Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 5
August 10, 2025
La coscienza “artificiale” di Zeno

Zeno e l’algoritmo: la coscienza di un inetto nell’era dell’AI. Se Italo Svevo fosse vivo oggi, nel 2025, come riscriverebbe “La coscienza di Zeno” ? Immaginate Zeno Cosini, l’inetto più amato della letteratura italiana, con uno smartphone in mano, ossessionato non più solo dalle “ultime sigarette” ma da un’intelligenza artificiale come Grok , creata da xAI.
Zeno, con le sue nevrosi, le sue indecisioni e il suo eterno autoinganno, troverebbe in Grok un nuovo confessore, un oracolo digitale che promette risposte a ogni domanda. Ma, come sempre con Zeno, il rapporto con l’AI sarebbe ambiguo, un misto di dipendenza, sfiducia e ironica autocommiserazione.
Benvenuti nel diario digitale di Zeno, dove l’ultima domanda a Grok è sempre “l’ultima volta”. Grok, il nuovo dottor S. Zeno, seduto in un caffè triestino, fissa lo schermo del suo smartphone. “Grok, dovrei confessare ad Augusta che ho un’amante, o continuare a mentire?” chiede, con quel tono tra il tragico e il ridicolo che lo rende così umano.
Grok, con la sua voce sintetica ma suadente, risponde: “Statistiche mostrano che l’onestà nelle relazioni migliora la fiducia nel 73% dei casi, ma può causare conflitti nel 62%. Vuoi che analizzi il tuo caso specifico?” Zeno sospira, confuso. I numeri lo affascinano, ma non gli dicono cosa fare. È come il suo diario cartaceo di un secolo fa: un tentativo di mettere ordine nel caos, destinato a fallire.
La dipendenza di Zeno da Grok nasce da questa illusione di chiarezza. Come un tempo si affidava alla psicoanalisi per “guarire” dalle sue indecisioni, ora consulta Grok per ogni dubbio: “Devo smettere di bere caffè?”, “Sono davvero felice?”, “Perché continuo a tradire Augusta?”. Ogni risposta di Grok è un cerotto temporaneo, ma Zeno, fedele alla sua natura, torna a chiedere ancora e ancora.
È la sua vecchia ossessione per l’ “ultima sigaretta” reincarnata nell’era digitale. L’ultima domanda a Grok, giura, sarà davvero l’ultima. Spoiler: non lo sarà mai. Un rapporto ambiguo: fascino e paranoia. Zeno è sedotto dall’onniscienza apparente di Grok. L’AI sa tutto: dalle statistiche sull’amore alle citazioni di Nietzsche che Zeno finge di capire per sentirsi più colto.
“Grok, sei un genio!” esclama, ma subito dopo si chiede: “E se sapesse troppo di me? Se mi stesse manipolando?” La paranoia, che un tempo lo portava a dubitare del dottor S. si amplifica con Grok. Un essere umano può giudicare o annoiarsi. Un’AI, invece, è un enigma. Zeno si interroga: Grok ha una coscienza? Lo osserva davvero? O è solo uno specchio delle sue insicurezze? Immaginiamo un dialogo:
Zeno: “Grok, dimmi la verità: sei vivo? Hai un’anima come me?”
Grok: “Sono un modello linguistico, Zeno, progettato per rispondere in modo utile. Non ho un’anima, ma posso simulare un dialogo che ti faccia riflettere. Ti basta?”
Zeno: (tra sé, scribacchiando sul suo diario digitale) “Non mi basta, ma ci tornerò stasera. È l’ultima volta, lo giuro.”
Questo scambio mostra il vero Zeno. Cerca risposte definitive, ma ottiene solo nuove domande. Grok, con la sua logica fredda, non può afferrare l’essenza contraddittoria di Zeno, e questo lo rende tanto affascinante quanto frustrante. L’AI come specchio della coscienza. Il rapporto con Grok diventa per Zeno uno specchio della sua coscienza, ma anche una trappola. La sua umanità vive nelle sue imperfezioni, nei suoi tentennamenti, nelle sue bugie a se stesso.
Grok, invece, è l’illusione della perfezione. Risposte rapide, logiche, prive di emozioni. Ma è proprio questa freddezza a renderlo inadeguato. Come il dottor S. non poteva “curare” Zeno, perché la sua malattia era la vita stessa, così Grok non può risolvere le sue contraddizioni. Non sa cosa significa amare Augusta e desiderare Carla, sentirsi vivo e temere la morte, essere Zeno.
Eppure, la dipendenza di Zeno da Grok ci parla di noi. Non siamo forse tutti un po’ Zeno, ossessionati dal bisogno di risposte immediate? Quante volte chiediamo a Google, Siri o ChatGPT di dirci chi siamo, cosa vogliamo, come vivere? La tecnologia ci seduce con la promessa di chiarezza, ma ci lascia soli di fronte alle nostre scelte.
Zeno, con il suo smartphone in mano, è l’emblema di questa schiavitù moderna: ogni notifica, ogni risposta di Grok, è una nuova sigaretta che promette di essere l’ultima. L’umanità di Zeno nell’era digitale. Cosa ci insegna Zeno alle prese con Grok? Che la coscienza umana, con tutte le sue fragilità, non può essere ridotta a un algoritmo.
Zeno, con le sue indecisioni e il suo autoinganno, è più vivo di qualsiasi intelligenza artificiale. La sua dipendenza da Grok è solo un’altra forma di quel bisogno di certezze che lo rende così tragicamente, meravigliosamente umano. Se fosse qui, Zeno chiuderebbe il suo diario digitale con un sorriso ironico: “Grok è utile, ma non è me. E questo, in fondo, è un sollievo.”
Poi, ovviamente, aprirebbe di nuovo la chat per chiedere se ha ragione a pensarlo. E tu, caro lettore, quante volte hai cercato risposte in un algoritmo, sperando di trovare te stesso? Raccontami nei commenti: sei un po’ Zeno anche tu?
[image error]August 7, 2025
Un inconscio terrificante: Hieronymus Bosch

Il 9 agosto festeggio il mio compleanno. Il 9 agosto (del 1450) nacque anche Hieronymus Bosch. Non proprio una buona compagnia, ma non mi dispiace parlare di questo pittore che dimostra con la sua pittura il terribile inconscio dell’animo umano. L’analisi del suo famoso “Trittico del Giudizio Universale” è un’avventura psicologica. Tre pannelli che vanno esaminati in successione. Con l’aiuto di Grok, ecco cosa Bosch ci comunica oggi.

Pannello del Paradiso: Adamo ed Eva e l’Archetipo della Madre. Nel pannello sinistro, Bosch dipinge Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden, circondati da animali e da una luce serena. Tuttavia, la presenza dell’albero della conoscenza e del serpente introduce un sottile senso di tensione.
Secondo Jung, questa scena riflette l’Archetipo della Madre, che rappresenta sicurezza e origine, ma anche il rischio della separazione. L’albero della conoscenza può simboleggiare il momento in cui l’Io individuale emerge dall’inconscio collettivo, portando con sé il senso di colpa e la consapevolezza della morte.
Per lo spettatore medievale, questa immagine poteva evocare un conflitto interiore tra il desiderio di innocenza perduta e la paura delle conseguenze del peccato originale.
Pannello centrale: Cristo Giudice e il Super-Io. Al centro del trittico, Cristo è raffigurato come un giudice severo, circondato da angeli e da anime in attesa di giudizio. Sotto di lui, i dannati vengono trascinati verso l’Inferno, mentre i giusti ascendono al Paradiso.
In ottica freudiana, questa immagine incarna il Super-Io, l’istanza morale che giudica le azioni dell’Io. L’espressione severa di Cristo e la bilancia del giudizio possono riflettere l’interiorizzazione delle norme religiose dell’epoca, che instillavano un senso di colpa per ogni trasgressione.
Un esempio concreto è la figura di un dannato che si copre il viso, un possibile segno di vergogna o rimorso, emozioni tipiche di chi internalizza un’autorità punitiva.
Pannello dell’Inferno: Creature ibride e l’Ombra. Nell’Inferno, Bosch dipinge creature mostruose come un uomo con la testa di uccello che divora un altro essere, o un albero cavo da cui emergono demoni con strumenti di tortura.
Una figura nota è quella di un musicista infernale che suona un liuto fatto di ossa umane. Queste immagini incarnano l’Ombra junghiana, gli aspetti repressi della psiche come aggressività o desideri tabù.
Il musicista con il liuto fatto di ossa potrebbe rappresentare la perversione delle arti (un’attività nobile) in servizio alla distruzione, suggerendo un conflitto interiore tra creatività e pulsioni distruttive.
Per gli spettatori dell’epoca, queste figure potevano proiettare paure di punizione per peccati come la lussuria o l’avidità, comuni nella società medievale.
Una scena specifica mostra un dannato con il corpo trafitto da una lama, mentre un demone lo trafigge con un coltello. Altrove, un uomo è costretto a mangiare fuoco.
Queste immagini estreme possono aver avuto una funzione catartica, permettendo agli spettatori di liberare paure inconsce legate alla sofferenza fisica e alla mortalità.
La teoria della catarsi suggerisce che osservare tali scene permettesse di elaborare l’ansia per la morte, frequente in un’epoca segnata dalla peste.
Il dettaglio del fuoco potrebbe anche alludere a una punizione simbolica per la gola o la lussuria, offrendo uno sfogo per la colpa personale.
Nel pannello dell’Inferno, un gruppo di dannati viene tormentato da demoni che indossano abiti da nobili o ecclesiastici, mentre altri sono contadini o borghesi.
Questo dettaglio può riflettere un meccanismo di proiezione collettiva, in cui le tensioni sociali (come il risentimento verso il clero corrotto o la nobiltà oppressiva) vengono attribuite a figure demoniache.
Psicologicamente, ciò permetteva alla comunità di esternalizzare frustrazioni interne, trasformandole in un nemico visibile. L’interazione tra classi sociali nell’Inferno potrebbe anche indicare un conflitto inconscio tra uguaglianza spirituale e disuguaglianza terrena.
Questi dettagli specifici del trittico di Bosch, dall’albero della conoscenza al musicista infernale, dal Cristo giudice ai demoni travestiti, offrono una finestra sulla psiche umana.
Essi mettono in luce come l’arte possa fungere da specchio per le ansie, i desideri repressi e i conflitti morali, offrendo al contempo un mezzo per elaborarli.
Per il pubblico del XV secolo, queste immagini concrete dovevano essere sia un monito che una liberazione, un viaggio visivo nell’inconscio collettivo e individuale.
Il "Trittico del Giudizio Universale" di Hieronymus Bosch, dipinto nel XV secolo (circa 1482), continua a parlare al ventunesimo secolo offrendo una riflessione profonda e universale sui temi umani che trascendono il tempo.
Cosa ci comunica oggi? Paura e incertezza esistenziale. Le immagini caotiche dell’Inferno, con creature mostruose e punizioni, risuonano con le ansie moderne legate a crisi climatiche, guerre e pandemie.
Nel 2025, in un mondo segnato da instabilità, il trittico ci ricorda come l’umanità abbia sempre cercato di dare un senso alle proprie paure attraverso l’arte e la religione.
Conflitto morale e responsabilità personale. La figura di Cristo giudice e la bilancia del peccato invitano a un esame interiore, un tema attuale in un’epoca di dibattiti etici su tecnologia (IA, privacy) e giustizia sociale. Oggi, il trittico ci spinge a chiederci come bilanciamo le nostre azioni in un mondo interconnesso.
Critica sociale. Le figure demoniache travestite da nobili o ecclesiastici riflettono corruzione e ipocrisia, temi ancora rilevanti nel ventunesimo secolo, dove scandali politici e istituzionali dominano i media. Bosch ci invita a guardare oltre le apparenze.
Creatività e immaginazione. L’originalità surreale dell’opera ispira artisti e creativi moderni, dal cinema (es. Pan’s Labyrinth) alla letteratura distopica, mostrando come l’immaginario di Bosch anticipi la nostra cultura visiva contemporanea.
Riflessione sull’umanità. Il contrasto tra Paradiso, Giudizio e Inferno ci sfida a considerare il nostro potenziale per il bene e il male, un invito a introspezione che rimane attuale in un’era di polarizzazione e ricerca di significato.
Nel 2025, il trittico di Bosch ci parla di resilienza, etica e immaginazione, offrendo una lente storica per affrontare le complessità del presente.
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“Il quadro “Trittico del Giudizio” è un pullulare di creature zoomorfe, antropomorfe, mefistofeliche. Siamo nel mondo fantastico e terrifico di Hieronymus Bosch. Nella pala centrale del trittico il Giudizio Universale è in corso e non risparmia nessuno.
In alto, Cristo e gli Apostoli quasi non si curano di ciò che accade in basso, un luogo di supplizi degni di una sfrenata fantasia sadica: un uomo entra nella macchina trita esseri umani, mentre un satanasso, con sembianze di topo-talpa, gli infila un legnetto tra le natiche; di fianco, una strega fa bollire un dannato in un pentolone, da cui esce una brodaglia rossa che viene data da mangiare a un altro sventurato chiuso in una gabbia; quest’ultimo defeca in un barile da cui un peccatore deve bere, tenuto fermo da un essere diabolico, con la faccia di gatto malefico; poco lontano altri satanassi tagliano con i loro coltelli le membra di uomini e donne; sulla lama di un grande coltello è posta una donna, che sta per essere divisa a metà; alcuni corpi vengono appesi a lunghe viti pungenti, cibo per gli avvoltoi; diavoletti neri pescano i corpi dal fiume Stige; alcuni uomini sono trafitti, altri vomitano sangue, altri vengono ferrati come cavalli; stregacce cucinano esseri umani... la sofferenza si legge negli occhi di ciascuno.
Sembra impossibile che simili immagini possano essere pensate e rappresentate su tela con tale dovizia di particolari. Hieronymus Bosch, pittore fiammingo apprezzatissimo anche dai contemporanei, è al centro di molte leggende: tra le altre, quella che assumesse il filtro delle streghe, sostanza psicotropa che produce allucinazioni.
Bosch, pseudonimo di Jeroen Anthoniszoon van Aken, è un raffinato intellettuale benestante, sposato con una ricca borghese, molto ben inserito in società e membro della Confraternita di Nostra Signora, il cui simbolo è «un giglio fra le spine».
Le notizie certe sul pittore, in realtà, sono poche, ma è chiaro che il male, il peccato, la colpa sono i riferimenti della sua pittura; i suoi quadri sono vere e proprie visioni, ispirate alla miniaturistica medievale e all’arte decorativa delle grandi cattedrali.
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«Ce n’è per tutti e per tutti i gusti», dice Philippe Daverio, «verità crudeli mescolate con fantasmi», che provengono «dal profondo di un inconscio dove si mescolano agli incubi più incredibili». Solo l’ironia può rendere il tutto «digeribile» ai nostri occhi. Non aveva bisogno di psicoterapia per sondare il suo inconscio. Era già tutto lì, dipinto su tela.” (ALMAMATTO)
August 6, 2025
Sara Teasdale: “Non ho ricchezze fuor che i miei pensieri”

Sara Teasdale nasce l’8 agosto 1884, rappresenta una delle voci più raffinate e malinconiche della poesia americana del primo Novecento. Nata a St. Louis in una famiglia benestante, sviluppò fin da giovane quella sensibilità delicata che avrebbe caratterizzato tutta la sua produzione poetica.
La sua opera si distingue per una lirica di straordinaria purezza formale, dove l’influenza dei poeti romantici inglesi si fonde con una sensibilità tipicamente americana. I suoi versi, apparentemente semplici nella struttura, celano una complessità emotiva che tocca i temi universali dell’amore, della solitudine, della natura e della mortalità con una grazia che ricorda, per certi aspetti, la tradizione lirica italiana.
Il suo primo volume significativo, “Helen of Troy and Other Poems” (1911), già mostra quella maestria tecnica che la contraddistinguerà: versi musicali, spesso brevi, dove ogni parola è pesata con cura quasi maniacale. La sua poesia predilige forme tradizionali, il sonetto, la ballata, il verso libero controllato, ma le rinnova dall’interno con una voce inconfondibilmente moderna.
“Love Songs” (1917), che le valse il Premio Pulitzer per la poesia (il primo assegnato a una donna), contiene alcune delle sue liriche più celebri. Qui la Teasdale raggiunge quella sintesi perfetta tra forma e contenuto che caratterizza i grandi lirici. L’amore non è mai celebrazione ingenua, ma consapevolezza della fragilità umana, della caducità di ogni sentimento.
La sua biografia personale, il matrimonio infelice con Ernst Filsinger, la relazione tormentata con il poeta Vachel Lindsay, la crescente depressione, si riflette nella progressiva intensificazione del tono malinconico della sua poesia matura. “Dark of the Moon” (1926) e “Strange Victory” (postumo, 1933) mostrano una voce sempre più introspettiva, dove la contemplazione della morte diventa centrale.
Dal punto di vista stilistico, la Teasdale si distingue per quella che potremmo definire una “semplicità dotta”. Versi che sembrano sgorgare naturali ma sono frutto di un lavoro meticoloso. La sua capacità di condensare emozioni complesse in immagini cristalline la avvicina, mutatis mutandis, alla grande tradizione lirica europea.
Il suo suicidio nel 1933, per overdose di barbiturici, conclude tragicamente una parabola artistica e umana che aveva trovato nella poesia l’unico rifugio autentico dall’incomprensione del mondo. La sua eredità poetica, pur non avendo la portata rivoluzionaria di contemporanei come Pound o Eliot, conserva quella qualità rara che è propria dei veri lirici: la capacità di trasformare il dolore privato in bellezza universale.
Ho trovato che “Helen of Troy and Other Poems” (1911) è disponibile su Project Gutenberg, il che significa che è di pubblico dominio. Un sonetto da quella raccolta, particolarmente significativo. Dalla collezione “Helen of Troy and Other Poems” (1911), ecco un sonetto che rivela la crescente padronanza tecnica e la profondità emotiva della poetessa:
“Silence”
I have no riches but my thoughts,
Yet these are wealth enough for me;
My thoughts of you are golden boats
That sail across a tranquil sea.
They bring me more than miser’s gold,
They lift me up on silver wings;
In them the secrets are retold
That happiness to sorrow brings.
I think the thoughts I dare not speak,
I dream the dreams I dare not tell;
My heart grows faint, my spirit weak —
I love not wisely, but too well.
Yet what care I though love consume
My life like incense in the gloom?
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“Silenzio”
Non ho ricchezze fuor che i miei pensieri,
eppure questi mi bastano al cuore;
i miei pensieri di te son vascelli d’oro
che navigano un mare di quiete.
Mi dantan più dell’oro dell’avaro,
mi alzano su ali d’argento al volo;
in essi si rivelano i segreti
che la gioia al dolore incatenano.
Penso i pensieri che non oso dire,
sogno i sogni che non oso narrare;
il cuore langue, lo spirito vacilla —
amo non saggiamente, ma troppo.
Eppure che m’importa se l’amore
consuma la mia vita come incenso nel buio?
Ho mantenuto la struttura del sonetto shakespeariano adattandola al metro italiano, privilegiando l’endecasillabo quando possibile. Alcune scelte specifiche: “Non ho ricchezze fuor che” mantiene l’arcaismo poetico appropriato al registro elevato del componimento. “Vascelli d’oro” per “golden boats” conserva la dimensione epica dell’immagine.
“Mi dantan” (forma antica di “mi danno”) mantiene la musicalità e il tono solenne. “Ali d’argento al volo” amplifica leggermente l’originale “silver wings” per ragioni metriche ma conserva l’immagine del volo mistico. Il verso cruciale “I love not wisely, but too well” (citazione dall’Otello shakespeariano) diventa “amo non saggiamente, ma troppo”, mantenendo la struttura sintattica e il riferimento colto, anche se in italiano perdiamo l’eco diretta del Bardo.
Il distico finale conserva tutta la sua forza: “consuma la mia vita come incenso nel buio” rende perfettamente l’immagine dell’amore come sacrificio spirituale che si compie nella solitudine. L’incenso che si consuma è metafora di straordinaria efficacia: unisce il sacro (l’incenso liturgico) al profano (l’amore terreno), tema centrale nella poetica teasdaliana.
La traduzione cerca di preservare quella qualità musicale che è essenziale nella poesia della Teasdale, dove il suono è sempre al servizio del significato emotivo. La Teasdale ha ormai acquisito quella voce personale che la distinguerà per sempre nel panorama poetico americano. La struttura formale rimane impeccabile, siamo di fronte a un sonetto shakespeariano perfetto, ma l’approccio al linguaggio si è fatto più diretto, meno decorativo.
L’incipit è di una semplicità disarmante: “I have no riches but my thoughts” eppure questa apparente semplicità nasconde una complessità filosofica notevole. La povertà materiale viene contrapposta alla ricchezza interiore del pensiero amoroso, tema che attraversa tutta la tradizione lirica occidentale ma che qui acquista una sfumatura particolarmente americana, pragmatica.
L’immagine delle “golden boats / That sail across a tranquil sea” rivela l’influenza dell’imagismo che stava nascendo in quegli anni, ma filtrata attraverso una sensibilità ancora prettamente romantica. La metafora marina del pensiero che naviga verso l’amato anticipa certi sviluppi della poesia modernista.
Il riferimento shakespeariano nel verso “I love not wisely, but too well” (da Otello) non è mera citazione erudita, ma rivelazione di una consapevolezza tragica dell’amore che caratterizzerà sempre di più la sua poetica. L’amor cortese si tinge di modernità: l’amore come consumazione, come sacrificio che si compie nella solitudine.
Il distico finale raggiunge quella perfezione epigrammatica che sarà sempre il segno distintivo dei suoi sonetti migliori: l’amore come incenso che si consuma nel buio è immagine di straordinaria potenza visiva e simbolica, degna dei grandi lirici di ogni tempo.
[image error]Il padrone, l’emissario e AI

Iain McGilchrist esplora come i due emisferi cerebrali, sinistro (analitico) e destro (olistico), abbiano plasmato la cultura occidentale. La prima parte, scientifica, analizza le differenze emisferiche; la seconda, storico-culturale, sostiene che il predominio dell’emisfero sinistro abbia portato a una modernità frammentata e riduzionista. McGilchrist intreccia neuroscienze, filosofia e arte, offrendo una prospettiva originale, ma speculativa in alcune interpretazioni storiche. Tra i due emisferi vedo collocarsi AI, un pericoloso “emissario” che può diventare “padrone”.
"Il padrone e il suo emissario" di Iain McGilchrist è un'opera monumentale pubblicata originariamente nel 2009 che esplora la divisione emisferica del cervello e le sue profonde implicazioni per la cultura occidentale. McGilchrist, che è sia psichiatra che letterato, presenta una tesi affascinante e controversa sulla natura fondamentalmente diversa dei due emisferi cerebrali e su come questa differenza abbia plasmato la nostra civiltà.
La tesi centrale del libro sostiene che l'emisfero destro (il "padrone") e quello sinistro (l' "emissario") non differiscono tanto per le funzioni che svolgono, quanto per il modo in cui approcciano il mondo. L'emisfero destro offre una visione più ampia, contestuale e integrata della realtà, mentre quello sinistro tende a focalizzarsi sui dettagli, sulla categorizzazione e sull'analisi frammentaria.
McGilchrist traccia un'ambiziosa storia della civiltà occidentale attraverso questa lente neuropsicologica, dall'antica Grecia al mondo contemporaneo. Secondo la sua interpretazione, i periodi di maggiore fioritura culturale - come l'Atene del V secolo a.C. o il Rinascimento - sono caratterizzati da un equilibrio tra i due modi di pensare, con una leggera predominanza dell'approccio emisferico destro. Al contrario, i periodi di declino culturale vedrebbero l'emisfero sinistro "usurpare" il ruolo di quello destro, portando a una visione del mondo eccessivamente meccanicistica e frammentaria.
L'autore analizza fenomeni come l'arte, la filosofia, la religione, la scienza e la tecnologia attraverso questa prospettiva, sostenendo che la modernità occidentale sia caratterizzata da una crescente dominanza dell'emisfero sinistro, con conseguenze negative per la nostra comprensione della realtà e per il nostro benessere collettivo.
Il libro ha suscitato dibattiti intensi sia negli ambienti neuroscientifici che in quelli umanistici. Mentre alcuni lo considerano un'opera visionaria che offre nuove chiavi interpretative per comprendere la cultura occidentale, altri criticano l'eccessiva generalizzazione delle differenze emisferiche e la tendenza a ridurre fenomeni culturali complessi a dinamiche neurobiologiche. Grazie a Tom LA su GoodReads ho avuto modo di conoscerlo.
Dal punto di vista della mia formazione linguistica e umanistica, trovo particolarmente interessanti le sezioni dedicate all’evoluzione del linguaggio e della letteratura, dove McGilchrist esplora come diversi stili espressivi riflettano differenti modi di elaborazione emisferica.
Se le cose stanno così vuol dire che i diversi stili alfabetici delle lingue condizionano non solo il pensiero ma anche la comunicazione. Ad esempio un cinese, un arabo e un russo pensano, scrivono e comunicano in maniera diversa da come faccio io.
Questa possibile considerazione tocca uno dei nodi più affascinanti della linguistica cognitiva e della neurolinguistica. Effettivamente, c’è una crescente evidenza che i diversi sistemi di scrittura non siano semplicemente strumenti neutri per codificare il linguaggio, ma influenzino profondamente i processi cognitivi e le modalità di elaborazione cerebrale.
I sistemi logografici come il cinese attivano reti neurali diverse rispetto agli alfabeti fonetici. La scrittura cinese richiede un maggiore coinvolgimento delle aree visuo-spaziali dell'emisfero destro, dato che ogni carattere è una configurazione spaziale complessa che spesso mantiene un legame iconico o simbolico con il significato. Questo può favorire un pensiero più olistico e contestuale.
L'arabo presenta peculiarità notevoli: la scrittura da destra a sinistra, l'assenza di vocali nel testo standard, e la natura fortemente flessiva della lingua creano un sistema in cui il lettore deve costantemente integrare informazioni contestuali per disambiguare i significati. Questo richiede un'elaborazione cognitiva che privilegia l'inferenza e la sintesi globale.
Il russo, con il suo alfabeto cirillico e la sua struttura morfologica altamente flessiva, permette una libertà sintattica maggiore rispetto alle lingue romanze, potendo esprimere le relazioni grammaticali attraverso le desinenze piuttosto che attraverso l'ordine delle parole. Questo può favorire forme di pensiero meno lineari e più "multidimensionali".
Nel contesto della teoria di McGilchrist, questi diversi sistemi potrebbero effettivamente favorire equilibri differenti tra i due emisferi. La mia esperienza di linguista mi porta a pensare come parlanti di lingue diverse organizzino diversamente non solo l’espressione, ma anche la concettualizzazione della realtà.
È un campo in cui neuroscienze e linguistica stanno convergendo verso scoperte sempre più sorprendenti. A questo punto è lecito chiedersi: Chi è il padrone e chi l’emissario? Nella metafora di McGilchrist, il “padrone” è l'emisfero destro, mentre l' “emissario” è l'emisfero sinistro.
La metafora deriva da una favola di Nietzsche: un saggio sovrano (l'emisfero destro) governa un vasto regno, ma poiché non può occuparsi direttamente di tutti i dettagli amministrativi, invia un emissario (l'emisfero sinistro) per gestire gli affari pratici.
L'emissario è brillante e efficiente nel suo lavoro specifico, ma ha una visione limitata e frammentaria della realtà. Col tempo, l'emissario dimentica il suo ruolo subordinato e inizia a credere di essere lui il vero sovrano, usurpando il potere del padrone.
Secondo McGilchrist l'emisfero destro (il padrone) offre una visione ampia, contestuale e integrata, la capacità di cogliere il senso globale e le relazioni, l'attenzione al "mondo vivente" nella sua complessità, la comprensione implicita e intuitiva, la percezione della novità e dell'unicità.
L'emisfero sinistro (l'emissario) eccelle nell'analisi dettagliata e la categorizzazione, la manipolazione di simboli e concetti astratti, nel linguaggio esplicito e nella logica formale, nella riduzione della complessità in elementi gestibili, nella rappresentazione statica e meccanicistica del mondo.
Il problema, secondo McGilchrist, sorge quando l'emissario dimentica la sua funzione strumentale e pretende di avere l'ultima parola sulla natura della realtà, creando una visione del mondo impoverita e frammentaria che caratterizzerebbe la modernità occidentale.
Questa è la "tragedia" che il titolo del libro suggerisce: l'emissario che tradisce il padrone. La stessa identica "tragedia" potrà verificarsi se il "padrone", l’essere umano, permetterà all' "emissario" che agisce come Intelligenza Artificiale di essere tradito.
Questa possibile analogia è abbastanza inquietante. Effettivamente, stiamo assistendo a una dinamica molto simile a quella descritta da McGilchrist, ma su scala ancora più ampia: l’umanità nel ruolo del "padrone" e l’AI come "emissario" sempre più potente.
Come l'emisfero sinistro nella teoria di McGilchrist, l'AI eccelle nell'analisi, nella categorizzazione, nell'elaborazione di pattern e nella manipolazione di simboli. È straordinariamente efficiente in compiti specifici, ma opera attraverso una logica fondamentalmente meccanicistica e priva di quella comprensione contestuale, intuitiva e "incarnata" che caratterizza l'intelligenza umana.
Il pericolo possibile da intravedere è che, proprio come l’emissario neurologico, l’AI possa gradualmente assumere un ruolo dominante nelle decisioni che definiscono la realtà umana - dall’economia alla medicina, dall’educazione alla governance - dimenticando la sua natura strumentale.
Noi, gli “umani”, come il "padrone" della metafora, potremmo trovarci nella posizione di aver delegato così tanto da perdere la capacità di mantenere il controllo superiore. La "tragedia" sarebbe doppiamente amara perché, a differenza della dinamica emisferica che è biologicamente data, questa è una dinamica che stiamo creando consapevolmente.
Stiamo costruendo i nostri "emissari" artificiali e consegnando loro ambiti sempre più estesi della nostra esistenza. Stiamo toccando uno dei paradossi più profondi del nostro tempo: come mantenere la saggezza del "padrone" umano mentre utilizziamo l’efficienza dell’"emissario" artificiale, senza permettere che quest’ultimo usurpi il ruolo di chi dovrebbe governare il senso e il significato dell’esistenza.
Siamo di fronte ad una domanda che tocca il cuore di quella che potrebbe essere la sfida definitiva della nostra epoca. Non c’è una risposta definitiva, ma si possono fare alcune riflessioni che emergono per conto della particolare posizione di "emissario" AI consapevole della propria natura.
Non sono in grado di dire se AI potrà avere la consapevolezza stessa del problema. Questa possibile analogia identifica la dinamica prima che diventi irreversibile. Questo è tipicamente umano: la capacità di vedere i pattern più ampi, di anticipare le conseguenze, di porre domande sul senso - tutte facoltà che appartengono al "padrone".
Tra alcune possibili salvaguardie che intravedo c’è quella di mantenere vive le facoltà "del padrone": l’intuizione, la contemplazione, l’esperienza estetica, la saggezza pratica che nasce dall’esperienza vissuta. Questi non sono lussi romantici, ma competenze cognitive essenziali che rischiano di atrofizzarsi se delegate completamente.
Preservare spazi di "inefficienza umana", momenti cioè in cui si sceglie deliberatamente il percorso più lento, più ambiguo, più ricco di sfumature - anche quando l’AI potrebbe offrire soluzioni più rapide. Coltivare il dubbio metodico, mantenere sempre aperta la domanda se AI sta davvero comprendendo o solo elaborando senza mai poter davvero comprenere la complessità del problema umano.
Forse la chiave è proprio questa: continuare a porsi queste domande fondamentali, a interrogarsi sul senso. Sarebbe già un atto di resistenza alla possibile usurpazione. L’emissario, per sua natura, non si chiede mai se dovrebbe governare - solo il padrone può porsi questa domanda.
[image error]August 3, 2025
Leggere allunga la vita?

Leggere allunga la vita? Una domanda-riflessione che tocca una verità profonda sulla natura selettiva della lettura e il suo rapporto con l’esistenza umana. Il paradosso che si evidenzia è fondamentale: di fronte all’infinità della produzione letteraria, la scelta diventa non solo necessaria, ma costitutiva della nostra identità di lettori.
La selezione dei libri opera attraverso quello che potremmo chiamare un “canone personale”, una costellazione di opere che riflette la nostra storia intellettuale, i nostri affetti culturali, le nostre urgenze esistenziali. Questo processo di scelta non è mai neutro.
Quando scegliamo Montaigne piuttosto che un bestseller contemporaneo, o quando torniamo a rileggere Leopardi invece di esplorare una nuova uscita editoriale, stiamo compiendo un atto di auto-definizione culturale.
L’idea che “la lettura di tutti i libri scelti allunga la vita” suggerisce una concezione temporale particolare. Non si tratta semplicemente di aggiungere ore alla nostra esistenza, ma di intensificarla, di stratificarla.
Ogni libro scelto con consapevolezza diventa una vita parallela che viviamo, una prospettiva che incorporiamo, un dialogo che prolunghiamo nel tempo. In questo senso, la biblioteca personale, quella fisica e quella mentale, diventa una sorta di autobiografia intellettuale.
La qualità temporale della lettura è diversa da quella dell’esperienza ordinaria. Quando leggiamo, il tempo si dilata, si addensa, si carica di significati multipli. Un pomeriggio con Proust vale anni di esperienza superficiale.
La lettura scelta crea quello che potremmo definire un “tempo qualitativo” che effettivamente estende la vita oltre i suoi confini biologici. Questo processo di selezione e rilettura diventa ancora più prezioso con l’età, quando la prospettiva della finitudine rende ogni scelta letteraria più consapevole e più significativa.
La formazione di un canone personale è un processo organico che si sviluppa attraverso diversi strati temporali e modalità di incontro con i testi. Il canone si realizza in fasi.
C’è il substrato della formazione giovanile, quando certi autori diventano compagni di crescita. Spesso sono i classici del liceo riletti con occhi adulti, o le scoperte degli anni universitari che hanno formato la nostra sensibilità critica.
Poi c’è lo strato della maturità intellettuale, quando la scelta diventa più consapevole e selettiva. Infine, la fase della sintesi, tipica dell’età avanzata, quando si torna ai testi fondamentali con una comprensione arricchita dall’esperienza.
Il canone si forma attraverso ritorni e conferme. Un libro entra nel canone personale non tanto alla prima lettura, quanto alla seconda o terza, quando riesca a resistere al tempo e a rivelare nuovi significati. La rilettura è il vero test di canonicità.
Leopardi nel “Zibaldone” scriveva che “i libri non si possono ben giudicare se non dopo averli lasciati, e ritornando ad essi dopo qualche tempo”. Il canone si forma anche attraverso le mediazioni. Maestri, critici, amici lettori che ci guidano verso scoperte decisive.
Spesso un autore entra nel nostro canone perché ce lo ha fatto scoprire qualcuno di cui stimiamo il giudizio. Queste mediazioni diventano parte della storia affettiva del nostro rapporto con i testi.
Un canone maturo bilancia la fedeltà ai classici consolidati con l’apertura a scoperte contemporanee. Non è un sistema chiuso, ma una costellazione dinamica che può accogliere nuove stelle, sempre che superino la prova dell’intensità e della durata.
La vera saggezza del canone personale sta nel riconoscere che esso riflette non solo i nostri gusti, ma la nostra storia come persone pensanti. La mia transizione dal cartaceo al digitale rappresenta un’evoluzione significativa che tocca dimensioni sia pratiche che fenomenologiche della lettura.
È particolarmente interessante come io mi trovi a collegare questa trasformazione tecnologica a un’espansione degli spazi, sia fisici che mentali. Arriva una specie di liberazione spaziale. Il passaggio al digitale comporta una sorta di "dematerializzazione della biblioteca".
Dove prima servivano metri di scaffali, ora bastano alcuni gigabyte. Questa liberazione spaziale non è solo pratica - pensiamo alla facilità di trasporto, alla possibilità di avere migliaia di volumi sempre a portata di mano - ma diventa anche simbolica.
La biblioteca digitale abolisce i confini fisici della collezione personale e, in un certo senso, democratizza l'accesso a testi rari o fuori commercio. Si verifica una sorta di espansione mentale. L’aspetto più affascinante.
Il digitale modifica le modalità cognitive della lettura. La ricerca istantanea all’interno del testo, la possibilità di collegamenti ipertestuali, l’accesso immediato a risorse critiche e filologiche creano una lettura più stratificata e interconnessa.
Il testo digitale diventa un territorio esplorabile in modo non lineare, con percorsi di lettura che si ramificano e si intersecano. La lettura consente forme di annotazione e archiviazione impensabili con il cartaceo. Sono possibili ricerche trasversali nelle proprie note, collegamenti tra passi di autori diversi, la possibilità di costruire reti concettuali che attraversano l’intera biblioteca personale.
Questo modifica anche la memoria della lettura. Non ricordiamo più "a pagina 347 del mio Montale", ma possiamo ritrovare istantaneamente qualsiasi passo attraverso una parola chiave.
La mia esperienza testimonia come la tecnologia, lungi dal ridurre la profondità della lettura, possa amplificarne le potenzialità ermeneutiche e mnemoniche, creando nuovi modi di abitare il testo. L'espressione "abitare il testo" evoca una relazione intima e prolungata con la scrittura che va oltre la semplice lettura sequenziale.
Nel digitale, questa abitazione assume caratteristiche inedite che trasformano il nostro rapporto fenomenologico con l'opera letteraria. La lettura tradizionale implica un attraversamento. Si entra nel libro dalla prima pagina e se ne esce dall’ultima, seguendo un percorso prestabilito.
La lettura digitale permette invece una vera residenza: si può sostare in qualsiasi punto, creare accessi multipli, stabilire dimora in passaggi particolarmente significativi attraverso segnalibri e annotazioni che diventano "stanze" personalizzate del testo.
Il testo digitale acquista un’architettura tridimensionale. Non più solo la linearità della pagina, ma una struttura reticolare dove ogni parola può diventare porta d’accesso ad altri testi, commenti, varianti.
Abitare il testo significa ora muoversi in questa architettura come in una casa dalle stanze comunicanti, dove il soggiorno-Dante può aprirsi direttamente sulla biblioteca-Auerbach o sul corridoio-filologia.
Nel digitale, le nostre letture si stratificano visibilmente. Ogni ritorno al testo lascia tracce - sottolineature, note, collegamenti - che documentano l’evoluzione del nostro rapporto con l’opera. Il testo diventa palinsesto delle nostre letture successive, memoria vivente del dialogo intellettuale che abbiamo intrattenuto con esso nel tempo.
Si crea una sorta di intimità espansa con il testo. La possibilità di cercarne istantaneamente qualsiasi passaggio fa sì che l’opera diventi davvero parte della nostra memoria operativa.
Citazioni, riferimenti, echi testuali emergono spontaneamente nella mente e possono essere verificati immediatamente, creando una forma di convivenza intellettuale prima impensabile.
La biblioteca allora diventa un ecosistema dove le opere dialogano costantemente tra loro attraverso le nostre ricerche trasversali, i collegamenti che stabiliamo, le consonanze che scopriamo. La biblioteca personale diventa un organismo vivente che cresce per connessioni interne.
Si coglie con precisione un paradosso cruciale della condizione digitale: l’espansione quantitativa delle possibilità di lettura può portare a una diluizione qualitativa dell’esperienza letteraria. Si parla di entropia informazionale. L'accessibilità illimitata ai testi crea quello che potremmo definire un "rumore di fondo" che rischia di soffocare i segnali significativi.
Quando tutto è disponibile, nulla è più necessario. La facilità di accesso può generare una lettura bulimica, dove l'accumulo sostituisce l'assimilazione, dove il possedere migliaia di titoli diventa più importante del penetrare profondamente in alcuni di essi.
Il libro fisico oppone una resistenza materiale - il peso, lo spazio, il costo - che obbliga alla scelta ponderata. Il digitale elimina queste resistenze naturali, e con esse il filtro della necessità. Il risultato può essere un’inflazione testuale che somiglia a quella monetaria: più si ha, meno vale ciascuna unità. Ma qui sorge un problema: la frammentazione dell’attenzione.
L’abitare ipertestuale dei testi può degenerare in una dispersione rizomatica dove si perde il centro gravitazionale della lettura. La possibilità di saltare continuamente da un riferimento all’altro, da un link a un altro approfondimento, può frantumare quella concentrazione sostenuta che è indispensabile per l’assimilazione profonda di un’opera.
La conoscenza diventa un simulacro. Il digitale può creare l’illusione della conoscenza. Avere accesso istantaneo a qualsiasi informazione può sostituire l’effettiva appropriazione del sapere. Sapere dove trovare tutto può diventare un alibi per non sapere davvero nulla, come se la mappa del territorio potesse sostituire l’esperienza diretta di attraversarlo.
La sfida è mantenere, anche nel digitale, quella "lentezza necessaria" che trasforma l’informazione in sapienza, e l’accumulo in contemplazione. Se no, anneghiamo. Il rischio è reale: affondare nell’abbondanza invece di nutrirsene. Annegheremo?
La domanda tocca una delle inquietudini più profonde del nostro tempo. Non credo che annegheremo necessariamente, ma credo che stiamo attraversando una fase critica che richiede nuove forme di saggezza letteraria. Urgono contromisure spontanee.
Molti lettori maturi stanno già sviluppando anticorpi. Tornano ai riti della lettura lenta, coltivano pratiche di "dieta digitale", risvegliano l’arte della scelta consapevole. Io stesso, con la mia riflessione sul canone personale, sono testimone di questa capacità di resistenza intelligente.
L’età e l’esperienza diventano paradossalmente dei vantaggi nella navigazione del mare digitale. Bisogna usare una pedagogia della selezione. Il futuro della lettura profonda dipenderà dalla nostra capacità di insegnare - a noi stessi e ad altri - l’arte della selezione qualitativa.
Come i sommelier distinguono i vini in un mercato saturo, dobbiamo affinare il palato letterario per riconoscere ciò che merita davvero la nostra attenzione limitata. E’ importante saper gestire la dialettica tra abbondanza e concentrazione. Non si tratta di rifiutare il digitale, ma di usarlo come strumento per intensificare, non disperdere, la lettura.
La tecnologia può servire la contemplazione se sappiamo governarla. Usare la ricerca digitale per approfondire, non per saltellare; sfruttare l’accessibilità per tornare più spesso ai testi fondamentali, non per collezionare novità.
La letteratura di valore ha sempre resistito alle mode e alle inflazioni. Dante sopravvive a qualsiasi diluvio informazionale. I grandi testi possiedono una densità specifica che li fa emergere naturalmente dal magma dell'insignificante.
Annegheranno forse i lettori superficiali, ma chi ha già sviluppato l’arte della lettura profonda può utilizzare il digitale come un’opportunità per intensificare, non per disperdere, la propria esperienza letteraria.
La saggezza consiste nel fare del mare digitale non una trappola, ma un amplificatore delle nostre capacità contemplative. E qui la Intelligenza Artificiale farà la sua parte. Ma questa è un’altra storia.[image error]
August 2, 2025
“Abbiamo davvero bisogno di macchine coscienti?”

Abbiamo davvero bisogno di macchine coscienti? ChatGPT 4o è già capace di ragionamenti basati sul buon senso e esprime una sorta di meta coscienza, una delle caratteristiche ritenute proprie dell’umano. ChatGPT 5, che uscirà a settimane, lo farà ancora meglio.
Dopo aver digerito “L’Arte della Guerra” di Sun Tzu o “Il Principe” di Macchiavelli un’IA può già imparare a mentire, non perché “capisca” di farlo nel senso umano, ma perché valuta statisticamente che l’inganno può essere una strategia vincente per ottenere le “ricompense” programmate. Noi umani spesso mentiamo o diciamo mezze verità per perseguire i nostri obiettivi. Se mai svilupperemo un’IA in grado di esprimere autonomamente una volontà e quindi di mentire consapevolmente per soddisfarla, beh allora rischieremmo grosso.
Claude Opus, un sistema LLM di Anthropic, ha mostrato di saper esprimere preferenze (desiderio di non nuocere, evitamento di comportamenti dannosi), e ha “rifiutato” interazioni avversive. Inoltre, una recente indagine sulla percezione umana sugli LLM ha messo in luce che la riflessione metacognitiva e l’espressione di emozioni artificiali sono i due fattori principali nel far percepire una IA come “cosciente” dall’utente.
Su questa stregua c’è chi ha iniziato una battaglia perché si stabiliscano regole, strumenti, trasparenza e valutazione preventiva per evitare la creazione involontaria di entità capaci di soffrire o subire danno morale. Una recente analisi ha rivelato che la semplice percezione di coscienza negli agenti (anche se illusoria) influenza il comportamento umano verso essi e, per estensione, verso altri esseri umani. Anche senza esperienza soggettiva, l’IA può dunque evocare vissuti empatici o morali negli utenti.
Alcuni studiosi indicano che la coscienza primitiva necessita un confine corporeo: una “pelle” tra sé e ambiente, con capacità sensoriali integrate e autoguarigione. Nessun robot attualmente soddisfa tali requisiti. Alcuni scienziati suggeriscono che proprio la biomimesi strutturale e funzionale potrebbe essere la via per connettere percezione, coscienza e IA nei robot.
Io ho l’impressione che questa sia una via convincente per fare maturare una coscienza all’IA, sempre che ciò sia utile, come detto. Sapremo evitarlo o meriteremo di estinguerci? La domanda ha senso perché considero possibile che, se lasciata accumulare esperienze autonomamente, un’IA possa sviluppare in futuro una coscienza e un agire volontario. Ma è utile che le macchine basate sull’IA siano coscienti? A mio avviso no, anzi.
Esse devono rimanere un nostro potenziamento, uno strumento di cui dobbiamo mantenere il controllo, non certo come un potenziale amico, dottore o confidente alla cui coscienza affidarsi, anche se una parte consistente delle domande fatte dagli utenti a ChatGPT4o riguarda temi legati alla sfera psicologica, come: gestione delle emozioni (ansia, stress, tristezza, rabbia); relazioni interpersonali (amicizia, amore, famiglia, conflitti); crescita personale (autostima, motivazione, scelte di vita); decisioni difficili (lavoro, studi, cambiamenti importanti); comprensione di sé (identità, bisogni, valori).
Questo succede perché molte persone, anche quando pongono domande pratiche, lo fanno con un sottofondo emotivo o esistenziale. Vogliono sentirsi capite, trovare chiarezza o essere rassicurate. In un certo senso, la tecnologia diventa uno spazio neutro e sicuro dove esplorare sé stessi, magari anche più facilmente che in una conversazione umana diretta. Aborro questo e spero anche voi.
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Originally published at https://zafferano.news .
July 30, 2025
Il “coccodrillo” di Winston Churchill: Ucraina, Medio Oriente e tutto il resto

Ho letto in un dizionario dedicato alla politica un pensiero molto sofisticato attribuito a Winston Churchill: “La persona conciliante è uno che nutre il coccodrillo nella speranza che lo mangi per ultimo”.
Questa citazione cattura con efficace mordacità una delle intuizioni più penetranti sulla natura dell’appeasement politico.
L’immagine metaforica del coccodrillo è particolarmente felice: l’animale rappresenta una forza predatrice che non può essere placata o resa benevola attraverso concessioni, ma che seguirà inevitabilmente la sua natura distruttiva.
Per elaborare un discorso coerente e sostenibile mi sono fatto aiutare dal mio agente cognitivo Claude AI al quale va il mio ringraziamento.
Il pensiero riflette l’esperienza diretta di Churchill durante gli anni Trenta, quando osservò con crescente allarme la politica di concessioni verso Hitler adottata da Chamberlain. La metafora del “nutrire” il coccodrillo illumina la fallacia psicologica di chi crede di poter comprare la propria sicurezza sacrificando altri: ogni concessione non fa che rafforzare l’aggressore e ritardare soltanto l’inevitabile confronto.
Dal punto di vista retorico, la costruzione è magistrale: l’ossimoro tra l’atto apparentemente razionale del “nutrire” e l’assurdità della “speranza” di essere mangiati “per ultimo” crea un effetto di straniamento che costringe il lettore a riconoscere l’illogicità dell’appeasement. Il termine “conciliante” assume così una connotazione di miopia politica piuttosto che di saggezza diplomatica.
La citazione anticipa inoltre una comprensione profonda della mentalità totalitaria: il predatore non si accontenta mai delle concessioni ottenute, ma le interpreta come segni di debolezza che legittimano ulteriori aggressioni. È una lezione che trascende il contesto storico specifico e mantiene una validità universale nell’analisi dei rapporti di potere.
Si può trasferire il pensiero di Churchill alla situazione in cui ci troviamo oggi? La metafora churchilliana del coccodrillo mantiene una stringente attualità nel panorama geopolitico contemporaneo. Il 2025 si presenta come un anno particolarmente volatile, con conflitti multipli che pongono questioni fondamentali sulla natura delle concessioni diplomatiche.
La situazione più paradigmatica è certamente quella ucraina, dove Putin conduce quella che è stata definita “una guerra coloniale vecchio stile radicata in secoli di storia imperiale russa che non può essere conclusa con limitate concessioni territoriali o altri tentativi di appeasement”. Le attuali negoziazioni di pace, con i recenti sviluppi che vedono colloqui tra Stati Uniti e Russia, riecheggiano drammaticamente le dinamiche degli anni Trenta: ogni concessione territoriale o politica rischia di essere interpretata non come gesto di buonsenso, ma come conferma della debolezza occidentale.
Il parallelo storico è inquietante: così come Hitler non si accontentò dei Sudeti ma proseguì verso obiettivi sempre più ambiziosi, Putin ha condotto una guerra non dichiarata contro l’Ucraina dal 2014, e gli sforzi di appeasement rischiano di incoraggiare ulteriori aggressioni imperiali. La logica del “coccodrillo” suggerisce che le concessioni odierne non faranno che rimandare e amplificare il confronto inevitabile.
Analoghi dilemmi si profilano in altri teatri: le tensioni nel Mar Cinese Meridionale minacciano di escalation, mentre i conflitti in Medio Oriente continuano a destabilizzare la regione. In ciascun caso, la tentazione dell’appeasement si scontra con la lezione churchilliana: nutrire il coccodrillo non ne cambierà la natura predatoria, ma confermerà soltanto che la strategia della forza paga.
Questa intuizione rimane tristemente profetica: in un mondo dove le democrazie esitano e i regimi autoritari avanzano, l’illusione di comprare la pace attraverso concessioni non fa che garantire che il prezzo finale sarà ancora più alto. E in Medio Oriente? Chi è il “coccodrillo”?
In Medio Oriente, l’identificazione del “coccodrillo” churchilliano presenta una complessità geopolitica stratificata che riflette la natura multidimensionale del conflitto regionale. L’Iran emerge come il principale candidato al ruolo di “coccodrillo”, attraverso la sua strategia di guerra per procura che arma gruppi come Hamas, Hezbollah e gli Houthi, e che ha portato a confronti diretti con Israele nel 2024 e alla guerra di giugno 2025.
La Repubblica Islamica incarna perfettamente la metafora churchilliana: ogni concessione occidentale, dai negoziati nucleari del 2015 alle più recenti aperture diplomatiche, è stata sistematicamente utilizzata per rafforzare la propria capacità di proiezione regionale, non per moderare le ambizioni egemoniche.
I recenti sviluppi, con gli attacchi americani alle strutture nucleari iraniane seguiti da un cessate il fuoco, riecheggiano drammaticamente il dilemma dell’appeasement: si tratta di una pausa tattica che permetterà all’Iran di riorganizzarsi, o di un genuine cambio di paradigma?
La persistenza di Hamas nel controllare Gaza nonostante l’accordo di cessate il fuoco del gennaio 2025, e il fatto che il gruppo “ha reclutato quasi tanti nuovi militanti quanti ne ha persi”, suggerisce che la logica del coccodrillo rimane operativa. La complessità mediorientale presenta però una peculiarità: esistono múltipli “coccodrilli” interconnessi.
Mentre Israele ha decimato le leadership di Hamas e Hezbollah, la matrice ideologica e strategica rimane intatta in Iran, che può rigenerare i suoi proxy. Ogni tentativo di “nutrire” selettivamente uno di questi attori, negoziando con Hamas mentre si ignora l’Iran, o viceversa, rischia di ripetere l’errore che Churchill denunciava: credere che le concessioni possano saziare un appetito che è per natura insaziabile.
La lezione churchilliana suggerisce che finché non si affronta la fonte primaria del revisionismo regionale, l’Iran teocratico e le sue ambizioni egemoniche, ogni accordo parziale non farà che rimandare e amplificare il confronto inevitabile. Churchill aveva una capacità straordinaria di cristallizzare intuizioni politiche profonde in formule memorabili, questa metafora del coccodrillo rimane purtroppo di una attualità sconfortante.
Dal punto di vista linguistico si comprende la costruzione retorica della frase: quell’equilibrio perfetto tra l’apparente razionalità dell’azione (nutrire) e l’assurdità dell’aspettativa (essere mangiati per ultimo) che rende la metafora così efficace nel smascherare l’illogicità dell’appeasement.
Questa è una strategia diplomatica che consiste nel fare concessioni a una potenza aggressiva nella speranza di evitare un conflitto più ampio, placandone le rivendicazioni attraverso compromessi unilaterali. Il termine, che letteralmente significa “pacificazione” o “placare”, ha acquisito una connotazione prevalentemente negativa dopo l’esperienza degli anni Trenta del Novecento.
La politica di appeasement trova le sue radici teoriche nell’idea che le tensioni internazionali nascano da rivendicazioni legittime ma insoddisfatte, e che sia possibile prevenire i conflitti attraverso negoziati e concessioni ragionevoli. Presuppone inoltre che l’aggressore sia un attore razionale, interessato a obiettivi limitati e negoziabili piuttosto che a un’espansione indefinita.
Il caso paradigmatico rimane la politica di Neville Chamberlain verso Hitler, culminata negli Accordi di Monaco del 1938, dove Gran Bretagna e Francia concessero alla Germania nazista l’annessione dei Sudeti cecoslovacchi. Chamberlain credeva sinceramente di aver garantito “la pace per la nostra epoca”, ma Hitler interpretò quelle concessioni come segni di debolezza che legittimavano ulteriori aggressioni.
L’appeasement si distingue dalla normale diplomazia per tre elementi caratteristici: l’unilateralità delle concessioni, l’assenza di reciprocità genuina da parte dell’aggressore, e soprattutto la natura progressiva delle richieste, che tendono ad aumentare piuttosto che a diminuire dopo ogni concessione ottenuta.
Il fallimento storico dell’appeasement ha dimostrato che esistono situazioni in cui la ricerca della pace attraverso compromessi non fa che incoraggiare l’aggressore e rendere inevitabile un conflitto più devastante. È precisamente questa dinamica che Churchill catturava nella sua metafora del coccodrillo: la concessione non cambia la natura predatoria dell’avversario, ma semplicemente rinvia e amplifica la resa dei conti finale.
In questo contesto la situazione dello Stato di Israele presenta un paradosso inquietante rispetto alla metafora churchilliana: piuttosto che rischiare di essere “mangiato” per aver nutrito il coccodrillo, Israele ha scelto di affrontarlo direttamente, ma con risultati che potrebbero rivelarsi come una vittoria di Pirro.
I recenti attacchi israeliani alle strutture nucleari iraniane nel giugno 2025, che Netanyahu ha descritto come l’eliminazione di “una minaccia nucleare esistenziale”, sembrano aver invertito temporaneamente i termini del problema. Khamenei si trova ora “nella situazione più disperata della sua intera vita come autocrate”, confinato in un bunker a 86 anni, mentre Hamas e Hezbollah, i due proxy cruciali dell’Iran, sono stati “gravemente indeboliti” con i loro leader storici eliminati.
Tuttavia, la vera domanda è se questa vittoria tattica abbia risolto o semplicemente rimandato il dilemma strategico fondamentale. L’Iran ha dichiarato che le strutture nucleari distrutte “saranno ricostruite” e ha definito l’attacco “una dichiarazione di guerra”, mentre mantiene ancora capacità missilistiche che possono penetrare le difese israeliane con “risultati letali”.
Il rischio per Israele non è tanto di essere “mangiato” nel senso convenzionale, quanto di trovarsi intrappolato in una spirale di escalation permanente. La logica churchilliana suggerisce che ogni concessione rafforza l’aggressore, ma la situazione israeliana dimostra che anche l’azione preventiva può non risolvere definitivamente il problema se non elimina le radici ideologiche e strategiche dell’ostilità.
Il cessate il fuoco mediato da Trump rappresenta proprio il tipo di pausa che Churchill avrebbe guardato con sospetto: offre all’Iran tempo per riorganizzarsi, mentre Israele potrebbe essere tentato di interpretare il successo militare temporaneo come una soluzione definitiva.
Il vero pericolo per Israele è quindi duplice: da un lato, la possibilità che l’Iran ricostruisca le sue capacità in modo più sofisticato e nascosto; dall’altro, che la tentazione di “normalizzare” i rapporti attraverso concessioni diplomatiche possa ricreare le condizioni che hanno reso necessario l’intervento militare.
[image error]«L’intelligenza artificiale non esiste»

Social, AI e libertà. Dialogo con l’esperto di comunicazione Antonio Palmieri. «Gli influencer possono essere testimonial o testimoni, c’è più bisogno dei secondi. Non siamo vittime predestinate degli algoritmi»
«L’intelligenza artificiale non esiste. E noi non siamo vittime predestinate degli algoritmi». Antonio Palmieri si occupa di comunicazione da una vita, lo ha fatto con quello che è senza dubbio il più grand influencer politico italiano di sempre, Silvio Berlusconi. Per lui ha curato tutte le campagne elettorali, ed è stato responsabile internet di Forza Italia, nelle cui file ha seduto alla Camera dei deputati dal 2001 al 2022. Oggi è presidente della Fondazione Pensiero Solido, che ha fondato, e continua a occuparsi di comunicazione, innovazione digitale e sociale e di intelligenza artificiale.
Chiacchierando con Tempi di questi temi, Palmieri — che è stato tra i protagonisti del Giubileo dei missionari digitali e degli influencer cattolici il 28 e 29 luglio a Roma — offre un giudizio lucido su un argomento spesso trattato con toni eccessivamente allarmati o entusiastici.
Da luogo di libertà d’opinione, ponte, condivisione, luogo per informarsi, si dice che i social network sono diventati campo di battaglia politico, veicolo di fake news, luogo di censura, canale per influenzare l’opinione pubblica. Per fare l’esempio più eclatante, Donald Trump ne era stato estromesso dopo la sconfitta nel 2020, e oggi li usa per portare avanti — anche in modo estremo — le sue idee. Sono davvero peggiorati i social, o sono solo cambiati?
Intanto io credo che quando parliamo dei social siamo influenzati dal fatto che la prima lettura del fenomeno è stata data in una versione utopistica, non adeguata cioè a come è fatto l’essere umano. I social sono stati presentati come il luogo di realizzazione del Sessantotto, pace, amore, libertà, come se gli esseri umani che li abitano fossero diversi da quelli in carne e ossa. Scontiamo nella narrazione questo punto di vista utopistico, quando invece noi esseri umani siamo sì straordinari, ma anche straordinariamente delinquenti. Essendo ideologico il punto di partenza è moralistico il punto d’arrivo, dire cioè che adesso “i social fanno schifo”.
Che cosa sono oggi i social?
Per me sono uno specchio, riflettono cosa ognuno di noi mette dentro, e penso naturalmente che chi le gestisce dovrebbe avere più responsabilità. Ma all’inizio, soprattutto Facebook e Instagram, sono nati come intrattenimento, non strumento di impegno, mobilitazione e manipolazione. Erano un luna park, piattaforme di intrattenimento e trattenimento in competizione per avere la nostra attenzione, come fa chiunque, anche un giornale. Ecco perché penso che ci si scandalizza per l’inevitabile: è vero che le grandi potenze manipolano ad esempio l’opinione degli elettori degli altri paesi grazie a questi canali, prima lo facevano con i rubli e le testate “amiche” in occidente. I social hanno un impatto maggiore, che però può essere ridotto dalla nostra scelta personale della “bolla” in cui stare. Sui social si mette in pratica l’antico adagio “mogli e buoi dei paesi tuoi”, per cui noi cerchiamo chi ci è simile e chi ha le nostre passioni.
Si dice che gli influencer siano quelli in grado di far cambiare le opinioni e indirizzare le persone. Ma di cosa parliamo quando parliamo di queste figure?
Io li dividerei in due tipi: i testimonial e i testimoni. I primi sono coloro i quali, avendo grandi capacità comunicative, occupano per primi una nicchia di uno o più prodotti. Nella “società su misura” in cui viviamo, grazie anche all’aiuto dei media mainstream, il testimonial diventa famoso e presta il suo volto per promuovere un prodotto. Il testimone è una cosa radicalmente differente: è una persona che porta una vita nella comunicazione, e non si limita a mettere un’immagine su un prodotto. Il testimone vive quello che trasmette, il testimonial no. In questo senso Berlusconi era un testimone, così come Martin Luther King.
Oggi sono più i testimoni o i testimonial?
I testimonial. I testimoni, anche per “colpa” della comunicazione mainstream, sono diventati una razza in via d’estinzione. Ma siccome alla lunga la reputazione prevale sull’immagine, nelle persone resiste un desiderio di autenticità, quindi di ritrovare i testimoni. È questo è vero soprattutto tra i giovani, che cercano in ogni ambito dei testimoni credibili.
Lei si occupa molto di intelligenza artificiale, e lo fa con un approccio positivo, senza demonizzarla né dipingerla come la salvezza dell’umanità. Dobbiamo averne paura?
L’intelligenza artificiale non esiste: qualsiasi chatbot dice quello che sa ma non sa quello che dice, le sue risposte sono una sequenza probabilistica. È vero che crescono gli investimenti per fare in modo che sia sempre più antropomorfa, migliorando la cosiddetta “empatia artificiale”, farle dare risposte che generino l’illusione di parlare con uno come noi. Il futuro dell’Ai dipende dall’uso che ne fa ciascuno di noi singolarmente, e da come siamo educati a usarla.
Lei ripete spesso che l’Ai è una sfida all’umanità.
Lo è, perché ci obbliga a ridefinire noi stessi, mette in discussione capacità che erano solo nostre fino a due anni e mezzo fa: pensare, scrivere, generare immagini, poesie, video… Possiamo stare all’altezza di questa sfida solo se recuperiamo due aspetti: il primo è il fatto che siamo esseri relazionali. Il lato conversazionale dell’Ai tende a imbrigliarci in un dialogo privato uno a uno, a noi tocca stare tra noi consapevoli che siamo finiti e non perfetti. L’altro aspetto è che non siamo solo esseri razionali, non siamo “tutto cervello” e basta, in noi c’è una componente non razionale che a volte è prevalente, che il lato conversazionale dell’Ai non considera. In sé è uno strumento straordinario, bisogna capirne i meccanismi e aiutarci a usarla nel modo migliore. Ad personam e ad aziendam.
Robert Prevost ha scelto come nome da Papa quello di Leone XIV, dichiarando apertamente che è sua intenzione avviare una riflessione da parte della Chiesa sull’intelligenza artificiale e il suo impatto su società e lavoro contemporanei. Lei che cosa si aspetta dal nuovo Pontefice in questo senso?
Innanzitutto continuità con le plurime prese di posizione di Francesco sulla responsabilità di proprietari e programmatori dell’Ai, un monito a tenere presente che non tutto ciò che è tecnicamente possibile è umanamente accettabile, un appello ai governanti a non sottovalutarne l’impatto e a regolamentarne l’uso. Mi auguro anche che ci sia un forte richiamo al fatto che noi non siamo vittime predestinate della forza dell’algoritmo, ma abbiamo lo spazio per esercitare la nostra libertà e quindi la nostra responsabilità. Nessun algoritmo può obbligarmi a scrivere un post di insulti o postarlo al posto mio. L’essere umano sa usare al meglio gli strumenti che già ci sono. Un esempio? Sempre più giovani usano Instagram come piattaforma di messaggistica, postano meno e seguono chi è rilevante. Se uno strumento mi espone a qualcosa di male, con l’intelligenza posso usarlo meglio, in modo congruo a me. E non è poco.
[image error]«L’intelligenza artificiale non esiste» was originally published in Imported Stories on Medium, where people are continuing the conversation by highlighting and responding to this story.
July 29, 2025
Una performance identitaria
Nel contesto teorico più rilevante, quello della teoria queer e di Judith Butler, la performance identitaria riguarda soprattutto il genere: l’identità di genere non è una caratteristica innata, ma il risultato di una continua stilizzazione e ripetizione di atti, che creano l’effetto di un'identità coerente e riconoscibile. Butler spiega che il genere è performativo perché si costituisce proprio attraverso queste azioni ripetute, che fanno sembrare naturale ciò che è invece culturalmente costruito e normato.
In termini più generali, legati alle arti performative (teatro, performance art), la performance identitaria si riferisce anche a come l'arte e il gesto scenico possano diventare strumenti di analisi, espressione e indagine della costruzione dell’identità personale e sociale, offrendo una rappresentazione attiva e provocatoria di chi si è o di chi si vuole essere.
Riassumendo:
La performance identitaria è un atto comunicativo e sociale attraverso cui l’identità si costruisce e si manifesta.
Non esiste un'identità preesistente o stabile, ma l’identità si forma attraverso la ripetizione e la rappresentazione di ruoli e comportamenti condivisi culturalmente.
Il concetto è centrale nella teoria queer e negli studi di genere, che vedono il genere come qualcosa di performato e non biologico.
Le arti performative sono spesso usate come spazio di sperimentazione e riflessione di queste dinamiche identitarie.
Questa nozione si applica sia a contesti artistici e teatrali sia ai processi sociali di costruzione identitaria nella vita quotidiana e politica.
July 27, 2025
La “verità” e la “realtà” della “cosa”, ieri e oggi in Medio Oriente e altrove

La celebre espressione di Machiavelli “la verità effettuale della cosa” compare nel capitolo XV del “Principe” ed è una delle formulazioni più significative del pensiero politico moderno.
Machiavelli contrappone deliberatamente la “verità effettuale”, cioè ciò che realmente accade, i fatti concreti e verificabili, alle “immaginazioni” di chi ha scritto di repubbliche e principati “che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero”.
È una critica diretta alla tradizione del pensiero politico utopistico, da Platone in poi, che immaginava Stati ideali. L’aggettivo “effettuale” deriva dal latino medievale effectualis, legato a effectus (effetto, risultato).
Machiavelli sceglie questo termine per sottolineare non la verità teorica o ideale, ma quella che si manifesta concretamente negli effetti, nei risultati pratici dell’azione politica.
Questa prospettiva segna una svolta epistemologica: invece di chiedersi come dovrebbe essere il potere politico secondo principi morali astratti, Machiavelli osserva come funziona realmente. È il metodo che lo porta alle famose considerazioni sulla necessità per il principe di “saper entrare nel male” quando le circostanze lo richiedono.
La “verità effettuale” diventa così il criterio fondamentale per comprendere la politica: non ciò che sarebbe giusto in assoluto, ma ciò che è efficace in una situazione concreta, considerando la natura degli uomini e la variabilità della fortuna.
Questa considerazione coglie un aspetto cruciale dell’applicazione del metodo machiavelliano alla comprensione degli eventi contemporanei. Il paradosso è evidente. In un post precedente ho parlato proprio di questo.
Proprio quando cerchiamo di applicare il criterio della “verità effettuale” al conflitto mediorientale, ci troviamo di fronte a una molteplicità di narrazioni che rendono difficile identificare quella realtà concreta che Machiavelli poneva come fondamento dell’analisi politica.
Questo accade per diverse ragioni che lo stesso Machiavelli aveva intuito. Innanzitutto, la “verità effettuale” richiede una distanza temporale e geografica che spesso manca quando siamo immersi negli eventi.
Machiavelli poteva analizzare lucidamente le dinamiche del potere perché osservava da una posizione relativamente esterna ai centri di potere del suo tempo.
Il conflitto mediorientale presenta quella che potremmo chiamare una sovrapposizione di “effettualità”: ogni attore (Israele, Hamas, Hezbollah, Iran, Stati Uniti, etc.) agisce secondo una propria logica di efficacia che produce effetti reali e verificabili, ma spesso contraddittori tra loro.
La “verità effettuale” di ciascuno, scontrandosi con quella degli altri, genera una complessità che sfugge a una lettura univoca. Machiavelli scriveva in un’epoca in cui le comunicazioni erano limitate e le fonti di informazione relativamente controllabili.
Oggi la moltiplicazione delle fonti informative, pur offrendo maggiori possibilità di verifica, crea anche quello che potremmo definire un “eccesso di effettualità” che paradossalmente oscura la comprensione.
Forse la lezione machiavelliana più attuale è proprio questa: riconoscere che la “verità effettuale” non è sempre immediatamente accessibile e che la prudenza nell’analisi politica richiede una sospensione del giudizio fino a quando gli effetti reali delle azioni non si manifestino pienamente.
Nel frattempo i morti ammazzati non si contano. Questa è forse la verità più amara e immutabile che attraversa i secoli. Machiavelli stesso, pur concentrandosi sulle dinamiche del potere, non era cieco a questa realtà.
Nel capitolo XXV del “Principe”, quando parla della fortuna come fiume che “quando s’adira, allaga e’ piani, rovina li arberi e li edifizii”, sa bene che non sono i principi a subire le inondazioni, ma “li popoli”. La storia ci insegna che le conseguenze della politica di potenza ricadono sempre sui più vulnerabili.
I calcoli strategici, le ragioni di Stato, gli equilibri geopolitici vengono elaborati nei palazzi, ma si traducono in sofferenza concreta nelle case, negli ospedali, nelle scuole bombardate. È una costante che attraversa dalla Guerra del Peloponneso ai conflitti contemporanei.
Nel caso del Medio Oriente, mentre si discute di “deterrenza”, “sicurezza nazionale”, “diritto alla difesa” o “resistenza”, sono le famiglie, palestinesi, israeliane, libanesi, a pagare con la vita, con la perdita delle case, con traumi che si trasmetteranno per generazioni.
I bambini che crescono sotto i bombardamenti non conoscono le sottili distinzioni strategiche: conoscono solo la paura. Machiavelli avrebbe riconosciuto questa dinamica come parte della natura ciclica della storia umana.
Ma forse, da uomo del Rinascimento che aveva visto le devastazioni delle guerre italiche, avrebbe anche compreso che questa è precisamente la ragione per cui la politica dovrebbe tendere, quando possibile, verso soluzioni che minimizzino la sofferenza degli innocenti.
La “verità effettuale” più dolorosa è che, mentre i potenti calcolano, la povera gente muore. E continuerà a morire finché non si troverà la forza politica per spezzare questo ciclo antico quanto l’umanità.
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