora scommettere, se si ha la lucidità di Edgar Morin. Si può ancora scommettere su parole che verrebbero immediatamente tacciate come ingenue e solo ideali. Amore e fratellanza. Io scommetto su amore e fratellanza, ha detto Edgar Morin, in un mix di italiano con influenze spagnole e francese. Senza traduzione.


La scommessa di Edgar Morin è, né più né meno, una scommessa sulla Storia. Morin in fondo dice: io ho compreso la Storia, e mi faccio trasportare senza paura. La Storia parla dell’ennesima grande ondata migratoria nei millenni dell’esistenza dell’essere umano e dei popoli. La Storia parla anche di quello che Francesco, il papa, continua a dire: saranno i poveri a fare la Storia, ora, non solo in quanto vittime di un senso crudele dello sviluppo, ma in quanto portatori di cambiamento.


Così, a 94 anni, Morin esprime ancora una volta una razionale e lucidissima analisi che difetta a molti, oggi. Lo ha fatto assieme a un intellettuale che molti direbbero, a prima vista, essere molto diverso da lui: Tariq Ramadan. Morin e Ramadan, l’ateo e il credente, l’europeo e il nuovo europeo, il maestro e l’allievo, ragionavano assieme, consonanti. Voces clamantes, per alcuni. Di fronte a loro però, a piazza Castello a Mantova, in uno degli incontri più intensi e belli del Festivaletteratura 2015, c’erano – e in molte consonanti – oltre mille persone che ascoltavano e spesso annuivano. Oltre mille persone che si sono mosse e hanno pagato per ascoltare due tra i più rilevanti pensatori europei. Uno dei pensatori del Novecento, assieme una delle voci musulmane più importanti degli ultimi decenni, nonostante i detrattori di Ramadan.


Amore e fratellanza in risposta all’orrore. I poveri nuovi protagonisti, o meglio, protagonisti in diverso modo, non solo vittime. L’Europa all’ennesimo bivio: se essere con la Storia o esserne travolta. Migranti, rifugiati, fuggitivi: coloro che stanno salvando il nostro onore e la nostra etica e la nostra politica. I fiumi carsici che percorrono Festivaletteratura 2015 sono questi, e sono al passo con la direzione della Storia. Ad ascoltarli, ancora una volta, l’Italia migliore. Che esiste.

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Published on September 12, 2015 02:01

September 4, 2015

Cafè Jerusalem a Palermo

Evviva.


Cafè Jerusalem arriva il 20 settembre prossimo a Palermo, nella cornice affascinante della Chiesa dello Spasimo. Ci arriva in una veste unica: lo spettacolo teatrale sul mio testo alle 21 e, subito dopo, il concerto. Radiodervish in scena (e protagonisti) sia nella prima parte sia nella seconda. Nella prima parte, Carla Peirolero e Pino Petruzzelli (anche regista) guidano l’azione in un caffè a Gerusalemme, tra il Mandato e oggi, facendo uno slalom con la Storia. Nella seconda parte, Gerusalemme in musica con l’inedita formazione a 5 dei Radiodervish.


A completare il quadro, le illustrazioni oniriche di Maria Teresa De Palma e un buon caffè arabo al cardamomo.


Le prenotazioni sono iniziate. I numeri da chiamare sono sull’evento Facebook, e sulla locandina affissa sua a Palermo e dintorni, sia nel nostro mondo virtuale


Postilla: tutto nasce da un libro e dagli incontri della vita. Dal mio Gerusalemme senza Dio (Feltrinelli 2013), dai viaggi dei Radiodervish a Gerusalemme, dall’incontro con Carla Peirolero e poi con il suo incredibile SuqGenova. E infine, ma solo in ordine cronologico, Pino Petruzzelli e Maria Teresa de Palma, Adolfo La Volpe e Pippo D’Ambrosio. Non è la sequenza dei ringraziamenti. Dice molto di più, su quello che l’artigianato e l’impresa culturale dovrebbero fare, per il futuro: proporre un’idea, un concetto, un concept. Da quell’idea nasceranno, come nel caso di Cafè Jerusalem sono nati, tanti oggetti culturali e artistici. Ci vuole un’idea molto forte, certo. Questa lo è.


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Published on September 04, 2015 03:40

September 3, 2015

Sul nostro stramaledettissimo ombelico – j’accuse n.2

 


Non c’è niente da fare. Non ce la facciamo a non essere così autoreferenziali, così egocentrici, così concentrati sul nostro meraviglioso e perfetto ombelico… Neanche di fronte all’immagine iconica di questo nostro tempo ce la facciamo.


Foto sì o foto no? Dovere di cronaca o rispetto per i morti e i minori? Dobbiamo sferrare un pugno nello stomaco allo spettatore, oppure astenerci dal fare la tv o la stampa del dolore? Ore di riflessione, di fatica intellettuale, di citazioni ultracolte tra semiotica e massmediologi interrogati all’ultimo minuto, per l’ultimo giornale radio.  Foto sì o foto no? Bimbi sì o bimbi no? Che mal di testa, signora mia! Non era ancora finita la telenovela sui reportage di finte turiste che non fanno neanche la richiesta per entrare da giornaliste in Iran, che occorre di nuovo spremere le meningi per occuparsi del valore dell’immagine nella società postmoderna e liquida.


Nel frattempo, signore e signori, nel “mentre” delle ennesime seghe mentali europee,  sulle altre sponde del Mediterraneo è successo quanto segue (e la lista non è esaustiva e riguarda solo le ultime 24 ore): a Baghdad sono stati rapiti 18 lavoratori turchi; in Yemen sono almeno 32 i morti ammazzati in un attentato suicida in una mosche di Sana’a rivendicato da ISIS; la coalizione formatasi contro ISIS ha continuato a bombardare nelle ultime ore obiettivi tra Siria e Iraq, indicati nel dettaglio dal dipartimento della difesa statunitense (vedi sito); Israele ha bombardato il nord della Striscia di Gaza, dove non è stata ricostruita nessuna delle oltre ventimila case distrutte durante la guerra di un anno fa e dove (sopra)vivere sarà impossibile entro cinque anni, ammesso che ora si riesca a vivere con il 44% di disoccupazione ; l’esercito israeliano ha ferito un ragazzino di 15 anni a Betlemme;  a Beirut le dimostrazioni di massa della crisi della spazzatura nascondono l’incapacità dei politici e la discesa del Libano verso una crisi pericolosissima; nelle galere dell’Egitto, sotto il regime di AbdelFattah el Sisi, languono decine di migliaia di oppositori, compresi i ragazzi di Tahrir, ma a noi ci fa un baffo perché l’Eni ha scoperto la pepita d’oro del giacimento di gas naturale. Poi, la Croce Rossa dice che ad Aleppo l’acqua potabile è divenuta un’arma di guerra contro la popolazione: ah, a proposito, Aleppo dal punto di vista culturale e artistico è tanto importante quanto Palmira, così per dovere di cronaca. E le Nazioni Unite ci dicono che le guerre in Medio Oriente hanno colpito il diritto all’educazione di 13 milioni di bambini e ragazzi studenti.


Nel frattempo, nel “mentre” che ci avviluppiamo sull’ennesima polemica evanescente, fatta di fumo, di spessore estetico, di cultura plurisecolare della quale ci beiamo. Povero Aylan Kurdi, di cui non sapevamo prima e ora, che è morto, sappiamo tutto. Tutto sappiamo, dei dettagli, di dove voleva portarlo suo padre assieme alla famiglia in fuga dalla guerra. Nulla sappiamo di dov’è Kobane, chi sono i curdi che non sono arabi ma alla storia araba hanno dato il Saladino, il più grande eroe. Nulla sappiamo di ciò che accade di là, tra Aleppo, Kobane, Baghdad, Beirut, Gaza, Cairo, perché se lo sapessimo (e se lo sapessero molti dei miei colleghi giornalisti), allora dovremmo agire. Dovremmo fare.


Fare è peccato, si dice qui in Sicilia. Certo, un peccato, un vero peccato. Un peccato serio, da mettere assieme al peccato di conoscere. Meglio non conoscere, così non si deve fare.


Ps: il j’accuse, in primis, riguarda i molti giornalisti (fatti salvi i pochi bravi) che in questi anni hanno disinformato perché non sanno neanche la differenza tra un iraniano e un arabo. Questa pagina nera ha sostenuto le paure, la disinformazione, la propaganda e – ora – la paralisi.

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Published on September 03, 2015 05:43

September 2, 2015

Sull’onda della Storia

Grenzübergang Wartha, Stau


Bella, quella ragazza bionda che sorride alla vita e celebra, in questo modo, la sua liberazione. E’ su una Trabant, poco più di una scatoletta, l’auto divenuta il simbolo della DDR e, nel 1989, l’icona della fine di uno Stato abbandonato dai suoi abitanti. La bella ragazza bionda assomiglia  tanto a quell’altra ragazza della Germania orientale,  Angela Merkel, da anni alla guida di tutta la Germania. Dietro di lei, il fiume infinito di trabant e altre macchinette che invase nell’estate del 1989 l’Europa orientale. Ungheria compresa. Non volevano fermarsi a Budapest o nella grande campagna ungherese. Volevano andare verso l’Austria, superare la cortina di ferro, liberarsi, fuggire. Come oggi, i treni partivano e arrivavano a Monaco, la porta dell’Occidente per i tedeschi orientali schiacciati dal regime, dalle intercettazioni della Stasi, da una vita controllata sin dentro la camera da letto.


L’onda della Storia arriva, e noi non ci possiamo fare niente. Per meglio dire, possiamo osservare l’onda, calcolare il suo passaggio, la sua altezza, cavalcarla. Non possiamo opporci, perché altrimenti saremo travolti dal suo passaggio. Me lo diceva, qualche anno fa, Rashid Deif, grande scrittore libanese, parlando della sua storia dentro la guerra civile. Nella sua casa di Beirut, mi raccontava quel periodo della sua vita come “dormire sulla cresta di un’onda, in mezzo alla tempesta”. Lungi dall’essere un esempio stereotipato del fatalismo arabo, l’immagine usata da Rashid Deif descrive bene il sano atteggiamento che bisognerebbe avere di fronte a quegli accadimenti della storia che sono subito interpretabili come una cesura.


Nessun paragone tra l’esodo di oggi dai diversi Orienti e l’ondata imponente di uomini e donne che fuggirono dalla DDR nell’estate del 1989, e ne decretarono in questo singolare modo la fine. Se non una, importante a mio parere. La capacità dei popoli di incidere sulla storia di cui sono vittime. Allora, i cittadini della DDR trovarono nella fuga l’unico modo per rompere le catene di uno Stato divenuto prigione: senza i suoi cittadini-detenuti, la DDR malata da tempo crollò. Ora, i cittadini siriani fuggono dalla guerra, dalla guerra civile, dall’ISIS, dalla distruzione di una terra bellissima e di città meravigliose e colte, dalla dittatura di Assad. Fuggono i cittadini-vittime, e per la prima volta dopo oltre quattro anni e mezzo l’Europa si accorge della catastrofe siriana. Si accorge, nonostante l’ignavia dei suoi governanti, che è in atto una delle peggiori guerre e delle più imponenti fughe della storia contemporanea.


Se i governanti sono incapaci, sordi e ciechi, i popoli reagiscono con i pochi strumenti a loro disposizione. Fuggono, per esempio. E Angela Merkel, che di quel popolo insorto attraverso la fuga ha fatto parte, lo ha capito molto meglio di altri. Per forza! È nel suo dna culturale, politico, umano.


Budapest, l’Ungheria tutta facevano parte di quella stessa storia, allora. Victor Orban faceva parte degli ungheresi che insorsero contro il regime comunista e segnarono l’indomani, la transizione, una transizione subito viziata da uno stupido e retrivo nazionalismo. Un peccato che l’Ungheria si porta appresso da tempo, e che ha segnato – per esempio – il suo rapporto con il fascismo e con il nazismo. Le stazioni ungheresi furono il luogo della deportazione, durante l’occupazione nazista e il regime collaborazionista. Le stazioni ungheresi furono il luogo dell’abbandono, come testimonia questa foto del 1945, che raffigura ebrei alla stazione di Budapest in attesa di andare in Italia. Di nuovo, Budapest è divenuta il set di un dramma che segnerà non solo l’umanità dolente accampata dentro e fuori la stazione Keleti, ma anche la propria stessa popolazione. Un giorno, forse molto presto, saranno gli ungheresi a chiedersi quanto i giorni della stazione Keleti hanno inciso sulla dimensione morale del loro Paese.


budapest stazione


No, non è una invasione. È un esodo. E la differenza è tanto sostanziale da dirci molto. Tutto. I popoli, ancora una volta, reagiscono meglio di chi li governa. Gli islandesi che offrono le loro case. I tedeschi che fanno un airbnb per i profughi. Come si è sempre fatto nella storia del mondo: qualcuno bussa alla porta, la porta si apre, e si accoglie il prossimo nostro. Non possiamo fare altro, come diceva Mafalda in una delle più belle stripes del personaggio di Quino. “Mafalda, mi raccomando, noi usciamo, e tu non devi aprire a nessuno. A nessuno”. Mafalda tentò di parlare, ma il padre continuava con il suo severo monito. Fino a che la bambina, imponendosi al padre, gli chiese: “E se bussa la felicità?”


Oggi, alla nostra porta, bussa la Storia. Possiamo aprire, con generosità. Oppure aspettare che qualcuno la porta la sfondi, per farci accorgere che non siamo soli, e non siamo i padroni del  mondo e della terra.

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Published on September 02, 2015 05:39

August 30, 2015

Quando Barenboim si difende a corrente alternata

Due volte ho avuto l’onore e la fortuna di assistere a concerti di Daniel Barenboim. Mai in Italia. Sempre in Medio Oriente.

Sempre in Israele/Palestina.

Una volta a Gerusalemme. Una volta a Ramallah. Una volta per gli israeliani, a Gerusalemme ovest, nel centro per le convention di fronte alla centrale degli autobus. Pubblico israeliano, e accoglienza fredda. Applausi di circostanza, e attraverso quegli applausi il messaggio netto per Barenboim. Era un messaggio che non aveva a che fare con la sua maestria al pianoforte, semmai con la sua scelta di suonare Wagner. E soprattutto con le sue posizioni politiche. La profonda amicizia con Edward Said, lo East-West Diwan, e soprattutto la sua grande capacità di dire – quando era necessario – che “il re è nudo”. Che le cose vanno chiamate con il loro nome: la pace che non c’era e non c’è, l’occupazione del territorio palestinese che è occupazione. Gli stessi applausi freddi e di circostanza, particolarmente imbarazzanti, li ho sentiti per Amos Oz, sempre a Gerusalemme, durante un festival internazionale degli scrittori. Tra gli israeliani di Gerusalemme, insomma, i pacifisti alla Oz e alla Barenboim non vanno per la maggiore. Applausi diversi, calore diverso Daniel Barenboim li ha ricevuti a Ramallah, nel palazzo della cultura pagato dalla cooperazione giapponese. Era un’occasione particolare, per due ragioni, musicale e politica. Barenboim aveva ricevuto e accettato la cittadinanza palestinese, suscitando molte critiche in Israele. Era a Ramallah per poche ore, anche per mantenere la promessa a un’anziana donna tedesca. La signora voleva donare un piano ai musicisti palestinesi e al lavoro del maestro per un lavoro comune tra artisti israeliani e palestinesi: dopo la sua morte, il marito si mise d’accordo con Barenboim per realizzare il suo sogno. Il piano arrivò a Ramallah, con Barenboim e con il suo accordatore personale. E di fronte a un teatro stracolmo (chi lo conosce sa quanto è grande), Barenboim suonò quel pianoforte, in un’atmosfera intensa, emozionante, semplice e calorosa. Il teatro pieno di palestinesi, di noi internazionali, di tanti bambini non proprio impeccabili nell’ascolto. Sembrava di essere in un mondo altro, e forse lo eravamo.


Barenboim è un artista è un intellettuale scomodo, come ogni artista e intellettuale libero deve essere. Coerente da sempre, Barenboim continua a essere se stesso. Sono coloro che ne parlano che lo difendono a corrente alternata. Si indignano se a vietare a Barenboim di suonare è uno Stato, e sono indifferenti quando da altre parti succede. Difendere la libertà di Baremboim di suonare è un esercizio che dovrebbe essere svolto sempre. E, certo, non solo la libertà di Barenboim, giustamente famoso, ma quella di tutti i musicisti, gli artisti a cui viene limitata la possibilità di movimento, la libertà di suonare, recitare… A violare la libertà non è solo l’Iran, anche se sembra sia diventato uno sport nazionale – guarda caso dopo l’accordo sul nucleare tra Teheran e Stati Uniti – esercitarsi nelle punture di spillo per svilire un paese e dunque una intesa.

A Barenboim è stato impedito, per esempio, dalle autorità israeliane di andare a suonare a Gaza nel 2010, dopo la formale richiesta della Spagna di concedere a Barenboim e ai suoi musicisti di diverse nazionalità il permesso di entrare attraverso il valico di Erez. Le personalità della cultura e della politica italiane che ora si indignano non sembra si siano indignati più di tanto, allora. Forse molte neanche se ne sono accorte. Barenboim nella Gaza retta dal regime di Hamas ha suonato l’anno dopo, affittando lui stesso un charter e atterrando ad Al Arish, sul suolo egiziano, dopo la rivoluzione di Tahrir.

A Barenboim è stato ora impedito di andare a suonare a Teheran dalle autorità iraniane, a cui si vede che la figura e la musica del maestro, con passaporto israeliano, palestinese e, credo, argentino, fa paura. In Italia, tutto d’un tratto si alzano le voci che nel 2010 non si erano alzate.

Avrei preferito un’attenzione continua, e altrettanto coerente. Condannare allora e adesso, adesso e allora e domani. Non potremo certo mai essere coerenti come Barenboim, un uomo a cui non piace essere imbrigliato da nessuno, da nessuna delle parti in causa, da nessun attore politico e/o statuale, da nessuno che voglia usare il suo percorso personale come una bandiera da esporre quando capita. Almeno, però, proviamoci…

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Published on August 30, 2015 13:18

Quando Baremboim si difende a corrente alternata

Due volte ho avuto l’onore e la fortuna di assistere a concerti di Daniel Baremboim. Mai in Italia. Sempre in Medio Oriente.

Sempre in Israele/Palestina.

Una volta a Gerusalemme. Una volta a Ramallah. Una volta per gli israeliani, a Gerusalemme ovest, nel centro per le convention di fronte alla centrale degli autobus. Pubblico israeliano, e accoglienza fredda. Applausi di circostanza, e attraverso quegli applausi il messaggio netto per Baremboim. Era un messaggio che non aveva a che fare con la sua maestria al pianoforte, semmai con la sua scelta di suonare Wagner. E soprattutto con le sue posizioni politiche. La profonda amicizia con Edward Said, lo East-West Diwan, e soprattutto la sua grande capacità di dire – quando era necessario – che “il re è nudo”. Che le cose vanno chiamate con il loro nome: la pace che non c’era e non c’è, l’occupazione del territorio palestinese che è occupazione. Gli stessi applausi freddi e di circostanza, particolarmente imbarazzanti, li ho sentiti per Amos Oz, sempre a Gerusalemme, durante un festival internazionale degli scrittori. Tra gli israeliani di Gerusalemme, insomma, i pacifisti alla Oz e alla Baremboim non vanno per la maggiore. Applausi diversi, calore diverso Daniel Baremboim li ha ricevuti a Ramallah, nel palazzo della cultura pagato dalla cooperazione giapponese. Era un’occasione particolare, per due ragioni, musicale e politica. Baremboim aveva ricevuto e accettato la cittadinanza palestinese, suscitando molte critiche in Israele. Era a Ramallah per poche ore, anche per mantenere la promessa a un’anziana donna tedesca. La signora voleva donare un piano ai musicisti palestinesi e al lavoro del maestro per un lavoro comune tra artisti israeliani e palestinesi: dopo la sua morte, il marito si mise d’accordo con Baremboim per realizzare il suo sogno. Il piano arrivò a Ramallah, con Baremboim e con il suo accordatore personale. E di fronte a un teatro stracolmo (chi lo conosce sa quanto è grande), Baremboim suonò quel pianoforte, in un’atmosfera intensa, emozionante, semplice e calorosa. Il teatro pieno di palestinesi, di noi internazionali, di tanti bambini non proprio impeccabili nell’ascolto. Sembrava di essere in un mondo altro, e forse lo eravamo.


Baremboim è un artista è un intellettuale scomodo, come ogni artista e intellettuale libero deve essere. Coerente da sempre, Baremboim continua a essere se stesso. Sono coloro che ne parlano che lo difendono a corrente alternata. Si indignano se a vietare a Baremboim di suonare è uno Stato, e sono indifferenti quando da altre parti succede. Difendere la libertà di Baremboim di suonare è un esercizio che dovrebbe essere svolto sempre. E, certo, non solo la libertà di Baremboim, giustamente famoso, ma quella di tutti i musicisti, gli artisti a cui viene limitata la possibilità di movimento, la libertà di suonare, recitare… A violare la libertà non è solo l’Iran, anche se sembra sia diventato uno sport nazionale – guarda caso dopo l’accordo sul nucleare tra Teheran e Stati Uniti – esercitarsi nelle punture di spillo per svilire un paese e dunque una intesa.

A Baremboim è stato impedito, per esempio, dalle autorità israeliane di andare a suonare a Gaza nel 2010, dopo la formale richiesta della Spagna di concedere a Barenmboim e ai suoi musicisti di diverse nazionalità il permesso di entrare attraverso il valico di Erez. Le personalità della cultura e della politica italiane che ora si indignano non sembra si siano indignati più di tanto, allora. Forse molte neanche se ne sono accorte. Baremboim nella Gaza retta dal regime di Hamas ha suonato l’anno dopo, affittando lui stesso un charter e atterrando ad Al Arish, sul suolo egiziano, dopo la rivoluzione di Tahrir.

A Baremboim è stato ora impedito di andare a suonare a Teheran dalle autorità iraniane, a cui si vede che la figura e la musica del maestro, con passaporto israeliano, palestinese e, credo, argentino, fa paura. In Italia, tutto d’un tratto si alzano le voci che nel 2010 non si erano alzate.

Avrei preferito un’attenzione continua, e altrettanto coerente. Condannare allora e adesso, adesso e allora e domani. Non potremo certo mai essere coerenti come Baremboim, un uomo a cui non piace essere imbrigliato da nessuno, da nessuna delle parti in causa, da nessun attore politico e/o statuale, da nessuno che voglia usare il suo percorso personale come una bandiera da esporre quando capita. Almeno, però, proviamoci…

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Published on August 30, 2015 13:18

August 2, 2015

Susan Abulhawa: ingresso respinto nella sua Palestina

 Il valico di Allenby è un’esperienza di vita. Una di quelle esperienze che mostrano quanto i dettagli siano cruciali quando si parla di israeliani e palestinesi, e di Israele/Palestina. Un valico nel Territorio palestinese occupato, tra Cisgiordania e Giordania, controllato e gestito dalle autorità israeliane. È il valico attraverso il quale – sia in entrata sia in uscita – debbono passare i palestinesi muniti di passaporto dell’Autorità Nazionale Palestinese. A decidere se possono entrare o uscire, sono le autorità israeliane, potenza occupante.


Da Allenby, possono passare anche gli internazionali, coloro che sono in possesso di un passaporto europeo, americano, asiatico, comunque non israeliano. E siccome il Medio Oriente è il mondo dove i dettagli regnano sovrani perché hanno la loro importanza, Israele timbra i passaporti e la Giordania, dall’altra parte di un lembo di deserto lungo un pugno di chilometri, si rifiuta di timbrarli, i documenti. La ragione è chiara: timbrare i passaporti vorrebbe dire riconoscere a quel valico la patente di frontiera, confine, passaggio tra uno Stato sovrano e l’altro, tra Giordania e Israele. Ma quella è Cigiordania, Palestina, e non è Israele.


Da Allenby è passata anche Susan Abulhawa, pochi giorni fa. Lo scorso fine settimana. Scrittrice nota, famosa per un bestseller come Ogni Mattina a Jenin, pubblicato anche in italiano nel 2011 da Feltrinelli. Nel marzo scorso, è uscito il suo nuovo romanzo, Nel blu tra il cielo e il mare, ambientato in un villaggio palestinese appena a nord dell’attuale Striscia di Gaza, teatro di un massacro di palestinesi a opera della Brigata israeliana Givati nel maggio 1948. Susan Abulhawa è palestinese. La sua famiglia è di Gerusalemme, e quando era piccola ha vissuto tre anni nel più famoso orfanotrofio della città, Dar El Tifl, nato per volere di una delle donne-icona della storia recente palestinese, Hind al Husseini. Ha vissuto la giovinezza, gli studi, il lavoro, la scrittura negli Stati Uniti, ed è cittadina americana. Passaporto americano, identità palestinese.


Quel passaporto è veramente un passepartout: le consente di tornare nella sua patria, nella sua terra, come lo consente a tanti palestinesi che sulla loro terra possono mettere piede solo se hanno un documento ‘altro’. Statunitense, italiano, tedesco, canadese… Basta che, attraverso questo passaporto, i palestinesi non siano tali, almeno formalmente. Nessun rifugiato palestinese, cacciato dalla sua terra nel 1948 o nel 1967, è consentito tornare con il documento d’identità rilasciato dall’Unrwa, l’agenzia dell’ONU che da oltre 60 anni si occupa di profughi palestinesi.


Dettagli, difficili da spiegare, ma fondamentali per capire quello che succede. Susan Abulhawa, con il suo passaporto americano, si è presentata al valico di Allenby, e quel passaporto ha mostrato alle autorità israeliane. L’hanno interrogata, e la sua ‘conversazione’ la scrittrice l’ha riportata sul suo profilo Facebook. Conversazione aspra, e paradossale, per chi non ha mai vissuto questo tipo di conversazioni ad Allenby o all’aeroporto di Ben Gurion. Per i palestinesi, è peggio. Lo hanno denunciato non solo le associazioni di difesa dei diritti civili, internazionali, palestinesi, israeliani, ma gli stessi giornalisti israeliani.


Una conversazione paradossale, sul suo numero di cugini. E le battute finali. “Lei non sta rispondendo alle domande”. “Ma io ho risposto alle domande”. “Non ha risposto nel modo che a me piace”.


Susan Abulhawa non ha potuto passare il valico di Allenby. Non è entrata in Cisgiordania, Palestina. Le è stato vietato l’ingresso, e il suo passaporto ha ora un timbro che lo mostra. Due righe spesse a pennarello, e un timbro. È l’espulsione. Non è la prima volta che succede, a scrittori e intellettuali. Stesso destino lo ha avuto Noam Chomsky, tanto per fare un esempio noto.


La terra di Susan Abulhawa, ferita da decenni, giace appena sopra il caldissimo valico di Allenby, un luogo colmo dei ricordi della fuga, della guerra, del 1948. Dov’è il Pen International, pronto a difendere libertà di espressioni ovunque? Dove sono gli intellettuali, qui e fuori? Sarà il caso di porsi una domanda sui doppi standard delle libertà e sul l’indignazione a corrente alternata di noi intellettuali, sempre a rischio di essere, di nuovo, chierici?


La foto: scattata nel maggio 2011 al Salone del Libro di Torino. Susan Abulhawa aveva da poco pubblicato in Italia (Feltrinelli) Ogni Mattina a Jenin. Presentavo il suo libro, considerato Il Cacciatore di Aquiloni versione palestinese.

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Published on August 02, 2015 20:59

July 31, 2015

La morte stra-annunciata del piccolo Ali


È solo l’ultimo di almeno 120 attacchi perpetrati dai coloni israeliani in Cisgiordania contro i palestinesi, dall’inizio dell’anno. Solo l’ultimo di 120 attacchi, secondo i dati delle Nazioni Unite che stilano con precisione burocratica rapporti, grafici, statistiche, bollettini su quello che succede nel Territorio palestinese occupato, in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. Poco meno di un attacco al giorno, contro le persone, le case, le macchine, gli olivi, le campagne.


Quella di Ali Saad Dawabsheh, appena 18 mesi, morto bruciato nella sua casa di Duma, è dunque una morte annunciata. Stra-annunciata, per chi guarda e conosce la Palestina, Israele, il conflitto, l’occupazione. Una morte a sorpresa, invece, per il telespettatore medio, per il lettore di quotidiani e riviste. Perché nulla, o quasi nulla, è stato detto in questi mesi e in questi anni della violenza perpetrata dai coloni israeliani che vivono, e continuano a costruire, in Palestina, territorio occupato. Neanche due giorni fa, il governo israeliano ha approvato altri 300 alloggi per i coloni. È il governo presieduto dallo stesso Benjamin Netanyahu che oggi si è dichiarato “sconvolto” dal l’uccisione di Ali Saad Dawabsheh.

Ali Saad Dawabsheh è morto bruciato vivo. La sua famiglia è all’ospedale. Suo fratello maggiore, di soli quattro anni. I suoi genitori, in condizioni critiche per le ustioni. Vivevano in una casetta nel paese di Duma, zona di Nablus, zona ad alta concentrazione di colonie israeliane. E di colonie radicali, rigonfie di estremisti. Non è un fulmine a ciel sereno. Gli attacchi notturni con le molotov, la distruzione di macchine, i raid nei villaggi sono all’ordine del giorno. E vanno in massima parte impuniti, come stigmatizzato da tutte le associazioni di difesa dei diritti umani e civili. In prima fila, le associazioni israeliane, come Breaking the Silence e Bt’selem, le stesse associazioni che subiscono in Israele attacchi durissimi da parte della destra, e di una maggioranza silenziosa che poco ha fatto in questi anni per la pace tra israeliani e palestinesi. Tanto poco ha fatto, da aver sostenuto l’ascesa al potere di Benjamin Netanyahu, della destra religiosa, e della destra nazionalista laica.

Non è nascondendo la violenza dei coloni, i cosiddetti price-tag-attacks, gli attacchi (incendiari) contro le chiese (quella della Moltiplicazione, per esempio) ad opera di estremisti israeliani, che si sostiene e si aiuta Israele. Non lo si aiuta per nulla, nascondendo la realtà. Al contrario, non si fa altro che acuire le fratture, fare di tutta l’erba un fascio, confondere ebrei e israeliani, estremisti e persone per bene. Occorre imparare a usare le parole, quelle giuste. E per esempio riflettere quando, come ha fatto lo Huffington Post versione italiana, si scrive che sono stati “nazionalisti ebrei” a commettere il crimine perpetrato a Duma. Cosa significa “nazionalisti ebrei”? Perché confondere l’ebraismo, una fede, con chi uccide? È lo stesso errore che si fa quando si parla di “islamici” e “terroristi islamici”. Lo stesso terribile errore. Confondere la fede e l’uomo. Sono criminali, coloro che hanno ucciso il piccolo Ali, e che hanno rischiato di sterminare la sua famiglia. Hanno molto probabilmente un passaporto israeliano e un’idea folle della loro religione. Ma non si confonda il loro Dio con la loro mano.

PS.: un’altra notiziola non è stata considerata degna di nota, qualche settimana fa, dalla nostra stampa. Lo Stato di Palestina ha depositato il 25 giugno scorso un rapporto al Tribunale Internazionale Penale Permanente, al quale ha aderito quest’anno. È un rapporto sull’ultima guerra di Gaza, in cui si ritiene che Israele abbia commesso crimini di guerra. Una guerra successa un anno fa, completamente dimenticata. Vittime palestinesi, quasi tutte civili, 2100, tra cui 500 bambini.

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Published on July 31, 2015 09:00