Paola Caridi's Blog, page 75

December 1, 2014

Palestina, Lunga Marcia o ‘gioco di rimessa’?

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Una ‘lunga marcia’, oppure una battaglia di rimessa? E’ una domanda forte, eppure necessaria, quella che bisogna porsi sulla questione del riconoscimento dello Stato di Palestina. Prima di porsela, però, occorre scendere nei dettagli, perché è proprio lì, nei dettagli, che affonda da anni l’analisi carente su una questione che non è, e non è mai stata, solo formale.


Il riconoscimento dello Stato di Palestina viaggia da anni su binari paralleli, da un lato nelle organizzazioni internazionali, e accanto, dall’altro lato, nei parlamenti nazionali. Sono percorsi paralleli, talvolta – come succede prima di una stazione ferroviaria – si lambiscono o addirittura si intersecano. Spesso, però, protagonisti e strategie non sono gli stessi.


Cominciamo dal riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’Onu e delle sue agenzie. Il traguardo – importante, e non solo dal punto di vista simbolico – raggiunto il 29 novembre 2012 con l’ammissione della Palestina come Stato osservatore nelle Nazioni Unite ha avuto una singolare gestazione. Cominciato quando, nel 2010, la presidenza dell’ANP e i negoziatori dell’OLP hanno compreso di poter usare la carta del riconoscimento come elemento di pressione nei confronti di Israele e della comunità internazionale che cercava, senza neanche crederci tanto, di rinverdire e far ripartire un processo di pace ormai comatoso.


Tutto sommato, il riconoscimento dello Stato di Palestina ha funzionato come una wild card nel confronto a distanza tra palestinesi e israeliani. Cerchiamo di non far precipitare la situazione – questa la sintesi del messaggio lanciato dalla parte trattativista delle varie leadership palestinesi ai diversi governi presieduti da Benjamin Netanyahu negli ultimi cinque anni, perché altrimenti potremmo usare la carta del riconoscimento. Dall’altra parte della barriera, i governi di Netanyahu hanno usato la carta del riconoscimento come una giustificazione al proprio irrigidimento, e alle costanti decisioni di intensificare le costruzioni dentro le colonie israeliane in Cisgiordania e nel cuore di Gerusalemme est.


Israele sa bene che il riconoscimento (effettivo, non solo formale) di uno Stato di Palestina comporterebbe un cambiamento importante nell’asimmetria del rapporto tra Israele e Palestina: uno Stato a tutti gli effetti, uno Stato occupante con il monopolio dell’uso della forza, da una parte, e dall’altra parte una entità cui viene riconosciuta l’identità di popolo ma alla quale non vengono dati gli strumenti istituzionali tipici di uno Stato nazionale.


Se riconoscimento effettivo vi fosse, vi sarebbero due Stati che devono regolare contese territoriali partendo da un confine riconosciuto dalla comunità internazionale, e cioè quello dell’armistizio del 1949. Israele diventerebbe potenza occupante su di un suolo sovrano, e le colonie israeliane sarebbero né più né meno città costruite sulla terra dello Stato palestinese.


Comprensibile, dunque, che Israele abbia messo in campo negli anni i suoi diplomatici migliori per ostacolare il percorso del riconoscimento dello Stato di Palestina, anche attraverso pressioni di carattere economico, com’è successo dopo l’ingresso della Palestina nell’Unesco.


Quale, dunque, la differenza tra il riconoscimento dello Stato di Palestina nel sistema Onu e il riconoscimento da parte di singoli Stati? A cambiare sono i protagonisti. Non è tanto l’ANP a spingere per le risoluzioni che si stanno affollando nei parlamenti europei. In campo ci sono pressioni interne palesi e sempre più diffuse, quelle nelle opinioni pubbliche nazionali in Europa. E c’è anche il disagio – non evidente in pubblico, ma chiarissimo nei corridoi diplomatici e politici – delle cancellerie che sanno quanto sia delicata questa fase del conflitto israelo-palestinese. L’ultima guerra su Gaza, ivi compreso il suo altissimo costo in vite umane palestinesi e il suo ennesimo alto conto economico che la comunità internazionale dovrà ripartirsi, costringe le cancellerie a riesaminare le proprie singole politiche. Inoltre, la singolare ‘guerra civile’ in corso a Gerusalemme (difficile, stavolta, definirla una intifada…) preoccupa più di quanto si dica chi conosce la realtà del conflitto israelo-palestinese: tutti sanno, infatti, che se scoppiasse Gerusalemme si romperebbe lo status quo che, in una maniera o in un’altra, ha guidato la storia recente del conflitto dall’accordo di Oslo a oggi.


La wild card del riconoscimento, insomma, è in questo caso nelle mani delle cancellerie e/o dei parlamenti europei. Non in quelle palestinesi. Non c’è niente di binding, niente che costringa gli Stati, attraverso gli organismi deputati, a riconoscere la Palestina, ma la pressione è evidente. Chiara la pressione che il voto del parlamento britannico ha significato, e ancor più chiara la pressione sarebbe se in un altro paese dotato di potere di veto nel consiglio di sicurezza dell’Onu, cioè la Francia, il parlamento si esprimesse (come nel voto del 2 dicembre) a favore del riconoscimento dello Stato di Palestina secondo la linea dell’armistizio del febbraio 1949.


La posizione italiana non ha la rilevanza di Londra o di Parigi, visto il ruolo di Gran Bretagna e Francia nel direttorio dell’Onu. Soprattutto, quello che appare dalle due risoluzioni presentate alla Camera dei Deputati e dalla risoluzione presentata al Senato (non ancora calendarizzate) è che non abbiano quel peso necessario per essere considerate parte di una strategia-Paese. Il contenuto delle risoluzioni, pur rafforzato talvolta dal richiamo alle classiche risoluzioni dell’Onu sulla questione israelo-palestinese, non mostrano una chiara strategia italiana sul Medio Oriente e sulla stessa, specifica questione. Si rischia, insomma la genericità, quando non si rischia di cambiare gli stessi punti della trattativa di pace. Un esempio, contenuto nella mozione, prima firmataria Pia Locatelli, presentata alla Camera. Contiene un passaggio ambiguo – “ la necessità di rafforzare la leadership legittima del presidente palestinese Abbas e delle istituzioni palestinesi con capitale Ramallah, scongiurando il rischio di un rafforzamento di altre entità politiche che pretendano di rappresentare i palestinesi” – che rischia di far considerare Ramallah la futura capitale dello Stato di Palestina, di bloccare i tentativi di composizione della frattura tra Fatah e Hamas e di considerare ormai definitiva la distinzione tra Cisgiordania e Gaza.


E’ questo che l’Italia vuole? E’ questo che vuole, nel caso specifico, una parte della sinistra italiana in parlamento? Non è il caso, ancor di più adesso, di aprire invece una discussione sui singoli punti della questione israelo-palestinese? E soprattutto: non si ritiene, all’interno delle classi dirigenti di questo Paese, di riflettere seriamente sul paradigma di Oslo, che tutti sanno – nei circoli accademici tanto quanto nelle cancellerie – essere ormai superato? Il riconoscimento dello Stato di Palestina è, per i suoi tempi, una lunga, lunghissima marcia. Dal punto di vista della cronaca e della storia recente, si sta invece trasformando in una battaglia di rimessa, proprio per il superamento – nei fatti e sul terreno – del paradigma di Oslo. Le stesse èlite politiche palestinesi – Fatah, Hamas, gli uomini dell’OLP e dell’ANP – sono protagoniste di questa battaglia di rimessa, che mette al centro la territorialità, lo Stato, lo Stato Nazionale, proprio in una fase in cui, dal basso, la richiesta poggia su altri pilastri: identità e diritti. Identità e diritti non sono per forza di cose difendibili all’interno di uno Stato nazionale, definito secondo le linee dell’armistizio del 1949, per quanto concerne i palestinesi. L’ANP non rappresenta i palestinesi, neanche all’interno delle aree che dovrebbero essere sotto il suo controllo. L’OLP, che il popolo palestinese dovrebbe rappresentare, ha perso peso, legittimità e persino credibilità, nella società palestinese.


Se questa è la situazione, sul terreno e all’interno della società palestinese, la battaglia per il riconoscimento dello Stato di Palestina è di rimessa perché la Storia è andata avanti, si è incanalata nei percorsi segnati dalla realtà. La politica, delle organizzazioni internazionali, degli Stati che contano, delle stesse leadership palestinese e israeliana, non è ancora riuscita a introiettare, digerire il cambiamento, e a dare risposte di medio e lungo periodo.

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Published on December 01, 2014 06:57

November 25, 2014

Vedi alla voce: Barriera

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Può essere rassicurante, una barriera. Tanto rassicurante da non apparire – a prima vista – nulla di più di un muro che delimita un parcheggio. Tanto neutrale – all’apparenza – da risultare persino invisibile. La Barriera. Era il 1989, d’estate. Non era ancora arrivato novembre. Al Martin-Gropius-Bau, uno dei centri della vivacissima e reclusa cultura di Berlino ovest, c’era una mostra imponente sull’orientalismo in Europa, di quelle che durano mesi. Di fuori, al caffè del museo, si stava bene, sotto un sole caldo e un’aria stranamente tersa. Come se tutto – la mostra, il caffè, le chiacchiere – fosse normale.

Normale come quel muro anonimo alla fine dello spiazzo, fuori dal Martin-Gropius-Bau. Dovrei scrivere Muro, e non muro. Ma a dire il vero quell’iniziale maiuscola sarebbe stata un’aggiunta successiva della coscienza, perché lì, dalle sedioline aggraziate del caffè del museo, non sembrava neanche die Mauer, Il Muro. Anonimo, dunque inoffensivo? Immobile, dunque pacifico? I morti ammazzati dal Muro, da quel Muro che dal 1961 ha diviso per ventotto anni una città (Berlino), un paese dilaniato dalla separazione tra fratelli (la Germania), un intero continente (l’Europa), non hanno segnato col loro sangue il cemento freddo e grigio, eppure sono allineati nella lista indelebile della memoria storica. In primo luogo dei tedeschi.

Sono stati uccisi da una barriera, che in sé, però, non avrebbe niente di così violento.

Così è il destino della Barriera: un elemento spaziale, architettonico e dunque, nel pensiero comune, neutrale e inoffensivo. Niente di più falso. La Barriera è solo un grande anestetico, e cioè uno strumento efficace in via temporanea, usato solo per addormentare, rimuovere lo stato cosciente, per poter intervenire in altro modo. Uno strumento nelle mani di chi il Muro lo costruisce, e un utile anestetico per chi si fa convincere dalla bontà delle barriere, dei confini, degli oggetti che separano Noi dal Prossimo Nostro.

Perché, ammettiamolo, la tentazione di farsi proteggere – proteggere dalla Barriera – è forte. I muretti a secco non solo segnano la campagna mediterranea, ma soprattutto difendono dall’erosione della terra, distinguono con leggiadria le proprietà private. Le pareti visibili di casa, e le invisibili barriere degli antifurto, sono come un abbraccio che avvolge famiglie, affetti, esistenze quotidiane, ricordi tutti senza prezzo. I tornelli e gli ingressi con le tessere di identificazione selezionano le comunità. Gli scanner degli aeroporti rassicurano il popolo dei viaggiatori che nessuno, in quel non-luogo, attenterà alla loro sicurezza. E i mattoni della conoscenza della tradizione, della trasmissione del sapere sono a loro volta duri, forti, formano imponenti muraglioni, tanto più forti quanto più sono antichi.

Tutto così confortevole, comprensibile, sicuro. Tutto così protetto, e soprattutto murato. Fortificato. Chiuso. Tutto così igienizzato.

La Barriera non massacra. Non insanguina. È come la pena di morte comminata ancora nelle carceri statunitensi: così igienizzata, una iniezione di veleno con tanto di disinfettante. Stanza asettica, pareti chiare, magari appena tinteggiate, lettino, persino i camici. Una morte meno crudele, all’apparenza, di una impiccagione a Teheran o di una decapitazione a Ryadh. Salvo che, a guardar bene, la crudeltà ha ben altri metri di misura. Nascondere a se stessi chi sta dall’altra parte della Barriera può essere più crudele e umiliante che bagnarsi le mani del sangue altrui. Perché di là del Muro, che sia il Muro di Berlino, quello costruito dagli israeliani per separare Betlemme e Ramallah da Gerusalemme, oppure i muri dei Centri di Identificazione ed Espulsione costruiti sul territorio italiano, si muovono persone a cui è stata tolta la carta di identità con la quale si qualifica un Uomo. Uomo, donna, adulto, bambino, ragazza, bella, brutta, vecchio col bastone, quella signora grassa che mangia voracemente, e quell’altro lì, sempre con la stessa puzza di sudore che lo pervade. Coloro che camminano, che si muovono, che vivono sono invisibili a noi, dietro la Barriera. Non sentiamo i loro respiri, i loro gemiti. Ed è in questo modo, nascondendoli ai nostri occhi e alla nostra dimensione etica, che cancelliamo il loro dolore, la loro quotidiana umiliazione. Le nostre responsabilità.

La Barriera è il nostro modo di fare zapping. Giriamo canale, quando ciò che vediamo ci disturba perché implica un nostro necessario, ineludibile coinvolgimento. E invece di volgere lo sguardo dall’altra parte, alziamo una comoda, confortevole, alta, pesante Barriera. Un oggetto neutro, un elemento architettonico che evita l’inquinamento della nostra lingua, costumi, colori, odori, puzze, sicurezza personale, ritmi, suoni, fedi consolidate, stereotipi, frutta e verdura, vestiti. Sino a che non scopriremo che a essere nascosti agli occhi del mondo, del vero Mondo, siamo noi.


La voce Barriera l’ho scritta lo scorso anno per un volume di solidarietà dell’Enel e della casa editrice Feltrinelli. E oggi è dedicato a chi, da più parti d’Italia, dalla romana Tor Sapienza al sud dove vivo ha deciso di cavalcare la sofferenza, il dolore e il disagio di tante persone per interessi propri, e riprovevoli. Barriere per evitare di far crescere le comunità, e farle ritornare a essere comunità fatte di sudditi e non di cittadini. Barriere per nascondere la propria meschinità. Barriere per evitare accuratamente di misurare la propria mediocrità.

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Published on November 25, 2014 14:39

November 19, 2014

La città in guerra

 


Il nostro occhio di spettatori distratti si è infine posato su Gerusalemme, la città dolente. L’occhio della gente che guarda i Tg, ascolta la radio, legge i giornali si è posato su Gerusalemme, la città senza pace. Il sangue ha toccato un luogo santo, una sinagoga, nel momento della preghiera, intimo e debole di fronte al cospetto del Dio. E la mano dell’uomo ha ucciso civili inermi. Tra gli ebrei di Gerusalemme, i più legati alla fede e a una lettura ortodossa del proprio essere religiosi. Due giovani palestinesi sono entrati, e hanno ucciso, armati di asce e coltelli. La mano violenta ha toccato un luogo della fede ebraica, in una deriva che è cominciata da tempo, da settimane e mesi, e che ha toccato – con violenza – i luoghi della fede musulmana. L’ultima moschea profanata, non lontano da Gerusalemme, è quella del villaggio palestinese di al Mughayyir, data alle fiamme poco prima che arrivassero i fedeli per la preghiera dell’alba.


Non è la prima volta che i luoghi della fede divengono, e non solo simbolicamente, campi di battaglia. Lo ha ricordato oggi David Grossman, nell’intervista pubblicata su Repubblica. Vent’anni fa, il 25 febbraio 1994, un colono israeliano, Baruch Goldstein, uccise con sventagliate di mitra 29 fedeli in preghiera, inermi, nella moschea Ibrahimi di Hebron. Violenza chiama violenza, sangue chiama sangue, provocazione chiama provocazione. In una spirale iniziata mesi fa, nutrita per anni e anni, ignorata con ignavia dalla nostra politica, italiana ed europea.


Si dice e si legge: è l’inizio della terza intifada. Chissà… Lo abbiamo detto e scritto per anni, che a Gerusalemme la tensione si stava alzando, e che si rischiava la terza intifada. Frutto dell’umiliazione, delle provocazioni continue, della rabbia compressa e dell’assenza di un futuro dignitoso, di una prospettiva. Ora, più che una intifada, è cominciata ed è in corso una guerra civile. Una guerra nella città. Una guerra per Gerusalemme. Non è una differenza da poco, ed è soprattutto una differenza che concentra lo scontro nella dimensione urbana. Gerusalemme è un mondo a parte, è ancora una sorta di corpus separatum, come cercò di strutturarla l’ONU, nel famoso piano di partizione del 1947. È una città non solo iconica, ma reale. Non solo mediatica, ma quotidiana. Una città della quale sono stati ignoranti i veri protagonisti: i suoi abitanti.


Chi vive o ha vissuto per tanto tempo a Gerusalemme ha temuto questo sangue e questa guerra. La attendevamo, con paura e con dolore. Aspettavamo che le cancellerie europee facessero qualcosa, dopo aver descritto nei dettagli – attraverso il rapporto annuale dei consoli – quello che in città succedeva. I fatti sul terreno dei coloni, sostenuti del governo israeliano, l’unico a detenere tutto il potere su Gerusalemme, hanno tolto speranza e destino a una componente ineludibile della società gerosolimitana: i palestinesi di Gerusalemme, un quarto della popolazione. I rapporti dei consoli hanno da anni messo in guardia sul rischio di una esplosione sociale e politica. Ed eccola, l’esplosione, paventata, temuta, e allo stesso tempo ignorata.


Nessuno può dire oggi, all’indomani della strage nella sinagoga di Har Nof, di non aver saputo che il rischio era lì, e che Gerusalemme stava esplodendo. Da settimane. Da mesi. I rapporti settimanali (settimanali!) dell’ufficio dell’ONU per le questioni umanitarie nel Territorio palestinese occupato, l’Ocha, hanno reso numeri e statistiche la guerra in atto. Dice l’ultimo rapporto settimanale, che aggiorna la situazione sino al’11 novembre, dunque prima della strage di Har Nof e della morte dell’autista palestinese trovato impiccato dentro un autobus israeliano nella stessa area:


“Since 1 July 2014, four Palestinian have been killed and 1,333 injured including 80 children by Israeli forces in East Jerusalem; during this period, three Israelis were killed and another 65, including 33 civilians, were injured by Palestinians in the same area.”


Traduzione, per chi non conosce l’inglese: “dal I luglio 2014, 4 palestinesi sono stati uccisi e 1333 feriti, inclusi 80 bambini, dalle forze israeliane a Gerusalemme est. Nello stesso periodo, 3 israeliani sono stati uccisi e altri 65, inclusi 33 civili, sono stati feriti da palestinesi nella stessa area”. È un bollettino di guerra. Ed è un bollettino di guerra che si sarebbe potuto evitare.


Gerusalemme può salvarsi, e avere un futuro dignitoso, solo se a tutti i suoi abitanti viene data uguale dignità, uguali diritti, uguale cittadinanza. Senza che una delle comunità prevalga sull’altra. Senza che una gestiva il potere e l’altra lo subisca. Uguale riconoscimento, della propria storia su quella terra. Israeliani e palestinesi sono parte della storia di Gerusalemme, l’uno non può escludere l’altro, se non sacrificando la verità. Gerusalemme ha un futuro se condivisa, e se condivisa ne è tutta la storia. Non solo quella del vincitore, non solo quella di chi amministra, ma quella di tutti i suoi abitanti. Israeliani e palestinesi.


Non è solamente una posizione idealistica. È tanto reale che lo stesso massacro della sinagoga di Har Nof contiene la memoria di una storia che va condivisa, perché se ne possano superare le ferite. È la storia, in questo caso specifico, di Deir Yassin, il villaggio palestinese teatro della strage compiuta dalle forze paramilitari ebraiche il 9 aprile 1948, durante la prima guerra arabo-israeliana. Furono uccisi decine e decine di civili palestinesi inermi, a seconda delle ricostruzioni storiche e giornalistiche si passa da un minimo di cento a una stima massima di 254. Deir Yassin è ora Har Nof e Givat Shaul. I resti del villaggio sono conservati, intatti ma invisibili ai più, nel centro di igiene mentale della città (chi ne vuol sapere di più trova una descrizione dettagliata nel mio libro su Gerusalemme). La memoria dei lutti del 1948 si sovrappone a un attentato terroristico dentro una sinagoga. Contro civili inermi in preghiera. Una violazione non giustifica una violazione, un delitto non giustifica un delitto. Al contrario, la spirale di violenza va fermata, ora, subito. E per far questo c’è bisogno di coraggio, di fermezza, e della determinazione a considerare il futuro di Gerusalemme un futuro condiviso, degno per tutti i suoi abitanti. Gli unici a soffrire e a pagare il conto della nostra vigliaccheria.


 


 

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Published on November 19, 2014 03:29

October 30, 2014

Gerusalemme, sul filo del rasoio

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Gerusalemme cammina sul filo del rasoio da anni. Lo abbiamo detto in tanti, lo hanno scritto i consoli per anni, le Nazioni Unite, gli analisti… Voces clamantes. Alla fine dello scorso giugno, nei primi giorni dello scorso luglio, quel filo del rasoio è divenuta una soglia superata dalla caccia all’arabo che si è svolta sotto gli occhi dei giornalisti internazionali, dopo il ritrovamento dei corpi senza vita dei tre ragazzi israeliani uccisi nell’area delle colonie tra Betlemme e Hebron. Tanto esplosiva, la situazione a Gerusalemme, che in pochi – fra noi che abbiamo vissuto a Gerusalemme – ci siamo stupiti dello scoppio della guerra a Gaza, e dell’operazione militare in grande stile portata avanti dalle forze armate israeliane. E alla luce di quello che è successo nelle ultime settimane a Gerusalemme, si può dire che Gaza, a luglio, è scoppiata per evitare che scoppiasse Gerusalemme.


Gerusalemme rischia di esplodere. In parte è già esplosa. E non è un fulmine a ciel sereno. Gerusalemme si è profondamente modificata, negli anni. La presenza sempre più evidente dei coloni più radicali nei quartieri palestinesi di Gerusalemme est ha provocato quello a cui oggi assistiamo, senza che le cancellerie abbiano strumenti incisivi per fermare la violenza. La hebronizzazione di Gerusalemme va avanti costantemente da un decennio almeno. L’acquisto delle case da parte delle associazioni più radicali a Silwan, a Ras al Amud, in tutti i quartieri palestinesi più vicini alla Città, e anche nei quartieri musulmano e cristiano della città entro le mura di Solimano il Grande, mette non solo a rischio lo ‘status quo’  di Gerusalemme. Mettere a serissimo rischio la vita degli abitanti di Gerusalemme.


Il ferimento di Yehuda Glick, tra gli esponenti più estremisti del movimento che vorrebbe ricostruire il Terzo Tempio sulla Spianata delle Moschee, è solo l’ultimo, violento episodio di un conflitto neanche tanto strisciante che è in atto da mesi a Gerusalemme. La polizia israeliana ha ucciso il presunto responsabile, in uno scontro a fuoco. Nessun processo per Mutaz Hijazi. Nessuna difesa, nessun tribunale. Gerusalemme è un posto diverso da Roma o da Parigi, e la giustificazione sarà sempre la stessa: con l’uccisione di un uomo si previene un attentato, si prevengono lutti, morti, vittime. Nessuna voce si alza, nel frattempo, per chiedere conto delle centinaia e centinaia di arresti di palestinesi (compresi molti minori, ragazzini…) che sono stati compiuti nel corso di questi quattro mesi e mezzo: si parla addirittura di 700 arresti, moltissimi in detenzione amministrativa. Arresti compiuti durante gli scontri dentro e attorno alla Città Vecchia, e nei quartieri palestinesi dove la presenza dei coloni radicali israeliani è ormai diffusa.


La Spianata delle Moschee è spesso vietata a una gran parte di fedeli, in genere sotto i 50 anni. E oggi, per la prima volta dal 1967, l’accesso alle moschee di Al Aqsa e della Cupola della Roccia è stata vietata a tutti. Un atto, compiuto dalle autorità israeliane, che rischia di essere una vera e propria dichiarazione di guerra. Tutto ciò si sarebbe potuto evitare. Dello stato in cui versa Gerusalemme le cancellerie occidentali sanno tutto da anni. Non possono dire di non sapere, di non aver visto. Possono dire, certo, di non aver fatto nulla.


 


Dal terzo capitolo di Gerusalemme senza Dio (Feltrinelli, 2013). 


Gli urbanisti giocano a Risiko


[...]


Il panorama politico e umano di Gerusalemme ha subito il suo più evidente cambiamento quando a irrompere sulla scena, in misura importante, sono arrivati i nuovi protagonisti della strategia israeliana per il futuro della città. I coloni appartenenti alle frange più radicali, propugnatori di un proprio, specifico master plan, vale a dire di una politica abitativa diversa nel profondo da quella disegnata da Teddy Kollek.


Il sindaco laburista del post-1967 aveva infatti un’idea precisa: bisognava costruire quartieri ebraici separati da quelli palestinesi, conservando – nel mosaico gerosolimitano – un evidente e chiaro distacco tra le comunità. Quartieri ebraici accanto a quartieri palestinesi, insediamenti ‘mono-etnici’, omogenei, senza mai cedere a una sorta di melting pot cittadino per evitare frizioni e tensioni tra le comunità. In un certo modo, Kollek voleva modificare la bilancia demografica della città senza allontanarsi dalla politica di separazione seguita dai britannici durante i trent’anni del loro Mandato sulla Palestina. Il modello era quello della Città Vecchia: quartieri distinti, definiti secondo le appartenenze religiose, accostati ma mai mescolati. Per le associazioni dei coloni che nel corso degli ultimi anni hanno aumentato la loro presenza in città, la strategia è molto diversa, e si condensa in una sola frase. “Occorre redimere la terra”, e cioè riconsegnare la terra promessa, Eretz Israel, agli ebrei.


Nei fatti, e nei profondi cambiamenti in atto nella trama urbana di Gerusalemme, “redimere la terra” si traduce nell’ingresso dei coloni dentro i quartieri palestinesi. Se, dunque, la municipalità israeliana di Gerusalemme e il governo nazionale continuano ad acquisire terre e a pianificare quartieri dentro la parte est della città, si assiste in parallelo a una crescente battaglia per le case. Una battaglia che ora passa attraverso i tribunali, i fogli di carta, i vecchi documenti di proprietà. A Sheykh Jarrah, a \, a Ras al Amud, tutti quartieri strategici attorno alla Mura di Solimano nella parte orientale di Gerusalemme, i coloni hanno deciso di rompere l’omogeneità delle comunità palestinesi.  L’identità etnopolitica, in questo modo, scaccia il compromesso perché è assoluta.


E’ come se sui tavoli degli urbanisti e dei coloni si fossero stese in questi anni  delle cartine simili a quelle militari usate dai generali in battaglia. L’elenco delle proprietà immobiliari sono state le truppe usate per combattere una tanto lunga quanto imponente guerra di posizione, in cui la semplice conquista di una trincea, e cioè di un palazzetto, di un appartamento, di un appezzamento di terreno, diviene centrale per la conquista futura di interi quartieri, interi settori della città. In questa reale partita a risiko, basta guardare, visivamente osservare le bandierine dei nuovi, piccoli insediamenti ‘conquistati’ per capire la strategia che prevede l’ingresso di coloni israeliani nei quartieri palestinesi più popolosi. Da sud a nord, Jabal al Mukaber, Silwan, Ras al Amud, il Monte degli Ulivi, Sheikh Jarrah, Bet Hanina. Sono tutti quartieri che chiudono come una mezzaluna la Città Vecchia a oriente, e che legano Gerusalemme alla Cisgiordania. Entrare – per i coloni – in questi quartieri centrali o della prima periferia della città significa, strategicamente, disconnettere Gerusalemme dalla Cisgiordania, e spingere la popolazione palestinese ad andare via, a spostarsi verso Betlemme e Ramallah per rafforzare ancora di più il proprio piatto della bilancia demografica. Con tutte le conseguenze del caso, compreso l’aumento esponenziale delle tensioni all’interno dei quartieri palestinesi in cui, man mano, i coloni conquistano una casa e mettono in moto tutto il sistema di sicurezza attorno all’edificio su cui hanno piantato una bandiera israeliana, e circondato di barriere, filo spinato, telecamere. Da quel momento, gli scontri anche fisici sono all’ordine del giorno, le piccole intifada dei quartieri segnano le notti e i giorni, in esplosioni di violenza a suon di pietre che vengono represse duramente dalla polizia e dall’esercito, sempre più inclini – per esempio – ad arrestare i minori che lanciano le pietre, ragazzini neanche adolescenti, spesso appena di undici, dodici anni.


L’aumento della violenza non ha fermato né ferma i coloni, molto più ideologizzati e radicali di coloro che vivono negli grandi insediamenti del nord della Cisgiordania. Chi va a vivere in una piccola casa a Sheykh Jarrah, a due passi dall’albergo più di charme della città e di buona parte del Medio Oriente, l’American Colony, è disposto a tutto. Ha già cacciato da quella casa intere famiglie, grazie all’ordine di esproprio di un tribunale israeliano che ha trovato convincenti i documenti presentati dalle associazioni radicali, spesso risalenti al diciannovesimo secolo o ai primi del Novecento, quando su Gerusalemme non erano passate le matite delle diplomazie e la città non era stata divisa a metà. Sono documenti che attestano che gli antichi proprietari della casa erano ebrei. Veri o falsificati che siano, quegli attestati hanno insito un rischio,  di sollevare il vaso di Pandora delle proprietà immobiliari di Gerusalemme. Se, infatti, si innescasse il meccanismo della rivendicazione delle case, i palestinesi potrebbero cercare – per esempio  di fronte a corti internazionali – di rientrare in possesso delle proprietà a ovest della Linea Verde. Interi quartieri sono stati costruiti dalla borghesia palestinese, i ricchi che avevano deciso di uscire dalla Città Vecchia e aprirsi alla modernità, soprattutto a cavallo tra Ottocento e Novecento. Si tratta dei quartieri più interessanti dal punto di vista immobiliare, composti di ville arabe di tutto rispetto, le più quotate sul mercato delle case. Quelle ville, per ora, non possono essere richieste indietro dai proprietari palestinesi, anche se sono tuttora in possesso dei documenti notarili o catastali. Per la Absentee Law property, Israele le ha espropriate e le ha – per così dire – nazionalizzate, salvo poi farle entrare nel mercato privato. Un doppio standard, protestano le associazioni di difesa dei diritti civili, israeliane e palestinesi ancora una volta unite, che temono si scoperchi un vaso di Pandora dagli esiti imprevedibili. Richiedere indietro le proprietà immobiliari a est, da parte delle associazioni di coloni, significa porre anche la questione delle proprietà immobiliari palestinesi a ovest. Proprietà che portano nomi pesanti, come quelle dei Nusseibeh, dei Dajani, degli Husseini, dei Nashashibi: i nomi più importanti del notabilato palestinese.


Le associazioni dei coloni, però, non sembrano per nulla preoccupate del pericolo di aver aperto, con le loro azioni legali, un vaso di Pandora. Si considerano forti dal punto di vista politico, del sostegno istituzionale da parte dei diversi governi che si sono succeduti, della Knesset e della macchina burocratica dei ministeri, e hanno poi quella che definiscono la propria specifica road map, evocando il termine usato dalle cancellerie internazionali per definire il percorso del processo di pace israelo-palestinese. Salvo il fatto che la road map nella versione delle associazioni dei coloni è semplice: è scritta da Dio nella Bibbia, ed è più forte di quella della politica internazionale.

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Published on October 30, 2014 05:03

October 27, 2014

La crudeltà in guanti bianchi

 


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Povera Reyhaneh, uccisa per mano di uno Stato. E con lei le meravigliose donne iraniane, che vivono, studiano, lavorano, soffrono e lottano. Povera Reyhaneh, vittima di uno Stato. E doppiamente vittima. Perché le autorità iraniane, giudiziarie e politiche, l’hanno uccisa. E in Occidente c’è più di qualcuno che la sta usando, abusando e strumentalizzando. Ultima vittima di una religione, si dice e scrive. L’ennesima riprova che l’Islam è una fede che si fonda sull’odio e sulla mortificazione delle donne, si ripete nella corrente montante dell’islamofobia 2.0.


Tanti anni fa Adriano Sofri parlò dell’igienizzazione della pena di morte, sull’iniezione letale nei bracci della morte statunitensi, su una rivista di Nessuno Tocchi Caino. Non ho mai dimenticato questa illuminante definizione. Noi in Occidente siamo così eleganti anche nella crudeltà… Usiamo i guanti, cioè usiamo i droni, le iniezioni letali. Ci teniamo a distanza anche quando ammazziamo le persone. Povera Reyhaneh, messa nel frullatore del ‘noi sì che siamo buoni, e i musulmani son tutti terroristi crudeli, barbari e retrogradi’. A meno che non siano nostri alleati, come i sauditi: la loro pena di morte è la decapitazione, come quella usata da Daesh, dall’Isis, ma c’è decapitazione e decapitazione. E se la fa un nostro alleato, come l’Arabia Saudita, allora è meglio tacere, ignorare, andare oltre, girarsi dall’altra parte. Tutto di fronte all’altare di una Realpolitik a cui manca, però, un pilastro fondamentale: la strategia.


Noi, dunque, siamo sempre un gradino sopra. Eleganti nella nostra crudeltà. Noi che usiamo persino il disinfettante quanto procuriamo la morte per mano dello Stato nei bracci della morte americani. Noi che ammazziamo un tanto al chilo con F16, droni, artiglieria pesante. Noi che umiliamo a Guantanamo e Abu Ghraib. Noi che abbiamo suppergiù un femminicidio al giorno. Povera e coraggiosissima Reyhaneh, si meriterebbe lacrime più empatiche. Meno ipocrite


Nel giorno in cui piangevamo il coraggio e la morte di Reyhaneh, al Cairo 24 ragazzi e ragazze sono stanti condannati a 3 anni di galera e 10mila pone egiziani di multa per aver manifestato. Per aver manifestato. Tra loro Sanaa Seif, la sorella di Alaa Abdel Fattah. Islamisti, laici, non importa. Quello che importa è mettere in galera una generazione che ha osato protestare e fare la rivoluzione. Ma a noi, qui, non interessa. Interessa piangere lacrime di coccodrillo per Reyhaneh, ignorare il vestito bianco da detenuta di Sanaa e delle sue sorelle, occultare con sapienza le bambine e le ragazze uccise a Gaza.


Well done, mio caro Occidente. Well done. Se continua così, mi toccherà scrivere un Arabi Invisibili Reloaded.

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Published on October 27, 2014 08:14

October 26, 2014

Dei corrotti e dei salvati

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C’è una occasione – forse l’unica, oggi – di riprendere le fila di un sistema sociale e politico che poggi su valori. C’è una occasione, direi un tempo. Una occasione unica, e un tempo molto breve, mentre le tempeste (reali o artatamente provocate) sono alle porte. Occasione e tempo. Basterebbe ascoltare, e fare. Basterebbe anche poter ascoltare, per poi fare.


A chi fa informazione, toccherebbe porgere la notizia e le parole, per consentire al pubblico di ascoltare. Troppo spesso di questi tempi, però, il giornalismo coglie alcune parole, e magari lascia nell’ombra le altre. È successo anche con Papa Francesco, e il suo discorso del 23 ottobre di fronte alle delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale. I titoli dei giornali parlavano dell’opposizione di papa Francesco alla pena di morte e all’ergastolo. Al confronto, ben poco spazio ha avuto il suo lungo, dettagliato, durissimo j’accuse contro la corruzione.


Perché? La domanda è legittima, poiché va al cuore della crisi italiana, e non solo internazionale. A quelle parole, senza sconti, occorreva dare molto più rilievo: la corruzione è il marcio che uccide non solo lo sviluppo, più ancora uccide una comunità e svuota il suo sistema di valori.


“La corruzione è un male più grande del peccato”, dice Francesco.”Più che perdonato, questo male deve essere curato. La corruzione è diventata naturale, al punto da arrivare a costituire uno stato personale e sociale legato al costume”. Diventata naturale, dunque subdola, tanto che neanche ci si accorge che stigmatizzarla sia La Notizia.


 


Eccole, le parole, ritrovate nel discorso integrale di Papa Francesco, pubblicato sul sito del Vaticano


b) Circa il delitto di corruzione


La scandalosa concentrazione della ricchezza globale è possibile a causa della connivenza di responsabili della cosa pubblica con i poteri forti. La corruzione è essa stessa anche un processo di morte: quando la vita muore, c’è corruzione.


Ci sono poche cose più difficili che aprire una breccia in un cuore corrotto: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,21). Quando la situazione personale del corrotto diventa complicata, egli conosce tutte le scappatoie per sfuggirvi come fece l’amministratore disonesto del Vangelo (cfr Lc 16,1-8).


Il corrotto attraversa la vita con le scorciatoie dell’opportunismo, con l’aria di chi dice: “Non sono stato io”, arrivando a interiorizzare la sua maschera di uomo onesto. E’ un processo di interiorizzazione. Il corrotto non può accettare la critica, squalifica chi la fa, cerca di sminuire qualsiasi autorità morale che possa metterlo in discussione, non valorizza gli altri e attacca con l’insulto chiunque pensa in modo diverso. Se i rapporti di forza lo permettono, perseguita chiunque lo contraddica.


La corruzione si esprime in un’atmosfera di trionfalismo perché il corrotto si crede un vincitore. In quell’ambiente si pavoneggia per sminuire gli altri. Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità e l’inimicizia. Il corrotto non percepisce la sua corruzione. Accade un po’ quello che succede con l’alito cattivo: difficilmente chi lo ha se ne accorge; sono gli altri ad accorgersene e glielo devono dire. Per tale motivo difficilmente il corrotto potrà uscire dal suo stato per interno rimorso della coscienza.


La corruzione è un male più grande del peccato. Più che perdonato, questo male deve essere curato. La corruzione è diventata naturale, al punto da arrivare a costituire uno stato personale e sociale legato al costume, una pratica abituale nelle transazioni commerciali e finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà e della sfacciataggine impudica sulla discrezione onorevole.


Tuttavia, il Signore non si stanca di bussare alle porte dei corrotti. La corruzione non può nulla contro la speranza.


Che cosa può fare il diritto penale contro la corruzione? Sono ormai molte le convenzioni e i trattati internazionali in materia e hanno proliferato le ipotesi di reato orientate a proteggere non tanto i cittadini, che in definitiva sono le vittime ultime – in particolare i più vulnerabili – quanto a proteggere gli interessi degli operatori dei mercati economici e finanziari.


La sanzione penale è selettiva. È come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i grandi liberi nel mare. Le forme di corruzione che bisogna perseguire con la maggior severità sono quelle che causano gravi danni sociali, sia in materia economica e sociale – come per esempio gravi frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione – come in qualsiasi sorta di ostacolo frapposto al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per le proprie malefatte o per quelle di terzi.


La foto, bellissima, è di Francesco Fossa.

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Published on October 26, 2014 08:41

October 20, 2014

Fantasmi

sabbah iyad


Come fantasmi. Sono i morti che si aggirano per le strade distrutte di Gaza, come statue di sale. Le statue di fango le ha fatte Iyad Sabbah, nel quartiere di Shujayyeha Gaza City, così come su una spiaggia della Striscia. Tanto per non dimenticarci, come abbiamo fatto tutti troppo presto, dei quasi 2200 palestinesi uccisi durante l’Operazione Margine Protettivo sferrata da Israele tra luglio e agosto. Circa 1500 erano civili, secondo il rapporto di fonte Onu reso noto a inizio ottobre. Sono stati uccisi 500 bambini, dieci al giorno nei 50 giorni di bombardamenti, come ha ricordato all’inizio dell’anno scolastico a Gaza – inizio in condizioni precarissime – il commissario generale dell’Unrwa Pierre Kraehenbuehl. Sono stati uccisi 500 bambini a Gaza in 50 giorni, e l’infanzia palestinese continua a pagare, nel cono d’ombra dell’informazione. Paga in Cisgiordania, di cui pochi, pochissimi si interessano. Aveva 5 anni Inas Shawkat Dar Khalil, del villaggio di Sinjil: è stata uccisa da una macchina guidata da un colono dell’insediamento israeliano di Ytzhar, vicino Nablus, uno degli insediamenti più radicali di tutta la Cisgiordania. l’automobilista non è stato arrestato dalle autorità israeliane. La stessa sorte, racconta un blogger israeliano sotto pseudonimo sull’ottima rivista +972, non avrebbe avuto un automobilista palestinese. Aveva 13 anni Baha Badr, un ragazzino palestinese ucciso dai soldati israeliani entrati in un villaggio vicino Ramallah. Sassi e molotov, la reazione verso i soldati israeliani entrati nel villaggio. Baha è stato ucciso da tre colpi sparati al petto. Indagano le autorità israeliane. Per le associazioni di difesa dei diritti civili, sia israeliane e palestinesi, le indagini sono uno dei punti debolissimi, in questa storia. Finiscono sempre, o quasi, con un nulla di fatto. E l’accusa è quella di una sostanziale impunità.


Pagano, i bambini e i ragazzi, anche a Gerusalemme. E il cono d’ombra sulle centinaia di arresti di palestinesi, a Gerusalemme, è veramente grande, costante. Non si dice. Non interessa. Non se ne parla. Ma fino a quando? quando le tensioni già alte sulla libertà di preghiera alla Spianata delle Moschee supereranno il livello di guardia? Venerdì non hanno potuto pregare sulla Spianata uomini e donne di età inferiore ai 50 anni. Una violazione palese della libertà di preghiera, mentre l’ingresso è stato concesso a gruppi di israeliani ebrei appartenenti alla destra più radicale e/o al movimento dei coloni. Non è nascondendo la polvere sotto il tappeto che le cancellerie potranno incidere sulla soluzione del conflitto israelo-palestinese, ora che ha superato il giro di boa di Oslo. il paradigma di Oslo è morto da tempo, ma ora – ed era ora – tutti lo dichiarano apertamente. Le mosse di Svezia e Gran Bretagna, pur diverse, indicano che qualcosa sta cambiando. E noi? Noi italiani? Rimaniamo a guardare?

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Published on October 20, 2014 12:33

September 30, 2014

Ma quanto conta un premio! Di @alaa e del Sakharov

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Notizia: Alaa Abdel Fattah è in pole position per il Premio Sakharov. Semplice intuizione, nessun bisbiglio dietro le quinte, nessuna voce di corridoio. Ma deve essere così. @alaa deve essere in pole position, tra i candidati al più importante premio europeo sui diritti umani. Perché? Perché l’attacco contro Alaa Abdel Fattah sferrato dal Giornale è durissimo.


L’accusa contro il più carismatico e importante oppositore egiziano è di essere contro gli israeliani e gli ebrei, citando dei tweet che avrebbe scritto. Che Alaa Abdel Fattah sia contro la politica condotta da Israele nei confronti dei palestinesi è cosa nota. È andato anche a Gaza, con la carovana del Palestine Literature Festival, in una delle edizioni precedenti del festival letterario organizzato da uno delle più importanti intellettuali e scrittrici egiziane, sua zia Ahdaf Soueif. Così come è cosa nota che @alaa abbia partecipato a manifestazioni al Cairo di sostegno ai palestinesi.


Legittimo, dunque, porre domande sulla candidatura, perché chi vincerà il Sakharov deve essere una persona-modello. Un uomo o una donna a cui il premio viene conferito per le sue azioni e il suo pensiero, concentrato sulla difesa dei diritti umani e civili. Fa una strana impressione, però, che il Giornale si occupi di Alaa Abdel Fattah solo in questi giorni, da quando – cioè – è stata resa nota la sua candidatura, e non invece nei mesi e negli anni precedenti, quando @alaa ha manifestato in sostegno ai palestinesi, è andato a Gaza, e avrebbe scritto i tweet. Che non si occupi di @alaa il laico, l’attivista per i diritti civili. Oppure il problema è proprio il Premio Sakharov?


Allora, perché Alaa Abdel Fattah è stato candidato al Sakharov? Per Amnesty International è un prigioniero di coscienza, perché quattro differenti regimi in Egitto lo hanno incarcerato o portato di fronte a un tribunale. Per le sue opinioni. Per la sua capacità di essere l’attivista più carismatico di piazza Tahrir. Per il suo acume politico. Per il suo essere iconico. Liberato da pochi giorni, su cauzione, dall’ennesimo periodo in carcere, @alaa era in sciopero della fame. Da un mese, assieme a decine di altri attivisti.


Deve essere considerato un uomo molto pericoloso. Ma dipende da chi. Per altri, invece, è il simbolo delle rivoluzioni inclusive, quelle che mettevano insieme i diritti di tutti e di ciascuno. Le rivoluzioni simboleggiate dalla Repubblica di Piazza Tahrir.

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Published on September 30, 2014 04:59

September 15, 2014

Per Gerusalemme. Il tempo perduto degli uomini – 2

Sono lontane, Gaza e Gerusalemme. Lo sono da decenni, e soprattutto da anni. Sono tanto lontane che le volte in cui ho raccontato di essere andata a Gaza, ai palestinesi di Gerusalemme, mi hanno guardata con uno sguardo tra il sorpreso e il nostalgico. E sempre con quel velo di imbarazzo che nasceva dalla rassegnazione. Gaza era lì, chiusa dentro un ricordo lontano, eppure sempre doloroso, per loro. Un senso di colpa neanche espresso. Gerusalemme è altrettanto lontana, da Gaza, ma almeno – a sostenere il ricordo – ci sono le gigantografie della Cupola della Roccia negli uffici importanti. O almeno, c’erano le gigantografie, e chissà se ce ne sono ancora, dopo le tonnellate di bombe scaricate dall’aviazione  israeliana su tutta la Striscia di Gaza.


Sembra già lontana, la guerra, la distruzione di Gaza da parte delle forze armate israeliane. Già lontana la conta dei morti, dei tanti morti, degli oltre duemila morti, dei feriti che in questi giorni – in tanti – muoiono perché erano già gravissimi. Già lontani i volti dei bambini, i nomi dei bambini. I bambini che non siedono nelle classi che alla bell’e meglio sono state messe su. Perché oggi, in ritardo, è ricominciata la scuola. La scuola si apre, anche se le scuole sono state bombardate.


Gaza e Gerusalemme sono lontane. Sì, certo. Forse. Eppure legate da un filo – quello del conflitto – che è sempre lì, pronto a tirare il detonatore. Gerusalemme stava per scoppiare, alla fine di giugno, nei primissimi giorni di luglio. Poi, d’un tratto, è rientrata nel cono d’ombra. Ma Gerusalemme è sempre lì, anche se non la guardiamo con quell’attenzione che meriterebbe.


Guardarla e ascoltarla, Gerusalemme.


Il reading-spettacolo su Gerusalemme – con i Radiodervish e Carla Peirolero  su un mio testo teatrale – prodotto da SuqGenova con la collaborazione del Teatro Stabile di Genova è stato rappresentato a Mantova, nel Festivaletteratura. Tutto esaurito, già una settimana prima della rappresentazione al conservatorio Campiani. Qualche bellissima foto, scattata da Marina Antonioli – è in un album della sua pagina FB. E’ stato un cammeo, e la passione di quella sera è stato anche il frutto, il portato del grande dolore che tutti noi abbiamo provato nelle settimane precedente. C’era tutta Gerusalemme, perché c’era anche tutta Gaza. Speriamo di avere presto almeno una traccia audio, di “Per Gerusalemme. Nel tempo perduto degli uomini”. La voce di Carla Peirolero, il canto dolente di Nabil Ben Salameh, la passione composta di Michele Lobaccaro e di Alessandro Pipino, sono stati gli ingredienti di uno stato di grazia.


E dal 16 settembre, giorno dello svelamento della stagione teatrale 2014/15  dello Stabile di Genova, c’è un nuovo parto, Café Jerusalem. Sarà in cartellone dal 18 al 22 marzo 2015, con i Radiodervish e le loro musiche originali, e  assieme a Carla Peirolero ci sarà in scena Pino Petruzzelli, che curerà anche la regia dello spettacolo. ;)


Il video girato nella Feltrinelli di Mantova parla, appunto, di Gaza e Gerusalemme. E sempre su youtube c’è almeno un brano, Ainaki, nella versione rappresentata in una notte di giugno, nel SuqGenova di Carla Peirolero. Ainaki, che per me e per noi, ormai, è diventato il “tema di Nura”.


 

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Published on September 15, 2014 14:10

Per Gerusalemme. Il tempo perduto degli uomini

Sono lontane, Gaza e Gerusalemme. Lo sono da decenni, e soprattutto da anni. Sono tanto lontane che le volte in cui ho raccontato di essere andata a Gaza, ai palestinesi di Gerusalemme, mi hanno guardata con uno sguardo tra il sorpreso e il nostalgico. E sempre con quel velo di imbarazzo che nasceva dalla rassegnazione. Gaza era lì, chiusa dentro un ricordo lontano, eppure sempre doloroso, per loro. Un senso di colpa neanche espresso. Gerusalemme è altrettanto lontana, da Gaza, ma almeno – a sostenere il ricordo – ci sono le gigantografie della Cupola della Roccia negli uffici importanti. O almeno, c’erano le gigantografie, e chissà se ce ne sono ancora, dopo le tonnellate di bombe scaricate dall’aviazione  israeliana su tutta la Striscia di Gaza.


Sembra già lontana, la guerra, la distruzione di Gaza da parte delle forze armate israeliane. Già lontana la conta dei morti, dei tanti morti, degli oltre duemila morti, dei feriti che in questi giorni – in tanti – muoiono perché erano già gravissimi. Già lontani i volti dei bambini, i nomi dei bambini. I bambini che non siedono nelle classi che alla bell’e meglio sono state messe su. Perché oggi, in ritardo, è ricominciata la scuola. La scuola si apre, anche se le scuole sono state bombardate.


Gaza e Gerusalemme sono lontane. Sì, certo. Forse. Eppure legate da un filo – quello del conflitto – che è sempre lì, pronto a tirare il detonatore. Gerusalemme stava per scoppiare, alla fine di giugno, nei primissimi giorni di luglio. Poi, d’un tratto, è rientrata nel cono d’ombra. Ma Gerusalemme è sempre lì, anche se non la guardiamo con quell’attenzione che meriterebbe.


Guardarla e ascoltarla, Gerusalemme.


Il reading-spettacolo su Gerusalemme – con i Radiodervish e Carla Peirolero  su un mio testo teatrale – prodotto da SuqGenova con la collaborazione del Teatro Stabile di Genova è stato rappresentato a Mantova, nel Festivaletteratura. Tutto esaurito, già una settimana prima della rappresentazione al conservatorio Campiani. Qualche bellissima foto, scattata da Marina Antonioli – è in un album della sua pagina FB. E’ stato un cammeo, e la passione di quella sera è stato anche il frutto, il portato del grande dolore che tutti noi abbiamo provato nelle settimane precedente. C’era tutta Gerusalemme, perché c’era anche tutta Gaza. Speriamo di avere presto almeno una traccia audio, di “Per Gerusalemme. Nel tempo perduto degli uomini”. La voce di Carla Peirolero, il canto dolente di Nabil Ben Salameh, la passione composta di Michele Lobaccaro e di Alessandro Pipino, sono stati gli ingredienti di uno stato di grazia.


Il video girato nella Feltrinelli di Mantova parla, appunto, di Gaza e Gerusalemme. E sempre su youtube c’è almeno un brano, Ainaki, nella versione rappresentata in una notte di giugno, nel SuqGenova di Carla Peirolero. Ainaki, che per me e per noi, ormai, è diventato il “tema di Nura”.


 

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Published on September 15, 2014 14:10