Fabrizio Ulivieri's Blog, page 117
October 26, 2018
Lo scontro con Ida

- Io t’ammazzo! – gli aveva urlato Ida – Io che ti ho cacato, ti ho messo al mondo, io t’ammazzo!
Piantò in faccia a Silvano due occhiacci spiritati, come raramente le aveva visto. Sembravano di brace infocata.
- Ora anche il mare! - continuò – E che siamo signori? Al mare ci vanno i signori, non noi contadini.
- Sentite mamma, io vi do tutti i soldi che guadagno, per campare. Piero invece non vi dà nulla. E a voi vi sta bene. Anzi lo trattate meglio di me. Ma che vi pare giusto fare queste differenze fra fratelli?
- Ma lui è un giovanotto.
- E che vuol dire?
La madre non rispose. Teneva i pugni appoggiati sui fianchi e non abbassava lo sguardo.
- Vuol dire che voi fate le differenze. Ecco che vuol dire – proseguì Silvano.
- Figliettino! Dire a me queste cose che mi son levata il pane di bocca per te e ora per quei due mangiapani!
- Siete cattiva mamma. Anzi sapete che vi dico? Mare o non mare, io e Sabatina ce ne andiamo.
- Che vuol dire ce ne andiamo?
- Che andiamo a vivere per conto nostro. Qui non è più possibile.
Ida afferrò uno stidione dal canto del fuoco (stavano parlando vicino al grande camino, dove Ida la mattina cominciava a cucinare nel pentolone) e glielo misurò in faccia a Silvano.
- Non ci provate mamma, che un cazzotto non ve lo leva nessuno.
- Sei un disgraziato. Prima hai lasciato solo tuo padre a lavorare i campi. Ora ci vuoi lasciare soli, noi due poveri vecchi. Io vi ho preso in questa casa, vi ho campati, ho campato i vostri figlioli. E ora...e ora ve ne volete andare.
Silvano abbassò gli occhi. Gli avevano fatto male quelle parole. Aveva comunque un senso di colpa verso il padre. E ora anche la madre ci si metteva.
- Mamma, non siate ingiusta. Abbiamo il diritto alla nostra vita. E poi anche voi dovete essere sincera, siete una tiranna in questa casa. Fate e disfate e nessuno vi può dire nulla. Non accettate altri pareri e punti di vista.
- In questo casa comando io, e io decido. Che vi piaccia o non vi piaccia. Qui si fa come dico io. E se volete andarvene, fate un po’ come vi pare. Io un vi trattengo.
- Sentite mamma...al mare ci penso io. Voi non dovrete tirare fuori una lira. E poi un’altra cosa...io non potrò esserci al mare, dovrò lavorare a giugno. Perché non ci andate voi al posto mio a dare una mano a Sabatina? Da sola con due figlioli come farà? In fondo...pensateci bene...voi il mare in tutta la vostra vita non l’avete mai visto.
Published on October 26, 2018 19:11
October 24, 2018
Marina di Pisa

«O Marina di Pisa, quando folgora il solleone!...»
(Gabriele D’Annunzio)
Continuò a pensare a quegli anni. A quando dalla Striscia si erano trasferiti a Montelupo, e lui aveva cominciato a lavorare alla camera del lavoro di Fucecchio.
Silvano partiva in Lambretta la mattina verso le otto e tornava per lo più dopo mezzanotte. Quasi ogni sera aveva riunioni con i contadini, e spesso non erano a Fucecchio, ma a Pontedera, Ponsacco, Monsummano…se era fortunato a Empoli, o Castelfiorentino.
Sabatina in quella casa, sola, soffriva sempre di più. La mattina lavava e vestiva i bambini, li aiutava a fare colazione, e già dall’ inizio del giorno doveva sopportare la cattiveria di Ida.
- C’è da andare nel campo a aiutare Beppe. Non perdere troppo tempo con quei due mangiapane a tradimento.
- Ma dovrò fargli fare colazione! E poi come potete chiamarli “mangiapane a tradimento”? Sono i Vostri nipoti...
- Io, alla loro età mi lasciavano a casa insieme al cane, e andavano tutti a lavorare.
- Comunque stamattina li devo portare dal dottor Ciardi. Hanno la tosse. Da Beppe ci andate Voi.
- Ci mancava anche il Ciardi! Ma quanti ci costano codesti due mangiapani!
- Ma anche io, lavoro in questa casa. Qualcosa dovrà pur contare? Anche io vado nel campo a lavorare con Beppe. Non conta nulla? E Silvano? Tutto quello che guadagna lo dà a Voi. Anche questo non conta?
- Ma sai quanto, a mantenervi tutti quanti voi, mi ci vuole? Quanto mi costate, lo sai?
- Eh, sì...ma quando andate a Castelfiorentino dalla Vostra figliola e le portate i soldi perché suo marito è rimasto senza lavoro, allora quello non conta?
Ida aveva in mano una padella che aveva appena lavata. Andò sul muso di Sabatina e gliela misurò.
- Brava! Picchiatemi anche!
Ida alzò in alto la padella come se volesse davvero colpire Sabatina.
Luigi e Fabrizio a vedere quella scena cominciarono a piangere e a gridare “Nonna, no! Nonna, no!”
Ida si fermò. Cominciò a bestemmiare e andò fuori a dar da mangiare alle galline.
- E chi glielo dice a quella?
Silvano tacque.
- Silvano, non possiamo continuare ad abitare qui. Io con tua madre non ci voglio più stare. Dobbiamo andarcene, fare una nostra famiglia. E poi come possiamo dormire in una camera che quando piove o nevica dobbiamo dormire con l’ ombrello? perché il tetto è pieno di buchi proprio sopra la nostra testa. E tua madre non vuole spendere per ripararlo...per forza i bambini si ammalano.
Silvano la ascoltò. Non replicò nulla. Si limitò solamente a guardarla. Poi come se non avesse sentito, rispose:
- Questa non ci voleva. Ci vorranno un bel po’ di soldi. Basteranno quindici giorni?
- Il dottore ha detto di sì. Hanno bisogno di sole. Mancano di vitamina D. Devono respirare acqua salmastra. Troppo umido qui a Villambosco. Siamo sotto poggio, non ci dà mai il sole su questa casa.
- Ma dove potremmo portarli?
- A Marina di Pisa. Non è lontano. Vicino Pisa. C’è una bella spiaggia, una pineta grande. E un trenino che da Tirrenia corre per tutta la pineta fino a Livorno.
- Allora si potrebbe andarci in treno, da Montelupo fino a Livorno e poi prendere il treno per Marina di Pisa.
- Sì.
- Ma che mese? Sarebbe meglio settembre. Costa meno.
- No, hanno bisogno di sole. Io ce li porterei la seconda quindicina di giugno.
- Bisognerà andare una domenica a fissare una casa.
- Sì.
- E con Ida come si fa?
- Non lo so. Ci devo pensare.
Ida era una donna arcigna, con la quale era impossibile ogni genere di dialogo. Nata nel 1899 da una famiglia di contadini e boscaioli, aveva avuto tre sorelle e un fratello. Due erano morte a causa della febbre spagnola insieme al padre. La madre sarebbe morta poco dopo per (come si diceva allora) “un malaccio”.
La terza sorella invece sarebbe scomparsa qualche anno prima che Ida morisse (1993).
Il fratello trovò la sua fine al fronte, durante la Prima Guerra Mondiale. Al fratello Ida era particolarmente affezionata. Tanto è vero che quando Fabrizio nacque si impuntò nel volerlo chiamare Adon, come il fratello. Naturalmente ne originò una guerra con Sabatina, che non voleva quel nome.
La guerra fu risolta con un compromesso: Fabrizio sarebbe stato il primo nome, Adon il secondo. Fabrizio Adon, fu così chiamto il bambino.
Venendo da una famiglia di contadini e boscaioli, la sua vita fin da piccola fu divisa tra la casa e il bosco, dove andava a badare le pecore e a portare da mangiare ai carbonai. Imparò presto a andare a cavallo, senza sella, di modo che le fosse più agevole seguire le pecore e spostarsi da casa al bosco per vettovagliare i carbonai e i boscaioli.
Non frequentò mai le scuole e nonostante tutto imparò a leggere e scrivere. Era certamente una donna intelligente, ma indurita assai dalla vita selvatica che conduceva. Fin da piccola aveva infatti passato più tempo insieme agli animali che agli esseri umani.
- Nel bosco c’è una ragazza che ha due sedi sodi come il marmo, che ti ci potresti sedere sopra. Ma chi è? - fu il commento di Giuseppe, parlando con suo padre Giovanni, un giorno che si era addentrato nel fitto della boscaglia per far legna.
- E’ la figliola del Frediani, di Casa al Rosso.
Fu quella la prima volta che Giuseppe incontrò Ida, e da cui poi non si sarebbe più separato fino alla sua morte, avvenuta nel 1973 a causa di un ictus.
Nessuna meraviglia dunque che da un’infanzia e una gioventù simili fosse degenerata una forma di vita insensibile e gretta, che badava unicamente alla conservazione del proprio interesse personale e accettava solamente il proprio punto di vista.
La stessa durezza che aveva verso gli altri l’aveva verso se stessa.
Se le capitava di essere malata di gola (abbastanza frequente) o avere un’altra malattia (raramente) si chiudeva per giorni - dipendendo dalla gravità, anche settimane – in camera al buio, senza mai uscirne, e cibandosi di solo pane ammorbito nell’ acqua fredda. E solo Beppe (Giuseppe), era ammesso nella camera.
Solo Beppe, suo marito, infatti era riuscito a prenderle le misure col non avere opinione propria e facendo quello che lei comandava, ottenendo così autonomia di spazi e di rispetto che venivano tollerati da Ida. Poteva andare alla Casa del Popolo di Montelupo a veglia. Gli lavava i panni e glieli stirava e lo serviva a tavola. Giuseppe era anche l’ unico a cui mai si rivolgesse in modo sgarbato e irrispettoso.
A modo suo, si potrebbe dire, che lo amava.
Silvano con sua madre aveva un rapporto conflittuale, nel senso che la rispettava e in linea generale aveva sempre fatto quello che lei gli aveva chiesto ma alla fine aveva capito che Sabatina non aveva tutti i torti e sempre più mal sopportava la tirannia della madre.
Ribellarsi a lei non gli era facile, ma il carattere antiautoritario che gli era connaturato le impediva di accettarne le imposizioni. In particolare mal tollerava di doverle dare tutti i soldi che guadagnava.
Fu così che decise di affrontarla. Non era tanto il fatto che i bambini avessero bisogno di mare, piuttosto voleva una rottura, e definitiva, con sua madre.
Marina di Pisa all’ epoca ancora aveva le spiagge parzialmente erose (che sarebbero poi definitivamente scomparse negli anni Sesssanta), ma pur sempre spiaggia in sabbia, non come quelle della confinante Tirrenia ma comunque spiagge. Rispetto a Tirrenia i costi erano minori. Tirrenia era stata infatti un’operazione urbanistica a cura del fascismo e in quegli anni ne godeva ancora i fasti, soprattutto perché vi si erano stabilite le truppe americane a Camp Darby, non distante dalla cittadina litoranea, che contribuiva a rendere viva Tirrenia.
Quando una domenica di maggio arrivarono a Marina di Pisa e scesero alla stazione nella pineta la cittadina piacque a entrambi, soprattutto a Luigi e Fabrizio, che avevano portato con sé.
Telefonicamente avevano avuto un contatto con la famiglia Billeri, che abitava in piazza delle Baleari. Sapevano che era davanti al Mare lungo il viale per Tirrenia.
Cominciarono dunque a camminare alla volta del centro della cittadina.
Non era agosto, non erano i solleoni di fine luglio e inizio agosto ma era un caldo opprimente, anche se le 10 del mattino.
- Mamma, babbo! Guarda! Il mare! – grido Luigi.
- Dove? – fece eco Fabrizio.
- Laggiù!
In lontananza fra le case che si aprivano su una strada aperta verso il mare si vedeva il luccichio della distesa dàacqua, piatta.
- Mamma, io voglio venire al mare qui. Ti prego.
- Dillo a tuo padre. – Rispose Sabatina.
- Babbo! Ti prego...vorrei venire al mare qua.
- Anche io! – lo supportò Fabrizio.
- Va bene, va bene. – rispose Silvano, cercando di tenerli a bada.
- Deve essere quella piazza delle Balearì – disse Sabatina.
In effetti in fondo alla strada, da cui avevano avvistato il mare, si intravedeva uno slargo a semicerchio, che corrispondeva alla descrizione che gli avevano fatto la famiglia Billeri per telefono.
Published on October 24, 2018 04:41
October 20, 2018
Alberto Sordi e il carattere degli italiani

A distanza di anni, Silvano odiava certe cose. Quando la lucidità glielo permetteva ripensava indietro alla sua vita.
Quel pomeriggio ripensò agli anni Cinquanta. Al boom economico, a come la gente vedeva crescere i loro soldi, il benessere, e a come la speranza non conoscesse limiti in quegli anni.
In quegli anni erano nati Luigi e poi Fabrizio. Cinque anni di differenza fra l’uno e l’altro. Erano figli di quell’ ideale. Figli della speranza di una vita felice. Di una vita dettata da un reddito improvviso, che superava le aspettative.
Mettere al mondo un figlio allora pensava che fosse un atto di responsabilità per il figlio e il mondo. Ma ora no. Ora pensava che è solo egoismo. E’ un processo naturale attorno a cui si costruiscono narrative inutili. Lui e Sabatina avevano educato i figli secondo la loro natura. Il credo nella famiglia, il rispetto dell’uno e dell’altro. Il dare sempre, anche se non ricevi. Il volersi bene, in quanto fratelli.
In realtà erano divenuti due estranei Luigi e Fabrizio. E Silvano ne soffriva. Vedere due fratelli che erano così diversi e lontani era un dolore che non sapeva esprimere e perciò lo viveva in silenzio.
Ma in fondo anche lui con sua sorella Diana e con suo fratello Piero, come erano diventati?
Le narrative servono solo a descrivere un ruolo, se i ruoli cessano, cessano le narrative. Si assume un altro ruolo e si aderisce ad altre narrative. Un fratello che si sposa, un fratello che cambia città, un fratello che fa figli vive secondo narrative diverse da quelle di quando si dormiva nella stessa camera.
Silvano soffriva, avrebbe voluto che i suoi figli fossero sempre fratelli, fossero Luigi e Fabrizio, ma ora quasi non si capivano più.
Il vincolo di sangue? Una narrativa bugiarda, che non esiste più, in un mondo dove gli eroi non esistono più.
Un grande vantaggio della vecchiaia è di diventare scettici, è che cominci a pensare (quando la mente funziona) perché hai tanto tempo per osservare le cose di lontano. E questo è un grande vantaggio, che non hai quando sei giovane. Da giovane corri, pensi solo a correre. Hai una sete dentro che ti fa solo correre.
Perché aveva cominciato a pensare al passato?
Era Sabatina. Sabatina passava interi pomeriggi alla TV, dormendo. Ogni tanto si svegliava, diceva qualcosa e si riaddormentava.
- Ma perché guardi questo film? – le chiese Silvano, che si era con difficoltà alzato dalla poltrona e l’aveva scossa.
Sabatina sussultò. Emise un suono strano e nel suo toscano crudo, escalmò:
- Che c’è? Che vuoi?
- Posso cambiare?
- Non ti piace?
- No.
- Ma come? Non ti piace Alberto Sordi?
- No, lo odio.
- Io, lo voglio vedere.
Silvano, si stizzì. Borbottò qualcosa incomprensibile e si sedé. Non riusciva a tener testa a Sabatina ora, si sentiva debole. Non come quando era giovane. Allora era lei, Sabatina, che si piegava a lui.
Negli anni Cinquanta aveva visto molti film con Sordi. Per lui Sordi era responsabile di un’ immagine dell’italiano con la quale non concordava. Lo riteneva colpevole di aver formato gli italiani secondo uno stereotipo di vigliacco, bugiardo, democristiano, imbroglione, debole, paraculo, lavativo, bonaccione, servo del volemose bbene semo itagliani…
Aveva sdoganto un’immagine dell’italiano perfetto, quello nato dall’egoismo dell’ 8 settembre, di ritornare a casa, di salvare la pelle costi quel che costi. Pronto a sacrificare tutto per il proprio tornaconto.
Quel film che Sabatina pretendeva di guardare ma neppure ascoltava, immersa nel suo sonno di morte anticipata che ti prepara a distaccarti lentamente dal mondo, l’ aveva fatto scivolare con i pensieri a quegli anni di un’ Italia che ruggiva.
Ora di che ruggiva l’ Italia? Gli parevano tutti figli di Alberto Sordi: vigliacchi, bugiardi, imbroglioni, deboli, paraculi, lavativi, voltagabbana, comici diventati politici e politici diventati comici…Chi aveva provato a uscire da quello schema era sempre stato fatto fuori: Mattei, Moro, Craxi, Falcone, Borsellino...
Non erano molti in fondo gli italiani con le palle dal Dopoguerra a oggi. Li contavi sulle dita di una sola mano.
Quello che ricordava era che pure in quegli anni serpeggiava il malessere. Un malessere di una prosperità troppo improvvisa, che aveva provocato immigrazioni folli al nord, cambiamenti strutturali di vita di milioni di persone, corsa all’ acquisto firmando cambiali, ma tutto questo sembrava secondario davanti alla ricchezza inattesa di un paese secolarmente povero e depredato in modo genetico dal nord.
Ma quel malessere non era mai scomparso. Si era trasformato, modificato, mascherato, evoluto ma mai assente.
E i suoi mali e quelli di Sabatina avrevano gli stessi geni di quel malessere che era cominciato con la speranza ed era terminato nel sonno anestetico e distanziatore della malattia che ora li teneva prigionieri in attesa di esecuzione finale, inappellabile.
Published on October 20, 2018 06:45
October 16, 2018
Una nuova vita

— Vado a lavorare per la Camera del Lavoro, alla UIL. Mi ci manda il partito.
— Che partito?
— Il PSDI, Partito Socialista Democratico Italiano.
— Ma che partito è?
— Partito Socialista, diverso dai comunisti. Non abbiamo nulla a che fare con loro.
— Ma che lavoro è? Lavorare per un partito è un lavoro?
— Sí, è un lavoro.
— Ti pagano?
— Sí, mi pagano. dodicimalire al mese.
— Dodicimalire?
— Sí.
— E come farai con Sabatina?
— Ce la faremo.
— Ora avete anche un figlio...
— Ce la faremo.
— Ma qui c’è la terra. Ci siamo trasferiti a Montelupo. Abbiamo tutta questa terra. E tu mi lasci solo, me e Ida a lavorare tutto da soli. Porca M…a! Ma ti ha dato barta il cervello?
— Fai come ti pare. Io la terra non la voglio lavorare più. E poi è terra questa? Tutta sassi e mattaione[1]. Ti ricordi l’anno scorso gli olivi? Che annata! Erano pieni. Mai visti olivi cosí pieni. Poi è arrivata la gelata e tutto è andato perso. Ma che senso ha una vita cosi. Porcodd…o! E poi in estate io non ci voglio più andare a battere il grano con la trebbiatrice. Ma sai quanto tempo ci vuole per andare da Montelupo a San Salvi a battere il grano. Sempre la notte. Parti la notte e torni la notte. Sotto il sole. Sudicio di pula come un maiale. Arrostito dal sole. No, basta…io questa vita non la voglio più.
— Tu hai una fortuna sola, che hai Luigi...che è piccolo. Sennò piglierei quell’ubbidiente[2] lì e ti spaccherei quella testa dura! Lasciarmi solo a lavorare tutta questa terra. Quando l’ho presa contavo su di te...ora dovrò prendere qualcuno a cottimo...
Lo scontro con suo padre fu duro. E lo sapeva. Lo sapeva che sarebbe stato duro. Ma Silvano aveva deciso. Mai più lavorare la terra. Lui aveva fatto la quinta elementare, ma era intelligente. E voleva fare il politico. Voleva cambiare le ingiustizie. Voleva cambiare il mondo. Voleva che anche i poveri diventassero ricchi. Per questo voleva lavorare per la UIL e il partito.
E ora rimaneva Ida, sua madre. Con lei prevedeva uno scontro ancor più violento. Ci sarebbero stati giorni (forse almeno un mese) in cui non si sarebbero parlati. E poi Sabatina. Sabatina era una donna di poco coraggio. “Una bocca chiusa ne chiude cento” ripeteva sempre. E questo era il suo male. Veniva da una famiglia di fascisti. Chiudere le bocche era la loro specialità, e tuttavia suo padre, lo aveva trattato sempre con grande rispetto. Sapeva che Silvano non era fascista, ma sapeva anche che non stava con i comunisti.
Suo nonno Giovanni gli ripeteva sempre “Figliolo mio ricordatelo: i comunisti sono peggio dei fascisti”.
Dalla fattorie della Striscia, su insistenza di Ida, si erano trasferiti a Montelupo per due motivi. Il primo era che Silvana, sua sorella, si era pure lei sposata, con un finanziare e viveva a Castelfiorentino. Dalla Striscia andare a Castelfiorentino era quasi un’impresa. A Montelupo, in una località chiamata Villambosco, avevano trovato delle terre da lavorare a mezzadria. L’occasione pareva buona. Montelupo era vicino ad Empoli, sulla linea ferroviaria per Firenze ma anche per Siena. Da Montelupo raggiungere Castelfiorentino via treno era abbastanza agevole.
Con l’ età Ida era sempre più divenuta insofferente alla fattoria della Striscia. Poi il fatto che la figlia andasse a vivere a Castelfiorentino le aveva fatto provare il desiderio di vivere maggiormente a contatto con il mondo civile.
Era forse anche lei stanca di vivere nei boschi. Era nata nei boschi, se così si può dire, in quanto fin da quando aveva cinque anni veniva mandata nel bosco a controllare le pecore al pascolo; a sei anni già sapeva andare a cavallo e seguiva il gregge a cavallo anziché a piedi.
Con la fine della guerra anche alla Striscia si respirava un vento nuovo. I cambiamenti sociali, la loro eco era arrivata anche nei boschi di Volterra.
E Ida sembrava averli captati, più che Giuseppe.
Villambosco era non troppo lontano dal centro abitato di Montelupo. Le terre comunque non erano migliori. Anzi, sicuramente peggiori.
Vi era addirittura un vigneto a dirupo, rubato al bosco, tutto pietre e mattaione, che veniva chiamata Africa per la desolazione che presentava e il calore infernale che vi regnava in estate.
L’uliveto era vecchio e malandato. Il resto della terra era per la maggior parte a gradoni lungo la perpendicolare delle pendici della collina e a causa del terreno argilloso quando pioveva l' acqua vi stagnava eterna.
E tuttavia Ida puntò i piedi, alzò la voce, picchiò il pugno in tavola e Giuseppe cedé.
Silvano non prese posizione. Intravide anche lui l’opportunità di avvicinarsi al mondo civile. Montelupo, da cui era passato a piedi l’ 11 settembre da disertore, avrebbe potuto costituire il trampolino di lancio per mettere in atto il suo piano.
A Montelupo stavano costruendo una casa del popolo socialisti e comunisti, insieme.
A Empoli e Fucecchio erano nate le camere del lavoro e vi era la Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti di Bonomi, per cui Silvano manifestava simpatia.
Silvano dunque tacque e non oppose resistenza alle richieste della madre.
- Io non ci voglio venire a Montelupo – inopinatamente Sabatina cominciò a far resistenza.
- Ma perché? – Silvano non si aspettava che proprio Sabatina si opponesse al trasferimento.
- Perché mi allontano ancor di più da mia madre e dalle mie Sorelle.
- Ma che dici? Montaione forse forse è meglio raggiungibile da Montelupo che dalla Striscia. Le strade di sicuro sono migliori venendo Montelupo. Treno fino a Castelfiorentino, poi in corriera...e comunque non è più lontano, come tu dici, di sicuro non ti allontani...
- Ma io non voglio andare via da questi luoghi dove sono nata. A Montelupo non ci sono mai stata. Tu, una volta, mi hai detto che è un paese tutto nero, e che vi è un manicomio criminale...e poi tutti dicono che a Montelupo il clima è umido, perché vi è la foce del fiume Pesa che sfocia nell’Arno. Tua madre è un serpente! Ed è tutta colpa di tua sorella che si è sposata ed è andata ad abitare a Castelfiorentino. A lei però la casa gliel’ ha comprata e non ha battuto ciglio. A noi perché ha pagato il matrimonio è diventata un diavolo...
Ma Sabatina non avrebbe mai avuto il coraggio di opporsi a Ida. Con Silvano sì faceva delle sfuriate ma poi si fermava. Ida aveva un carattere troppo forte, incosciamente aveva assunto il ruolo che aveva coperto suo padre nella famiglia fino al giorno in cui era morto. Sabatina aveva chinato la testa con il padre, chinava ora la testa con Ida.
Published on October 16, 2018 07:08
October 15, 2018
In viaggio di nozze a Marina di Cecina

La notte prima delle nozze Sabatina era entrata nella casa. Ida non l’aveva accolta bene. Aveva fatto un voltafaccia che Sabatina mai avrebbe immaginato.
Quando erano tutti a cena, Ida rivelò il suo vero volto, quello che aveva nascosto per tutto il tempo del fidanzamento, in cui si era manifestata come una donna scherzosa e brillante, in apparenza accomodante.
Mentre cavava la roba dal pentolone e gliela metteva nel piatto con nessun garbo gettandogliela come si getta le mele marce al maiale, accompagnò quel gesto con una frase che le sarebbe rimasta ficcata dentro il petto per tutta la vita.
- In questa casa, porco Pio Nono comando io! E qui si fa come dico io!
Sabatina trasecolò. Divenne tutta rossa. Sentì le gambe tremare e forse si fece anche un po’ di pipì nelle mutande.
Guardò Silvano, che però non la difese. Solo quando Ida si fu un po’ allontanata le mormorò:
- Lasciala perdere
- Ma perché fa così?
- E’ per i soldi del matrimonio. Ha dovuto pagare tutto lei. Tua madre non ha potuto contribuire. Ha un diavolo per capello.
Dopo lo sposalizio, avevano deciso che avrebbero fatto la luna di Miele a Marina di Cecina. Avevano affittato una macchina con autista che li avrebbe portati da Volterra a Cecina.
Si erano sposati nella chiesa di San Giusto, in Volterra, il pomeriggio. Avevano avuto una cena in un ristorante del centro di Volterra. Pochi invitati. Non più di venti persone. Ida aveva una faccia da funerale e non spiccicò parola. Ripeteva di tanto in tanto “Che bischero! Che bischero!”
- Con chi ce l’ha? – chiese Sabatina a Silvano.
- Con me.
- E perché? – sussurrò Sabatina a Silvano in un orecchio.
- Perché mi sposo con te.
La notte avevano dormito in un albergo di piazza dei Priori. La mattina seguente, dopo aver fatto colazione, con cappuccino e brioche in un bar di piazza dei Priori avevano atteso la macchina che verso le nove era arrivata puntuale.
- Che bellezza! – commentò Sabatina.
La macchina aveva preso a scendere da Volterra verso Saline. La vallata era dominata da un vapore, simile a nebbia che occultava la vista dell’ intera valle. Qua e là come isole emergevano dei cocuzzoli di collinette.
- E’ effetto del nebbione – rispose Silvano.
Sabatina era al settimo cielo.
- Come era buono quel cappuccino e quelle brioche al bar di piazza dei Priori. Non le avevo mai mangiate di così buone. Conoscevi quel bar?
- Sì, c’ero venuto con mio nonno, al mercato qualche volta. Quando si voleva comprare dei vitelli. C’erano dei sensali che venivano la mattina presto. Noi si veniva per incontrarli.
- Mi sembrava che conoscessi il barista. M'è parso che ti avesse salutato.
- Era un partigiano. L’ho conosciuto quando ero alla macchia.
- Sì?
- Lui una volta mi ha salvato la vita. Ci siamo presi, io e alcuni della ventitreesima brigata Garibaldi.. Uno di loro voleva spararmi. L’ ha fermato lui. Era il capo del manipolo.
- Ma strano...
- Strano che?
- Strano che ora lavori in un bar.
- Perché?
- Chi era un capo partigiano, ora di solito lavorano alla Camera del Lavoro, al partito...
- E’ che lui non era comunista.
- No?
- No, era liberale. I liberali son rimasti tre gatti. Sono quasi tutti confluiti nella DC di De Gasperi...
- Basta politica, Silvano. Oggi cominacia la nostra luna di miele. Non parliamo di politica.
- Ma me l’ hai chiesto tu.
- Ma tu, se cominci a parlare di politica non ti fermi più. E oggi non voglio che ricominci con la politica. E due giorni che parli di politica, con tuo nonno a cena ieri l’altro e ieri sera allo sposalizio. Non ne potevo più. Anche il giorno che ci siamo sposati!
- Ma me l’ hai chiesto tu, perché conoscevo il barista! Ti ho risposto. Che c'entra la politica? – alzò la voce Silavano.
Sabatina tacque, ma dentro di lei era un fuoco. Aveva imparato a tacere Sabatina, con suo padre aveva avuto una buona scuola prima che morisse di tubercolosi.
Ciò che le premeva ora era a rrivare a Cecina. Voleva vedere il mare. Non l’aveva mai visto. Ne aveva sentito parlare, glielo avevano descritto, ma lei non capiva proprio come fosse fatto il mare.
Cercava di consolarsi con quel pensiero. Si mise a guardare fuori dal finestrino. Ora la macchina passava vicino ad un fiume. Per la strada un calesse tirato da un cavallo. In lontanaza dei contadini con un paio di vitelli al lavoro nei campi. Poi la nebbia diradò e il sole cominciò a bruciare.
Dopo Ponteginori il paesaggio si fece più brullo e riarso dall’estate. La strada cominciò a correre lungo il fiume. Sabatina non trovava più nulla di interessante da osservare. Cominciò ad annoiarsi e a provare fame.
- Sabatina... – la riscosse la voce di Silvano, ora affettuosa.
- Sì?
- Che pensi? Non parli. Sei silenziosa.
- Eri nervoso. Sono stata zitta. Ora ho fame.
- Mi dispiace. Ma sono stanco. Prima del matrimonio ho lavorato tanto. Volevo mettere insieme i soldi per venire a Cecina. Resisti, il viaggio non è lungo. Appena arriveremo andremo a pranzo. Ho un po’ di pane in borsa. Lo vuoi? –
- No, il pane non lo voglio…dopo le brioche di stamattina, il pane rozzo di casa tua non lo voglio.
Silvano la guardò male ma non disse nulla.
Dopo Casino di Terra strada e ferrovia venivano a correre quasi in parallelo, allontanandosi dal fiume per poi riavvicinarvisi più avanti per un breve tratto.
Il paesaggio ricominciava a riacquistare macchie di verde fino a Cecina.
- Ecco Cecina – indicò l’autista – dove devo portarvi?
- A Marina di Cecina, in via Ginori. Alla pensione Il Pescatore – rispose Silvano.
- Ci sei già venuto a questa Pensione? La conosci?
- No, ma me l’ ha consigliata mio nonno Giovanni.
A sentire il nome di Giovanni, nonno Giovanni, Sabatina si rasserenò. Nonno Giovanni, era l’unico di quella famiglia che veramente l’amava. La riempiva di complimenti. La baciava appena la vedeva. Le chiedeva subito di sua madre Laura e delle sue sorelle, Artimisia e Primetta.
Dentro di sé comincio a divenire impaziente. Fremeva di arrivare alla pensione e vedere il mare, finalmente. E fra le gambe provò un nuovo tremore, che le era stato ignoto prima.
Published on October 15, 2018 04:36
October 14, 2018
Gli americani liberano Volterra

Quando Silvano apprese la notizia ne fu contento.
Fu contento che i partigiani della ventitreesima brigata Garibaldi fossero stati costretti dagli americani a consegnare le armi a Volterra.
li erano sempre sembrati arroganti. E in fondo dei civili non era nemmeno convinto se ne curassero più di tanto, quando dovevano attaccare i tedeschi.
- Ora ci sarà pace, finalmente – commentò Silvano a tavola – la guerra ora è davvero finita.
Silvano era potuto finalmente rientrare dalla macchia.
- Ora ci sarà la pace, ma solo per un po’ – rispose nonno Giovanni.
- Perché dici così?
comunisti vorranno andare al potere. E non glielo permetteranno. Non so come andrà a finire. Di sicuro ci sarà un’altra guerra civile.
Il nonno si riempì il bicchiere di vino. Lo scolò d’un fiato. Si accese il sigaro. Fece un paio di tirate. Guardò fuori dall’ uscio. Era scoppiata l’estate. Nemmeno un filo di vento entrava dalla porta. Solo vampate di calore e il canto delle cicale.
- I democristiani non li vorranno al governo – continuò il nonno - gli americani e gli inglesi nemmeno. E Stalin non starà a guardare. E poi io non credo che tutti i fascisti che c’erano nella repubblica di Salò scompariranno d’incanto. Vedrai che da qualche parte rispunteranno. Mi sbaglierò, ma secondo me troveranno aiuto negli americani. Il primo obiettivo degli americani sarà contrastare il comunismo in Europa. Soprattutto in Italia. E magari i fascisti faranno comodo al loro disegno.
Suo nonno Giovanni non era mai stato in politica ma aveva sempre seguito la politica. Soprattutto, nonno Giovanni, era uno di quei contadini che sapeva leggere. E leggeva di tutto. A Volterra vi erano sempre state, fin dall’inizio del secolo, associazioni politiche socialiste e anarchiche che producevano fermento culturale e sociale. Frequentando quegli ambienti nonno Giovanni aveva imparato a leggere e a seguire le discussioni politiche.
Quando poteva andava al cinema a Volterra. Amava vestirsi bene e si profumava usando ancora la celebre acqua di colonia PIM, che nel 1918 quando la febbre spagnola fece migliaia di vittime veniva usata per disinfettare, credendo che fosse efficace contro il virus. Nonno Giovanni era l’esatto opposto di suo figlio, Giuseppe, padre di Silvano. Nonno Giovanni era contadino ma anche uomo sociale e uomo di mondo. Giuseppe, solo un animale da lavoro. Un donnaiolo scapestrato Giovanni, un monogamo ortodosso Giuseppe.
Ma nonno Giovanni era anche uno che aveva cervello, uno che aveva visione politica.
Silvano lo ascoltò e non rispose. Si disse che avrebbe aspettato, aveva tempo e avrebbe scoperto quanto di vero vi fosse in quello che il nonno aveva prognosticato.
In quel momento la mente di Silvano era anche occupata da altri pensieri. Aveva sentito la storia di un fascista di Volterra che era vivo solo perché erano presenti gli americani. I partigiani lo avevano scortato al carcere con le armi, che però non avevano usate perché dietro li seguiva una jeep di soldati americani.
La moglie aveva accompagnato il marito (il fascista) per tutta la strada. Lo aveva difeso dagli insulti della gente mentre camminava per il centro di Volterra. Lo aveva tenuto a braccetto per tutto il percorso, e davanti all’ ingresso del carcere, prima di separarsi, lui l’aveva abbracciata e baciata. Aveva cercato di rincuorarla. E poi se n’era andato dentro scortato dall’inutile codazzo di partigiani.
Silvano immaginava la scena e si inteneriva al pensiero di quei baci. Pensava alla sua Sabatina, e come anche lui avrebbe potuto trovarsi nella stessa situazione, ma dall’altra parte.
Era tempo di sposare Sabatina. Da troppo tempo erano fidanzati, e a causa della guerra avevano vissuto in mondi diversi, quasi impossibili da congiungere.
Voleva fare una famiglia, voleva riprendere il lavoro. Ma non voleva fare ancora a lungo il contadino. Era un lavoro da bestie. Non voleva essere una bestia per tutta la vita, voleva essere un uomo, civile e politico.
Tutta la giornata dell’ 8 luglio era stata caratterizzata da un duello tra l'artiglieria tedesca e
quella alleata. Poi verso la mezzanotte i cannoni tedeschi avevano taciuto. E improvvisamente all'una di notte la gente di Volterra aveva sentito i passi dei soldati tedeschi muoversi per le stradine, come se quasi corressero. Poi ancora silenzio e infine una serie di spaventose esplosioni. I guastatori tedeschi stavano facendo saltare per aria i macelli fuori Porta Fiorentina, la strada verso via Garibaldi, la via San Lazzaro e lo svolto della Dogana. Fu la loro ultima opera. Poi fu il silenzio. E la fuga, definitiva.
All'alba del 9 luglio 1944 i primi soldati americani entrarono in Volterra. Con loro fecero ingresso anche i partigiani della ventitreesima brigata Garibaldi. Quando la città fu considerata sotto il controllo americano fu richiesto ai partigiani di consegnarte le armi.
Giuseppe, il padre, era venuto ad avvertirlo alle Cetine. Appena gli era giunta la notizia, verso le dieci del mattino, subito era corso dal figlio per riportarlo a casa.
- Silvano! Silvano! Esci. La guerra è finita!!! Sono arrivati gli americani a Volterra. – aveva urlato da fuori, davanti alla grotta, anche lui preso dall’euforia.
Quando Silvano uscì fuori il padre lo abbracciò e cominciò a piangere. Silvano lo abbracciò. E piansero così, abbracciati, dandosi delle pacche sulle spalle.
- E’ finita, è finita...- mormorava in modo indistinto il padre.
- E’ finita – replicava Silvano.
Dopo quasi nove mesi di macchia, di freddo, di buio, di vita da cinghiale, era ritornato a casa. E aveva avuto la sensazione di ricominciare a vivere. Di una nuova vita, senza paura finalmente. Ma era difficile abituarcisi. In verità si sentiva sperso, e aveva timore ad affrontare di nuovo il mondo. Fu una delle poche volte che in vita sua gli venne meno il coraggio.
Ida, sua madre, gli aveva preparato un pranzo per festeggiare. Sembrava che fosse Natale, ed era invece il nove di luglio.
Ma la fame gli tolse i pensieri, e la paura dileguò grazie al cibo che gli riempiva la pancia.
Ora sapeva che avrebbe potuto cominciare una vita di cui neppure ricordava il nome.
La fame e la fatica gli tolsero le paure che riempì con il cibo, giorno dopo giorno. Il lavoro nei campi lo stancava, la fame e la fatica erano saziate dal cibo abbondante e robusto di Ida che gli ridava forza. Lavorava come un mulo e mangiava come un lupo.
Passò un anno, passarono due anni di lavoro. Non successe molto in quei due anni.
Il suo mondo erano i campi, i filari delle viti, brulli in inverno e verdi in estate, e il cielo inseparabile sopra di loro. Era tutto quello che aveva visto negli ultimi due anni. Nove mesi li aveva passati nel buio di una miniera e il resto nel recinto dei poderi e delle stalle.
In estate aveva la distrazione delle aie dove andava a battere il grano, evitando di stare tutto il tempo a dorso nudo piegato sotto il sole a segare il grano.
Fu allora quando girava da fattoria a fattoria per battere il grano, e poi quando si spinse a Firenze, fino a San Salvi, per la battitutura con la trebbia, che cominciò a pensare che voleva un lavoro che gli permettesse di viaggiare.
Fu in quelle occasioni che cominciò a tradire Sabatina. La notte si dormiva all’aperto nelle aie, e non sempre si dormiva soli.
Published on October 14, 2018 19:29
October 12, 2018
Il mondo liquido del globalismo attuale (Dialogo filosofico-politico fra due vecchi)

A novantaquattro anni Silvano cercava solo di resistere. Di forzare il fisico a fare quello che non poteva più fare e la mente di conseguenza aveva difficoltà a stare al passo della volontà. Sabatina era confinata ad una sedia a rotelle. Camminava poco e a malapena. Era troppo grassa. Tante volte glielo aveva detto che doveva dimagrire.
— Io grassa? Ho solo lo stomaco gonfio — rispondeva. Lei non si vedeva grassa. Tutt’altro.
In quella nebbia di vecchiaia che gli avvolgeva il cervello (pressione alta, prostata, vene varicose, medicine in quantità industriale) cercava di trovare la strada. Di riorganizzare la sua visione che sentiva spengersi.
Aveva capito che se si spengeva quella visione avrebbe perso contatto con il resto del mondo. Era l’ultimo legame fra lui e il mondo fuori, quella visione. E aveva lottato negli ultimi anni per mantenerla.
Fino al crollo di Craxi era stato un leone. Un cavallo da battaglia, una bestia. Uno che non mollava mai. Che tornava da Roma la notte a mezzanotte e alle quattro del mattino si alzava per andare alla stazione e riprendere il treno per ritornare a Roma, solo per risparmiare sulla diaria che gli dava il partito.
Quando crollò il PSI, capì che era arrivato alla fine anche lui. Che finito Craxi sarebbe finito anche il suo lavoro, che il partito per cui aveva lottato e dato la vita non ci sarebbe stato più, che tutti quelli che sarebbero venuti dopo non sarebbero stati che nomi, aggiustamenti per ritardare una fine che non poteva essere ritardata ancora. La fine era stata decisa molto prima della fine.
Quel giorno per Silvano fu un altro 8 settembre 1943, un giorno in cui l’Italia di nuovo morí. Morì infatti la Prima Repubblica. E la Seconda non fu certo meglio. Se nella Prima era ancora l’Italia degli Italiani, nella Seconda vi era di tutto.
E poi arrivò la terza Repubblica quella più devastante, quella di Monti, Renzi e del PD. Quella dei burocrati di Bruxelles sordi a ogni voce dei popoli di Europa, la Bruxelles delle banche, dell’immigrazione di massa.
Dopo mesi di completo scoramento, di speranza in un riscatto di Craxi da Hammamet dove si era rifugiato per evitare l’arresto, una fuga concordata con la magistratura in realtà, Silvano aveva avvertito la perdita della visione che fino ad allora l’aveva sempre guidato.
Ma quella perdita aveva radici lontane. Risaliva al ’92. Nel suo tentativo di mantenersi lucido Silvano, nei giorni della vecchiaia malata si ricordò che poco prima della fine di Craxi Silvano aveva avuto un colloquio con un politico, uno di quelli che sarebbe sopravvissuto a tutte le Repubbliche. Uno di quelli che avrebbe spinto l’Italia a entrare nell’ inferno dell’Europa (come Craxi stesso l’aveva definita), salvo poi farne ammenda molti anni dopo e dichiarare che erano stati avvertiti da tanti economisti, anche americani, che l’Europa non avrebbe funzionato.
— L’aria sta cambiando. E’ chiaro che sta cambiando - gli aveva preconizzato - Qualcuno ha annusato che l'aria sta cambiando e si stanno organizzando per determinare condizioni più favorevoli affinché questa aria da cambiare produca un vento che soffi in modo più spedito.
— A che si riferisce onorevole?
— Che Craxi con Sigonella ha toccato il punto più alto nella politica estera italiana. Gli americani gliel’hanno giurata. Non andrà molto lontano.
— Ma Craxi lo sa?
— Beh, credo ne sia conscio.
— Forse si stanno cercando nuovi interlocutori in questo paese.
— È possibile. È possibile che i comunisti siano diventati più credibili di noi. Abbiamo puntato troppo su una politica filopalestinese. E poi con loro hanno cominciato dal Sessanta ad avere incontri. Credo che ora siano pronti a collaborare. Ci credono. Ritengono affidabili i comunisti. Vedono in loro una organizzazione strutturata, una macchina da business su cui fare affidamento.
Quella sera Silvano si rammentava di essere ritornato a casa pieno di presentimenti sul futuro del partito e paure sul suo.
- Forse dovrò cambiare lavoro.
- Perché? – gli chiese Sabatina.
- Ho intenzione di mettermi a fare l’assicuratore. Di aprire un’agenzia di assicurazioni.
- Ma come? Per anni non hai inteso ragioni. Partito, partito e partito. In questa casa si è vissuto di pane e socialismo. E ora vuoi cambiare.
- I tempi non sono più quelli di una volta, Sabatina.
- Che vuoi dire?
- Voglio dire, che il nostro mondo sta per finire. Se ne apre un altro che non sarà più il nostro. Forse sarà quello di Luigi e Fabrizio. Forse più di Luigi, Fabrizio è come te. È senza coraggio. Sono preoccupato per quel ragazzo. Che farà quando noi non ci saremo più?
Sabatina tacque. Non capiva dove voleva finire Silvano con quei discorsi. Capiva però che questa volta Silvano aveva ragione. Anche lei avvertiva quello. Sentiva che non era più la donna che si era sentita una volta. Qualcosa era arrugginito, guasto, corrotto, marcio in quel mondo che li aveva finora accompagnati.
Luigi ad esempio, com’era cambiato! Da quando si era fidanzato. Da quando aveva conosciuto Maria. Da quando si era sposato soprattutto. Era divenuto chiuso, parlava poco e mai delle sue cose personali. Non era più il bambino chiacchierone che lei aveva partorito. Era un altro. E qualche volta la intimoriva, ma comunque era sempre il figlio maggiore con cui confidarsi e prendere le decisioni.
Fabrizio anche se aveva messo famiglia e sebbene avesse due figlie era sempre senza testa. Non aveva combinato molto nella sua vita. Non aveva finito l’università. E poi aveva voluto sposare quella donna, che lo avrebbe solo fatto soffrire. Era un testone. Gliel’aveva detto quando aveva avuto Monica, la prima figlia, di non sposarla quella donna. “Riconosci quella bambina ma lei non la sposare. Non è la donna per te.”
Silvano cominciava ad avere segni di cedimento. Non era l’uomo di qualche anno prima. Certe volte taceva. Si sedeva in poltrona, pareva dormisse ma non dormiva. Di tanto in tanto scoteva (tentennava) la testa come sua madre Ida. Pareva più vecchio. Era ingrassato e sotto il mento era come se avesse due bazze a causa del grasso che gli si arrotolava. Gli pendeva una pappagorgia che somigliava ai bargigli di un tacchino.
E lei, Sabatina, non voleva ammetterlo, ma sapeva di essere divenuta intollerante. E avvertiva che non amava più quell’uomo che l’aveva cosí tanto fatta soffrire. Troppi tradimenti, troppe bugie.
— Sabatina! — si riscosse Silvano dal suo torpore.
— Che c’è?
— Sai che diceva Moro?
— No.
— Che vivevamo in un paese dalla passionalità profonda e dalle strutture fragili.
— Che vuoi dire?
— Che non mi pare più così. Mi pare che viviamo in un mondo liquido, dove le strutture non ci sono più ma solo onde che ti spostano ora di qui ora di là e non riusciamo ad uscire dal gorgo in cui quelle onde ci hanno precipitati.
Published on October 12, 2018 12:22
8 settembre 1943. Fuga dalla caserma

Ce qu'il y a de plus profond en l'homme, c'est la peau.(P. Valéry) “Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle. Tutto il resto non conta.” (Curzio Malaparte)
Silvano…Silvano… — sibilò il commiltone da sopra, per avvertirlo degli spari.
Da sotto Silvano gli fece cenno che aveva capito.
In lontananza si erano sentiti dei colpi di pistola. Dall’altra parte della caserma, davanti all’uscita delle camerate, stava il colonnello con una pistola in mano e due soldati morti ai suoi piedi, a cui aveva sparato perchè avevano tentato di disertare, uscendo dall’ingresso principale.
Il colonnello tedesco avrebbe ucciso chiunqe tentasse l’uscita. I soldati rimanevano nelle camerate in attesa del loro destino. Di lí a poco sarebbero stati arrestati e deportati. I tedeschi aspettavano ordini, appena li avrebbero ricevuti avrebbero cominciato ad arrestarli.
I tedeschi avevano occupato tutta la caserma, la notte stessa. Non vi era via di fuga, apparentemente. Ma Silvano e altre due reclute con un caporale maggiore di Treviso avevano deciso di tagliare le lenzuola delle brande e di calarsi nel cortile interno della caserma, che non aveva vie di sbocco verso l’esterno, ma al centro vi era la grata di un tombino, che portava diretti alle fogne. Non era direttamente accessibile ai tedeschi, fino al momento che fossero penetrati nelle camerate. Solo allora avrebbero scoperto dell’esistenza del cortile.
Avevano deciso di tentare quella via di fuga, attraverso il tombino. Era rischiosa, potevano fare la fine dei topi. Nessuno conosceva dove portava quella fogna, ma era l’unica possibilità. Se andava bene, potevano sperare di scappare. Se andava male, o sarebbero morti in quel tunnel, soffocati, o li avrebbero ammazzati se li avessero scoperti.
Andò fortunatamente bene. La fognatura, nel sottosuolo, era di grandi dimensioni, ma piena di merda. L’odore insopportabile. Nausenate. Camminarono in mezzo alla merda piegati sulle gambe per molto tempo. In qualche punto gli arrivò quasi al mento. Difficile dire per quanto stessero immersi nel liquame. A Silvano sembrò un tempo lungo, infinito, ma quel canale sotterraneo doveva sbucare da qualche parte. E questo diede loro speranza. Non sapevano dove ma sapevano che da qualche parte sarebbe sbucato. Ne erano sicuri. Sebbene ad un certo momento avessero pensato che non ne sarebbero mai più usciti.
Forse passò un’ora, forse meno, difficile calcolare in quel mare di merda e di caldo soffocante, ma alla fine sbucarono in aperta campagna dentro un canale di scolo, ma all’aria, e poterono respirare. Uscirono sospettosi guardandosi intorno. Non c’era nessuno. Il sole era alto. Non sapevano l’ora. Risalirono l'abbastanza ripido ciglione del canale e s’incamminarono verso la prima cascina che notarono in lontananza. Sull’aia c’erano delle persone a lavorare che vennero incontro.
La notte alla cascina ci fu tanta luce come mai, in quella notte dell’ 8 Settembre 1943. Una cosa insolita per quei tempi, forse perché tutti erano abituati al buio notturno a causa del coprifuoco, per evitare gli avvistamenti delle incursioni aeree.
Ci fu un gran trambusto quella notte nella cascina. I contadini accesero un fuoco con le fascine per festeggiare la pace. Tutti erano contenti, gridavano che finalmente era finita la guerra, sarebbe cessata la carestia e i soldati sarebbero tornati a casa. Il piazzale era costellato di fuochi con gente che gioiva ovunque per l’avvenimento. Sembrava insomma l’uscita da un incubo:
Ma uno dei vecchi, forse il capoccia, apostrofava quelli che esultavano e bevevano dal fiasco ““Altro che pace, la guerra comincia ora…Ma credete davvero che i tedeschi se ne andranno buoni buoni? E poi se mai finirà questa guerra pensate davvero che questo paese sarà mai felice e libero? Ci scanneremo l’un con l’ altro, questo è certo”.
Quando era arrivato a Montorio Veronese alla caserma, Silvano aveva visto in lontananza il castello che era scolpito contro il cielo azzurro. Lo aveva guardato come si guarda un’apparizione imprevista.
Aveva un groppo alla gola entrando in caserma, sapeva che di lí sarebbe solo uscito per andare a combattere con l’alleato germanico. Non poteva immaginare che in pochi giorni le sorti dell’Italia si sarebbero sovvertite e l’alleato tedesco sarebbe divenuto il nemico e il nemico l’alleato.
Non poteva sapere che in un giorno si sarebbe disegnato un destino che per l’Italia avrebbe pesato per decenni a seguire, senza soluzione di continuità, come se fosse geneticamente iscritto nel DNA di quel paese.
Ma questo Silvano l’avrebbe capito tardi, gli ultimi giorni della sua vita.
Di quei giorni passati nel cascinale prima di partire alla volta di Verona e tentare di prendere il treno per Firenze Silvano si ricordava una mattina. Il sole era già alto, ed era caldo nonostante fosse quasi metà settembre. Il cielo appariva pieno di cirri setolosi e bianchi come latte di capra.
Nell’aia si erano riunite una ventina di ragazze in bicicletta. Indossavano abiti chiari che sotto il sole filtrato dai cirri assumevano ombrature scure, come in una foto in bianco e nero.
Davanti a loro si stagliava la campagna e una strada bianca lineare che spiccava in avanti come scolpita lungo la piana.
Silvano se ne stava sotto la tettoia della stalla e le guardava come si osserva un dipinto. Quella imagine di fresca gioventù, di carne esposta al sole, l’ aveva provocato a tal punto che anche ora il ricordo di quel giorno gli faceva provare un’emozione così forte che pur all’età di novantaquattro anni diveniva lancinante. Era la stessa emozione ma attutita nel piacere della carne.
La prostata lo tormentava da anni e non andava che a peggiorare.
Per evitare la miseria dei tormenti presenti tornò a pensare al quadro neorealista, che perdurava nella mente; al ricordo di quelle ragazze che indossavano la bellezza della gioventù e si erano riunite nell’aia per andare al lavoro nei numerosi frutteti adiacenti alla cascina.
Si ricordò di Bruna, che uscì improvvisa da uno dei circuiti del suo cervello. Bruna! come aveva potuto dimenticarla?
Quella mattina anche Bruna era nel gruppo. Avrebbe voluto chiamarla ma si bloccò.
Gli altri commiltoni che abitavano dalle parti di Treviso erano partiti la mattina presto. Avevano ricevuto abiti e scarpe dai contadini. Tramite un loro conoscente, amico di un ferroviere che lavorava alla stazione di Verona avevano avuto informazioni riguardo a quali treni prendere per aggirare i controlli e come entrare in stazione in modo da evitare le pattuglie tedesche.
Erano partiti la mattina verso le tre e mezzo, per camminare al buio fino a Verona, un paio di ore in tutto.
I contadini li avevano riforniti di frutta e pane che avrebbero potuto mangiare per la strada.
Di giorno un gruppetto di ragazzi giovani con i capelli rasati e con borse piene di cibo avrebbe dato troppo nell’occhio e per questo preferirono partire con il buio.
A Silvano era stato consigliato di aspettare ancora un po’. La linea per Bologna era la più pattugliata, appena si sarebbe allentato il controllo lo avrebbero informato.
Silvano si era annoiato tutta la mattina e aveva gironzolato l'intero giorno per la cascina, finché dopo pranzo, nel primo pomeriggio non si era imbattuto negli occhi neri di Bruna.
Due seni sodi come due cocomeri, un naso forte, sguardo penetrante e fiero, montato su un sorriso robusto e candido.
Era stata un’apparizione.
— E tu chi sei? — lo aveva interrogato Bruna in modo diretto e senza rispetto.
— Mi chiamo Silvano. Ho disertato e sono fuggito dalla caserma due giorni fa. Sto aspettando di partire.
— Sei toscano? — gli chiese.
— Sì
— Di dove sei?
— Di Montaione
— E dov’è?
— Vicino Firenze. Conosci Firenze?
— Sì.
— Ce l’hai la ragazza a Montaione?
— No — mentí Silvano.
Poi Bruna lo aveva fissato intensamente.
— Sei un bell’uomo — gli aveva sparato in faccia e si era allontanata a piedi spingendo la bicicletta a mano, senza voltarsi.
La notte mentre dormiva nella stalla Silvano si era svegliato di soprassalto impaurito. Qualcuno aveva sollevato la coperta e si era introdotto dentro.
— Chivalà? — aveva bofonchiato, con il cuore che batteva forte, la recluta Silvano.
— Ssssshhhhh! – aveva sibilato una voce femminile dall’alito caldo e dolciastro vicino al suo orecchio sinistro e poi aveva gli appoggiato una mano sulla spalla.
Published on October 12, 2018 06:51
October 8, 2018
Silvano si dà alla macchia

- Beppe, io glielo dico. Silvano, suo figlio ha disertato...si dovesse, ripeto, si dovesse presentare a casa mi dovrete immediatamente avvertire.
- Maresciallo, io mio figlio non lo vedo da almeno sei mesi. E’ partito per il nord e non ho più saputo nulla. Anzi, sono abbastanza preoccupato. Dopo sei mesi comincio a temere che gli sia successo qualcosa.
- Meglio così, meglio così...meglio che ritorni a guerra finita. La saluto Beppe...comunque...di questi tempi forse è meglio stare alla macchia che nascosti in casa. Per i boschi girano le bande dei partigiani e tanti che non la pensano come loro hanno paura ad addentrarvisi...Mi saluti Ida, Beppe.
- Grazie, maresciallo. Rappresenterò.
Beppe rientrò incasa. Ida gli si fece incontro.
- Saluti dal maresciallo. Dobbiamo mandarlo nel bosco. Mi ha avvertuito.
- E come lo sa?
- Qualcuno avrà fatto la spia.
- E chi sarà stato?
- E che ne so...se non è stato qualche garzone...aiutami a spostare l’armadio.
Salirono al piano di sopra. Entrarono in una delle camere dove di solito dormivano i garzoni, quando venivano ad aiutare Beppe nel lavoro dei campi.
Si diressero all’armadio. Con qualche fatica riuscirono a spostarlo. Dietro l’armadio c’era una porticina in legno che conduceva al sottotetto. Beppe l’aprì.
- Silvano! Silvano! – Urlò per la tromba delle scalette che conducevano al sottotetto.
- Che c’è?
- Scendi!
- Eccomi – profferì a suo padre quando mise il capo fuori dalla porticina.
- C’è stato il maresciallo dei carabinieri. Ci ha avvertiti. Meglio che te ne vai alla macchia. Qualcuno ha fatto la spia che te ne stai qui.
- Ma chi vuoi che venga a cercarmi...
- Non lo so. Ma il maresciallo dice che è meglio se ti dai alla macchia. E poi nei giorni passati ho visto gente in abiti civili aggirarsi per i campi. Non mi son piaciuti. Meglio se vai a rimpiattarti alle Cetine. C’è la miniera del rame. Puoi nasconderti dentro. E’coperto di rovi l’ingresso. Ti ci accompagno io. Fammi prendere il pennato, che ci aiuterà a entrare. Ida preparagli roba da mangiare per almeno un paio di giorni. Te lo vengo a portar io da mangiare. Da quelle parti girano gruppi di partigiani. Fidati, ma non troppo. Non tutti son per bene. Spesso son proprio dei delinquenti.
Published on October 08, 2018 13:22
October 5, 2018
In cammino verso casa

Silvano arrivò a Firenze l’11 settembre, lo stesso giorno che i tedeschi occuparono la città. Le forze armate tedesche erano concentrate sull’arresto degli ufficiali e soldati del regio esercito, sul prendere possesso delle caserme e dei punti nevralgici della città e sul fare prigionieri, per cui i controlli alla stazione erano ancora poco efficaci.
Firenze, nei giorni precedenti l’occupazione, era stata in fermento. Da una parte i vertici dei partiti antifascisti riemersi dalla clandestinità dopo il 25 luglio e riuniti nel Comitato del Fronte nazionale che avevano chiesto al prefetto sia al gen. Armellini, comandante territoriale di Firenze, di definire un piano d’azione comune contro l’ex alleato e, in particolare, di distribuire le armi ai civili ottenendo solo dinieghi per l’assenza di ordini superiori. Il generale Armellini aveva consigliato la calma. Aveva temporeggiato, nella migliore tradizione guicciardiniana, ma aveva finito, a causa della sua inconcludenza, per essere arrestato dai tedeschi.
Dall’altra vi era la riorganizzazione dei gruppi fascisti che erano scomparsi con il 25 luglio, con la deposizione di Mussolini, ad opera del Gran Consiglio del fascismo.
Silvano arrivò dunque in un momento in cui l’ordine stava per essere imposto ma non era ancora imposto dovunque.
— Come ti chiami? — chiese Silvano al giovane quando scesero a Santa Maria Novella e le loro strade stavano per dividersi.
— Rocco. E tu?
— Silvano.
Si abbracciarono. Si diedero pacche sulle spalle.
— Grazie Rocco! Grazie per il tuo aiuto.
Rocco non rispose. Gli sorrise. Si accese una una Milit, aspirò profondamente, sollevò una mano in segno di saluto e prese a passi svelti la direzione verso l’atrio della stazione.
Silvano rimase a guardarlo con un groppo duro in gola. Quel ragazzo gli aveva trasmesso un messaggio in una lingua che fino ad allora non aveva mai parlato.
Fissò il ragazzo sino a che si confuse lontano con la folla. Allora lentamente e guardandosi attorno si avviò anche lui verso la testa del binario. Da lontano non vedeva pattuglie, solo qualche carabiniere che gironzolava.
Una lunga fila di persone davanti a un negozio di tabacchi. Via vai di passeggeri. Nulla che lo impensierisse.
A un ferroviere che gli passava vicino chiese dove si prendesse il treno per Castelfiorentino.
Il ferroviere si fermò, lo squadrò bene e poi gli disse.
— Non te lo consiglio.
— Perché?
— Perché a Firenze Rifredi, ci sono controlli serrati dei tedeschi. Ti prenderebbero subito. Sono arrivati anche un Plotone di SS. Quelli non perdonano.
A Silvano ritornò in mente il controllo di Rifredi (provenendo da Bologna e che avrebbe dovuto rifare in senso inverso per andare a Siena) che grazie a Rocco aveva superato - e forse grazie anche alla compassione dell’ufficiale tedesco.
— Grazie mille!
— Prego figliolo. E stai attento a non farti prendere. Vai a piedi lungo la statale, fino a Empoli e lí vedi com’ è la situazione e poi prendi il treno per Siena. Quando hai fame fermati a qualche casa di contadini, ti aiuteranno. Ne stanno aiutando tanti in questi giorni.
— Grazie ancora. Farò come dice.
— Buona fortuna.
— Grazie.
Dalla stazione prese a piedi verso ponte alla Vittoria. Quando arrivò all’altezza di Porta al Prato vide una lunga fila di donne davanti a una bottega.
Si fermò a guardarle attirato dall’avvenenza di alcune.
A uno che passava di lì chiese:
- Danno il pane con la tessera?
- No.
- No? Che fanno allora?
- Vanno dalla stregona a chiedere dei loro uomini al fronte.
- Dalla stregona? E perchè?
- Non arrivano notizie. È l’unico modo che hanno per sapere dei loro mariti, padri, fratelli...
Silvano indugiò ancora un po’ a guardare la ressa di donne, e una in particolare. Lei sembrò considerarlo per un attimo, ma poi distolse lo sguardo e riprese a parlare con un’amica.
Silvano la osservò ancora da dietro, i fianchi e il fondo schiena. Sospirò e riprese la strada in direzione di Ponte alla Vittoria.
Pensò a Sabatina, che l’aspettava alle Mura, vicino a Montaione. Se ce l’avesse fatta a ritornare vivo a casa, l’avrebbe sposata. Lo promise a se stesso come un atto scaramantico che allontanasse la morte, o peggio ancora la prigionia in Germania.
Superato Ponte alla Vittoria, allungò per via del Bronzino. Il primo obiettivo era arrivare sano e salvo a Signa.
La giornata si era fatta afosa e invitava a bere. Per fortuna ogni tanto, vi erano delle fontane pubbliche a cui poteva dissetarsi.
Verso Scandicci trovò un forno aperto. Si accapò dentro e gli diedero un pezzo di pane duro con un fiaschetto di vino.
Ringraziò e riprese il cammino.
Per la strada, sarà stata la paura di essere catturato, sarà stato lo stress dei giorni di fuga, cominciò a pensare alla morte. Ma alla morte naturale, quella dentro un letto di casa o di ospedale.
Un pensiero curioso quello di morire di morte naturale. Con il mondo che esplodeva e migliaia di persone che morivano in tutta Europa, lui pensava al giorno che sarebbe morto di morte naturale, magari nel proprio letto.
Come morirò quel giorno?
Era curioso di avere una risposta, e più curioso ancora che fosse sicuro di morire a casa.
Ora che Silvano aveva novantaquattro anni e ripensava a quel giorno che camminava sotto il sole per la strada bianca e polverosa da Firenze a Empoli di nuovo si chiedeva: come morirò?
Ormai era questione di tempo, lo avrebbe presto saputo. Ma ancora non trovava la risposta. E forse era meglio così. Meglio non sapere come si morirà.
Quei pensieri lo portarono a pensare al futuro, il futuro che immaginava allora, quell’ 11 settembre 1943. Si ricordava bene di aver pensato che se fosse sopravvissuto, avrebbe voluto fare qualcosa per il suo paese, per cambiarlo. Come Rocco. Sbagliato o non sbagliato che fosse, Rocco credeva in qualcosa in un momento in cui tutti avevano smesso di credere. E credeva che facendo così avrebbe cambiato in meglio il suo paese.
“Forse in politica? Forse facendo politica davvero potrò cambiare qualcosa”.
Con quel turbinio in testa continuò a camminare sotto la calura. Di macchine ne passavano poche data l’ora. Principiò ad appressarsi verso l’Arno. Vedeva in Arno qualche barcone carico di ghiaia e rena. Passato la località Porto di Mezzo s’ incontrò davanti a un cartello che indicava il nome del paese “La Lisca”. Non vi era anima viva. Solo un vecchio che fumava la pipa davanti all’ uscio di casa.
- Buongiorno giovane – gli fece il vecchio – si va a casa? N’è passati altri di sbandati come te che andavano per questa strada. Chi era di Castello, chi di Certaldo…tu di dove sei?
- Io, di Montaione.
- Ce n’hai di strada ancora...
- Beh non mi lamento, ancora son vivo...i tedeschi non m’hanno preso.
- Non è poco.
- Ma quanto manca a Empoli?
- E chi lo sa? Un paio d’ore tutte, forse anche tre...
- Ma dove siamo ora?
- A “La Lisca”, non l’ hai letto?
- Sì, ma che nome è?
- E’ per quell’osso di balena lassù.
- Dove?
- Non lo vedi? Sotto il tetto - e gli indicò con la pipa un punto del sottotetto della casa, dove in effetti si vedeva attaccato un osso lungo come una enorme costola.
- Un osso di balena quello?
- Certo.
- E come è possibile?
- In tempi antichi qui era tutto un enorme lago, e c’era le balene...era tutto mare. Anche a Firenze...poi arrivò Ercole...
- Ercole?
- Sì. Più avanti vedrai un grosso masso: il Masso della Gonfolina. C’è scritto. Ce l’ha scritto Leonardo.
- Vabbeh…ma che c’entra Ercole?
- Oh giovane...ma di dove sei? Oh che un lo sai che Ercole ritornando dalla Spagna si fermò qua e fu fatto re e per ringraziare spaccò il masso e liberò l’acqua che era del lago di Firenze e Pistoia e poi si formò l’Arno.
- Io la saluto, nonno. Grazie per le informazioni – rispose Silvano un po’ con il sorriso sulle labbra.
- Arrivederci, figliolo. E cerca di arrivare vivo a casa tua.
- Ci provo, nonno.
Poi la strada cominciò a salire leggermente e dopo un’ampia curva a destra ce n’era un’altra che volgeva verso sinistra con un grosso masso a strapiombo. “Sarà questo il Masso della Gonfolina?”
Si avvicinò e infatti vide una lapide di cui aveva parlato il vecchio:
"La Gonfolina, Sasso per antico unito co' Monte Albano in forma d'altissimo argine il quale tenea ingorgato tal fiume in modo che prima che versassi nel mare era dopo a' piedi di tal Sasso, componea due grandi laghi de' quali el primo è là dove oggi si vede finire la città di Firenze insieme con Prato e Pistoia".
Di quel viaggio a piedi da Firenze a Empoli, Silvano, in quei giorni di vecchiaia malata che passava in casa seduto in poltrona, non ricordava molto.
Rammentava un paese tutto nero, pieno di tanta miseria, disteso fra una collina irta con in cima un’antica chiesa e le due sponde del fiume Pesa che lo tagliava al centro come la lama di un coltello collegate da un ponte; che aveva attraversato sotto gli occhi di curiosi fannulloni appoggiati alle spallette del ponte a fumare e qualche ragazzino pidocchioso che lo osservava come fosse un oggetto raro.
Di Montelupo, ne aveva sentito qualche volta parlare quando era piccolo. Suo nonno Giovanni ci era andato qualche volta per visitare un parente alla lontana rinchiuso nel manicomio criminale, ospitato dentro un’antica villa medicea, che aveva finalmente visto in lontananza mentre camminava sul ponte. “Era qui che veniva mio nonno, allora!”, meravigliato che tanti anni dopo in una situazione di pericolo avesse conosciuto questa località.
Ricordava anche che per tutta la strada dal Masso della Gonfolina a Montelupo aveva pensato ai colori. Ai colori che potevano esprimere il senso di quella guerra, dell’8 settembre, del crollo di tutto lo stato e dello sbandamento dell’esercito. Aveva pensato al grigio, perché era il colore della rarefazione, della difficoltà di vedere in modo chiaro e soprattutto era il colore della sospensione, dello stallo, dell’attesa di un qualcosa quasi impossibile da prevedere.
Si ricordava anche di una donna secca come un uscio e dal volto scavato a cui aveva chiesto quanto mancasse ancora ad arrivare a Empoli, dopo essersi lasciato alle spalle Montelupo, che invece di rispondere gli aveva chiesto:
- Che fai soldato, scappi?
- Sì, massaia. Da Verona.
- Beato te!
- Come beato io? – aveva replicato Silvano sorpreso da quella curiosa osservazione.
- Almeno tu scappi, ma noi…noi no. Stiamo qui e aspettiamo. E abbiamo paura.
- Ma la guerra è finita, massaia!
- Un’altra volta?
- Come un’altra volta?
- Ce l’ avevano detto anche il 25 di luglio...anche allora tutti a festeggiare. Tutti in piazza a urlare la fine della guerra...E che è cambiato? Nulla. Paura dei bombardamenti, tessera, razionamento, mercato nero, fame…tutto come prima.
Published on October 05, 2018 07:26