In cammino verso casa




Silvano arrivò a Firenze l’11 settembre, lo stesso giorno che i tedeschi occuparono la città. Le forze armate tedesche erano concentrate sull’arresto degli ufficiali e soldati del regio esercito, sul prendere possesso delle caserme e dei punti nevralgici della città e sul fare prigionieri, per cui i controlli alla stazione erano ancora poco efficaci.
Firenze, nei giorni precedenti l’occupazione, era stata in fermento. Da una parte i vertici dei partiti antifascisti riemersi dalla clandestinità dopo il 25 luglio e riuniti nel Comitato del Fronte nazionale che avevano chiesto al prefetto sia al gen. Armellini, comandante territoriale di Firenze, di definire un piano d’azione comune contro l’ex alleato e, in particolare, di distribuire le armi ai civili ottenendo solo dinieghi per l’assenza di ordini superiori. Il generale Armellini aveva consigliato la calma. Aveva temporeggiato, nella migliore tradizione guicciardiniana, ma aveva finito, a causa della sua inconcludenza, per essere arrestato dai tedeschi.
Dall’altra vi era la riorganizzazione dei gruppi fascisti che erano scomparsi con il 25 luglio, con la deposizione di Mussolini, ad opera del Gran Consiglio del fascismo.
Silvano arrivò dunque in un momento in cui l’ordine stava per essere imposto ma non era ancora imposto dovunque.

— Come ti chiami? — chiese Silvano al giovane quando scesero a Santa Maria Novella e le loro strade stavano per dividersi.
— Rocco. E tu?
— Silvano.

Si abbracciarono. Si diedero pacche sulle spalle.

— Grazie Rocco! Grazie per il tuo aiuto.

Rocco non rispose. Gli sorrise. Si accese una una Milit, aspirò profondamente, sollevò una mano in segno di saluto e prese a passi svelti la direzione verso l’atrio della stazione.
Silvano rimase a guardarlo con un groppo duro in gola. Quel ragazzo gli aveva trasmesso un messaggio in una lingua che fino ad allora non aveva mai parlato.
Fissò il ragazzo sino a che si confuse lontano con la folla. Allora lentamente e guardandosi attorno si avviò anche lui verso la testa del binario. Da lontano non vedeva pattuglie, solo qualche carabiniere che gironzolava.
Una lunga fila di persone davanti a un negozio di tabacchi. Via vai di passeggeri. Nulla che lo impensierisse.
A un ferroviere che gli passava vicino chiese dove si prendesse il treno per Castelfiorentino.
Il ferroviere si fermò, lo squadrò bene e poi gli disse.

— Non te lo consiglio.
— Perché?
— Perché a Firenze Rifredi, ci sono controlli serrati dei tedeschi. Ti prenderebbero subito. Sono arrivati anche un Plotone di SS. Quelli non perdonano.

A Silvano ritornò in mente il controllo di Rifredi (provenendo da Bologna e che avrebbe dovuto rifare in senso inverso per andare a Siena) che grazie a Rocco aveva superato - e forse grazie anche alla compassione dell’ufficiale tedesco.

— Grazie mille!
— Prego figliolo. E stai attento a non farti prendere. Vai a piedi lungo la statale, fino a Empoli e lí vedi com’ è la situazione e poi prendi il treno per Siena. Quando hai fame fermati a qualche casa di contadini, ti aiuteranno. Ne stanno aiutando tanti in questi giorni.
— Grazie ancora. Farò come dice.
— Buona fortuna.
— Grazie. 
Dalla stazione prese a piedi verso ponte alla Vittoria. Quando arrivò all’altezza di Porta al Prato vide una lunga fila di donne davanti a una bottega.
Si fermò a guardarle attirato dall’avvenenza di alcune.
A uno che passava di lì chiese:

- Danno il pane con la tessera?
- No.
- No? Che fanno allora?
- Vanno dalla stregona a chiedere dei loro uomini al fronte.
- Dalla stregona? E perchè?
- Non arrivano notizie. È l’unico modo che hanno per sapere dei loro mariti, padri, fratelli...

Silvano indugiò ancora un po’ a guardare la ressa di donne, e una in particolare. Lei sembrò considerarlo per un attimo, ma poi distolse lo sguardo e riprese a parlare con un’amica.
Silvano la osservò ancora da dietro, i fianchi e il fondo schiena. Sospirò e riprese la strada in direzione di Ponte alla Vittoria.
Pensò a Sabatina, che l’aspettava alle Mura, vicino a Montaione. Se ce l’avesse fatta a ritornare vivo a casa, l’avrebbe sposata. Lo promise a se stesso come un atto scaramantico che allontanasse la morte, o peggio ancora la prigionia in Germania.

Superato Ponte alla Vittoria, allungò per via del Bronzino. Il primo obiettivo era arrivare sano e salvo a Signa.
La giornata si era fatta afosa e invitava a bere. Per fortuna ogni tanto, vi erano delle fontane pubbliche a cui poteva dissetarsi.
Verso Scandicci trovò un forno aperto. Si accapò dentro e gli diedero un pezzo di pane duro con un fiaschetto di vino.
Ringraziò e riprese il cammino.
Per la strada, sarà stata la paura di essere catturato, sarà stato lo stress dei giorni di fuga, cominciò a pensare alla morte. Ma alla morte naturale, quella dentro un letto di casa o di ospedale.
Un pensiero curioso quello di morire di morte naturale. Con il mondo che esplodeva e migliaia di persone che morivano in tutta Europa, lui pensava al giorno che sarebbe morto di morte naturale, magari nel proprio letto.
Come morirò quel giorno?
Era curioso di avere una risposta, e più curioso ancora che fosse sicuro di morire a casa.
Ora che Silvano aveva novantaquattro anni e ripensava a quel giorno che camminava sotto il sole per la strada bianca e polverosa da Firenze a Empoli di nuovo si chiedeva: come morirò?
Ormai era questione di tempo, lo avrebbe presto saputo. Ma ancora non trovava la risposta. E forse era meglio così. Meglio non sapere come si morirà.
Quei pensieri lo portarono a pensare al futuro, il futuro che immaginava allora, quell’ 11 settembre 1943. Si ricordava bene di aver pensato che se fosse sopravvissuto, avrebbe voluto fare qualcosa per il suo paese, per cambiarlo. Come Rocco. Sbagliato o non sbagliato che fosse, Rocco credeva in qualcosa in un momento in cui tutti avevano smesso di credere. E credeva che facendo così avrebbe cambiato in meglio il suo paese.
“Forse in politica? Forse facendo politica davvero potrò cambiare qualcosa”.

Con quel turbinio in testa continuò a camminare sotto la calura. Di macchine ne passavano poche data l’ora. Principiò ad appressarsi verso l’Arno. Vedeva in Arno qualche barcone carico di ghiaia e rena. Passato la località Porto di Mezzo s’ incontrò davanti a un cartello che indicava il nome del paese “La Lisca”. Non vi era anima viva. Solo un vecchio che fumava la pipa davanti all’ uscio di casa.

- Buongiorno giovane – gli fece il vecchio – si va a casa­? N’è passati altri di sbandati come te che andavano per questa strada. Chi era di Castello, chi di Certaldo…tu di dove sei?
- Io, di Montaione.
- Ce n’hai di strada ancora...
- Beh non mi lamento, ancora son vivo...i tedeschi non m’hanno preso.
- Non è poco.
- Ma quanto manca a Empoli?
- E chi lo sa? Un paio d’ore tutte, forse anche tre...
- Ma dove siamo ora?
- A “La Lisca”, non l’ hai letto?
- Sì, ma che nome è?
- E’ per quell’osso di balena lassù.
- Dove?
- Non lo vedi? Sotto il tetto - e gli indicò con la pipa un punto del sottotetto della casa, dove in effetti si vedeva attaccato un osso lungo come una enorme costola.
- Un osso di balena quello?
- Certo.
- E come è possibile?
- In tempi antichi qui era tutto un enorme lago, e c’era le balene...era tutto mare. Anche a Firenze...poi arrivò Ercole...
- Ercole?
- Sì. Più avanti vedrai un grosso masso: il Masso della Gonfolina. C’è scritto. Ce l’ha scritto Leonardo.
- Vabbeh…ma che c’entra Ercole?
- Oh giovane...ma di dove sei? Oh che un lo sai che Ercole ritornando dalla Spagna si fermò qua e fu fatto re e per ringraziare spaccò il masso e liberò l’acqua che era del lago di Firenze e Pistoia e poi si formò l’Arno.
- Io la saluto, nonno. Grazie per le informazioni – rispose Silvano un po’ con il sorriso sulle labbra.
- Arrivederci, figliolo. E cerca di arrivare vivo a casa tua.
- Ci provo, nonno.

Poi la strada cominciò a salire leggermente e dopo un’ampia curva a destra ce n’era un’altra che volgeva verso sinistra con un grosso masso a strapiombo. “Sarà questo il Masso della Gonfolina?”
Si avvicinò e infatti vide una lapide di cui aveva parlato il vecchio:

"La Gonfolina, Sasso per antico unito co' Monte Albano in forma d'altissimo argine il quale tenea ingorgato tal fiume in modo che prima che versassi nel mare era dopo a' piedi di tal Sasso, componea due grandi laghi de' quali el primo è là dove oggi si vede finire la città di Firenze insieme con Prato e Pistoia".

Di quel viaggio a piedi da Firenze a Empoli, Silvano, in quei giorni di vecchiaia malata che passava in casa seduto in poltrona, non ricordava molto.
Rammentava un paese tutto nero, pieno di tanta miseria, disteso fra una collina irta con in cima un’antica chiesa e le due sponde del fiume Pesa che lo tagliava al centro come la lama di un coltello collegate da un ponte; che aveva attraversato sotto gli occhi di curiosi fannulloni appoggiati alle spallette del ponte a fumare e qualche ragazzino pidocchioso che lo osservava come fosse un oggetto raro.
Di Montelupo, ne aveva sentito qualche volta parlare quando era piccolo. Suo nonno Giovanni ci era andato qualche volta per visitare un parente alla lontana rinchiuso nel manicomio criminale, ospitato dentro un’antica villa medicea, che aveva finalmente visto in lontananza mentre camminava sul ponte. “Era qui che veniva mio nonno, allora!”, meravigliato che tanti anni dopo in una situazione di pericolo avesse conosciuto questa località.
Ricordava anche che per tutta la strada dal Masso della Gonfolina a Montelupo aveva pensato ai colori. Ai colori che potevano esprimere il senso di quella guerra, dell’8 settembre, del crollo di tutto lo stato e dello sbandamento dell’esercito. Aveva pensato al grigio, perché era il colore della rarefazione, della difficoltà di vedere in modo chiaro e soprattutto era il colore della sospensione, dello stallo, dell’attesa di un qualcosa quasi impossibile da prevedere.
Si ricordava anche di una donna secca come un uscio e dal volto scavato a cui aveva chiesto quanto mancasse ancora ad arrivare a Empoli, dopo essersi lasciato alle spalle Montelupo, che invece di rispondere gli aveva chiesto:

- Che fai soldato, scappi?
- Sì, massaia. Da Verona.
- Beato te!
- Come beato io? – aveva replicato Silvano sorpreso da quella curiosa osservazione.
- Almeno tu scappi, ma noi…noi no. Stiamo qui e aspettiamo. E abbiamo paura.
- Ma la guerra è finita, massaia!
- Un’altra volta?
- Come un’altra volta?
- Ce l’ avevano detto anche il 25 di luglio...anche allora tutti a festeggiare. Tutti in piazza a urlare la fine della guerra...E che è cambiato? Nulla. Paura dei bombardamenti, tessera, razionamento, mercato nero, fame…tutto come prima.

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Published on October 05, 2018 07:26
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