Fabrizio Ulivieri's Blog, page 116

November 1, 2018

Lidia






Un’ altra cosa che la distrasse dall’indagare sul cambiamento di Silvano, fu che finalmente Sabatina cominciò a lavorare, a rendersi indipendente da Silvano.
Nella nuova casa, la moglie del padrone, Rosina, fasciava i fiaschetti in paglia.
Fu così che anche Sabatina volle provare.
Un lavoro umile, massacrante, ma per chi veniva dalle vigne, dal lavoro nei campi, da Villambosco, un acquitrino in inverno, una savana in estate, fasciare i fiaschetti rappresentava la liberazione dalla schiavitù, la possibilità di riscattarsi da una condizione di eterna dipendenza: prima il padre, poi la vita in casa con lo zio, poi con Ida ma finalmente ora l’Italia che cominciava a progredire offriva lavoro un po’ a tutti. Anche a Sabatina.
La ditta Piccini dell’ Ambrogiana, un paese vicino (o meglio una frazione di ) Montelupo gestiva un lavoro a domicilio di impagliatura dei fiaschi (“fiaschetti” come venivano chiamati all’ epoca) che distribuivano a una filiera di donne esterne alla ditta, che lavoravano a cottimo. Niente assicurazione, niente tasse da pagare. Lavoravi venivi pagato per quello che producevi. Producevi tanto guadagnavi tanto.


Sabatina all’inizio amava quel lavoro che le dava la possibilità di guadagnare, di avere dei suoi soldi da spendere, senza chiederli a Silvano, di poter comprare cose per la casa e vestiti per i bambini. Era la prima volta in vita sua e questo fatto la rese orgogliosa e più sicura di se stessa.
Una dei tratti fondanti della vita di Sabatina fu tuttavia di crearsi in tutte le fasi della sua vita una opponente, una rivale, una nemica (talora) su cui riversare tutti i dolori della sua sua infelicità, del suo negativismo, delle sue incapacità. E Rosina divenne naturalmente il centro del suo dissenso, del bisogno di entrare in disaccordo di quando, al solito, era incapace di competere allo stesso livello.
Dapprimo cercò di misurarsi con Rosina nel numero di fiaschi fasciati per giorno. Ma Rosina aveva un ritmo per sabatina insostenibile. Rosina rasentava quasi una folle meccanica nel lavoro, Sabatina era più pacioccona, più calma, non nevrotica, non schizzata come Rosina.E quando capì di non poter reggere il passo di Rosina questa presa di coscienza creò una prima frattura fra lei e il lavoro.
Un altro elemento di disamore fra lei e la nuova libertà procurata dall’arte di impagliare i fiaschi furono i profondi tagli che le procurava la “raffia” - come veniva chiamata in gergo la paglia che si usava per rivestire i fiaschi – che di frequente erano dolorosi e difficili da risarcire.
Il sonno, il sonno del dopo pranzo e del dopo cena, che la addormentava come congelata sulla seggiolina con il fiasco fra le gambe e l’ago in mano fu un altro elemento di disturbo.
E infine che fosse presa in giro da Rino, il titolare della ditta, che portava a domicilio i fiaschi e la paglia costituì il trauma finale. Rino non mancava mai di sottilineare che Rosina aveva fatto dei numeri che Sabatina non poteva in nessun modo sostenere.

- Ce ne fossero di Rosine! – ripeteva in presenza di entrambe, facendo diventare verde di rabbia Sabatina.

Sabatina non rispondeva. Taceva. Soffriva. Ma non rispondeva.

- Mi è mancata la parola – avrebbe poi detto a Silvano. La stessa frase che in fondo gli aveva ripetuto anche prima, a Villambosco, quando aveva mancato di rispondere a Ida. La stessa frase che avrebbe ripetuto per tutta la vita, in tutte le infinite volte che le era mancata la parola.

Un’ altra persona avrebbe forse cercato un altro lavoro. Molte donne andavano a lavorare in fabbrica, come la sua amica Lidia di Montelupo, che aveva conosciuto frequentando “La Siria” un negozio di casalinghi di via della Chiesa a Montelupo.
Erano così divenute amiche che Lidia veniva spesso a trovarla e rimaneva a pranzo e qualche volta a cena. Lidia lavorava in una fabbrica di terracotte di Montelupo e viveva sola con la madre in una casa vicino alla piazza del mercato di Montelupo.

- Ma perché non ti sposi Lidia – le aveva chiesto innumerevoli volte Sabatina.
- Io marito non lo voglio. A me piace far girare la stesta agli uomini. Ma averne uno per la casa tutto il giorno mi manderebbe via di cervello.
- Boh! Non so che dirti. Io non immaginarmi di andare con un altro uomo. Ho solo avuto mio marito. Mi basta lui. Con un altro uomo mi vergognerei anche a spoglairmi davanti a lui.
- Ma che vuoi che sia Sabatina, quando l’hai fatto una volta che vuoi che sia a farlo un’altra volta.

Ma a parte queste stranezze del carattere di Lidia, era felice Sabatina di aver trovato un’ amica così, da potersi incontrare parlare, andare al mercato insieme il sabato mattina e al cinema qualche volta con lei e i bambini.

- Perché non vieni in fabbrica con noi a lavorare? Cercano donne giovani. Se glielo dico io al padrone ti prende. Lui fa quello che gli dico io! – e rideva Lidia.
- Ma come faccio? Ho due bambini piccoli. Il marito. Come faccio?
- Ai bambini ci penseranno i nonni. Silvano va via la mattina e torna la sera. Che problema c’è?
- Prima di dare i bambini a Ida, a quel demonio di donna, rimango a fare i fiaschetti!
- Sabatina, qualche volta proprio non ti capisco – le rispondeva alla fine Lidia.
- Non ti preoccupare. Lavorerò duro. Glierlo farò vedere a Rino chi è Sabatina. Se crede di farmi paura non mi conosce.

Questo era il tono dei suoi discorsi con Lidia. Lidia sapeva come parlare a Sabatina. Le lanciava un’ offetta, le faceva una critica, e poi lasciava sfogare.
Sabatina aveva infatti bisogno di questo: persone con cui sfogarsi, confidarsi, dar loro il proprio cuore. E credere nelle persone, credere che loro vogliano solo il tuo bene. Che ti siano amiche. Che il bene esista. Che non esista solo il male. Che non tutte le donne sono come Ida.

- Oh Sabatina, domani viene Rino. Li ha i finiti i fiaschetti?

“Ora che vuole questa?” pensò Sabatina, quando Rosina le rivolse la parola. Era andata a dar da mangiare alle galline nel pollaio dietro casa e mentre ritornava in casa per finire di rigovernare, davanti al garage, incontrò Rosina.

- Sì, quasi. Me ne manca pochi. Ma per l’ ora di cena dovrei avercela fatta.
- Ma Silvano è tornasto a pranzo oggi?

Sabatina storse gli occhi. “Che domanda strana” pensò.

- Rosina, ma lo sai che Silvano non torna mai a pranzo. Fino all’ ora di cena non si vede. Ora lavora a Firenze. Va via la mattina e torna la sera. Non capisco perché me lo chiedi.
- Ma mi era parso di vederlo oggi.
- Ti è parso di vederlo? Dove? A casa non è venuto. E’ andato via stamani alle otto. Mi ha detto che tornava all’ ora di cena.
- Vuol dire che mi sono sbagliata allora. Mi sembrava la macchina di tu marito. A Montelupo m’ è passata davanti una macchinina come quella di tu marito. Erano un uomo e una donna. Ma allora non era lui. Mi son sbagliata.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on November 01, 2018 14:31

This is not a book. This is libel, slander






This is not a book. This is libel, slander, defamation of character. This is not a book, in the ordinary sense of the word. No, this is a prolonged insult, a gob of spit in the face of Art, a kick in the pants to God, Man, Destiny, Time, Love, Beauty … (Henry Miller) 
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on November 01, 2018 02:47

La carne che non muore (III)






La carrozza procedeva lungo il mare. Si intravedevano dei velieri al largo. Il mare nonostante fosse inverno era piatto e lucente. Era una giornata piena di luce.
Eleonora si sentì sollevata a vedere il mare che le procurò una apertura al cuore che la gelosia per la sorella aveva oppresso e chiuso.

- Senza mia sorella non so se avrei finito l' Accademia. Forse avrei abbandonato. La vita militare non mi piaceva – continuò Antonio quasi stesso solo parlando a se stesso – e senza il suo amore non avrei potuto finirla. Per un po’ è venuta a vivere a Torino. Te l’avevo detto? Ha preso in affitto un appartamento vicino all’Accademia, per starmi vicino.
- Ma perché ha fatto questo? – chiese Eleonora un po’ annoiata da quella sorella angelo.
- Perché nostra madre quando è morta le ha chiesto di essermi vicino. “Cerca tuo fratello. E per tutto l’amore che io ti ho portato aiutalo. Io so che tuo fratello è debole e senza il tuo aiuto non riuscirà a fare granché nella sua vita". Ed è stato in quel tempo che ha conosciuto un commerciante di Livorno di cui si è follemente innamorata. “Io lo amo e lui mi ama!”, mi ripeteva. E così è venuta a vivere a Livorno. Ma dopo un anno mi scrive che quell’uomo non è l’uomo che lei pensava. Che è un altro uomo. Un uomo diverso, che lei non ama più. Un despota, che la vuole solo sua schiava.
Io mi allarmo. Le scrivo. Non mi risponde. Passano i mesi e di lei non so più nulla. Finalmente la sua ultima lettera che mi prostra. Mi addolora. E mi getta nel panico.

Eleonora lo ascoltava distrattamente. Tutto quell’ardore per la sorella la sconcertava. Cominciava a dubitare che non fosse solo un amore fraterno. Cercava do ascoltare il meno possibile le parole di Antonio, che la urtavano, e guardava il succedersi del mare sulla destra e la fila delle ville sulla sinistra. Pensava che forse non avrebbe dovuto accompagnare Antonio in questo viaggio. Sarebbe stato meglio che fosse rimasta a Torino e l’ avesse lasciato venire solo. Forse avrebbe sofferto meno.

- Signori, ecco villa Letizia! – urlò il fiaccheraio dalla guida del calesse. 
Villa Letizia era un villone imponente, a forma quadrata, circondato da un imponente parco. A tre piani, con un vasto balcone sorretto da quattro colonne sopra la porta di ingresso. 
- Si fermi qua! – ordinò Antonio al fiaccheraio. 
Antonio si avvicinò al cancello e tirò la corda del campanello. Passarono almeno cinque minuti e nessuno rispose.

- Che non vi sia nessuno? – disse Antonio rivolgendosi indietro a Eleonora che era rimasta nel fiacchere.
- Puo’ darsi non abbiano sentito – rispose Eleonora - Prova di nuovo.

Antonio tirò di nuovo la corda del campanello. Nulla.
D’ un tratto si sentì il cigolare di una porticina laterale e spuntò fuori un uomo che dall’abbigliamento pareva un contadino. Che fosse il giardiniere?

- Chi suona in questo modo? – chiese sgarbatamente l’uomo.

Ma poi visto il cipiglio e il portamento militaresco di Antonio, la vettura in attesa con le valigie e la donna elegante che vi era a bordo, si tolse il cappello e con tono umile profferì:

- Chi cerca Signore?
- Non è questa la villa del commendator Giusti?
- Sì, Signore, lo è.
- E dunque?
- Il commendatore non vi è.
- Non vi è?
- E’ partito ieri sera dopo il funerale.
- Il funerale?
- Sissignore.
- E di chi?
- Della signora. Un grave lutto che ci ha addolorati tutti quanti. Inatteso.

Antonio sbiancò.

- Che mi sta dicendo?
- Non capisco Signore.
- Mi sta dicendo che la Signora, mia sorella, è morta?

Antonio era come paralizzato. Eleonora seduta nel fiacchere si era portata una mano alla bocca per soffocare un grido.
Il contadino guardava e non capiva più nulla.

- Signora, credo che bisognerebbe portare dentro suo marito – ruppe il silenzio il fiaccheraio che nel frattempo era sceso a terra – e lei là – disse rivolgendosi all’inebetito contadino – apra quel portone e ci faccia entrare dunque!

Il contadino corse a spalancare i cancelli della villa balbettando “Prego Signori, prego Signori, entrino, entrino pure...”

- Antonio! Antonio! – Eleonora cercava di far ritornare in sé il marito che nel frattempo si era accasciato a terra scivolando lungo il muro di recinzione a cui si era appoggiato per sostenersi dopo l’orribile notizia.

Nel frattempo dalla villa erano fuoriuscite delle donne, presumibilmente delle cameriere a giudicare dall’ abbigliamento, che allarmate guardavano la scena.

- Ma chi è quel signore? Chi sono questi? – chiese una di loro.
- E’ il fratello della signora – rispose il contadino – presto venite! Aiutatemi! – invocò loro il contadino.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on November 01, 2018 01:26

October 31, 2018

La Bianchina





Silvano ricordava bene lo stile di vita di suo nonno, e quello stile di vita lo aveva sempre impressionato fin da piccolo. E quando il partito gli aveva ventilato quella possibilità, si era ricordato di suo nonno e si era detto, “Perché no?”.
Il suo sogno era comprare il 1100. Gli piaceva molto il 1100/103 ma era troppo caro per cui optò per la Bianchina.
Silvano era orgoglioso di quella macchina, acquistata a suon di debiti, di cambiali, ma il commento di Sabatina fu, al solito, dissacrante.

- Ma che hai comprato? Una scatoletta di sardine? Ma come fai a entrare lì dentro?

Con Sabatina si era creata una distanza. Silvano capiva che Sabatina era sempre meno la donna che faceva per lui. Una donna che non sapeva presentarsi. Che non poteva adeguatamente rappresentarlo negli incontri, nelle cene, e nelle celebrazioni a cui aveva cominciato a prendere parte per via del lavoro. Era una donna semplice. Spesso aveva uscite fuori luogo, che potevano anche metterlo in imbarazzo. Ora forse capiva un po’ perché Ida era contraria al matrimonio. Forse Ida lo conosceva meglio di quello che lui pensasse.
Alla fine Silvano si sentiva quasi avesse doppia personalità. Brillante, scherzoso, seduttore fuori casa. Mogio, senza parole, irritato a casa. Infatti evitava di stare a casa.
Silvano forse non era un uomo particolarmente bello, ma certamente piaceva alle donne. Soprattutto piaceva quel piglio autoritario che si era costruito nel tempo facendo politica. Aveva in qualche modo acquistato un tono stalinista (come gli rimproveravano gli avversari, soprattutto i comunisti – strano a dirsi) che impressionava le donne, e che solo Sabatina sapeva mettere in crisi con quella sua capacità dissacratoria che le era connaturata.

Purtroppo Silvano era facilmente soggetto a perdere la testa per le donne. Fin dai tempi di Bruna a Montorio Veronese aveva avvertito con quale facilità potesse divenire preda di quella sensazione. In questo davvero assomiglia a nonno Giovanni, che non ne risparmiava una. Per tutta la vita ci aveva provato con tutte fin anche in tarda età, quando il decoro magari gli avrebbe imposto di controllarsi. Ma nonno Giovanni aveva una tale simpatia ed educazione naturale che anche nella più audace delle avanche provocava il riso nella predestinata di turno a subire il suo impeto di cavalleria eccessiva.
Comunque Sabatina cominciò a diventar gelosa. Troppe cose tutte insieme. E guarda caso tutte erano maturate all’improvviso mentre lei era al mare.
Se Sabatina aveva una capacità era proprio quella di avere una vista da, si direbbe oggi, scanner.
Silvano era per lei un libro aperto. Il suo cambiamento era troppo radicale. Doveva ben esserci qualcosa nel suo cambiamento, in profondità.
Nel mentre che rimuginava su queste cose ve ne furono molte altre che avvennero e che la tennero occupata.

La più grande fu il trasloco da Villambosco a casa di Magazzini, il nome del proprietario che aveva loro affittato la casa.
Siccome questo era il più grosso obiettivo di Sabatina un poco la calmò. Il fatto che fra tutte le novità vi fosse finalmente l’abbandonare la casa di Ida la riempiva di una gioia straordinaria che le faceva dimenticare i sospetti su Silvano.




 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 31, 2018 04:29

October 30, 2018

La morte di nonno Giovanni




Dopo che era ritornata dal mare aveva notato che Silvano era cambiato. Intanto aveva preso a dire che voleva comprare la macchina. La vespa era vecchia, e in inverno andare da Montelupo a Fucecchio faceva troppo freddo, magari in estate poteva andar bene ma in inverno proprio no. Ma anche in estate - insisteva - non era comoda, dopo anni di vespa non ne poteva più.
Aveva cominciato a dire che voleva lasciare la camera del lavoro di Fucecchio e andare a lavorare alla federazione di Firenze. Diceva che dopo il congresso di Venezia il partito si era staccato dai comunisti e a Firenze avevano bisogno di gente nuova.
Insomma pareva che in quindici giorni, il mondo fosse cambiato.
La notizia buona fu che aveva trovato una casa a Montelupo, località Graziani. E sarebbero andati ad abitare lì.

- Ma dove hai trovato tutti questi soldi? – chiese Sabatina.
- Il partito mi farà prendere un mutuo in banca a tasso agevolato. Non voglio fare la fine del povero Tognotti.
- Fare debiti? Ma che sei ciucco! Mio zio Giacco diceva sempre che non bisogna fare il passo più lungo della gamba.

Quel pomeriggio era infatti ritornato da Lucca, dal funerale di un suo compagno di lavoro e di partito, Giampaolo Tognotti. Lo aveva conosciuto a Lucca anni prima, durante una riunione della Coldiretti. Tognotti si occupava del settore oleario. A Lucca vi era una importante ditta, la Bertolli che era divenuta una ditta a livello internazionale innovando nel settore della distribuzione, non più vendendo l’olio in lattine ma in bottiglie di vetro trasparente. Tognotti aveva promosso una serie di incontri con i produttori di olive, a cui Silvano era andato e si erano conosciuti. Essendo Lucchese Tognotti era molto attento a non spendere, poco si concedeva alla vita. Sempre attento a risparmiare perfino sul caffè al bar. Silvano spesso lo prendeva in giro per questo sua eccessiva oculatezza che talora sconfinava in tirchieria. Di sicuro era riuscito ad accumulare dei risparmi, che però andarono ben presto spesi dopo che ebbe il primo infarto. Fra medici, medicine e cure, ben poco gli rimase. Dopo il secondo infarto, da cui mai più si riprese, i compagni di partito dovettero organizzare una colletta per aiutare lui e la famiglia.

La frase di Sabatina lo aveva disturbato. Capiva di esporsi, ma non voleva certo vivere come Ida e Beppe, che magari qualche soldo da parte ce lo avevano, ma che vita facevano? Da bestie.
No, lui era come nonno Giovanni, che fino all’ ultimo giorno si era goduto la vita.

- Silvano – gli diceva – io voglio sentirmi vecchio solo cinque minuti prima di morire.

E così probabilmente era stato.
Il giorno che morì, morì a letto, dopo pranzo. Una domenica pomeriggio. All’età di novantadueanni, in perfetto stato di salute.

- Mi butto un po’ sul letto – disse dopo il pranzo – mi sento un un po' stracco.
- Non fumate il sigaro oggi nonno?
- No...mi gira la testa.
- Il caffè lo volete?
- Ora no. Grazie. Magari dopo, quando mi alzo.

Alle sei non vedendolo ritornare, Silvano andò in camera a vedere che faceva.

- O nonno, che fate non vi alzate? ' disse una volta aperta la porta della camera - Ma che buio c’è in questa camera. Aspettate che apro gli scurini.

Quando entrò la luce in camera. Vide il nonno con le braccia conserte e un bel sorriso sulla faccia. E pareva sorridere a lui, a Silvano. O forse no, forse a qualcosa ancora più lontano di Silvano. Qualcosa che solo il nonno aveva visto.


 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 30, 2018 23:39

La carne che non muore (II)




Antonio andò con il pensiero all’ ultima lettera ricevuta dalla sorella, in cui gli riferiva di avere bisogno del suo aiuto. La lettera assomigliava ad un grido di soccorso senza menzionarne le ragioni. Una lettera misteriosa per certi versi. Antonio sarebbe voluto correre subito in soccorso se i suoi impegni militari non lo avessero trattenuto lontano con la compagnia dei bersaglieri impegnati a rastrellare il massiccio dell’Aspromonte.
Era poi dovuto rientrare a Torino con il plotone per chiedere una licenza speciale.
Eleonora si era da subito manifestata contraria ad accompagnarlo. Aveva da subito sospettato che fosse gelosa. Ed ora ne aveva la conferma.

- Ti vedo preoccupato Antonio?
- Penso alla lettera di mia sorella. E’ passato più di un mese. Non ho più avuto notizie da allora. Non vorrei che fosse successo qualcosa.
- Sta i tranquillo amore mio. Tutto sarà bene. In fondo anche io desidero conoscere questa tua sorella che è capace di impensierire il mio amore per te.
- Sai bene quanto diverse siano le nostre vite. Siamo sati divisi fin da piccoli, da quando i genitori si separarono. Io con mio padre e mia sorella con la madre. Eppure il nostro amore, di fratello e sorella si è rafforzato invece di diminuire. Non è strano questo?

Eleonora evitò di rispondere. Avrebbe voluto dire “Sì, è strano! Non è un normale amore fra un fratello e sorella. E’ qualcosa di più. Qualcosa che mi preoccupa.”
Ma non lo disse e si limitò ad abbassare la testa, appoggiandola sulla sua spalla e guardava fuori la città che si allontanava verso l’aperta campagna.

- Io non conoscevo mia sorella. Avevamo sempre vissuti separati. Lei a Livorno ed io a Torino. Mio padre mi aveva presto avviato alla vita dell’ Accademia Militare. Fu un giorno che uscendo dall’Accademia insieme a dei commilitoni, una graziosa ragazza mi si fece incontro. Bionda, occhi azzurri, alta e slanciata da parermi una visione del cielo. I miei compagni d’Accademia erano rimasti paralizzati dall’ apparizione. Questo essere divino mi viene incontro, mi abbraccia e mi bacia sulle guance. “Fratello mio!” mormorando.

Eleonora lo fissò. Delle lacrime scendevano dal volto di suo marito, un soldato indurito dalla disciplina e dalle atrocità dell’Aspromonte. Quasi non ci credeva. E sentì aumentare la gelosia, che tuttavia cercò ancora di trattenere, perché una moglie non può e non deve essere gelosa di una sorella.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 30, 2018 13:43

IMPARA A SCRIVERE E IMPARA L' ITALIANO (CORSO DI SCRITTURA CREATIVA)




- Vuoi migliorare l'italiano e ti piace scrivere?
- Vuoi parlare, dialogare creare e pensare in italiano?
- Sai che la lingua scritta migliora quella parlata e non viceversa?

Tecniche di scrittura creativa per migliorare il tuo italiano!

Contatti: scritturacreativa.it@gmail.com
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 30, 2018 07:24

October 29, 2018

Il doppio stato e la doppia fedeltà







A distanza di anni, Silvano odiava certe cose. Quando la lucidità glielo permetteva ripensava in modo quasi violento indietro alla sua vita passata. La rabbia, la violenza che in lui faceva fremere il suo essere, gli ridava forza e lucidità.
Silvano aveva compreso bene la infelicità della sua esistenza. Un’infelicità costante che per tutta la vita lo aveva perseguitato, senza dargli pace.
“Era meglio che partorisse un gatto nero mia madre, invece di me”, era la sua frase ogni volta che pensava a quanto infelice fosse stata la sua vita.
E comunque quei pensieri gli ridavano forza, gli riattivavano la visione che diversamente si sarebbe spenta.
Per reagire alla demolizione continua della malattia, per mettere in atto un tentativo di arrestare quella rottamazione costante dei pezzi che componevano il suo io e il suo corpo (quel che ancora rimaneva di un qualcosa che potesse ancora chiamarsi “corpo”) ripensò alla sua vita negli anni Cinquanta, agli anni dedl boom economico, a come la gente vedeva crescere i loro soldi, il benessere, e a come la speranza non conoscesse limiti in quegli anni.
In quegli anni erano nati Luigi e poi Fabrizio. Cinque anni di differenza fra l’uno e l’altro, ed erano figli di quell’ ideale ora tramontato. Figli della speranza di una vita felice. Di una vita dettata da un reddito improvviso, che superava le aspettative.
Mettere al mondo un figlio allora pensava che fosse un atto di responsabilità per il figlio e per il mondo. Ma ora no. Ora pensava che è solo egoismo. Che è un processo un processo naturale di cui si potrebbe fare anche a meno. Che ti danno alla fine i figli, in giorni come questi? Quando sei solo tu e il tuo male a tenerti in vita. E’ solo una delle tante narrazioni del mondo quella dei figli. Lui e Sabatina avevano educato i figli secondo la loro natura. Il credo nella famiglia, il rispetto dell’uno e dell’altro. Il dare sempre, anche se non ricevi. Il volersi bene, in quanto fratelli.
Ma in realtà erano divenuti ora Luigi e Fabrizio? Due estranei. E Silvano ne soffriva. Vedere due fratelli che erano così diversi e lontani l’uno dall’altro era un dolore che non sapeva esprimere e perciò lo viveva in silenzio. Non aveva un’alternativa. Doveva e poteva viverlo solo in silenzio.
Ma in fondo anche lui con sua sorella Diana e con suo fratello Piero, come erano diventati? Sua sorella non si parlava più con suo fratello a causa della moglie di lui e a causa di Ida che aveva sempre fatto differenze fra Silavno e Piero e fra Piero e Diana.
Le narrative servono solo a descrivere un ruolo, e se i ruoli cessano, cessano le narrative. Si assume un altro ruolo e si aderisce ad altre narrative. Un fratello che si sposa, un fratello che cambia città, un fratello che fa figli vive secondo narrative diverse da quelle di quando si dormiva nella stessa camera e si cenava allo stesso tavolo.
Silvano soffriva, avrebbe voluto che i suoi figli fossero sempre fratelli, fossero i Luigi e i Fabrizio di quando erano piccolini, ora quasi non si capivano più.
Il vincolo di sangue? Una narrativa bugiarda, che non esiste più, in un mondo dove gli eroi non esistono più. Dove i valori, gli ideali si sono estinti.

Un grande vantaggio della vecchiaia è di diventare scettici; che cominci a pensare (quando la mente ancora funziona) perché hai tanto tempo per osservare le cose di lontano. E questo è un grande vantaggio, che non hai quando sei giovane. Da giovane corri e pensi solo a correre. Hai una sete dentro che ti fa solo correre.
Ma perché quei pensieri. Perché quella rabbia, e amarezza, contro il passato?
Era stato a causa di Sabatina, ormai l’ultimo interlocutore spontaneo che gli era rimasto.
Sabatina passava interi pomeriggi alla TV, dormendo. Ogni tanto si svegliava, diceva qualcosa senza senso e si riaddormentava.

- Ma perché guardi questo film? – le chiese Silvano, che si era con difficoltà alzato dalla poltrona, barcollando avve raggiunto Sabatina e l’aveva scossa.

Sabatina sussultò. Emise un suono strano e nel suo toscano crudo, escalmò:

- Che c’è? Che vuoi?
- Posso cambiare?
- Non ti piace?
- No.
- Ma come? Non ti piace Alberto Sordi?
- No, lo odio.
- Io lo voglio vedere.

Silvano, si stizzì. Borbottò qualcosa incomprensibile e si sedé. Non riusciva a tener testa a Sabatina ora, si sentiva debole. Non come quando era giovane. Allora era lei, Sabatina, che si piegava a lui.
Negli anni Cinquanta aveva visto molti film con Sordi. Per lui Sordi era colpevole di aver stereotipizzato gli italiani. Lo riteneva reo di aver impregnato la cultura del dopoguerra di un’ immagine dell’ italiano vigliacco, bugiardo, democristiano, imbroglione, debole, paraculo, lavativo, bonaccione, servo del volemose bbene semo itagliani…che era nata dalla disfatta del ’43. Quel senso di cedimento generale e di necessità di salvare la propria pelle costi quel costi e di individualismo estremo derivati dalla disfatta dello Stato l’aveva trasferito sugli schermi e ne aveva fatta un’icona della italianità.
Aveva sdoganto e legittimato l’immagine dell’italiano individualista e debole nato dall’egoismo dell’ 8 settembre, che soffriva del desiderio inappagato di ritornare a casa, alla propria Itaca, e per questo pronto a sacrificare tutto il resto purché a vantaggio del proprio tornaconto.
Quel film che Sabatina pretendeva di guardare ma neppure ascoltava, immersa nel suo sonno di morte anticipata che ti prepara a distaccarti lentamente dal mondo, l’ aveva fatto scivolare con i pensieri a quegli anni dell’ Italia che ruggiva.
Ora di che ruggiva l’ Italia? Ora gli parevano tutti figli di Alberto Sordi: vigliacchi, bugiardi, imbroglioni, deboli, paraculi, lavativi, voltagabbana, comici diventati politici e politici diventati comici…Chi aveva provato a uscire da quello schema era sempre stato fatto fuori: Mattei, Moro, Craxi, Falcone, Borsellino...
Non erano molti in fondo gli italiani con le palle dal Dopoguerra a oggi. Li contavi sulle dita di una sola mano.
Ricordava che pure in quegli anni, negli anni del miracolo economico, serpeggiava il malessere. Il malessere di una prosperità troppo improvvisa, che aveva troncato il dolore del nostos, che aveva partorito immigrazioni folli dal sud al nord, cambiamenti alle strutture portanti della vita di milioni di persone, che aveva provocato una incontenibile corsa ad acquistare firmando cambiali.
Ma tutto questo era sembrato secondario davanti alla ricchezza inattesa di un paese secolarmente povero e depredato in modo genetico dal nord, dopo l’Unificazione d’Italia, e dagli stati esteri da cui l’Italia aveva da sempre dipeso e continuava a dipendere. Quella italiana era una democrazia secondo la formula del doppio Stato con una doppia fedeltà: fedeltà alla Repubblica e fedeltà alle forze che estere che hanno da sempre controllato la Repubblica.
E perciò quel malessere non era mai scomparso. Si era trasformato, modificato, mascherato, evoluto ma mai era rimasto assente.
E le loro malattie avevano causa in quello stesso male che correva ininterrotto nelle contraddizioni del doppio Stato, dal boom economico ai presenti giorni. Erano come il risultato di una risonanza evolutiva che li aveva accompagnati fino a modificare le loro cellule, e il loro comportamento genetico.

Ma Silvano non mollava. Nonostante l’età e le malattie. Non era Sabatina, lui. Aveva difficoltà a capire ma voleva capire. Voleva almeno morire con la certezza di aver capito. E forse aveva capito. Per questo pensava, ascoltava dentro di sé, per quanto le medicine e i mali congiurassero contro la sua volontà.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 29, 2018 01:53

October 28, 2018

La carne che non muore (I)




Livorno, una città della Toscana, che ad arrivarci avevi il dubbio di essere in Toscana. Livorno, Marina di Pisa, Tirrenia, Calambrone potevano far dubitare di aver forse varcato una frontiera venendo da Firenze.
I due sposi, eccentrici si poteva definirli dall’abbigliamento, scesi dal treno poggiarono le valigie sul binario guardandosi attorno, in attesa di un facchino.
E forse il loro stupore aveva quella radice, di essere pervenuti in un mondo diverso da quello da cui erano partiti.
Lui indossava un paltò a doppio petto grigio fumo di Londra. Il bavero era sormontato da una pelliccia nera. Nell’ampia tasca sinistra teneva arrotolato un quotidiano. Dal bavero si intravedeva il colletto rigidamente inamidato di una camicia bianca a cui era annodata una cravatta grigia a pois bianchi. Sotto il cappello a falde ampie spuntava un faccia piena e rotonda, il cui mento e labbra erano ricoperti da una barba nera a forma di pizzetto. Gli occhi erano neri e spiritati. Si guardavano attorno quasi fossero persi.
Lei vestiva un lungo cappotto nero e un cappellone anch’esso nero, sotto il quale spuntavano dei riccioli oro.
Aveva sopracciglia fini ma fortemente marcate. Lo sguardo era intenso e le pupille di lontano parevano di un nero acceso. Il naso leggermente lungo si appuntiva appena piegando verso il basso. La bocca piccola e sigillata in una smorfia di inavvertibile insoddisfazione.
Se lui dimostrava almeno quaranta, quarantacinque anni, lei non sembrava averne più di trentacinque.
Gli altri viaggiatori superandoli li osservavano finendo talora per urtarsi nel passare davanti perché volgevano verso di loro tutta la propria attenzione.
Finalmente arrivò un facchino che si prese cura dei loro bagagli.

- Ci conduca all’uscita – disse l’uomo allungandogli una moneta -abbiamo fretta. Ci sono fiaccheri all’ uscita?
- Sissignore, ce ne sono almeno tre o quattro sempre in attesa.
- Hai fretta di raggiungere tua sorella? – chiese la moglie.
- Perché me lo chiedi?
- Perché ti vedo in pena.
- Mi devi capire, sono anni che non vedo mia sorella.
- In certi momenti mi sento quasi gelosa.
- Oddio! Che parolona...non puoi sentirti gelosa di una sorella.
- Lo sono in verità.
- Ecco signori, scelgano loro il fiacchere che più vi aggrada – li interruppe il facchino. 
Il fiaccheraio sistemò i bagagli. Aiutò a salire la signora e domandò la direzione al marito.

- Villa Letizia, all’ Ardenza. Corra per favore la pagherò il doppio.

Eleonora, si accomodò sbottonandosi il cappotto, Antonio tirò fuori il giornale arrotolato dalla tasca e pretese di leggerlo.

- Ti disturba che io sia gelosa di tua sorella?

Antonio guardava fuori. Aspettava solo che il fiacchere prendesse l’abbrivio. Rispose solo quando oltrepassò i cancelli della stazione. 
- Un po’ sì. Ma non mi sembra il caso di crearne una discussione. Sono sicuro che anche tu quando la vedrai capirai l’assurdità della tua gelosia.

Antonio la cinse alla vita, ma Eleonora gli resisté debolmente. Il pensiero di incontrare la sorella di Antonia le causava una sorta irrigidimento mentale. Un sentimento di una spiacevole scoperta la pressava. Ed aveva la forma di una verità che era meglio tenere ancora distante.
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 28, 2018 14:18

October 26, 2018

A Marina di Pisa dalla famiglia Billeri





La famiglia Billeri era composta da moglie e marito, la mamma della moglie e un cane.
Erano pisani e il loro accento era pesante e strascicato, che talora disturbava le orecchie sentirlo.
Comunque erano gentili.

- Ma quanti sarete allora?
- Io, i due bambini e mia suocera – e qui Sabatina guardò di sguincio Silvano.

Silvano le fece due occhiacci, come per dire “Non ricominciamo!”.
Sabatina non rispose alla provocazione. Fece finta di nulla.

- Ma lei non verrà mai? – chiese la signora Billeri a Silvano.
- Signora, il mio non è un lavoro normale. Lavoro in politica. Si lavora anche il sabato e la domenica.
- Mamma mia! – sospirò la signora Billeri.
- Allora siamo d'accordo per la seconda quindicina di giugno?
- Va bene. La caparra ce l’avete già versata. Quando arriverete ci verserete il resto.

La casa dei Billeri era bella. La camera che avevano dato a Sabatina e ai bambini guardava sul mare. Erano stanze spaziose e luminose. Non le piaceva tanto che ci fosse un cane, ma Luigi e Fabrizio ne erano contentissimi. A Villambosco ne avevano uno, Lampino, e trovarne un altro al mare, a Marina di Pisa, li aveva resi felicissimi.
I bambini, soprattutto Luigi, erano attaccati a Lampino perché Lampino una volta aveva salvato la vita a Luigi.
Luigi un pomeriggio d’estate aveva preso per il vigneto a costone che degradava a precipizio verso un borro a valle, che veniva chiamato l’ Africa per le temperature torride che vi regnavano in quella parte dell’anno. Luigi era andato a cercare nonno Beppe che stava lavorando in quelle prode. A un certo punto scivolò a causa della natura friabile del terreno e si procurò una distorsione alla caviglia destra. Tentò più volte di alzarsi e camminare senza successo. Cominciò a frignare e a lamentarsi e a chiamare “Nonno!Nonno!”. Ma nessuno rispondeva. Lampino per un po’ lo guardò. Poi gli abbaiò e scappò via di corsa verso l’alto del colle. Luigi gli urlò “Lampo! Lampo! Rimani qui! Non lasciarmi solo!”.
Lampino non lo ascoltò e imperterrito corse a perdifiato per la viottola che menava a Villambosco.
Arrivato, si incuneò per le stanze della casa in cerca di Sabatina. Quando la trovò prese ad abbaiarle davanti alle gambe. Abbaiava e faceva le viste di correre indietro verso la viottola che si inerpicava su per il colle e portava all’Africa.
“Che hai Lampo? Che ti ha dato di barta il cervello per il caldo” diceva Sabatina.
Ma il cane non aveva pace. Abbaia, e poi rinculava verso la via. Poi ritornava da Sabatina e poi di nuovo prendeva l’abbrivio verso il sentiero.
Abbaiava, abbaiava e ripeteva le stesse mosse, senza pace.
Sabatina alle fine fu presa da un sospetto. Lampo era sempre con Luigi. Come mai Luigi non era con lui? Le balenò una paura. “Vai Lampo. Ti vengo dietro”.

- Ora me la troverò anche al mare quell’impiastro di Ida.

Furono le prime parole di Sabatina appena uscirono fuori e si incamminarono per la stazione attraverso il refrigerio della pineta.

- Ma come avresti fatto da sola, con due bambini?
- Sarei stata meglio che con Ida.
- Ma così metterà dei soldi anche lei. Io da solo non ce l’avrei fatta. Non ho tutti questi soldi. A chi li chiedevo?
- E tu non verrai mai?
- Cercherò di venire un fine settimana.
- Bella roba che sei! I tuoi figli non ti vedranno mai. Non ci sei mai con loro.
- Che devo fare? Alla Camera del Lavoro, ci sono da organizzare tante cose. Poi ora lavoro anche per il partito. Devo andare a fare dei comizi anche.
- Voglio vedere che ti darà il partito! E Beppe come farà da solo?
- Ida ha chiamato il fratello di Beppe, Livio. Verrà lui a dargli una mano.

Sabatina tacque. Guardò avanti. Prese per mano i bambini. Erano la sua vita. L’orizzonte intero della sua esistenza.






 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 26, 2018 22:46