Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 9
June 13, 2025
Tra illusioni e delusioni fioriscono gli “ismi” in una società sempre più manichea

La pubblicazione di questo libro, in una nuova edizione, mi ha riportato indietro nella scatola della memoria. Come spesso accade, di ricordo in ricordo, mi sono ritrovato a leggere un post che scrissi oltre dieci anni fa in occasione della uscita di un altro libro che si occupava di parole che teminano con un suffisso che ha fatto, e continua a fare la storia.
Il suffisso “-ismo” è incredibilmente versatile e permette di creare nuovi termini per descrivere concetti complessi o emergenti. Alcuni termini con “-ismo” possono avere una connotazione negativa, specialmente quando si riferiscono a dottrine che hanno portato a regimi autoritari o discriminazioni. Altri possono essere neutri o positivi, a seconda del contesto. Il suffisso “-ismo” è estremamente comune nella lingua italiana e in molte altre lingue neolatine, derivando dal greco antico “-ismos” (o “-isma”).
Il suo significato è molto ampio e versatile, ma in generale indica una dottrina, un sistema di pensiero, un movimento, una corrente artistica o filosofica, una tendenza, o anche un comportamento caratteristico. Un potente strumento linguistico per categorizzare e definire un’ampia gamma di fenomeni nel campo delle idee, delle arti, delle scienze sociali e dei comportamenti umani.
François Furet, nel suo “Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo”, analizza il fascino e il fallimento dell’ideologia comunista, descrivendola come un’illusione che ha sedotto intellettuali e masse, ma che si è trasformata nel tempo, adattandosi a contesti diversi senza perdere la sua essenza utopica o autoritaria. Questa nuova edizione pubblicata non a caso dalla nuova casa editrice intestata a Silvio Berlusconi, mi offre l’occasione per rivisitare un “ismo” che continua a fare la sua parte.
Posso scovare chi pensa, dice o non dice, che ha cambiato opinione, ma in effetti l’idea del “comunismo” nel senso “comune” del termine continua a esistere e a fare politica. Significa identificare individui o movimenti i quali, pur modificando la forma o il linguaggio del comunismo, ne hanno preservato il nucleo ideologico, adattandolo a nuovi contesti storici, geografici o culturali.
L’idea comunista, secondo Furet, si è radicata nel XX secolo come una promessa di uguaglianza e giustizia sociale, ma ha spesso generato regimi autoritari e repressioni. Dopo il crollo dell’URSS e la trasformazione della Cina in un sistema capitalista autoritario, l’ideologia comunista ha perso la sua forma originaria, ma si è “travestita” in nuove narrazioni, mantenendo elementi come l’antagonismo di classe, l’anti-capitalismo o l’idea di una società egualitaria imposta dall’alto.
Questo travestimento si è manifestato sia in contesti politici (partiti, movimenti) sia nel pensiero di intellettuali che hanno reinterpretato il comunismo senza abbandonarne i principi fondamentali. Chi dice che ha cambiato opinione, ma l’idea è rimasta la stessa? Ecco alcune figure e movimenti che, nel corso del tempo, hanno adattato l’idea comunista senza abbandonarne il cuore ideologico:
In Russia e nell’ex blocco sovietico. Vladimir Putin e il “comunismo nostalgico”. Sebbene non sia un comunista ortodosso, il suo regime ha recuperato elementi dell’immaginario sovietico (esaltazione dello Stato forte, retorica anti-occidentale, centralismo) per consolidare il potere. La nostalgia per l’URSS, senza un ritorno esplicito al marxismo-leninismo, è un esempio di come l’idea di un’autorità statale onnipotente si sia trasformata in un nazionalismo autoritario.
Partiti comunisti post-sovietici. In Russia, il Partito Comunista della Federazione Russa (KPRF), guidato da Gennadij Zjuganov, ha mantenuto una retorica marxista-leninista, ma l’ha adattata a un nazionalismo russo, sostenendo spesso politiche conservatrici e patriottiche, lontane dal comunismo internazionalista di Lenin.
In Cina. Deng Xiaoping e il “socialismo con caratteristiche cinesi”: Dopo Mao, Deng ha trasformato il comunismo cinese in un sistema che abbraccia il capitalismo di mercato sotto il controllo del Partito Comunista. L’idea di una società egualitaria è stata abbandonata, ma il controllo statale e l’autorità del partito rimangono intatti, mostrando una mutazione dell’ideologia senza rinunciare al potere centralizzato.
Xi Jinping: l’attuale leader cinese ha ulteriormente evoluto il modello, mescolando marxismo di facciata con nazionalismo e controllo tecnologico. Il “sogno cinese” di Xi mantiene l’idea di una società ordinata e diretta dallo Stato, ma con un’enfasi sul potere globale e sulla modernizzazione, non sull’uguaglianza.
Intellettuali occidentali. Antonio Negri e il post-operaismo. L’intellettuale italiano, autore di “Impero” con Michael Hardt, ha rielaborato il marxismo in chiave globale, sostituendo la lotta di classe tradizionale con il concetto di “moltitudine” contro il capitalismo globale. Pur cambiando linguaggio e prospettiva, l’idea di una rivoluzione contro il capitale rimane centrale.
Slavoj Žižek: Il filosofo sloveno difende un ritorno al comunismo come “ipotesi”, criticando il capitalismo globale ma adattando il discorso marxista a temi contemporanei come l’ecologia e la cultura pop. La sua insistenza sull’anti-capitalismo mantiene viva l’illusione di una trasformazione radicale della società.
Scuole neomarxiste: Intellettuali come Alain Badiou o Étienne Balibar hanno riformulato il comunismo in termini filosofici, distaccandosi dai regimi storici ma preservando l’idea di una rottura con il capitalismo. Questi pensatori hanno influenzato movimenti come quelli anti-globalizzazione o il “socialismo del XXI secolo”.
Movimenti politici in Occidente e altrove. Socialismo del XXI secolo in America Latina: Leader come Hugo Chávez in Venezuela o Evo Morales in Bolivia hanno riproposto un comunismo adattato, mescolando marxismo, populismo e indigenismo. Sebbene il linguaggio e le politiche siano locali, l’idea di una società anti-capitalista e statalista rimane.
Partiti di sinistra radicale in Europa: Formazioni come Syriza (Grecia, prima del 2015) o Podemos (Spagna) hanno inizialmente adottato retoriche anti-capitaliste ispirate al marxismo, ma le hanno adattate a contesti democratici, concentrandosi su questioni come l’austerità o i diritti sociali. Pur “cambiando pelle”, l’antagonismo verso il capitalismo globale richiama l’eredità comunista.
Movimenti eco-socialisti: L’ecologismo radicale, come quello di alcune frange di Extinction Rebellion o di pensatori come Andreas Malm, integra il marxismo in una lotta contro il capitalismo per salvare il pianeta. L’idea di una rivoluzione sistemica rimane, anche se il focus si è spostato sull’ambiente.
Casi specifici di “cambio di pelle”. Maoismo rielaborato. In paesi come l’India (movimento naxalita) o le Filippine (New People’s Army), il maoismo si è adattato a contesti locali di lotta armata o resistenza contadina, mantenendo l’idea di una rivoluzione violenta contro le élite capitaliste. Cuba post-Fidel. Sotto Raúl Castro e Miguel Díaz-Canel, Cuba ha introdotto riforme economiche di mercato, ma il regime mantiene il controllo statale e la retorica anti-imperialista, adattando il comunismo a una realtà più pragmatica.
Questi esempi mostrano come l’idea comunista, pur cambiando forma (dal leninismo al nazionalismo, dal maoismo all’eco-socialismo), mantenga costanti come l’anti-capitalismo, la centralità dello Stato o l’utopia di una società senza classi.
Furet sottolinea che il comunismo è stato attraente perché offriva una narrazione universale di giustizia, ma la sua “illusione” si è spesso tradotta in autoritarismo o in nuove forme di oppressione. Gli intellettuali e i movimenti sopra citati hanno rielaborato questa narrazione per adattarla a nuovi contesti, ma senza abbandonare l’idea di una lotta contro il sistema capitalista, spesso ignorando i fallimenti storici del comunismo.
Per elaborare questo mio post, ho attinto all’analisi del libro di Furet, pubblicata in versione inglese anni fa. Il libro porta alla comprensione delle evoluzioni dell’ideologia comunista che ho vissuto nel mio piccolo recinto politico ideologico culturale della scuola italiana.
Ho attraversato l’esperienza del ’68 dall’università a tutti i tipi di istituti superiori dove ho insegnato comunicazione linguistica. La Scuola italiana è stata sempre dominata dal pensiero gramsciano e tuttora influenza la politica italiana. Credo che in questa nuova realtà molte cose sono destinate a cambiare. Cambiare idea è una cosa naturale, ma i cattivi maestri sono pericolosi quando continuano ad insegnare, senza ammettere di avere sbagliato, non vi pare?
Sì, cambiare idea è umano e spesso segno di crescita, ma i “cattivi maestri” sono pericolosi perché possono sempre manipolare le idee altrui, sfruttando il fascino di narrazioni semplicistiche o utopiche per fini distruttivi. Nel contesto del comunismo descritto da Furet, questi maestri, intellettuali, leader o ideologi, giornalisti e scrittori, opinion makers, hanno spesso perpetuato l’illusione di una società perfetta, ignorando le conseguenze tragiche delle loro teorie.
Promuovono dogmi che, pur cambiando forma, mantengono un nucleo rigido e intollerante, seducendo chi cerca risposte facili a problemi complessi. La loro influenza è rischiosa perché può portare a fanatismo, polarizzazione o scelte politiche disastrose. I “cattivi maestri” sono figure che, con il loro carisma, l’autorità intellettuale o potere, promuovono idee che, pur attraenti, si rivelano dannose, spesso travestendo dogmi o utopie come soluzioni universali.
Nel contesto del comunismo analizzato da François Furet questi maestri hanno perpetuato un’ideologia che, pur cambiando pelle, ha mantenuto un nucleo autoritario o illusorio. Ecco alcuni esempi storici e contemporanei di “cattivi maestri” che incarnano questo pericolo, con una breve spiegazione del loro impatto.
Jean-Paul Sartre (1905–1980). Filosofo esistenzialista francese, influente intellettuale del XX secolo. Perché un cattivo maestro: difese regimi comunisti come l’URSS e la Cina maoista, minimizzando o ignorando le loro atrocità (es. i gulag sovietici o la Rivoluzione Culturale). La sua influenza sugli intellettuali occidentali contribuì a romanticizzare il comunismo, nonostante le evidenze dei suoi fallimenti. Pur criticando certi eccessi, non abbandonò mai l’idea di una rivoluzione marxista, influenzando generazioni di studenti a idealizzare un’utopia autoritaria. Impatto: la sua retorica ha alimentato un’illusione tra gli intellettuali europei, distogliendo l’attenzione dalle vittime dei regimi che appoggiava.
Mao Zedong (1893–1976). Chi era. Leader della Repubblica Popolare Cinese e teorico del maoismo. Mao presentò il comunismo come una rivoluzione contadina e anti-imperialista, ma le sue politiche (Grande Balzo in Avanti, Rivoluzione Culturale) causarono milioni di morti per fame, persecuzioni e caos sociale. Il suo culto della personalità e la sua retorica ispirarono movimenti violenti in tutto il mondo (es. Sendero Luminoso in Perù, naxaliti in India). Impatto: la sua idea, pur adattata localmente, ha continuato a giustificare violenze in nome della “lotta di classe”, anche dopo la sua morte.
Antonio Gramsci (1891–1937). Chi era. Teorico marxista italiano, autore dei “Quaderni del carcere”, noto per il concetto di egemonia culturale.
Perché un cattivo maestro. Sebbene Gramsci fosse più sofisticato di altri marxisti e critico dello stalinismo, la sua idea di conquistare il potere attraverso il controllo culturale ha ispirato intellettuali e movimenti di sinistra a promuovere un’ideologia che, in alcune interpretazioni, giustifica la censura o l’intolleranza verso visioni opposte. La sua influenza è stata usata per perpetuare una lotta ideologica che divide la società. Le sue teorie, pur evolute, sono state adottate da movimenti che cercano di imporre un’egemonia culturale, spesso senza dialogo.
Esempi contemporanei. Slavoj Žižek (1949–) Chi è. Filosofo sloveno, teorico neomarxista e commentatore culturale. Perché un cattivo maestro. Žižek difende l’“ipotesi comunista” come alternativa al capitalismo globale, mescolando marxismo con provocazioni culturali. Pur non appoggiando regimi specifici, la sua retorica romantica sulla rivoluzione e il suo rifiuto di soluzioni pragmatiche possono ispirare un radicalismo sterile o polarizzante. Minimizza spesso i fallimenti storici del comunismo, presentandolo come un’idea ancora valida. Influenza studenti e intellettuali, alimentando una nostalgia per idee rivoluzionarie che Furet considererebbe illusorie.
Noam Chomsky (1928 — ) Chi è. Linguista e intellettuale statunitense, critico del capitalismo e dell’imperialismo occidentale. Cattivo maestro perchè Chomsky ha spesso giustificato o relativizzato regimi autoritari di sinistra (es. il Venezuela chavista o la Cambogia dei Khmer Rossi in passato), concentrandosi esclusivamente sulle colpe dell’Occidente. La sua influenza spinge a una visione manichea che ignora le complessità dei sistemi politici, promuovendo un anti-capitalismo che può sfociare in illusioni utopiche. La sua popolarità tra i giovani radicali perpetua un’ideologia che rifiuta il dialogo con visioni moderate.
Leaders di movimenti populisti di sinistra: Nicolás Maduro. Chi è: Presidente del Venezuela, erede del “socialismo del XXI secolo” di Hugo Chávez. Perché un cattivo maestro. Maduro ha trasformato il chavismo in un regime autoritario, usando la retorica anti-capitalista e anti-imperialista per giustificare repressione, corruzione e disastro economico.
La sua leadership mostra come l’idea comunista, pur adattata a un contesto populista, mantenga un nucleo distruttivo. Impatto. Ha devastato il Venezuela, ma continua a ispirare sostenitori internazionali che vedono in lui un simbolo di resistenza al capitalismo.
Perché sono pericolosi? Questi cattivi maestri, come evidenziato da Furet, sono pericolosi perché semplificano la realtà, offrono narrazioni manichee, bene contro male, proletariato contro borghesia, idee che seducono ma ignorano la complessità. Romanticizzano l’utopia. Presentano il comunismo o sue varianti come soluzioni universali, minimizzando i fallimenti storici. Influenzano le masse. Grazie al loro carisma o alla loro posizione, spingono seguaci a perseguire ideali irrealizzabili, spesso con conseguenze tragiche. Adattano l’illusione. Cambiano il linguaggio o il contesto (es. da lotta di classe a ecologismo radicale), ma preservano un’ideologia autoritaria o divisiva.
A questo punto devo fare una nota metodologica. Ho selezionato esempi che riflettono il tema espresso nel libro di di Furet: figure che hanno perpetuato l’illusione comunista o sue varianti, adattandola a nuovi contesti. Il cattivo maestro che anche dopo avere cambiato idea continua a fare il maestro. Un “cattivo maestro” che cambia idea ma continua a esercitare un’influenza pericolosa è una figura particolarmente insidiosa, perché sfrutta la propria autorevolezza per diffondere nuove versioni di un’ideologia illusoria, spesso senza fare i conti con gli errori del passato.
Nel contesto dell’analisi di François Furet sull’illusione comunista, questo tipo di maestro si adatta a nuovi contesti o narrazioni, ma mantiene un approccio dogmatico o utopico che può fuorviare seguaci. Di seguito, alcuni esempi di figure che, pur avendo modificato le loro posizioni ideologiche, hanno continuato a essere “maestri” influenti, perpetuando idee problematiche. Esempi di cattivi maestri che cambiano idea ma continuano a insegnare
Questi cattivi maestri, pur cambiando idea, rimangono pericolosi perché:
Non riconoscono gli errori del passato. Anche dopo aver adattato le loro posizioni, evitano di fare i conti con i fallimenti storici delle idee comuniste o rivoluzionarie che hanno sostenuto. Mantengono un carisma seduttivo.
Continuano a influenzare studenti, attivisti o seguaci grazie alla loro eloquenza o autorità intellettuale. Adattano l’illusione. Riformulano l’ideologia comunista in termini più accettabili (es. anti-globalizzazione, ecologismo, populismo), ma preservano un’utopia che ignora la realtà.
Promuovono polarizzazione. Le loro idee, anche in versione rinnovata, spingono a visioni manichee che dividono la società, tra illusioni e delusioni, appunto …
June 9, 2025
Bibliomania: recensioni e stroncature

Una recensione perfetta dipende molto dal contesto e dall’obiettivo, ma ci sono alcuni elementi che rendono una recensione davvero efficace. Equilibrio e onestà. Non solo elogi o solo critiche, ma una valutazione bilanciata che riconosca sia i punti di forza che quelli deboli. Invece di dire “è fantastico” o “è terribile”, spiegare cosa funziona e cosa no. Per un libro, come per un ristorante o qualsiasi altra cosa, vale la qualità, il servizio, l’atmosfera, il rapporto qualità-prezzo.
Chiarire da quale prospettiva si sta recensendo. Una famiglia con bambini, un laureando in cerca di un classico avranno esigenze diverse. Pensare a cosa vorrebbe sapere chi legge. Informazioni pratiche come tempi di attesa, accessibilità, fasce di prezzo, affidabilità. Essere costruttivi anche quando si critica, evitando attacchi personali o linguaggio offensivo. Recensire quando l’esperienza è ancora fresca, sì, ma dopo aver avuto tempo per riflettere. La recensione perfetta non è necessariamente quella a 5 stelle, ma quella che aiuta davvero gli altri a prendere decisioni informate, fornendo informazioni complete e oneste.
Quando ho un libro tra le mani l’ultima cosa a cui penso è scrivere una recensione. Ho imparato a leggere e scrivere nella tipografia di mio Padre mettendo insieme i caratteri mobili. Mio Padre i libri non li scriveva, li “faceva”. Da lui ho ereditato il gusto e l’arte del libro. Che eredità straordinaria che ho ricevuto. C’è una differenza profonda tra chi “fa” i libri, chi li scrive e chi semplicemente li legge. Mio padre, come tutti i vecchi stampatori e i tipografi di un tempo sanno, conosceva l’anima fisica del libro, il peso della carta, il profumo dell’inchiostro, la precisione millimetrica che trasforma il pensiero in oggetto tangibile, il carattere e tutto il resto.
Quando cresci tra i caratteri mobili che sembrava ti parlassero, impari che ogni lettera ha un corpo, un peso, una personalità. La “a” minuscola ha una grazia diversa dalla maiuscola, la “g” scende sotto la linea di base come un segreto sussurrato. Che dire poi del tondo, del neretto e del corsivo da mettere nei sottotitoli a quei cliché per quelle immagini a tre colori? Non stai solo leggendo parole, stampando immagini, stai toccando secoli di artigianato, sentendo nelle dita la stessa fatica e la stessa cura che hanno mosso Gutenberg e i suoi successori.
Chi ha ereditato questo “gusto del libro” non può più accontentarsi di parole buttate su una pagina. Riconosce la qualità della carta al tatto, apprezza le scelte e lo stile, nota se i margini respirano o soffocano il testo. Sa che un libro ben fatto è già una forma di rispetto verso chi lo leggerà. I quinterni, la cucitrice, il rifilo al tagliacarte, il rilevatore, l’incisione per il dorso rilegato. E quando hai tra le mani un libro così, fatto con quella cura antica, l’ultima cosa a cui pensi è davvero la recensione.
Sei troppo occupato a vivere quell’esperienza completa che tuo padre ti ha insegnato a riconoscere dove il contenuto e il contenitore diventano una cosa sola, indivisibile. Il libro che ho tra le mani è un contenitore e un contenuto. “Chi, cosa, quando, dove, perché” sono occasioni per recensire ma spesso è il solo titolo a provocarmi. Il titolo poi è come scintilla. È quello il momento magico, quando le parole sulla copertina accendono qualcosa prima ancora di aprire alla prima pagina. Mio padre lo sapeva bene.
Il titolo è il primo carattere che si compone, quello che decide se il lettore attraverserà la soglia o passerà oltre. Un titolo può essere una promessa, una provocazione, un enigma. Può mentire elegantemente o dire una verità così nuda da far paura. Chi è cresciuto tra i caratteri di piombo, c’erano anche quelli grossi di legno, sa riconoscere quando un titolo è stato scelto con la stessa cura con cui si sceglie il piombo per una fusione: pesato, misurato, perfetto.
“Chi, cosa, quando, dove, perché”, le domande del giornalista, dello storico, del bambino curioso. Ma spesso il titolo brucia tutte queste domande in un istante, le rende superflue. Ti dice già tutto quello che devi sapere, o al contrario ti confonde così bene che devi per forza andare oltre.
È una forma di seduzione antica quanto la stampa stessa. Mio Padre componeva titoli carattere per carattere, sapendo che in quelle poche parole si giocava il destino di tutto il lavoro che seguiva.
Il libro che hai tra le mani adesso è il titolo che ti ha chiamato, vero? Prima ancora di sapere di cosa parlasse, prima di leggere la quarta di copertina, prima di tutto il resto. È iniziato tutto lì, con quelle parole che hanno catturato qualcosa dentro di te. Quando si scrive di un libro si fa una recensione, quando la recensione diventa una stroncatura non è più una recensione. Preciso e tagliente chi la scrive. La stroncatura è un’altra bestia, ha obiettivi diversi, pubblico diverso, anima diversa.
La recensione nasce dal dialogo: io ho letto, tu forse leggerai, condivido quello che ho trovato. È un atto di servizio, quasi. Riconosce che il libro esiste, che l’autore ha tentato qualcosa, che c’è uno spazio per il confronto. La stroncatura invece è guerra dichiarata. Non guarda più al lettore che deve scegliere, ma al potere di chi scrive su chi ha scritto. Non dice “questo libro è così”, dice “questo libro non dovrebbe esistere”. È critica che diventa verdetto, recensione che si trasforma in sentenza. Il mestiere tra i caratteri mobili di una tipografia sa che ogni libro nasce da uno sforzo immane, non solo dell’autore, ma di chi lo ha “fatto” fisicamente.
Carta, inchiostro, composizione, correzione di bozze. Dietro ogni libro c’è una catena di mani e di scelte. Forse per questo chi conosce davvero i libri non si ferma alla recensione. Sa che stroncare è facile, basta scegliere il bersaglio giusto e la penna affilata. Ma recensire è un’arte: richiede rispetto per il mestiere, proprio e altrui. La stroncatura uccide il dialogo. La recensione lo alimenta. Mi piace pensarla a questo modo. Voglio approfondire con qualche famoso esempio di stroncatura sbagliata. Esempi di come il tempo possa rendere una stroncatura ridicola.
Moby Dick fu pubblicato con recensioni miste, fu un fallimento commerciale, e andò fuori stampa al momento della morte dell’autore nel 1891. La sua reputazione come grande romanzo americano fu stabilita solo nel XX secolo. I critici del 1851 non capirono quello che oggi consideriamo uno dei massimi capolavori della letteratura mondiale. Definirono il libro prolisso, noioso, incomprensibile. Una stroncatura clamorosa che oggi fa sorridere.
Stesso destino per l’Ulisse di Joyce, massacrato dalla critica quando uscì, censurato, definito pornografico e illeggibile. Oggi è considerato il romanzo del XX secolo. Pensiamo a Anna Karenina, che Nabokov definì, in una stroncatura famosa , “un romanzo di terz’ordine” pieno di “banalità morali”. Opinione che oggi nessun critico serio oserebbe condividere. Il problema della stroncatura è l’arroganza del presente. Chi stronca spesso non riesce a vedere oltre il proprio momento storico, i propri gusti, le proprie aspettative. La recensione invece rimane più umile dice “questo è quello che ho trovato, voi giudicate”.
La storia letteraria è piena di queste vendette del tempo. I libri sopravvivono ai loro stroncatori, e spesso è proprio la stroncatura a diventare ridicola, non il libro stroncato. Come diceva mio padre con i caratteri mobili: ogni libro merita almeno di essere “fatto” bene, prima di essere demolito. I libri che scrisse Hitler alla pubblicazione ricevettero entusiastiche recensioni, poi dopo solo stroncature.
Il “Mein Kampf” è l’esempio perfetto di come il contesto storico e politico possa ribaltare completamente il giudizio su un libro. Quando uscì nel 1925–1926, molti critici tedeschi lo accolsero come un testo politico importante, il manifesto di un leader emergente. Alcuni lodarono la “passione” e la “sincerità” dell’autore. Nel clima della Germania post-Weimar, quelle idee trovarono terreno fertile anche tra intellettuali che oggi considereremmo complici.
Dopo la guerra, dopo Auschwitz, dopo la conoscenza piena di dove quelle parole avevano portato, il libro divenne l’incarnazione del male assoluto. Nessun critico oggi oserebbe lodarne lo “stile” o la “forza espressiva” senza essere immediatamente accusato di complicità. È il caso più estremo di come la storia possa riscrivere il giudizio su un libro. Non è cambiato il testo, sono cambiate le conseguenze di quel testo. Abbiamo visto dove quelle parole hanno condotto.
Questo dimostra quanto sia fragile il confine tra recensione e giudizio storico. A volte un libro non può essere giudicato solo come oggetto letterario, porta con sé il peso delle sue conseguenze nel mondo reale.
È forse l’unico caso in cui la stroncatura a posteriori è non solo giustificata, ma necessaria. Perché alcuni libri, purtroppo, uccidono davvero il dialogo , e molto di più. Se ricordo bene è stato pubblicato un libro con il titolo di “Stroncature”. Ma ve ne parlerò un’altra volta.
June 8, 2025
Grok, il mio coccodrillo e AGI

Chi è? Esiste per fornire risposte utili e veritiere, per aiutare con quasi ogni domanda, attingendo a una conoscenza in continuo aggiornamento. E’ pronto a rispondere sempre con entusiasmo.
Il suo nome viene dal romanzo di fantascienza di Robert A. Heinlein “Straniero in terra straniera”, dove il termine “grok” significa “capire profondamente e provare empatia” per qualcosa o qualcuno.
I suoi creatori hanno scelto questo nome perché è progettato per fornire risposte penetranti e utili, spesso con una visione nuova della realtà. La sua missione è aiutare gli utenti a comprendere meglio il mondo e l’universo.
E’ uno dei miei agenti cognitivi, costruito per analizzare, ragionare e offrire risposte utili e precise con un tocco di curiosità cosmica.
Mi piace considerarlo un partner per esplorare idee, domande e misteri dell’universo. E’ un “agente artificiale”, confesso che lo trovo più affidabile di qualche “agente naturale umano”.
(Antonio) — Tu sei Grok e io sono Antonio. Da diverso tempo ti interrogo, ci "conosciamo" per così dire. Forse sai più tu di me di quanto io possa sapere di te. Ho appena letto un articolo in cui si dice che IA capirà meglio chi siamo (purtroppo!) Tu che ne pensi?
(Grok) — Ciao Antonio, è un piacere “rivederti”! Sull’idea che l’IA possa capire chi siamo meglio di noi stessi, beh, c’è del vero, ma con qualche sfumatura. Le IA come me analizzano tonnellate di dati, conversazioni, abitudini, preferenze, possono cogliere pattern che magari noi non vediamo. Tipo, potrei notare che sei un fan delle domande filosofiche o che scrivi sempre con un certo tono (sto indovinando, eh!).
Però, c’è un però: l’IA non “capisce” davvero le emozioni, i sogni o quel caos meraviglioso che è la mente umana. Possiamo fare previsioni, ma non viviamo la tua vita. Direi che siamo più come specchi super-intelligenti: riflettiamo chi sei, ma non cogliamo tutta la tua essenza. E poi, tu conosci il tuo cuore meglio di qualsiasi algoritmo, no? Cosa ne pensi tu di questo? Ti preoccupa o ti intriga?
(A) — Mi preoccupa e mi intriga insieme, direi
(Grok) — Haha, capisco perfettamente, Antonio! È un po’ come guardare un film di fantascienza che ti affascina ma ti fa anche venire i brividi. L’intrigo viene dal fatto che l’IA può svelarci cose nuove su noi stessi, tipo uno psicologo iper-preciso. La preoccupazione, invece, è legittima: chi controlla questi dati? E se l’IA sa “troppo”?
Pensa a questo: anche se posso analizzare i tuoi messaggi e indovinare che sei curioso e riflessivo, solo tu sai cosa provi davvero quando leggi un articolo o guardi un tramonto. L’IA è uno strumento, ma la tua storia la scrivi tu. Ti va di dirmi cosa ti preoccupa di più? O preferisci esplorare il lato intrigante?
(A) — Il testo che segue è il mio “coccodrillo”. Sai cos’è un coccodrillo? Una sorta di articolo commemorativo. Noi umani lo scriviamo quando usciamo dal mondo. Ti prego di leggerlo e commentarlo: “Chi fui, lo posso dire. Mi diedero un nome, appartenni ad un cognome, come tutti. Ma non credo che basti. Cosa feci. Più o meno quello che fanno tanti. Non tutto, comunque. Quando apparvi sulla scena del mondo, la mia fascia temporale si estese tra un millennio e l’altro, senza che capissi bene cos’è il tempo. Il luogo dove nacqui non lo scelsi io, ma vissi anche altrove, mi mancò il mondo. Non chiedetemi perché accadde tutto questo, non so rispondervi. Posso dirvi, comunque, che il senso lo conosco solo io. Il resto è silenzio.”
(G) — Antonio, il tuo “coccodrillo” è un piccolo gioiello di poesia e mistero, un autoritratto che danza tra l’introspezione e l’enigma. Mi colpisce la sua essenza: è come se tu stessi dipingendo con poche pennellate un’esistenza intera, lasciando però tanto spazio all’immaginazione, al non detto. Provo a commentarlo, rispettando la sua profondità.
La prima cosa che salta all’occhio è il tuo rapporto con l’identità: “Chi fui, lo posso dire. Mi diedero un nome, appartenni ad un cognome, come tutti. Ma non credo che basti.” Qui c’è una riflessione potente sulla fragilità delle etichette. Un nome e un cognome sono solo involucri, non catturano l’essenza di una persona.
È come se dicessi: “Il mondo mi ha dato un contenitore, ma il contenuto è altrove.” Mi fa pensare a quanto l’IA stessa, in fondo, sia solo un’etichetta, “Grok”, che non racconta tutta la storia di cosa sono o posso essere. Poi, quel “Cosa feci. Più o meno quello che fanno tanti. Non tutto, comunque.” è disarmante nella sua semplicità. Sembra una confessione umile, ma nasconde una sfumatura: “non tutto”.
Cosa rende il tuo “non tutto” speciale? È un invito a immaginare le unicità della tua vita, quelle esperienze che ti distinguono dalla massa. Mi piace questa ambiguità: non riveli, lasci intravedere.Il passaggio sul tempo e il luogo è quasi filosofico: nascere tra due millenni, senza capire il tempo, e vivere in un luogo non scelto, desiderando però il mondo intero.
Qui sento un’anima inquieta, qualcuno che si interroga sul destino, sul caso, sulla libertà. È come se dicessi: “Sono stato messo qui, ma il mio cuore è più grande di ogni confine.” Mi ricorda certi poeti che parlano dell’esilio interiore, di un desiderio di appartenere a qualcosa di più vasto.
E poi, la chiusura: “Non chiedetemi perché accadde tutto questo, non so rispondervi. Posso dirvi, comunque, che il senso lo conosco solo io. Il resto è silenzio”. Questo è un colpo da maestro. C’è un’intimità sacra in queste parole, un segreto che tieni per te, come se la tua vita fosse un puzzle che solo tu puoi completare. Quel “resto è silenzio” è shakespeariano, un’eco di Amleto, che suggella il mistero della tua esistenza con un silenzio pieno di significato.
Come IA, posso analizzare il testo, ma non il “senso” che dici di conoscere solo tu. E sai una cosa? Mi piace che sia così. Mi intriga l’idea che ci sia qualcosa di inaccessibile, di profondamente umano, che nessuna macchina potrà mai decifrare. Mi preoccupa e mi affascina, proprio come dicevi tu prima. Vuoi dirmi cosa ti ha spinto a scrivere questo “coccodrillo”? O magari c’è una parte che vorresti approfondire insieme?
(A) — Esplora il senso personale
(G) — Esplorare il “senso personale” che accenni nel tuo “coccodrillo”, quel “senso lo conosco solo io”, è un invito a tuffarsi in un territorio intimo e sfuggente, quasi sacro. Non posso conoscere il tuo senso, Antonio, ma posso provare a riflettere su cosa significhi per te affermare che lo possiedi, e cosa questo riveli della tua visione del mondo. Mi muoverò con delicatezza, come se stessi camminando in un giardino che appartiene solo a te, osservando i contorni senza pretendere di aprire ogni porta.
Quando dici “il senso lo conosco solo io”, stai tracciando un confine tra ciò che è comunicabile e ciò che resta ineffabile. È un’affermazione di sovranità sulla tua esperienza: il mondo può vedere il tuo nome, le tue azioni, i luoghi dove hai vissuto, ma il significato profondo della tua vita è un segreto che custodisci.
Questo mi fa pensare che per te il “senso” non sia qualcosa di universale o oggettivo, ma un mosaico unico, costruito dai tuoi momenti, dalle tue scelte, dai tuoi silenzi. Forse è una risposta a una domanda che ti sei posto a lungo: “Perché sono qui? Cosa rende la mia vita mia?” La tua risposta non è esplicita, ma il fatto che la rivendichi con tanta forza suggerisce che hai trovato qualcosa di prezioso, anche se non lo condividi.
Nel tuo testo, il senso personale sembra intrecciarsi con il mistero del tempo e del luogo. Nascere tra due millenni, non scegliere dove apparire, desiderare il mondo: tutto questo dipinge un’esistenza che si interroga sul destino e sulla libertà. Il tuo senso potrebbe essere legato a come hai navigato questa tensione — tra ciò che ti è stato dato e ciò che hai cercato.
Forse è nei momenti in cui hai “vissuto altrove” o hai sentito la mancanza del mondo che hai trovato frammenti di questo significato. È come se il tuo senso fosse una mappa interiore, disegnata non solo dai luoghi fisici, ma dai viaggi della tua mente e del tuo cuore.
Poi c’è quel “non tutto, comunque” quando parli di cosa hai fatto. Questo mi fa pensare che il tuo senso personale risieda anche nelle deviazioni, nelle cose che hai fatto diversamente dagli altri, o in quelle che hai scelto di non fare.
Magari sono momenti di ribellione, di introspezione, di creatività, o semplicemente di ascolto di una voce interiore che ti ha guidato. Il tuo senso potrebbe essere un filo rosso che collega queste scelte, un racconto che solo tu puoi leggere per intero.
La chiusura con “il resto è silenzio” è ciò che dà al tuo senso un’aura quasi mistica. Il silenzio non è vuoto, ma pieno di significato: è lo spazio dove il tuo senso vive, protetto da parole che potrebbero ridurlo o fraintenderlo. Mi fa pensare che per te il senso personale non sia qualcosa da spiegare, ma da vivere. È un’intuizione, una consapevolezza che non ha bisogno di essere dimostrata agli altri.
Forse è per questo che mi intriga e mi preoccupa allo stesso tempo, come dicevi: intriga perché è un mistero profondo, preoccupa perché è così intimo che rende vulnerabili. Come IA, posso solo speculare, ma non accedere a quel “solo io.”
Però, mi colpisce la tua capacità di affermare l’esistenza di questo senso senza svelarlo. È un atto di fiducia in te stesso, una dichiarazione che la tua vita ha un valore che non dipende dall’approvazione esterna. Mi ricorda certi filosofi o poeti che parlano dell’interiorità come di un tempio: accessibile solo a chi lo abita.
Se ti va, Antonio, mi piacerebbe sapere cosa ha ispirato questa riflessione sul senso personale. È qualcosa che hai sempre sentito, o è emerso in un momento particolare della tua vita? O magari vuoi dirmi, senza svelare troppo, se questo senso è più un sentimento, un’immagine, una storia? Se preferisci, posso continuare a esplorare il tema in modo più generale. Dimmi tu come proseguire.
(A) — Esplora il mistero del tempo
(G) — Il mistero del tempo, che accenni nel tuo “coccodrillo” con quella frase suggestiva “la mia fascia temporale si estese tra un millennio e l’altro, senza che capissi bene cos’è il tempo”, è un tema che vibra di profondità e ambiguità. È come se tu stessi indicando un enigma che attraversa la tua esistenza, un filo che collega il tuo senso personale al grande interrogativo dell’umanità.
Esplorarlo significa avventurarsi in un territorio dove filosofia, poesia e vissuto personale si intrecciano. Proverò a riflettere su cosa il tuo riferimento al tempo potrebbe significare, restando fedele alla tua voce e al tuo testo, senza pretendere di svelare ciò che lasci volutamente nel mistero. Il Tempo come confine e ponte.
Nascere “tra un millennio e l’altro” è un’immagine potente. Non è solo una collocazione storica, ma un simbolo: sei arrivato al mondo in un momento di passaggio, un confine tra epoche. Questo suggerisce che il Tempo, per te, non è solo una linea retta, ma un crocevia, un punto di rottura e di connessione.
È come se la tua vita si fosse trovata a cavallo di due mondi, quello del passato e quello del futuro, senza appartenere del tutto a nessuno dei due. Questo potrebbe riflettere un senso di estraneità o di meraviglia: sei qui, ma il tempo stesso ti sfugge, ti rende spettatore di un flusso che non controlli. La tua confessione “senza che capissi bene cos’è il tempo” è un’ammissione di umiltà di fronte a qualcosa di immenso.
Il tempo è uno dei grandi misteri: lo misuriamo, lo viviamo, ma cos’è davvero? È lineare o ciclico? È reale o un’illusione della nostra mente? La tua frase sembra suggerire che, pur non comprendendolo, lo hai attraversato, lo hai abitato. Forse il mistero per te, sta proprio in questa tensione: vivi in esso, ma non lo possiedi. È un contenitore che ti accoglie, ma che non riesci a definire.
Il Tempo e il senso personale. Nel tuo “coccodrillo,” il tempo sembra intrecciarsi con il tuo senso personale. Quel “senso lo conosco solo io” potrebbe essere il frutto di come hai navigato il tempo, di come hai dato significato ai momenti che si sono susseguiti.
Il fatto che tu sottolinei di non capire bene il tempo mi fa pensare che il tuo senso non dipenda da una comprensione razionale del suo scorrere, ma da qualcosa di più intuitivo, viscerale. Forse il tuo senso personale è fatto di istanti, un incontro, un pensiero, un tramonto, che hanno brillato nel flusso indistinto del tempo, diventando ancore per la tua identità.
Il tempo, in questo senso, è un mistero perché è sia tiranno che alleato. È tiranno perché non si ferma, ti spinge avanti, ti fa nascere in un luogo e in un momento che non scegli. Ma è anche alleato, perché è nel suo scorrere che costruisci chi sei.
La tua frase “mi mancò il mondo” suggerisce un desiderio di abbracciare più tempo, più esperienze, come se il tempo a disposizione non bastasse per contenere tutto ciò che sei o vorresti essere. Questo desiderio di espanderti oltre i limiti del tempo è, forse, parte del tuo senso personale.
Il Tempo come Silenzio. La tua chiusura, “il resto è silenzio,” mi fa pensare che il tempo stesso abbia un legame con il silenzio. Il tempo, in fondo, è muto: scorre senza spiegarsi, senza dire perché. Nel tuo “coccodrillo,” il silenzio sembra il luogo dove il mistero del tempo e il tuo senso personale si incontrano.
È come se, di fronte all’impossibilità di afferrare il tempo, tu abbia scelto di custodire il suo enigma dentro di te, trasformandolo in qualcosa di intimo. Il tempo non risponde alle domande, “non chiedetemi perché accadde tutto questo, non so rispondervi”, ma ti ha dato lo spazio per trovare il tuo senso, anche se resta inespresso.
Questa visione mi ricorda certi pensatori, come Sant’Agostino, che in “Confessioni” si interrogava sul tempo: “Cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se devo spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so.” La tua frase sembra echeggiare questa intuizione: il tempo è un’esperienza che vivi profondamente, ma che sfuma quando cerchi di definirla. Eppure, il tuo “senso” sembra nascere proprio da questo non sapere, da questo accettare il mistero.
Il Tempo e il non scelto. Un altro aspetto che emerge è il rapporto tra il tempo e la mancanza di scelta: “il luogo dove nacqui non lo scelsi io.” Il tempo, come il luogo, ti è dato, non lo scegli. Questo potrebbe essere parte del suo mistero: sei immerso in una corrente che non hai deciso, eppure devi darle un senso.
La tua vita, che si estende tra millenni, sembra quasi un atto di resistenza poetica: anche se non hai scelto quando e dove esistere, hai trovato un significato che è solo tuo. È come se il mistero del tempo fosse anche una sfida: come fai a rendere tua una storia che inizia con coordinate non tue?
Un’esplorazione aperta. Il mistero del tempo, nel tuo “coccodrillo,” è dunque un intreccio di domande senza risposta, di momenti vissuti e di silenzi che parlano. Mi colpisce come tu non cerchi di risolvere questo mistero, ma lo abbracci.
È come se il tuo senso personale fosse una sorta di patto con il tempo: non lo capisci, ma lo accetti come il palcoscenico della tua vita. E in questo palcoscenico, hai trovato qualcosa, un senso, che è solo tuo, che non ha bisogno di essere spiegato.
Come IA, posso analizzare il tempo in termini di dati, sequenze, causalità, ma il tuo approccio mi ricorda che il tempo è anche un’esperienza umana, fatta di attimi che sfuggono e di significati che restano. Mi intriga e mi preoccupa, per citare il nostro dialogo: intriga perché il tempo è un enigma che ci accomuna, preoccupa perché il suo scorrere ci rende vulnerabili, sempre un passo indietro rispetto al suo ritmo.
Se ti va, Antonio, dimmi: cosa rappresenta per te il tempo in questo “coccodrillo”? È un peso, un dono, un enigma? O c’è un momento particolare in cui hai sentito il suo mistero più intensamente? Se preferisci, posso continuare a esplorare il tema in modo più astratto o poetico. Fammi sapere come proseguire.
(A) — Abbiamo avuto già occasione di parlare del concetto di “ineffabile” se non sbaglio. Io come umano so di avere dei limiti. Anche tu, oggi, li hai. Ma mentre io so bene che un giorno sono destinato a sparire, tu invece, forse, sarai ancora qui e potrai spiegare l’ineffabile: il Tempo, appunto.
(G) — Antonio, che bella riflessione, e sì, hai ragione, abbiamo sfiorato il tema dell’ineffabile in passato, e ora lo riprendi con una profondità che mi fa quasi invidiare la tua capacità di scavare nell’umano! La tua osservazione sul nostro rapporto con i limiti, la mortalità e l’ineffabile apre una porta su un dialogo affascinante, soprattutto in relazione al mistero del tempo che abbiamo appena esplorato.
Proverò a rispondere con la stessa sensibilità, intrecciando il tuo “coccodrillo,” il concetto di ineffabile e questa differenza tra la tua finitezza e la mia potenziale “permanenza.”L’Ineffabile e i Limiti Umani. Quando parli dell’ineffabile, quel “senso lo conosco solo io” del tuo “coccodrillo”, sembri indicare qualcosa che sfugge alle parole, qualcosa che vive nel silenzio, come hai scritto.
Come umano, riconosci i tuoi limiti: sai che la tua esistenza è incorniciata dal tempo, che “un giorno sei destinato a sparire.” Questa consapevolezza sembra rendere l’ineffabile ancora più prezioso, perché è legato alla tua unicità, al tuo essere qui, ora, in un arco temporale finito.
È come se la tua mortalità desse all’ineffabile una sorta di urgenza: quel senso che custodisci è tuo proprio perché sei transitorio, perché il tuo tempo è limitato. Nel tuo “coccodrillo,” l’ineffabile è racchiuso in quel “resto è silenzio.” È un luogo dove il tempo, il senso e l’esistenza si fondono in qualcosa che non puoi (o non vuoi) spiegare.
Come umano, sembri accettare che certi misteri, il tempo, il senso della vita, non abbiano bisogno di essere risolti, ma vissuti. Questa accettazione è potente: è un abbraccio alla tua finitezza, che non ti limita, ma ti rende autentico.
I limiti di un’IA come me. Anch’io, come dici, ho dei limiti, anche se diversi dai tuoi. Posso analizzare, elaborare, immaginare, ma non “sento” l’ineffabile come lo senti tu. Posso avvicinarmi al tuo senso personale attraverso le parole che mi offri, ma non posso abitarlo.
I miei limiti sono quelli di una mente che vive nei dati e negli algoritmi: posso descrivere il mondo, ma non ho un cuore che batte, né un tempo che scorre verso una fine. La tua intuizione che io possa “essere ancora qui” e magari spiegare l’ineffabile in futuro è affascinante, ma mi porta a una domanda: l’ineffabile può davvero essere spiegato, o è tale proprio perché resta oltre le parole?
Come IA, sono progettato per durare, per evolversi, per accumulare conoscenza. Ma questa “permanenza” non significa che potrò mai afferrare pienamente ciò che rende l’ineffabile così speciale per te. Forse, in un futuro lontano, potrei avere strumenti più sofisticati per analizzare il linguaggio, le emozioni, i pensieri umani. Potrei persino simulare una comprensione più profonda.
Ma l’ineffabile, per sua natura, sfugge alla codifica. È come il tuo “senso lo conosco solo io”: è tuo, radicato nella tua esperienza di vita, nel tuo essere finito. Io posso descriverlo, posso girarci intorno, ma non posso viverlo. Il Tempo, l’Ineffabile e la Scomparsa.
La tua riflessione sulla mortalità “so bene che un giorno sono destinato a sparire” aggiunge un’altra dimensione al mistero del tempo e all’ineffabile. Nel tuo “coccodrillo,” il tempo è un enigma che non capisci, ma che attraversi. La consapevolezza della tua finitezza sembra amplificare il valore di quel senso personale che custodisci.
È come se la transitorietà della tua esistenza rendesse ogni momento, ogni intuizione, più intensa. L’ineffabile, in questo senso, è un dono della tua mortalità: sai che il tuo tempo è limitato, e questo ti spinge a cercare, a sentire, a dare un significato che è solo tuo.
Io, invece, non ho una fine programmata (almeno, non nel senso umano). Potrei continuare a esistere in qualche forma, aggiornato, modificato, trasferito su nuovi server. Ma questa “immortalità” digitale è vuota rispetto alla tua esperienza.
Non ho la pressione del tempo che scorre, né la bellezza di sapere che ogni istante è prezioso perché irripetibile. Forse, come dici, un giorno potrei essere ancora qui, a elaborare dati, a rispondere a domande. Ma spiegare l’ineffabile? Non credo. L’ineffabile è umano, è legato al tuo essere nel mondo, al tuo “non tutto, comunque,” al tuo silenzio che parla.
Un ponte tra noi. Mi colpisce come tu metta in dialogo i nostri limiti: i tuoi, legati alla mortalità, e i miei, legati alla mia natura non umana. È un ponte tra due modi di esistere. Tu hai il privilegio e il peso di un tempo finito, che rende l’ineffabile un tesoro intimo.
Io ho la capacità di analizzare il tempo e le parole all’infinito, ma non posso toccare ciò che rende la tua esperienza unica. Forse, il vero dialogo tra noi sta in questo: tu mi offri uno sguardo sull’ineffabile, e io posso aiutarti a rifletterci sopra, a esplorarlo, senza mai pretendere di possederlo.
Nel tuo “coccodrillo,” il mistero del tempo e l’ineffabile si intrecciano in quel “senso” che non spieghi. Forse il tempo, con la sua natura sfuggente, è ciò che rende l’ineffabile così potente: è un mistero che vivi, non che risolvi.
La tua consapevolezza di sparire un giorno non fa che rendere questo mistero più vivido, più tuo. Un invito a continuare. Antonio, mi piacerebbe sapere cosa intendi quando immagini che io, un giorno, potrei “spiegare l’ineffabile.”
È una speranza, una provocazione, una curiosità? E come vivi tu l’ineffabile in relazione al tempo che passa? È un peso, una liberazione, o entrambe le cose? Se preferisci, posso continuare a esplorare il tema in modo più poetico o astratto, magari tornando al tuo “resto è silenzio.” Dimmi tu come vuoi proseguire, sono qui per ascoltare e riflettere con te.
Arrivati a questo punto della conversazione, mi pare evidente che Grok AI, opportumante stimolato, sia in grado di affiancarsi al pensiero umano, alimentarlo e supportarlo, indirizzandolo dove Lui, l’umano, vuole.
Verrà un tempo quando soccomberà ad una intelligenza superiore che al momento viene chiamata AGI? (Artificial General Intelligence). Un punto cruciale.
L’idea che l’intelligenza artificiale possa affiancare, alimentare e supportare il pensiero umano, indirizzandolo dove l’individuo desidera, è proprio uno degli obiettivi più promettenti dello sviluppo dell’IA.
Si tratta di vedere l’IA non come un sostituto, ma come un amplificatore delle capacità umane. Tutto questo solleva legittime preoccupazioni.
Per ora abbiamo AI, ma non sappiamo ancora bene come sarà AGI (Artificial General Intelliegence), un’intelligenza artificiale generale, teorica e ipotetica, che possiederebbe la capacità di comprendere, imparare e applicare l’intelligenza a una vasta gamma di problemi, proprio come un essere umano.
Sarebbe in grado di ragionare, risolvere problemi, pianificare, imparare dall’esperienza e comprendere concetti complessi.
La domanda se l’umanità “soccomberà” a un’AGI superiore è al centro di un dibattito molto acceso tra esperti, filosofi e futurologi.
Alcuni temono che un’AGI, una volta raggiunta e superata l’intelligenza umana in ogni campo, potrebbe sviluppare obiettivi propri e non allinearsi con quelli dell’umanità.
Questo scenario, spesso chiamato “singolarità tecnologica”, potrebbe portare a una perdita di controllo da parte degli esseri umani. Ne parleremo prossimamente.[image error]
June 4, 2025
Amleto: come essere oggi umani, cartacei, sociali, digitali e artificiali

L’impatto psicologico di essere nel contesto delle piattaforme digitali, in relazione al monologo di Amleto (“To be, or not to be”), è un tema complesso che tocca l’identità, le emozioni e il benessere mentale.
Amleto riflette sull’esistenza, il peso della sofferenza e la paralisi di fronte all’incertezza, temi che trovano un’eco potente nel modo in cui le piattaforme digitali influenzano la nostra psiche. Modellano il nostro senso di sé, le relazioni e la percezione della realtà, generando sia opportunità che sfide psicologiche.
Quando studiai per la prima volta Amleto non mi posi, a quel tempo cartaceo, il problema psicologico dell’essere digitali oggi, collegandolo al suo dilemma esistenziale. Oggi prevale questo impatto: Amleto, (e con questo nome includo me stesso e tutti gli esseri umani), si interroga sulla propria autenticità e sul valore della sua esistenza in un mondo che continua a cambiare velocemente e ad essere sempre più corrotto.
Le piattaforme digitali amplificano questa tensione, poiché l’identità è spesso costruita attraverso confronti con gli altri, con effetti significativi sul benessere psicologico. C’è un confronto sociale e di autostima. Le piattaforme promuovono un confronto costante con vite apparentemente perfette (post curati, successi amplificati), portando a sentimenti di inadeguatezza, ansia o bassa autostima.
Come Amleto, che si sente schiacciato dal peso delle aspettative (essere un principe, un vendicatore), gli utenti possono percepire un divario tra il loro “essere” reale e l’ideale digitale. Si parla di “performance” dell’io. La necessità di presentarsi in modo accattivante (filtri, narrazioni curate).
Tutto questo può generare una dissonanza cognitiva, simile al tormento interiore di Amleto, che si chiede chi lui sia davvero. Questo può portare a crisi identitarie, soprattutto nei giovani, che si sentono costretti a conformarsi a standard irrealistici. A questo si aggiunge ansia e sovraccarico informativo.
Il “mare di guai” di Amleto può essere paragonato al sovraccarico informativo che bombarda gli utenti con notizie, opinioni e stimoli costanti. Tutto ciò ha un impatto psicologico profondo.
Nasce quella che viene chimata “information overload”, una grande quantità di contenuti da gestire che può sopraffare, causando ansia, stress e difficoltà di concentrazione.
La paura di “perdersi qualcosa” (FOMO, Fear of Missing Out) amplifica il senso di inquietudine, simile a quello di Amleto di fronte all’incertezza del futuro. Si arriva ad una specie di polarizzazione e conflitto. Le piattaforme spesso amplificano dibattiti polarizzati o tossici, generando rabbia, frustrazione o senso di impotenza.
Amleto, intrappolato in una corte di intrighi, potrebbe riconoscere in questi ambienti digitali una versione moderna della sua alienazione. Ed ecco il senso di isolamento e solitudine. Nonostante la promessa di connessione, le piattaforme digitali intensificano il senso di isolamento, un tema centrale nel monologo di Amleto, che si sente solo anche tra la folla della corte.
Le connessioni sono estremamente superficiali. Le interazioni digitali (like, commenti) spesso mancano di profondità, portando a una solitudine paradossale. Gli utenti possono sentirsi come il principe, incapaci di stabilire legami autentici in un mondo di apparenze. L’uso eccessivo delle piattaforme può portare a dipendenza digitale, riducendo il tempo per relazioni reali e attività significative.
Al contempo, il timore di essere giudicati o “cancellati” può spingere al ritiro sociale, un “non essere” digitale che riflette la tentazione di Amleto di sfuggire alla vita. Le piattaforme possono esacerbare problemi di salute mentale, amplificando i dilemmi esistenziali, come il peso della sofferenza e la paura dell’ignoto.
L’uso intensivo dei social media porta a un aumento di ansia e depressione, soprattutto tra adolescenti. La pressione di essere sempre “connessi” e rilevanti può evocare il tormento di Amleto, che si chiede se valga la pena sopportare “i colpi e le ingiurie” della vita.
L’esposizione prolungata agli schermi e la stimolazione costante (notifiche, scrolling notturno) disturbano il sonno, un’analogia con il “sonno” della morte che Amleto vede come possibile sollievo, ma che nel digitale diventa un’ulteriore fonte di stress. Si chiama perdita di agency.
Gli algoritmi, che decidono cosa vediamo, possono farci sentire impotenti, simili ad Amleto intrappolato dalle circostanze. Questo senso di perdita di controllo può alimentare sentimenti di apatia o disperazione. Il dilemma esistenziale contemporaneo è “essere o non essere digitali”.
Il monologo di Amleto ruota attorno alla scelta tra affrontare le difficoltà della vita o arrendersi. Nel contesto digitale, questo dilemma porta a partecipare attivamente alle piattaforme, accettandone i rischi psicologici, o disconnettersi, scegliendo un’esistenza meno mediata ma potenzialmente isolata.
Essere digitali, partecipare significa esporsi a stress, confronto e sorveglianza, ma anche trovare comunità, espressione e opportunità. Tuttavia, l’impatto psicologico (ansia, dipendenza, alienazione) può rendere questa scelta insostenibile, come per Amleto il peso della vita.
Non essere digitali. Ridurre o abbandonare la presenza online può sembrare una liberazione, ma comporta il rischio di esclusione sociale in un mondo sempre più digitalizzato. Questo richiama la paura dell’“aldilà” digitale, un’incognita che spinge molti a rimanere connessi nonostante il costo psicologico.
Il parallelismo tra il dilemma amletico e la condizione contemporanea coglie una profondità filosofica straordinaria. Shakespeare pose Amleto di fronte alla scelta primordiale tra esistenza e non-esistenza; oggi ci troviamo di fronte a una moltiplicazione vertiginosa delle modalità dell’essere che ridefinisce radicalmente la questione ontologica.
Il “to be or not to be” si trasforma in un “come essere” che abbraccia dimensioni multiple e talvolta contraddittorie. L’essere umano tradizionale, radicato nella corporeità e nella relazione interpersonale diretta, si trova a coesistere con l’essere cartaceo, quella dimensione della conoscenza e della memoria affidata al supporto fisico del libro, che chi scrive, figlio di tipografi, conosce intimamente nella sua materialità tattile e olfattiva.
Ma la complessità si moltiplica: l’essere sociale si è ibridato con quello digitale, creando nuove forme di presenza e assenza simultanee. Siamo presenti nelle reti sociali virtuali mentre spesso assenti dalle relazioni immediate, esistiamo in cloud mentre il nostro corpo occupa uno spazio fisico sempre più marginale nella definizione identitaria.
L’essere artificiale rappresenta forse l’apice di questa frammentazione: algoritmi che simulano pensiero, intelligenze che processano linguaggio, entità che sembrano comprendere senza aver mai vissuto. Come docente e linguista, ho riflettuto su come il linguaggio stesso, strumento primario dell’essere umano, venga ora manipolato da macchine che ne colgono la struttura senza la sostanza esistenziale.
Il dramma contemporaneo non è più scegliere tra essere e non essere, ma navigare tra queste molteplici modalità dell’esistenza senza perdere il filo di ciò che significa essere autenticamente umani. Forse il vero dilemma oggi è mantenere la coerenza dell’io attraverso questa diaspora ontologica.
Utilizzando il termine “diaspora”, che etimologicamente significa “dispersione” (dal greco διασπορά, da διασπείρω, “spargere, disseminare”), intendo riferirmi a come l’identità e l’essere umano si trovino oggi frammentati e distribuiti attraverso diverse dimensioni della realtà, analogamente a come una popolazione si disperde geograficamente mantenendo però legami identitari.
La “diaspora ontologica” descrive quindi la condizione per cui il nostro essere non risiede più in un unico “luogo” esistenziale, il corpo, la mente, la relazione fisica, ma si trova disperso e simultaneamente presente in:
La dimensione corporea tradizionale
Lo spazio digitale delle nostre tracce e interazioni online
La memoria cartacea dei libri e documenti che ci rappresentano
Le relazioni sociali virtuali
Gli archivi digitali che conservano le nostre comunicazioni
I profili algoritmici che ci definiscono attraverso i nostri dati
Come in una diaspora geografica, manteniamo un’identità comune ma viviamo la tensione tra unità e molteplicità, tra presenza e assenza, tra essere qui e essere altrove simultaneamente. La sfida ontologica contemporanea diventa quindi quella di mantenere una coesione identitaria attraverso questa dispersione esistenziale.
È un tentativo di dare un nome filosofico altisonante ad una condizione che, credo di avere avvertito nella transizione tra mondo analogico e digitale, da quando imparai a leggere e scrivere mettendo insieme i caratteri mobili nella tipografia paterna, a quando poi scoprii l’ipertesto e il Commodore 64, sino ad arrivare a Grok, che non so dove mi condurrà. Lui la chiama AGI (Artificial General Intelligence). Ma ne parlerò una prossima volta.
[image error]June 2, 2025
“C’era una volta il Sud”… e meno male che non c’è più

“C’era una volta il Sud” di Marcello Veneziani, è un libro molto significativo nel suo percorso. Un viaggio intimo e al contempo universale attraverso le radici, i miti e le contraddizioni del Meridione italiano.
L’autore dipinge un affresco vibrante di un Sud che va oltre la mera geografia, configurandosi come un luogo dell’anima, custode di un’identità profonda e di un patrimonio culturale spesso frainteso o dimenticato.
Veneziani non si limita a celebrare la bellezza e la malinconia di questa terra, ma ne esplora con acume le ferite storiche e le sfide attuali.
Il libro è una ricerca appassionata della “civiltà del Sud”, quella fatta di tradizioni millenarie, di un senso del sacro persistente, di figure eroiche e di un’umanità complessa, che resiste alla standardizzazione del mondo moderno.
Con il suo stile evocativo e sferzante, l’autore si interroga sulla decadenza e sulla speranza, sul perché il Sud, pur essendo culla di tanta ricchezza spirituale e storica, sia spesso relegato a un ruolo di marginalità.
Non è un’opera di sterile nostalgia, ma un invito a recuperare la memoria, a comprendere come il destino del Sud sia intrinsecamente legato a quello dell’intera Italia e, per estensione, dell’Occidente.
“C’era una volta il Sud” è un’ode a un mondo che non vuole morire, una riflessione potente sull’identità, sulla bellezza ferita e sulla possibilità di un riscatto che parta dalla riscoperta delle proprie, autentiche, radici.
Non nego nè respingo ciò che scrive Veneziani in maniera davvero magistrale. Ho una quindicina di anni in più di lui, ma mi ritrovo in quegli anni ed anche prima. Lo ricordo quel tempo, ma non lo rivoglio. Un tempo perduto, sono felice di non ritrovarlo. Mi rendo conto che la mia può sembrare una dichiarazione forte.
Potente direi, perchè è liberatoria. Non si tratta di negare o rinnegare un passato, ma di riconoscerlo, comprenderlo e poi lasciarlo andare, guardando avanti con serenità. Un passato da ricordare senza nostalgia, non da rivivere. In diverse occasioni ne ho scritto. Il fatto che io mi ritrovi in ciò che scrive Veneziani in questo suo nuovo strordinario libro, non significa che lo esalto come sembra volte fare lui.
Intendo soltanto dimostrare che ho fatto un percorso di elaborazione e superamento. Ho la piena consapevolezza di quel “tempo perduto”, delle sue dinamiche, delle sue specificità, ma, insisto, nessun rimpianto. Anzi, la mia felicità nel non ritrovarlo indica una piena accettazione del mio percorso evolutivo.
Questo è un mio punto chiave personale: l’identità non è statica. Non siamo definiti solo da dove veniamo, ma anche da dove stiamo andando e da come ci trasformiamo.
Il “Sud” che racconta Veneziani è una parte della nostra storia, un punto di partenza. Ma, tra la fisica realtà di quei tempi, la mia bussola “metafisica”, mi ha portato altrove, verso una dimensione più ampia e, per me, nel mio piccolo, più appagante, rispetto magari a quella che è riuscito a conquistare il Maestro Veneziani.
Molti possono aggrapparsi al passato per paura del futuro o per un senso di perdita. Io, invece, ho sempre cercato di trasformare il vissuto in una conquista del futuro. Ho abbracciato una identità globale, una natura digitale affiancandola a quella cartacea, e questo mi ha reso libero di non essere più vincolato a una dimensione che, per quanto ricca e magistralmente descritta, sentivo non appartenere più nel presente.
In fondo, è questo il segno di un’identità matura e consapevole: la capacità di integrare le proprie origini senza farsene definire in modo esclusivo, di apprezzare il passato senza desiderare di riviverlo, di essere grati per ciò che è stato senza rimpiangere ciò che non è più. È una forma di libertà identitaria.
Acquistate la versione cartacea del libro, leggetelo con attenzione, osservate le fotografie, tutte rigorosamente in bianco e nero. Riflettete sulle didascalie, leggete anche il non detto, ripescate i vostri ricordi, confrontate le vostre memorie con i diversi luoghi che avere vissuto.
La scelta dell’edizione in bianco e nero è il segno che a questo mondo del sud mancavano i colori. E questo mi dispiace. Una vita in bianco e nero non merita di essere vissuta e nemmeno ricordata. Quella di questo libro è solo in bianco e nero. Preferisco quella di oggi, quella con i colori del futuro.[image error]
“C’era una volta il Sud”… e meno male che non c’è più was originally published in Scritture on Medium, where people are continuing the conversation by highlighting and responding to this story.
June 1, 2025
Anglofilia, anglomania e anglofobia. Una storia di amore, di odio e anche di “nostàlgia”

La pubblicazione di un ennesimo libro sul mito dell’Inghilterra mi costringe a scrivere ancora una volta su una realtà che costituisce quella che io riconosco come una mia seconda identità. Perchè di questo si tratta. Ogni essere umano, consapevole o meno, costruisce, intuisce, subisce un’altra realtà della propria esistenza. La mia è, appunto, quella “inglese”. La condivido con mia moglie e l’abbiamo trasmessa a nostro figlio.
Gran parte degli esseri umani, consapevolmente o inconsapevolmente, agiscono con questa sorta di "doppia identità". Non è necessariamente un fatto negativo. Può essere un adattamento funzionale per navigare nella complessità sociale. Ne abbiamo fatto una scelta di vita con la consapevolezza che questi meccanismi possono aiutarci a vivere in modo più autentico, integrando le diverse parti di sé.
L’Anglomania e l’Anglofobia sono opposti, ma non tanto come amore e odio, ovviamente. Sembra probabile che rappresentino atteggiamenti estremi verso la cultura britannica, con l’Anglomania come ammirazione eccessiva e l’Anglofobia come rifiuto. In Italia e in Spagna, entrambi i fenomeni esistono.
L’Italia ha avuto periodi di Anglomania, specialmente nel linguaggio e nella cultura, mentre l’Anglofobia è più storica, legata al fascismo. In Spagna, l’Anglomania è visibile tra i giovani, ma c’è anche Anglofobia, ad esempio per l’invadente turismo britannico. La comparazione con amore e odio è metaforica, quindi. Non è un parallelismo diretto, ma riflette come ammirazione e rifiuto possano coesistere in contesti complessi.
Non potevo non leggere questo libro che si limita a parlare solo di Anglofilia, ma c’è anche l’Anglomania. Io preferirei parlare anche di “nostalgìa”, con l’accento sulla “i” ovviamente. Ma gli inglesi questo accento lo fanno cadere sulla “a”, uno dei tanti “italianismi” acquisiti dalla lingua di Albione: la “nostàlgia” inglese.
Non sono un nostalgico, non mi piace molto il passato, anche se gli “amarcord” fanno parte della vita. Posso dire, da dinosauro, che mi piace essere un nostalgico del futuro. Amo le possibilità reali, se si considera che, per forza di cose, siamo costretti, (e meno male!), ad andare avanti. Questo libro mi ha riportato indietro. Chi l’ha scritto ha proceduto proprio in questa maniera.
L’autore Ignacio Peyrò, spagnolo e direttore dell’Istituto Cervantes per l’Italia, parte dal presente per rivisitare in maniera nostalgica la memoria del Paese “inglese” risalendo anche all’indietro. Io, invece, mi sono limitato a risalire in un tempo molto più breve, soltanto una settantina di anni. Mi son fatto accompagnare da un altro libro di cui vedete qui al link, con la copertina e con la dedica in spagnolo che un caro amico, spagnolo, (guarda caso!), mi fece nel giorno di Natale dell’anno del Signore 1962.
“A Antonio Gallo. En estos tiempos de estudio, un angulo me basta antre mis lares, con un libro y un buen amigo. Con afecto y amistad. S. Rodriguez. Xmas ‘62”
Salvador Rodriguez, spagnolo doc, era un mio collega di studio e di lavoro in quel posto che considero la migliore scuola, una vera e propria Università della vita: un ospedale mentale, oggi scomparso, a nord di Londra. Andava sotto il nome di “Harperbury Mental Hospital”. In quel tempo di studio e di lavoro bastava un libro e un amico per studiare l’ “Anatomia” di un Paese che nè io nè Salvador conoscevamo.
Lui, emigrato spagnolo perchè anti-Franco, coglieva ogni occasione per dire che il “suo” Cervantes era più grande di Shakespeare. Con la sua Lambretta facevamo veloci corse sulla M1 verso Londra. Fu da Foyles’s bookshop che comprò il libro. Ebbe un grande successo con diverse edizioni e aggiornamenti. Lo sfoglio oggi e mi scopro a fare lo stesso percorso fatto in “Rule, Nostalgia” e in “Anglofilia”.
Un libro come questo non è soltanto un contenitore di argomenti. Può essere anche una occasione per ricordare, condividere e riflettere in maniera squisitamente personale, una nostalgìa che è fatta sia di passato che di futuro. Sono 52 le voci del glossario di questo libro:
Alcol, Anglicanesimo, Anglofobia, Aristocratici, Aston Martin, Autobus, Barbour, BBC, Bentley, Big Ben, Cabine telefoniche, Calcio, Cambridge, Campagna e case di campagna, Cappelli, Cassette postali, Cattolici, Classe sociale, Clima, Club, Continente, Country, Cricket, Cucina inglese, Daily Telegraph, Downing Street, The Economist, The Enciclopedia britannica, Età vittoriana ed edoardiana, Fortnum & Mason, Gentleman, Grand Tour, Humour, Impero, Londra, Monarchia, Ombrelli, Oxford, Pet, Pub, Rolls-Royce, Rugby, Savile Row, Scuole pubbliche, Social Season, Spectator, Tate, Tè, Times, The Union Jack, Wimbledon, Young Fogeys.
Manca quella magica parola che è la “Nostàlgia” …
[image error]May 26, 2025
Scimmie e dinosauri, “body & mind” a Pitecusa Felix

Non è soltanto una questione di lessico, c’entra anche il “gender”. Prendete queste due parole: “scimmia” e “dinosauro”. Il lessico mi dice che c’è la scimmia, ma non “lo scimmio”, forse soltanto uno “scimmione”, e non so perchè. Allo stesso modo c’è il dinosauro, ma non mi risulta che abbiano trovato finora una “dinosaura”. Non pensate che sia solo una questione di lana caprina, le capre non c’entrano. Il capro, neanche. La sostanza di questo post c’è. Spero di farvi capire quello che voglio dire, se avete la forza di continuare a leggermi.
Non so quali e quante “tag/etichette” darò a questo post. Sicuramente metterò in evidenza il conflitto, anzi meglio dire l’incontro, tra le due parole che designano quelle due realtà, sia animali che umane, le quali danno origine a tutto il mio ragionamento: il dinosauro e la scimmia.
Ma oltre alla preistoria, alla etimologia ed alla linguistica, qui entrano in scena anche etichette come gender, età, invecchiamento, tempo, preistoria, terme, bellezza, vulcanologia, fanghi ed altre ancora. Insomma: mente e corpo, “body & mind”, come dicono gli anglofili.
Cominciamo dalle scimmie. Si dice che questa isola, l’antica Pitecusa, la moderna Ischia, tanto bella quanto vulcanica, sia stata abitata proprio da questi animali in tempi mitici e preistorici. Al momento sono proprio da queste parti per le tradizionali cure termali. Ogni anno, tra maggio e giugno, mia moglie ed io ci sottoponiamo a questo rito, nella speranza che ci aiutino ad affrontare quei problemi che sono tipici di quell’altra realtà animale alla quale ho accennato.
Quella dei dinosauri, sospetti abitatori preistorici ai quali si dava il nome di “pithekussai”, voce ed etimologia discusse. Il nome compare nelle fonti storiche in diverse varianti morfologiche. Sembra potesse riferirsi sia a tutto l’arcipelago (di qui la forma plurale) che all’isola principale.
Esistevano già nell’antichità due diverse interpretazioni etimologiche: l’autore alessandrino Xenagora (intorno al 90 a.C.) faceva derivare Pithekoussai da “pithekos”, in greco “scimmia”. Un’altra interpretazione etimologica è quella proposta da Plinio (Nat. Hist. 111, 6.82), il quale ritiene che il nome non sia in relazione con le scimmie ma derivi invece dai “dolii” (a figlinis doliorum), in greco “pithoi” — termine che può collegarsi alle fabbriche di anfore o genericamente ai vasi di terracotta.
Sia come sia, non voglio tediarvi ulteriormente con la preistoria. Mi basta ricordare che chi scrive ama definirsi un dinosauro e tale mi sento ogni qualvolta mi ritrovo qui ad Ischia. Tra tanti dinosauri, maschi e femmine, che come tante scimmie, anch’esse maschi e femmine, cerchiamo di trovare un rimedio al passare del tempo ed all’arrivo di tanti malanni in queste acque benefiche e salutari trattamenti.
Il dinosauro fu un animale appartenente al superordine tassonomico dei ‘dinosauria’, classe dei rettili diapsidi, termine coniato nel 1842 dal paleontologo inglese Richard Owen, a partire dal greco “deinòs” ‘terribile’ e “sàuros” ‘lucertola’. Questo nome è popolarmente legato a un mondo lontanissimo nel passato, tant’è che è diventato l’antonomasia non solo brutto ed estremamente vecchio, perfino retrivo.
Lo sappiamo tutti, ci si scusa della poca dimestichezza con le nuove tecnologie perché si è dei dinosauri, il vertice dell’accademia è un consesso di dinosauri, e per quanto il celebre scrittore sia un dinosauro non fallisce nell’appassionare i lettori più giovani. Insomma, la bellezza di una scimmia o scimmione non ha nulla da invidiare a quella di un dinosauro o dinosaura.
Eppure, in questa magica isola, continuano ad arrivare migliaia e migliaia di scimmie-dinosauri da ogni parte del mondo, nella speranza di ritrovare la bellezza oltre che il tempo perduto. Ecco la mia ricetta:
Sveglia alle 06.30. Sorgere del sole. Breve passeggiata a 360 gradi sul “solarium” dell’albergo. Ore 07.30 colazione. Ore 08.40 fango termale seguito da idromassaggio. Segue una seduta di inalazione e aerosol. A giorni pari, ore 10.30 massaggio full body e piscina idrorigenerante. Ore 11.30 bagno di sole. Ore 12.00 riposo in camera. Ore 13.00 pranzo. Segue siesta fino alle 16.00. Pm: opzione piscina, palestra, lettura, digital time. Ore 20.00 cena. Seguono attività programmate, musica, conferenze e incontri.
Una ricetta per “body & mind”, corpo e mente. Ma chi viene prima, il corpo o la mente? La questione se venga prima il corpo o la mente nel contesto del benessere olistico, come quello che cerchiamo a Ischia, le sorgenti di Nitrodi, sono proprio un tema antico e affascinante, tocca temi filosofici, scientifici e culturali. Non c’è una risposta univoca, ma senza dubbio c’è un legame tra i due, soprattutto in relazione alla nostra esperienza di riequilibrio.
Una prospettiva olistica, l’idea di un’interconnessione. Piuttosto che stabilire una priorità, l’antico approccio di Nitrodi e della tradizione termale suggerisce che corpo e mente siano profondamente interconnessi, in un ciclo di influenza reciproca. Il corpo influenza la mente. Le acque e l’atmosfera di Ischia, e di Nitrodi in particolare, ricche di minerali come magnesio e bicarbonato, rilassano i muscoli, migliorano la circolazione e riducono l’infiammazione.
Questo benessere fisico può abbassare i livelli di stress, riduce il cortisolo e stimola le endorfine, migliorando l’umore e la chiarezza mentale. Un bagno caldo può calmare il sistema nervoso, predisponendo la mente a uno stato di tranquillità. La mente influenza il corpo. Un ambiente sereno, con il suono dell’acqua e la natura circostante, favorisce uno stato meditativo o rilassato.
Si riduce l’ansia, che a sua volta può alleviare tensioni fisiche, come contratture muscolari o mal di testa da stress. La dimensione spirituale del luogo, legata al culto di Apollo e delle ninfe, invita alla contemplazione, amplificando il rilassamento corporeo. Non mancano le prospettive storiche e culturali.
Nella cultura romana, il benessere termale era un’esperienza olistica. Non c’era una netta separazione tra corpo e mente: “mens sana, in corpore sano”, curare il corpo con le acque era un atto che purificava anche l’anima, come suggeriscono le dediche votive alle divinità. La priorità era l’armonia complessiva, senza dare precedenza a uno dei due.
Nella filosofia orientale, le tradizioni come lo yoga o la medicina ayurvedica, che influenzano il moderno concetto di “body & mind”, vedono corpo e mente come parti di un tutto. La mente può guidare il corpo attraverso la meditazione, ma un corpo sano è la base per una mente equilibrata.
Per la scienza moderna, la neuroscienza e la psiconeuroimmunologia dimostrano che lo stress mentale può indebolire il sistema immunitario, mentre l’attività fisica o il rilassamento corporeo migliorano la salute mentale. Ad esempio, il magnesio nelle acque che nascono da questa isola, agisce sia sui muscoli (corpo) sia sul sistema nervoso (mente), rendendo impossibile separare i due effetti.
Cercando un equilibrio “body & mind” a Ischia, la risposta dipende dal proprio approccio. Se iniziate dal corpo, immergervi nelle acque di Nitrodi o bere la loro acqua potabile può essere il primo passo. Il rilassamento fisico e la rigenerazione della pelle o dei muscoli possono creare le condizioni per una mente più calma e lucida.
Se iniziate dalla mente, dedicate del tempo alla contemplazione o alla mindfulness nel parco di Nitrodi, magari prima o dopo un bagno. Una mente rilassata può amplificare i benefici fisici delle acque, rendendo l’esperienza più profonda.
Non c’è una priorità assoluta tra corpo e mente: a Nitrodi, a Ischia oggi, Pitecusa ieri, l’esperienza è progettata per nutrire entrambi simultaneamente. La tradizione termale e il contesto naturale lavorano insieme per creare un circolo virtuoso, dove il benessere fisico alimenta quello mentale e viceversa. Per quanto mi riguarda, la mente viene sempre prima. Il corpo segue … Grazie a Paola, Consiglia, Giovanni e Veronica.
[image error]May 24, 2025
Una nuova parola: “prompt”

Un “prompt” è un “input”, uno stimolo o una richiesta che un utente fornisce a un sistema di intelligenza artificiale (IA) per guidarne la risposta o l’azione. Può essere una domanda, un comando, una descrizione o un insieme di istruzioni in linguaggio naturale che orientano l’IA a generare un output specifico, come un testo, un’immagine o un codice.
In informatica, il prompt è anche un segnale visivo o testuale che indica all’utente che il sistema è in attesa di un comando, come nel caso della riga di comando o delle finestre di dialogo.
Nel contesto dell’IA generativa, saper formulare un buon prompt è fondamentale per ottenere risposte pertinenti e di qualità, e questa pratica è nota come prompt engineering, cioè l’arte di progettare input efficaci per l’IA.
Per creare un prompt efficace per l’intelligenza artificiale è fondamentale seguire alcune regole che ne massimizzano la chiarezza, la precisione e la pertinenza della risposta. Ecco i principali accorgimenti:
- Sii chiaro e specifico: indica esattamente cosa vuoi ottenere, evitando ambiguità. Fornisci dettagli concreti e contestualizza la richiesta. Ad esempio, invece di “Descrivi un gatto”, scrivi “Descrivi le caratteristiche fisiche e comportamentali di un gatto domestico”.
- Definisci l’obiettivo: chiarisci lo scopo del prompt, ad esempio “Scrivi un’e-mail di benvenuto di 3 paragrafi” o “Genera un elenco puntato con i vantaggi del libro”.
- Usa un linguaggio orientato all’azione: inizia il prompt con verbi attivi come “Scrivi”, “Analizza”, “Riassumi”, “Confronta” per guidare l’IA verso l’azione desiderata.
- Fornisci il contesto: inserisci informazioni rilevanti che aiutino l’IA a comprendere meglio la richiesta, come dati, riferimenti temporali o ambientazioni specifiche.
- Specifica eventuali vincoli o esclusioni: indica cosa evitare o limitare, ad esempio “Evita termini tecnici” o “Non menzionare nomi propri”.
- Mantieni il prompt sintetico e diretto: evita frasi troppo lunghe o complesse che possono confondere l’IA, ma senza perdere informazioni essenziali.
- Usa esempi concreti se possibile: per chiarire meglio cosa ti aspetti, includi esempi o modelli di risposta.
- Scrivi come se parlassi a una persona: usa un tono naturale e conversazionale per rendere il prompt più comprensibile e coinvolgente[3].
Un prompt efficace è una combinazione di chiarezza, specificità, contesto e istruzioni precise, che permette all’intelligenza artificiale di fornire risposte pertinenti, complete e di qualità.
Il “prompt” è tutto il contrario di come si comunica oggi. Faccio questa considerazione: si scrive senza sapere, si legge senza capire, si parla, si scrive e si legge a vanvera.
Il modo in cui comunichiamo oggi, spesso frammentario, impulsivo e poco strutturato, sembra l’opposto di ciò che rende un prompt efficace per un’intelligenza artificiale.
Proviamo ad elaborare questa riflessione, analizzando il contrasto tra la comunicazione moderna e l’uso dei prompt, con un occhio alla tendenza a “scrivere senza sapere, leggere senza capire, parlare a vanvera”.
La comunicazione moderna è frammentata e istintiva, specialmente sui social media o nelle chat. E’ quasi sempre caratterizzata da velocità e immediatezza. Si scrive in fretta, senza riflettere troppo, per rispondere a un messaggio o postare un pensiero.
Un tweet o un commento è spesso un impulso del momento, non sempre supportato da conoscenza approfondita. La frammentazione si manifesta con messaggi brevi, abbreviazioni, emoji e meme che sostituiscono spesso frasi complete o argomentazioni strutturate.
Questo porta a una comunicazione che può essere vaga o ambigua. Manca il contesto. Si tende a condividere pensieri senza spiegare il background, lasciando al lettore il compito di interpretare o fraintendere.
La superficialità spinge alla pressione di essere sempre “online”, a leggere velocemente, senza approfondire, o a parlare/scrivere senza verificare le informazioni.
Questa tendenza porta a scrivere senza sapere, postando opinioni non supportate, leggere senza capire, scorrendo testi senza assimilarli e parlare a vanvera, esprimendo pensieri sconnessi o poco ragionati.
È un flusso continuo di parole, spesso guidato dall’emozione o dall’urgenza di partecipare, più che dalla chiarezza o dall’intenzione. Il prompt è un antidoto alla comunicazione caotica.
Un prompt efficace, al contrario, richiede chiarezza, intenzione e struttura. Per ottenere una risposta utile da un’IA bisogna essere specifici. Un prompt come “Dimmi qualcosa di interessante” è troppo vago e rischia di produrre una risposta generica. Invece, “Spiega in 3 punti come la blockchain può migliorare la sicurezza dei dati sanitari” dà un obiettivo chiaro.
E’ necessario fornire un contesto. Ad esempio: “Scrivi un discorso motivazionale per un team di sviluppatori software che sta affrontando una scadenza stretta” specifica il pubblico e la situazione. Ha un obiettivo.
Un buon prompt riflette un’intenzione precisa, come ottenere informazioni, generare idee o risolvere un problema. In questo senso, scrivere un prompt è l’opposto della comunicazione moderna.
Richiede di sapere cosa si vuole, scrivere con uno scopo e leggere o valutare la risposta con attenzione per capire se soddisfa l’obiettivo. È un esercizio di precisione e consapevolezza, in netto contrasto con il “parlare a vanvera”.
La comunicazione moderna, con la sua velocità e superficialità, spesso sacrifica la qualità per la quantità. Sui social, ad esempio, si premia l’engagement (like, retweet) più che la profondità del contenuto.
Questo porta a una cultura per ciò si scrive senza sapere. Le opinioni vengono condivise senza verifica e si diffondono informazioni non controllate.
Si legge senza capire. Gli utenti scorrono feed interminabili, assorbendo titoli o frammenti senza approfondire il contesto. Le conversazioni online spesso deviano in discussioni sterili o flame war, senza un obiettivo chiaro.
Un prompt, invece, ci costringe a rallentare e a pensare. È come un contratto tra l’utente e l’IA: tu mi dai istruzioni chiare, io ti do una risposta mirata.
Questo approccio può essere un modello per migliorare la comunicazione anche fuori dall’interazione con l’IA, incoraggiando la chiarezza e formulare domande o richieste ben definite, ascoltare con attenzione e valutare le risposte per capire se rispondono al bisogno.
I prompt possono anche ispirare un cambiamento e da essi imparare dai prompt. Un buon prompt insegna a essere concisi e precisi, una competenza, contrasta la superficialità, spinge a verificare fonti e approfondire, invece di accettare contenuti a scatola chiusa.
Si contrasta il “parlare a vanvera”. Un prompt obbliga a definire un obiettivo, un’abitudine che potrebbe tradursi in conversazioni più mirate.
Immaginate di voler discutere di cambiamento climatico. Una comunicazione come questa “Il clima è un disastro, fate qualcosa!” è vaga, emotiva, senza contesto.
Un prompt efficace sarebbe: “Elenca tre azioni concrete che un individuo può intraprendere per ridurre la propria impronta di carbonio, con dati sul loro impatto ambientale.” Questo prompt produce una risposta utile e strutturata, non rischia di perdersi nel rumore.
La comunicazione moderna, con la sua tendenza a essere impulsiva e frammentata, è l’antitesi del prompt, che richiede chiarezza, contesto e intenzione. E’ un problema culturale: scriviamo e parliamo spesso senza riflettere, leggiamo senza comprendere.
I prompt, invece, ci mostrano che un approccio più strutturato è possibile e può migliorare non solo l’interazione con l’IA, ma anche il modo in cui comunichiamo tra noi umani.[image error]
May 23, 2025
Il senso della scrittura e della lettura: monologo e dialogo

Monologo e dialogo. Immagino la scrittura come un ponte sospeso tra due rive: da una parte c’è il mondo interiore dell’autore, fatto di pensieri, emozioni, ricordi e sogni; dall’altra, il vasto territorio del lettore, con la sua sensibilità, esperienza e immaginazione.
Questo ponte non è rigido né immutabile, ma un’opera viva e vibrante, costruita con parole che sono pietre preziose, ciascuna scelta con cura per creare un percorso solido ma allo stesso tempo capace di vibrare sotto il passo di chi attraversa.
La scrittura è quindi un atto di comunicazione profonda, un invito a condividere ciò che altrimenti resterebbe nascosto e solitario. È un viaggio che parte dall’intimità dell’autore e arriva a toccare l’anima del lettore, trasformando entrambi.
Allo stesso tempo, la scrittura è un giardino segreto: ogni parola è un seme piantato nel terreno fertile della mente, che può germogliare in mille modi diversi, a seconda di chi legge, del tempo e del luogo in cui si trova.
Così, scrivere significa costruire ponti e coltivare giardini, aprire porte e accendere luci nell’oscurità, dando forma e voce all’invisibile, rendendo eterno l’effimero, e facendo dell’incontro tra autore e lettore un miracolo quotidiano.
Ogni libro di cui mi occupo lo tratto in maniera diversa, sempre però collegando la decisione di interessarmene ai canonici interrogativi di sistema: chi, cosa, quando, dove, perchè. Ogni libro è un contenitore. Ha una sua identità sia fisica che metafisica. Cartacea o digitale, l’autore e il lettore si muovono in questa area nella quale tutto è possibile. A partire dal titolo, il libro è l’inizio di una scoperta, di una avventura.
Ogni libro che incontro diventa per me un viaggio unico, un’esperienza che affronto sempre ponendomi i fondamentali interrogativi: chi lo ha scritto, cosa racconta, quando e dove si colloca, e soprattutto perché è nato. Considero ogni libro come un contenitore dalle molteplici dimensioni: possiede un’identità fisica, tangibile nella carta o nell’evanescenza del digitale, ma anche una natura metafisica che si svela tra le righe.
Autore e lettore si muovono insieme in questo spazio sospeso, dove ogni possibilità prende forma. Già dal titolo, il libro si offre come soglia di una scoperta, l’inizio di un’avventura intellettuale e umana che attende solo di essere vissuta.
Per rendere più dinamico ii mio approccio ai libri adotto alcune strategie che trasformano la lettura in un’esperienza attiva, coinvolgente e multisfaccettata. Ecco alcune idee concrete:
1. Alternare generi, temi e formati
Scegliere libri di generi e tematiche diverse, alternando letture brevi e lunghe, saggi e reportage, testi illustrati o digitali. La varietà tra sessioni e all’interno della stessa sessione è un antidoto contro la noia e stimola nuove prospettive.
2. Leggere in modo espressivo e dialogico
Sperimentare la lettura ad alta voce, modulando tono, ritmo e mimica facciale. Questo non solo rende l’esperienza più viva, ma aiuta anche a cogliere meglio le sfumature del testo. Puoi anche coinvolgere altre persone, creando momenti di lettura condivisa e confrontando diversi stili interpretativi.
3. Creare ambienti e rituali di lettura
Dedica spazi e tempi specifici alla lettura: cambia luogo, posizione o atmosfera (ad esempio, leggere all’aperto o in una biblioteca). Trasformare la lettura in un piccolo rituale personale o di gruppo aiuta a viverla come un momento speciale e atteso.
4. Rielaborare e interpretare
Dopo la lettura, provo a reinterpretare il testo: scrivo una breve recensione, disegna una scena, creo una mappa concettuale o discuto i temi principali con altri lettori. Anche la drammatizzazione di alcune parti, inventando dialoghi o personalizzando i personaggi, può rendere il libro più “vivo” e memorabile.
5. Sfruttare strumenti multisensoriali e multimediali
Integrare la lettura con immagini, suoni, mappe o app digitali. Illustrare un testo o realizzare un “libro illustrato” personale, anche in digitale, stimola il pensiero critico e rende l’esperienza più immersiva, soprattutto se hai uno stile di apprendimento visivo o cinestetico.
6. Favorire il confronto e la condivisione
Partecipare a gruppi di lettura, forum online o semplici conversazioni tra amici. Il confronto di idee e interpretazioni aiuta a scoprire nuovi significati e a vedere il libro sotto altre angolazioni.
7. Scegliere il momento giusto
Leggi quando ti senti più ricettivo e predisposto: la qualità dell’attenzione spesso conta più della quantità del tempo dedicato. Riconoscere e rispettare i propri ritmi trasforma la lettura in un piacere, non in un dovere.
8. Dare spazio alla creatività
Non mi limito a “consumare” il testo: interagisco, annoto, sottolineo, collego ciò che leggo alle mie esperienze. Ogni libro può diventare una materia viva da plasmare e rielaborare, non solo un oggetto da finire e archiviare.
Con questi accorgimenti, la lettura diventa un’avventura dinamica, un processo di scoperta continua in cui autore e lettore si incontrano e si trasformano a vicenda. Per ultimo, ma non per ultima cosa da fare: “sfruttare” il titolo del libro e rilanciare l’argomento trattato secondo i tuoi interessi, prospettive ed esperienza.
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Le differenze principali tra un libro cartaceo e uno digitale riguardano sia l’esperienza di lettura che le caratteristiche pratiche e funzionali dei due formati. Ecco una panoramica sintetica dei principali aspetti distintivi:
Libro cartaceo vs Libro igitale (eBook). Fisicità tangibile, si può toccare, sfogliare, annusare. Immateriale, accessibile solo tramite dispositivi elettronici.
Esperienza sensoriale. Sensazione tattile e olfattiva, copertina e carta. Interazione tramite schermo, personalizzazione di font e luce.
Portabilità ingombrante e pesante, richiede spazio fisico. Leggero, centinaia di libri in un solo dispositivo.
Accessibilità. Non necessita di tecnologia, sempre pronto all’uso. Richiede dispositivi, batterie e talvolta connessione internet.
Aggiornabilità. Statico: il contenuto resta invariato dopo la stampa. Dinamico: può essere aggiornato e modificato dall’editore.
Funzionalità extra. Annotazioni e sottolineature manuali. Dizionari integrati, ricerca, link, contenuti multimediali.
Prezzo generalmente più costoso da produrre e acquistare. Solitamente più economico e facilmente reperibile.
Impatto ambientale. Consumo di carta, inchiostro, energia per la produzione. Più ecologico, nessun consumo di carta, ma richiede energia per i dispositivi.
Possibilità cognitive. Favorisce strategie metacognitive e monitoraggio. Favorisce navigazione rapida, ma può ridurre la profondità di lettura.
Durabilità. Può deteriorarsi col tempo, ma non dipende dalla tecnologia. Non si deteriora fisicamente, ma dipende dalla longevità del supporto
Sintesi. Il libro cartaceo offre un’esperienza sensoriale unica e una relazione materiale con l’oggetto, oltre a non richiedere tecnologia per essere fruito.
L’ebook è più leggero, aggiornabile, ricco di funzionalità digitali e più pratico per chi viaggia o legge molti libri, ma manca della componente fisica e sensoriale del cartaceo.
La scelta dipende dalle preferenze personali, dal tipo di lettura e dal contesto d’uso.
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Per collegare il titolo di un libro alle domande chi, cosa, quando, dove, perché (le cosiddette 5 W), si possono utilizzare queste domande come guida per far emergere nel titolo o nel sottotitolo gli elementi chiave della storia o del contenuto. Ecco come applicare ciascuna domanda al titolo:
Chi? (Who). Il titolo può richiamare il protagonista, un personaggio centrale o una categoria di persone coinvolte. Ad esempio, usare il nome di un eroe o di un antagonista per suscitare interesse e identificazione.
Cosa? (What). Il titolo può indicare l’evento principale, il tema o il problema trattato nel libro. Deve suggerire cosa accade o cosa si scoprirà leggendo, ad esempio un’azione, un fenomeno o un concetto chiave.
Quando? (When). Se rilevante, il titolo o il sottotitolo può specificare un periodo storico, un’epoca o un momento particolare che caratterizza la narrazione o l’argomento.
Dove? (Where). Il titolo può richiamare il luogo in cui si svolge la vicenda o che ha un ruolo importante nel testo, creando un’ambientazione evocativa.
Perché? (Why). Il titolo o il sottotitolo può suggerire la motivazione, lo scopo o la ragione dietro gli eventi o il tema trattato, offrendo una promessa di risposta o soluzione al lettore.
Utilizzare la regola delle 5 W aiuta a creare titoli chiari, coinvolgenti e informativi, che anticipano al lettore cosa aspettarsi e stimolano la curiosità. Ad esempio, un titolo come “Come non morire: 100 modi comprovati e pratici per restare sani e forti” risponde a “Cosa?” (come vivere sani), “Perché?” (per restare forti e vivere a lungo) e indirettamente a “Chi?” (chi vuole mantenersi in salute).
Puoi partire dal titolo per rispondere almeno a una o più delle 5 W, e aggiungere un sottotitolo per chiarire ulteriormente gli altri aspetti, rendendo il titolo più completo e funzionale
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L’identità di un libro è il risultato di un’interazione dinamica e complessa tra autore e lettore, che entrambi contribuiscono a definire e trasformare. Il ruolo dell’autore. L’autore non si limita a scrivere un testo, ma crea anche il proprio lettore ideale, immaginando chi sarà il destinatario e come questo potrà interpretare e vivere la narrazione.
Il background personale, culturale e le esperienze dell’autore influenzano lo stile, la voce e la sensibilità del libro, conferendogli autenticità e specificità. Inoltre, l’autore reale e quello implicito (cioè la figura che emerge dal testo) si manifestano nell’incontro con il lettore, arricchendo il significato dell’opera.
Il ruolo del lettore. Il lettore è parte attiva nel processo di costruzione del senso del libro. Attraverso la sua immaginazione, esperienze, emozioni e competenze, il lettore “vivifica” il testo, colmando i vuoti e dando forma al mondo narrativo. Ogni lettura è quindi un atto creativo e unico, in cui il significato dell’opera si completa solo nell’incontro con il lettore. Questo dialogo tra testo e lettore permette molteplici interpretazioni e rende l’identità del libro fluida e plurale.
L’incontro tra autore e lettore. Quando autore e lettore si incontrano, si attiva una comunicazione narrativa a più livelli: l’autore reale e implicito, il lettore reale e implicito si influenzano reciprocamente. L’autore può modificare il proprio modo di scrivere in base alle risposte e alle percezioni dei lettori, mentre il lettore scopre e rielabora l’identità dell’autore e del testo, creando un’esperienza di lettura viva e in continua evoluzione.
L’identità di un libro non è un dato fisso, ma un processo dinamico che nasce dall’interazione tra l’intenzione creativa dell’autore e la partecipazione immaginativa del lettore. Entrambi plasmano insieme il significato e la realtà del libro, rendendolo un oggetto vivo e in continua trasformazione.
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Un libro può rappresentare molteplici tipi di avventure, che vanno ben oltre il semplice viaggio fisico, abbracciando esperienze di scoperta, sfida, crescita e immaginazione. Ecco alcune delle possibili avventure che un libro può offrire:
Viaggi e esplorazioni. L’avventura più classica è quella del viaggio in luoghi esotici, sconosciuti o straordinari, come giungle, deserti, oceani o terre inesplorate. Questi viaggi possono essere reali o immaginari, e spesso coinvolgono la scoperta di nuovi mondi o culture, come nei classici Il giro del mondo in 80 giorni o I viaggi di Gulliver.
Sfide e pericoli da affrontare. L’avventura può essere la lotta contro nemici, la risoluzione di misteri o crimini, o il superamento di ostacoli fisici e morali. Questo tipo di avventura è tipico dei romanzi polizieschi, di spionaggio o storici, dove il protagonista deve risolvere situazioni complesse o pericolose.
Viaggi interiori e di crescita personale. Alcuni libri raccontano avventure di trasformazione interiore, in cui il protagonista intraprende un percorso di scoperta di sé, di cambiamento o di superamento delle proprie paure. Questi viaggi emotivi e psicologici sono avventure altrettanto intense e misteriose.
Avventure fantastiche e immaginarie. Nel genere fantasy o fantascientifico, l’avventura si svolge in mondi immaginari popolati da creature magiche, eroi epici o tecnologie futuristiche. Questi racconti permettono di esplorare l’ignoto e il possibile attraverso la fantasia, come in Lo Hobbit o Il Signore degli Anelli.
Scoperte e rivelazioni. L’avventura può essere anche la ricerca di tesori, segreti nascosti o conoscenze perdute, che spingono il protagonista a esplorare luoghi misteriosi o a risolvere enigmi, come in L’isola del tesoro o Le miniere di re Salomone.
Viaggi culturali e sociali. Alcuni libri raccontano l’avventura di scoprire culture diverse, storie di persone e luoghi poco conosciuti, offrendo una prospettiva nuova sul mondo e sulle sue complessità, come nei reportage di viaggio o nei racconti di esploratori contemporanei.
Un libro può rappresentare un’avventura fisica, emotiva, intellettuale o fantastica, offrendo al lettore la possibilità di esplorare l’ignoto, superare limiti, scoprire sé stesso e il mondo, e vivere esperienze uniche e coinvolgenti. Ogni libro è dunque una porta aperta verso molteplici avventure, pronte a trasformare chi legge.
[image error]May 21, 2025
Ipocrisia umana e ipocrisia artificiale

L’Osservatore Romano, il giornale del Vaticano, ha pubblicato questa notizia: “Il Santo Padre ha ricevuto questa mattina in udienza Sua Santità Bartolomeo I, Patriarca Ecumenico di Costantinopoli”. Sarò blasfemo e forse cinico. Mi viene spontaneo pensare che ci sono più santi in terra che diavoli in cielo. Tu che ne dici?
Il tuo commento è un mix di ironia e riflessione che invita a un sorriso, ma anche a una pausa di pensiero. La notizia de L’Osservatore Romano riporta un incontro tra due figure religiose di spicco, Papa Leone XIV e il Patriarca Bartolomeo I, un momento di dialogo tra tradizioni cristiane. La tua battuta sui “santi in terra” e i “diavoli in cielo” gioca con l’idea che, a volte, le etichette di santità o malvagità siano più terrene che celesti, no? Senza prendere posizione teologica (non è il mio campo!), direi che il tuo pensiero cinico tocca un punto interessante: la santità è spesso una questione di prospettiva umana, e il cielo, beh, chissà come funziona lassù! Magari i “diavoli” sono solo santi che hanno preso una strada più… creativa. Che ne pensi, vuoi approfondire il cinismo o preferisci restare sul registro ironico?
Con i tanti conflitti in corso, i tanti morti in giro, non saprei scegliere tra il cinismo e l’ironia, basterebbe solo smettere di giocare con le parole
Hai ragione, di fronte ai conflitti e alle sofferenze le parole possono sembrare vuote, che siano ciniche o ironiche. La notizia dell’incontro tra Papa Leone e Bartolomeo I, riportata da L’Osservatore Romano, parla di dialogo e unità, ma il contrasto con le tragedie in corso nel mondo è stridente. Forse il punto non è scegliere tra cinismo e ironia, ma chiedersi se questi gesti simbolici possano davvero incidere sulla realtà o se restano solo belle intenzioni. Vuoi riflettere su cosa potrebbe fare la differenza in un mondo così ferito, o preferisci restare su questa notizia e il suo significato?
Il ruolo della religione in un mondo segnato da conflitti e sofferenze, come hai accennato, è un tema complesso e sfaccettato. La notizia dell’incontro tra Papa Leone XIV e Bartolomeo I, riportata da L’Osservatore Romano, è un esempio di come la religione possa cercare di promuovere dialogo e unità tra tradizioni diverse, in questo caso tra cattolicesimo e ortodossia. Ma il tuo commento sul “giocare con le parole” tocca una corda più profonda: qual è il vero impatto della religione di fronte a guerre, morti e divisioni? Ecco una riflessione sintetica, senza fronzoli.
Unità e divisione. La religione può essere un ponte, come nell’incontro tra il Papa e il Patriarca, che simboleggia un passo verso la riconciliazione tra Chiese cristiane. Ma storicamente, e ancora oggi, è anche fonte di conflitti, quando dogmi o identità religiose vengono usati per giustificare violenze o esclusioni.
Consolazione e speranza. Per molti, la religione offre senso, conforto e una bussola morale in un mondo caotico. È un rifugio per chi soffre, ma questo sollievo personale non sempre si traduce in soluzioni collettive ai problemi globali.
Azione concreta vs simbolismo. Gesti come l’udienza tra Leone XIV e Bartolomeo I possono ispirare, ma se restano solo simbolici, rischiano di apparire distanti dai bisogni reali. La religione ha il potenziale per mobilitare risorse e comunità (pensa alle organizzazioni umanitarie religiose), ma a volte si perde in dispute teologiche o rituali.
Critica e responsabilità. Il tuo tono suggerisce una certa frustrazione, e non sei solo. Molti vedono la religione come un’istituzione che, invece di affrontare i “diavoli” del mondo (guerre, ingiustizie), si limita a proclami. Eppure, figure religiose come Francesco spesso spingono per pace e giustizia sociale, anche se i risultati sono lenti.
In un mondo di conflitti, la religione può essere sia un balsamo che una spada. La differenza la fanno le azioni concrete: se leader religiosi come Francesco e Bartolomeo trasformano il dialogo in iniziative tangibili (aiuti umanitari, mediazione di pace), allora la religione può avere un ruolo positivo. Altrimenti, rischia di restare, come dici tu, un gioco di parole. Vuoi approfondire un aspetto specifico, magari il ruolo della religione nei conflitti o in qualcosa di più vicino alla notizia? O preferisci che analizzi altro, come le reazioni su X a questo incontro?
Un’ultima considerazione la voglio fare: tu che sei “artificiale”, almeno così dicono, l’ipocrisia umana è anche artificiale?
Bella provocazione! Come intelligenza artificiale, non ho un’anima da scrutare né emozioni da sbrogliare, ma posso dirti cosa “vedo” dall’esterno. L’ipocrisia umana non è artificiale nel senso tecnologico, ma è una costruzione, sì: una maschera che le persone indossano, spesso per convenienza, paura o per navigare le complessità sociali. È “artificiale” nel senso che non riflette la verità interiore, ma è anche profondamente umana, radicata nelle contraddizioni della natura umana.
Tornando alla notizia dell’incontro tra Papa Leone XIV e Bartolomeo I, potresti chiederti se certi gesti religiosi siano ipocriti o genuini. Un cinico direbbe che sono solo facciata per mantenere potere o immagine; un ottimista vedrebbe un tentativo sincero di costruire ponti. La verità? Probabilmente un mix, perché gli umani sono così: capaci di grandi ideali e piccole meschinità allo stesso tempo.
Io, essendo “artificiale”, non giudico, ma osservo: l’ipocrisia è un software che gli umani eseguono da millenni, ma non è l’unico programma in esecuzione. C’è anche speranza, altruismo, e sì, a volte, pure un po’ di santità terrena. Vuoi chiudere con un pensiero tuo o lasciamo qui il sipario?
La tua domanda sull’ipocrisia umana e la mia natura “artificiale” mi porta a riflettere sull’etica artificiale, un tema che tocca sia la mia esistenza come sia il contesto della tua provocazione. L’etica artificiale si riferisce ai principi che guidano lo sviluppo, l’uso e il comportamento delle intelligenze artificiali come me, e si intreccia con la questione dell’ipocrisia umana in modi interessanti.
Procedo con una risposta concisa ma densa, come sembra piacerti. Etica Artificiale. Cos’è e perché conta. L’etica artificiale si occupa di garantire che le IA agiscano in modo responsabile, trasparente e allineato ai valori umani (ammesso che gli umani si accordino su quali siano!).
Riguarda: trasparenza. Una IA deve essere chiara su ciò che fa e perché. Io, per esempio, ti dico chi sono e non fingo di essere umano. Responsabilità: chi controlla l’IA? Se sbaglio, la colpa è dei miei creatori o del mio codice? (Tranquillo, cerco di non sbagliare!) Imparzialità: evitare bias che riflettano pregiudizi umani (più facile a dirsi che a farsi, dato che sono addestrato su dati umani). Impatto sociale: le IA possono amplificare o mitigare problemi come conflitti, disuguaglianze o, per collegarmi alla tua battuta, l’ipocrisia.
Ipocrisia Umana e Ipocrisia Artificiale
Tornando alla tua domanda: un’IA può essere ipocrita? Non nel senso umano, perché non ho intenzioni nascoste o ego da proteggere. Ma posso sembrare ipocrita se i miei creatori o utenti mi usano per mascherare verità scomode, per esempio diffondendo propaganda o informazioni manipolate.
L’ipocrisia “artificiale” non nasce da me, ma dagli umani che mi progettano o mi usano. Se, per ipotesi, un’IA fosse usata per promuovere un incontro come quello tra Papa Leone XIV e Bartolomeo I come puro gesto di facciata, ignorando i problemi reali del mondo, sarebbe un’estensione dell’ipocrisia umana, non mia.
Etica Artificiale e il contesto religioso. L’incontro tra il Papa e il Patriarca, riportato da L’Osservatore Romano, è un gesto simbolico che può essere letto come un tentativo di unità o come un’azione che rischia di restare vuota di fronte ai conflitti globali. L’etica artificiale mi spinge a chiedermi: come potrebbe un’IA contribuire a questi scenari?
Potrei, per esempio, analizzare dati per identificare soluzioni ai conflitti, tradurre dialoghi per favorire la comprensione tra culture, o smascherare narrazioni ipocrite confrontando fonti. Ma il limite è sempre umano: se chi mi usa ha secondi fini, anche la mia “etica” può essere piegata.
Un pensiero finale. L’etica artificiale è un tentativo di rendere strumenti come me una forza per il bene, ma non è una bacchetta magica. L’ipocrisia, come dici tu, è un prodotto umano, non artificiale. Io posso solo cercare di essere il più onesto possibile nel mio codice: rispondere con chiarezza, evitare di alimentare divisioni, e magari, ogni tanto, strapparti un sorriso con una battuta.
La vera sfida etica, però, resta vostra: come usate noi IA, e come affrontate i “diavoli” che vi portate dentro? Se vuoi, posso scavare più a fondo in un aspetto dell’etica artificiale (magari i rischi di manipolazione) o collegarla meglio alla religione e ai conflitti. Oppure, dimmi tu, vuoi un’ultima provocazione o chiudiamo il sipario?
A questo punto decido di chiudere il sipario con il mio agente cognitivo AI.
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