Fabrizio Ulivieri's Blog, page 121
July 2, 2018
8 Settembre (3)

Quando Badoglio annunciò l’armistizio, tutti credettero fosse la pace. L’impulso fu di una gioia sfrenata. Di ritornare a casa. L’Italia si dissolse, l’Italia militare soprattuto.
Anche Silvano fuggí. Tutti fuggivano. Il sentiment d’ordine generale era: ritornare a casa.
Che altro fare davanti a quel sentiment collettivo che anteponeva la propria pelle a ogni onore? Davanti alla sfaldamento generale di qualsiasi apparente ideologia
A Bologna Silvano prese finalmente il treno. Riuscí a prendere quel treno per Firenze.
Non vi erano stati controlli particolari a Bologna. Con sua grande sorpresa tutto filò abbastanza liscio.
Nello scompartimento, nella panca di legno davanta lui stava un ragazzo di circa vent’anni, che mangiava avidamente pasta asciutta da una specie di gavetta.
Il ragazzo si senti osservato.
— Che vuoi? — gli chiese senza mezzi termini.
Silvano notò il suo sguardo. Non era lo stesso sguardo di tutti i disertori che aveva finora incontrato. Non era lo sguardo di chi fugge. Era lo sguardo fiero di chi ha solo fame ma ancora crede in qualcosa.
— Guardavo la tua pasta non te.
Il ragazzo lo osservò.
— Hai fame?
— Sí?
— Prendi! — gli disse porgendogli la gavetta, rinunciando al suo pasto.
— Ma...davvero posso?
— Certo camerata.
Silvano, un po’ trasilí alla parola “camerata”.
— Non fuggo come te, io — gli disse il ragazzo — vado a Firenze. Ci stiamo riorganizzando.
— Ci stiamo riorganizzando?
— Noi della Decima Mas.
Silvano, aveva sentito partlare della Decima Mas, come di un reparto di pazzi fascisti esaltati.
Ma quell gesto di rinunciare al proprio cibo per darlo a uno sconosciuto lo trattenne dal giudizio.
— Tu non hai disertato?
— No. Ero in licenza a Bologna, quando i tedeschi hanno bloccato ogni ingresso a La Spezia, dove si trova il mio comando. Il comandante Borghese ha firmato un patto con i tedeschi, continueremo a combattere al fianco dei tedeschi. Noi abbiamo un onore da difendere, non siamo come I disfattisti che sono fuggiti. A Firenze ci stiamo radunando per ricompattarci e metterci a servizio di Borghese di nuovo. Noi non ci arrendiamo come hanno fatto i tuoi comandanti.
L’atteggiamento del ragazzo, la fierezza del suo sguardo, diverso da quello di tutti gli altri soldati che come lui pensavano solo a ritornare a casa, il tono deciso della sua voce, gli entrò dentro.
— Sei fascista? — gli chiese Silvano.
— No.
— Allora perché vuoi continuare a combattere con I tedeschi?
— Noi abbiamo un onore da difendere, una fedeltà alla bandiera…
— Ma se tutti scappano, generali compresi…perchè vi ostinate a combattere ancora? Non capisco…
— Perchè siamo diversi dagli altri. Una guerra si può perdere, ma con dignità e lealtà. La resa e il tradimento bollano per secoli un popolo davanti al mondo. Il nostro comandante è rimasto, non è fuggito come tutti gli altri. Noi rimaniamo con lui. Continueremo a combattere, non con i tedeschi ma contro gli anglo-americani...non si passa al nemico così in questa maniera...
Silvano non capiva bene per quelle parole. Che onore poteva esserci ancora in un paese dove tutti, Badoglio e Re compreso scappavano e pensavano solo a salvare le loro vite?
Tuttavia si rese conto che davanti a se aveva un uomo, anche se non più di venti anni. Uno che parlava una lingua diversa. Robusta, autoritaria. Non esaltata però; perchè un affamato che si toglie il cibo di bocca per darlo ad un altro affamato non è un esaltato.
Published on July 02, 2018 19:35
June 29, 2018
8 settembre la morte della patria (2)

Di quei giorni passati nel cascinale prima di partire alla volta di Verona e tentare di prendere il treno per Firenze Silvano si ricordava una mattina. Il sole era già alto, ed era caldo nonostante fosse settembre. Il cielo era pieno di cirri setolosi e bianchi come latte di capra.
Nell’aia si erano riunite una ventina di ragazze in bicicletta. Indossavano abiti chiari che sotto il sole filtrato dai cirri assumevano ombrature scure.
Davanti a loro si stagliava la campagna e una strada bianca lineare che si stagliava come scolpita lungo la piana.
Silvano se ne stava sotto la tettoia della stalla e le guardava come si guarda un dipinto.
Quella imagine di fresca gioventù, di carne esposta al sole, lo provocò.
Anche ora il ricordo di quel giorno gli fece provare un’emozione così forte che ancora all’età di novanta anni diveniva lancinante. Era la stessa emozione ma attutita nel piacere della carne.
La prostata lo tormentava da anni e non andava che a peggiorare.
Per evitare la miseria dei toirmenti presenti tornò a pensare al quadro neorealista che aveva ancora in mente di quelle ragazze che indossavano la bellezza della gioventù e si erano reunite nell’aia per andare al lavoro nei numerosi frutteti adiacenti alla Cascina.
Si ricordò di Bruna. Uscì da uno dei circuiti del suo cervello. Bruna...come aveva potuto dimenticarla!
Quella mattina nel gruppo c'era anche Bruna. Avrebbe voluto chiamarla ma si bloccò. Non era sicuro che av rebbe gradito.
La sera precendente, nel pagliericcio della stalla dove dormiva, Bruna si era concessa a Silvano.
Gli altri commiltoni che abitavano dalle parti di Treviso erano partiti la mattina presto. Avevano ricevuto abiti e scarpe dai contadini. Tramite un loro conoscente, amico di un ferroviere che lavorava alla stazione di Verona avevano ricevuto informazioni riguardo a quali treni prendere per evitare i controlli e come entrare in stazione evitando le pattuglie tedesche.
Erano partiti la mattina verso le tre e mezzo, per camminare al buio fino a Verona, un paio di ore in tutto.
I contadini li avevano riforniti di frutta e pane che avrebbero potuto mangiare per la strada.
Di giorno un gruppetto di ragazzi giovani con i capelli rasati e con borse piene di cibo vrebbe dato troppo nell’occhio e per questo preferirono partire con il buio.
A Silvano era stato consigliato di aspettare ancora un po’. La linea per Bologna era la più pattugliata, appena si sarebbe allentato il controllo lo avrebbero informato.
Silvano si era annoiato tutta la mattina e aveva gironzolato tutto il giorno per la cascina, finché dopo pranzo, nel primo pomeriggio non si era imbattuto negli occhi neri di Bruna.
Due seni sodi come due cocomeri, un naso forte, sguardo penetrante e fiero, montato su un sorriso robusto e candido.
Era stata un’apparizione.
— E tu chi sei? — lo aveva interrogato Bruna in modo diretto e senza rispetto.
— Mi chiamo Silvano. Ho disertato e sono fuggito dalla caserma due giorni fa. Sto aspettando di partire.
— Sei toscano? — gli chiese.
— Sì
— Di dove sei?
— Di Montaione
— E dov’è?
— Vicino Firenze. Conosci Firenze?
— Sì.
Poi Bruna lo aveva fissato intensamente.
— Sei un bell’uomo — gli aveva sparato in faccia e si era allontanata a piedi spingendo la bicicletta a mano, senza voltarsi.
La notte mentre dormiva nella stalla Silvano si era svegliato di soprassalto impaurito. Qualcuno aveva sollevato la coperta e si era introdotto dentro.
— Chivalà? — aveva bofonchiato, con il cuore che batteva forte, la recluta Silvano.
— Ssssshhhhh! – aveva sibilato una voce femminile dall’alito caldo e dolciastro vicino all’orecchio sinistro di Silvano e poi aveva appoggiato una mano sulla sua spalla.
Published on June 29, 2018 06:40
June 27, 2018
8 settembre la morte della patria

“Cos’è infatti l’Odissea? È il mito del ritorno a casa, nato nei lunghi anni di «naja» dai soldati portati a combattere lontano, dalle loro preoccupazioni di come faranno a tornare, finita la guerra, dalla paura che li assale nei loro sogni di non riuscire a tornare mai, di strani ostacoli che sorgono sul loro cammino. È la storia degli otto settembre, l’Odissea, la storia di tutti gli otto settembre della Storia: il dover tornare a casa su mezzi di fortuna, per paesi irti di nemici.”
(Italo Calvino)
— Silvano…Silvano… — sibilò il commiltone da sopra, per avvertirlo degli spari.
Da sotto Silvano gli fece cenno che aveva capito.
In lontananza si erano sentiti dei colpi di pistola. Dall’altra parte della caserma, davanti all’uscita delle camerate stava il colonnello con una pistola in mano e due soldati morti ai suoi piedi, a cui aveva sparato perchè avevano tentato di disertare.
Il colonnello Tedesco sparava a chiunqe uscisse fuori.
I tedeschi avevano occupato tutta la caserma, la notte stessa. Non vi era via di fuga, apparentemente. Ma Silvano e altre due reclute con un caporale maggiore di Treviso avevano deciso di tagliare le lenzuola delle brande e di calarsi nel cortile interno della caserma, che non aveva vie di sbocco, verso l’esterno, ma al centro vi era la grata di un tombino, che portava direttti nelle fognature.
Avevano deciso di tentare quella via di fuga, attraverso il tombino. Era l’unica possibilità. Se andava bene, potevano sperare di scappare. Se andava male, li avrebbero ammazzati. Andò fortunatamente bene. La fognatura, nel sottosuolo, era di grandi dimensioni, ma piena di merda. L’odore era insopportabile. Gli abiti erano pieni di merda. Camminarono in mezzo alla merda piegati sulle gambe per molto tempo. Difficile dire per quanto. A Silvano sembrò un tempo lungo, infinito, ma quel canale sotterraneo doveva sbucare da qualche parte. Non sapevano dove ma sapevano che da qualche parte sarebbe sbucato. Forse passò un’ora, forse meno, difficile calcolare in quel mare di merda e di caldo soffocante, ma alla fine sbucò in aperta campagna, all’aria aperta e poterono respirare. Uscirono sospettosi guardandosi intorno. Non c’era nessuno. Il sole era alto. Non sapevano l’ora. S’incamminarono verso la prima cascina che incontrarono. Sull’aia c’erano delle persone a lavorare che vennero incontro.
Quando era arrivato a Montorio Veronese alla caserma, aveva visto in lontananza il castello che era scolpito contro il cielo azzurro. Lo aveva guardato come si guarda un’apparizione imprevista.
Aveva un groppo alla gola entrando in caserma, sapeva che di lí sarebbe solo uscito per andare a combattere con l’alleato germanico. Non poteva immaginare che in pochi giorni le sorti dell’Italia si sarebbero sovvertite e l’alleato tedesco sarebbe divenuto il nemico e il nemico l’alleato.
Non poteva sapere che in un giorno si sarebbe disegnato un destino che per l’Italia avrebbe pesato per decenni a seguire.
Published on June 27, 2018 12:23
June 18, 2018
"Love, šaltibarščiai and red tomatoes. Biography of a love", by Fabrizio Ulivieri. A book that will keep you engaged in Love.

On June, 2018 in Italy comes out "Love, šaltibarščiai and red tomatoes. Biography of a love", by Fabrizio Ulivieri. (Cover photo by Živilė Abrutytė). Prospero Editore, Milano.
It is the biography of Austėja, a Lithuanian girl of the post-liberation generation, which was bred in 1991 after the soviet attack to Vilnius Radio and Television tower and the killing of 14 civilians.
Austėja, daughter of that generation, loves Italy and and is naturally averse to Lithuania. But at the end of the book she will find out her love for Lithuania which is genetically inscribed in her mind and therefore impossible to be erased.
It is a beautiful description of the feelings that are established in this relationship of love between Austėja and her Italian companion who comes to live in Vilnius, driven by his strong "amore" for Austėja, a love born in Florence where they met.
A text that illustrates well the continuous contrast regarding the way of perceiving between two complex systems (Austėja and his companion) that digs deeply into the reality that underlies the falling in love, which happens according to certain historical patterns on the surface (history — we are what our history is) and according to the quantum symmetry beneath that surface: a quantity of energy that is established as a constant form that remains and that allows the recognition of love, regardless of time and space and the individual (complex system), every time the individual becomes enamoured.
A book capable to develop a dizzying pace and keep the reader engaged by the author capacity for speculation and analysis. A narrative that is able to penetrate the fragmentation of feelings and reassemble it in its totality in a truly vertiginous way.
Published on June 18, 2018 12:24
June 10, 2018
An absurd idea: why I wrote my most recent book (still under revision) "Islands of Happiness"

This story begins a year before and ends almost one year later. A span of time in the human being life relatively short but long nonetheless. As life on earth: long but relatively short yet.
It all started with a photo, which looked as many other photos, only a photo which aimed to fix a moment of happiness. And it fixed it forever, that is, for as long as it will exist.
But happiness is not only a moment of our lives, happiness is not even eternal, as eternal are not photos and people.
But why then we look for happiness? What strange idea is this odd idea of ours?
An absurd idea, but substantially possible though, in spite of everything.
Because of that picture taken at the beginning of this book the destiny (but destiny does not exist — it's just a way of talking about life directions) wanted to be discussed for many pages to narrate the life of a family that in Vilnius, Lithuania, fought for their happiness in a time frame that corresponds to almost twelve months of existence.
It is a true story, as true are all the narratives that make us believe in something. To believe in something we need stories because stories make people and things close. Without stories, no person or thing become close and therefore true. This is the kind of stories that make us believe (approach) to values, to heroes, to States ... they make us exist and elude nothingness.
But why are we human beings desperately seeking happiness? Why are we building stories to stay close and to believe in a world we want — a world of our own and happy? Why do we obstinately seek an island where we can live together in that happiness?
To answer these questions, "destiny" pushed this story to be written, for many reasons, but above all for one: avoiding desperation.
Only happy stories take us out of that Nothing that haunts us and crucifies us, naked, in front of a single truth that we would never have wanted to hear:
There is nothing after us Not even an anything that would be something yet.
(by Giorgio Caproni, Italian poet)
Published on June 10, 2018 07:30
June 4, 2018
Un'idea assurda: perché ho scritto il mio più recente libro (ancora in fase di revisione): Isole di Felicità

Un’ idea assurda
Questa storia comincia un anno prima e termina quasi un anno dopo. Un arco di tempo nelle vite di alcuni esseri umani relativamente breve eppure lungo. Come la vita sulla terra, lunga ma relativamente breve.
E tutto comincia da una foto, che cerca come tutte le foto, di fissare un attimo di felicità. E lo fissa in eterno, ovvero per tutto il tempo che essa esisterà.
Ma la felicità non è un attimo e la felicità non è neppure eterna, come eterne non sono le foto e le persone.
Ma perché allora cercare la felicità? Che idea strana è mai questa idea?
Un’idea assurda, eppure possibile, nonostante tutto.
Da quella foto il destino (ma il destino non esiste — è solo un modo di dire) ha voluto che si parlasse per molte pagine di una famiglia che a Vilnius, in Lituania, ha cercato la propria felicità in un lasso di tempo che corrisponde a quasi dodici mesi di esistenza.
È una storia vera, come vere sono tutte le narrazioni che ci fanno credere in qualcosa. Per credere in qualcosa abbiamo bisogno di storie perché le storie avvicinano uomini e cose. Senza storie nessuna persona o cosa è vicina e pertanto vera. Sono le storie che fanno credere (avvicinandoci) ai valori, agli eroi, agli Stati...ci fanno esistere e eludono il nulla.
Ma perché gli esseri umani cercano disperatamente la felicità? Perché si costruiscono storie per stare vicini e per credere in un mondo tutto loro e felice? Perché ostinatamente cercano un’isola dove vivere insieme in quella felicità?
Per rispondere a queste domande “il destino” ha voluto che si scrivesse questa storia, per tante ragioni ma una soprattutto: evitare la disperazione.
Solo storie felici ci sottraggono a un nulla che ci perseguita e ci crocifigge nudi davanti a una sola verità che non vorremmo mai ascoltare
Dopo di noi non c'è nullaNemmeno il nulla
che già sarebbe qualcosa[1]
Published on June 04, 2018 00:42
May 13, 2018
Il ruolo dello scrittore, oggi — veri scrittori e pseudoscrittori

In mezzo a tanti libri che si pubblicano, in mezzo a tanti autori, in mezzo alla durata effimera di ciascuna pubblicazione viene naturale chiedersi che possa un altro autore aggiunge alla vasta pletora, enorme, di libri e autori.
Credo che in un panorama letterario in cui conta maggiormente il vuoto ripetersi di certi schemi narrativi, il cui contenuto non acquista nessuna evidenza, un autore debba avere la propria linea editoriale: seguire il suo stile, le sue riflessioni, una propria riflessione filosofica sul mondo da opporre al nuovo assurdo generato dal globalismo, che consiste nella totale remissione di ideali, di contenuti, di riflessioni personali, di identità di razza e di tradizioni storiche, che il globalismo tende a annullare.
Il globalismo annulla gli stati, le barriere culturali, mischia le razze, distrugge l'Europa, la sua identità incuneandovi razze e tradizioni di popoli altri che stanno all'Europa come corpi estranei, che non chiedono di integrarsi ma solo di prevalere in virtú di una loro forza interiore maschia che non trova resistenza nella debolezza femmina dell'Europa, indebolita dal decadimento degli ideali eroici, patriottici e politici.
Uno scrittore, che sia scrittore (alla Camus — per intendersi) deve riflettere su questi temi, rielaborarli per suggerire punti di vista che esulino dal punto di vista generale che è quello di abolire (imbastardire) l'identità, la storia dei popoli, perché nessun stato in Europa abbia piú i propri eroi, i propri valori fondatori, perché mai piú si riconosca nella tradizione e nella storia che si è costruita entro i suoi confini nel corso dei secoli.
Uno scrittore vero dovrebbe indicare quei tradimenti che i politici perpetrano a danno dei propri cittadini e lo deve fare nell'ambito dei suoi romanzi. Il romanzo, il vero romanzo, deve costruire storie di critica sociale e politica, che differenzierà il vero scrittore dallo pseudo-scrittore, riducendo automaticamente l'inutile schiera di imbrattatori di pagine, senza idee e senza originalità.
Se Camus era (è) uno scrittore originale lo si deve a una lunga militanza di riflessione politica e filosofica (si legga su tutti "Il mito di Sisifo").
Con ciò, mi rendo comunque conto, che il globalismo è la direzione attuale del mondo in cui viviamo, che è difficile pensare entro i limiti di un solo stato senza tener conto delle connessioni con il mondo globale, a cui internet a aperto la strada; ciò non toglie che non si debba anteporre al globalismo l'esigenza della propria identità, del proprio mondo e modo in cui vivere, in cui è possibile riconoscersi secondo la propria Storia e non secondo quella imposta con violenza dall'esterno, importata da popoli che vogliono solo scardinare il mondo identitario in cui vivevamo.
Popoli che nella maggior parte dei casi, pur vivendo in Stati spesso ricchissimi di risorse, non hanno in realtà saputo produrre nulla alla stessa altezza di quei paesi che ora invadono e disprezzano.
Published on May 13, 2018 09:25
April 11, 2018
Isole di felicità - Il fattore umano

In ogni relazione come in ogni lavoro, disciplina, arte, tecnica… vi è un incognita che gioca un ruolo fondamentale: il fattore umano. E nessuno ne è immune. Anche nell'essere felici, una volta raggiunto uno standard di felicità il fattore umano può essere decisivo per gli equilibri. La tristezza di Diego, la sua pigrizia abitudinaria da una parte e la radicalità di Rūta e il suo modo di vivere fondamentalmente com-pulsivo dall’altra costituivano due fattori umani che venivano a confronto.Per quanto si dessero regole sul come cercare la felicità e mantenersi felici tuttavia, i loro istinti, pulsioni, desideri, disposizioni naturali qualora fossero forzati da agenti esterni interferivano sul comune stato di felicità.Il venerdí per esempio nasceva spesso un’interferenza per cui il loro livello di felicità tendeva a collassare.
Quando arrivarono a casa Diego aveva ripreso la sua condizione di ottimismo e Rūta era di nuovo rilassata. Il suo venerdí era stato minacciato, ma solo minacciato.
- La tua idea di andare a la Veranda è stata buona. Dobbiamo farlo piú spesso. Un giorno alla settimana almeno deve esserte tutto nostro- È quello che pensavo anche io- Forse dovremmo cercare un posto a Vilnius in centro, un bar dove si può bere un prosecco- La Veranda non ti piace?- Oh sí…ma per cambiare qualche volta. E poi in centro è piú vicino al tuo posto di lavoro- Amore…hanno anche il giardino fuori, ora che viene il tempo buono potremmo fare l’aperitivo in giardino
Diego guardò profondamente negli occhi Rūta, i suoi occhi cobalto.
- Ką? - disse Rūta davanti a quello sguardo intenso- Che faremmo l' uno senza l'altra?- Non lo so- Sarebbe una sofferenza senza fine- Credo di si. Siamo così interconnessi, cosí dipendenti…- Io non posso essere felice senza di te e tu senza di me
Al di là di questi equilibri perfetti sotto vi era una realtà in movimento e sempre posta in dubbio che però consentiva le basi su cui poggiare perché rimanesse tutto in quasi perfetta simmetria.Rūta ad esempio continuamente cercava conferma che Diego veramente fosse suo e solo suo. Perdeva molto tempo a indagare i social media che Diego usava (Facebook, instagram). Quali donne più di frequente mettessero "mi piace". Andava fra i suoi amici e followers a vedere foto, immaginare donne del passato che tentassero di riproporsi nella vita Diego. Voleva esclusivamente essere lei e solo lei nella vita di Diego. Il passato era l'ossessione di Rūta e con questa ossessione spesso innervosiva Diego, gli faceva perdere la pazienza. E quando Diego perdeva la pazienza diventava molto italiano. Cominciava ad agitarsi, alzava la voce. Le diceva "vaffanculo! ", "Non capisci niente", "sei una malata mentale" ...Tuttavia capiva che Diego lo diceva solo perché arrabbiato e non lo pensava realmente; anche lei quando si arrabbiava con Goda e Rebeka diceva cose che in nessun modo sapevano di verità.E poi sotto sotto aveva coscienza di sbagliare per via della sua ossessiva insistenza sul passato, sulle donne del passato. Conosceva bene che Diego non era interessato a ritornare al passato. E in effetti Diego non aveva tutti i torti…lo capiva.Ciò che la stupiva quando Diego si arrabbiava era che lei non si sentiva offesa. Si sentiva al contrario eccitata quando lui la trattava male. A lei essere trattata male aveva sempre procurato eccitazione sessuale. Soprattutto a letto raggiungeva immediatamente l'orgasmo quando un uomo la maltrattava e le diceva parole che in un altro frangente sarebbero state pesanti, volgari, irrispettose.Diego da parte sua aveva la massima fiducia in Rūta e tuttavia c’era un dubbio. Non forte ma un dubbio: che non sempre Rūta gli dicesse tutto. Non che mentisse: ritardava la verità o la ometteva. Qualche volta un po’ la manipolava perché non sembrasse come invece avrebbe dovuto sembrare.Una volta infatti aveva scoperto che era andata a pranzo con Giovanni e Dovilè senza dirgli nulla. Un’altra volta Rūta aveva lasciato Facebook aperto ed era andata a Maxima. Lui non aveva saputo resistere. Aveva dato un’occhiata. Mentre guardava il suo Facebook si era aperta la finestra della chat e un italiano, un certo Silvio Franceschini, amico di Rūta sul social, aveva scritto “Ciao!”.Quando poi era ritornata da Maxima, con la coda dell’ occhio aveva visto Rūta subito cancellare la chat, senza rispondere. Aveva fiducia in Rūta, era certo che Rūta non lo prendesse in giro in nessun modo, eppure sapeva che vi era un fondo oscuro in lei. Glielo aveva raccontato lei stessa. Con il precedente marito a letto non aveva intesa. Lui tradiva lei e lei lui. E la coscienza di commettere adulterio le aumentava il desiderio sessuale.Insoddisfatta spesso si masturbava al computer guardando film porno. E lo fece fino al giorno che il marito la scoprí davanti al computer mentre si masturbava.Quel fondo nero che una volta era emerso di nuovo poteva emergere, pensava Diego. E questo pensiero mulinava dentro lui quando Rūta si faceva assente, non lo chiamava, o la vedeva assorta nei pensieri e non gli dedicava attenzione. In quei momenti sapeva che Rūta vagava ma dove vagasse non poteva immaginarlo. Avrebbe voluto controllare ogni suo pensiero. Che non potesse farlo lo rendeva teso.L’animo umano è insondabile, lo sapeva per esperienza, lui che sentiva quelle voci dentro che arrivavano non annunciate, e senza potervisi opporre le subiva.
Rūta nel frattempo si era addormentata. Dopo essere andata in bagno a struccarsi, come di solito faceva, era poi andata a letto, si era girata sulla parte destra del corpo - la sua posizione preferita per leggere, ma come sempre dopo neanche un minuto che leggeva già dormiva.Diego come al solito guardava un film. Ora, dopo I recenti fatti ,preferiva i thriller, quelli con storie di spie.Aveva iniziato a leggere Ian Fleming. Non lo aveva mai letto. Iniziò con The spy who loved me. L’inizio del libro lo travolse. Si rese conto che Fleming era uno che sapeva scrivere. Teneva bene la pagina e non annoiava, salvo qualche piccola caduta (ma esiste un libro dove non ci sia una caduta di ritmo o di tono della storia?).Aveva poi iniziato a leggere Live and let die, trovando conferma alla sua idea che Fleming era un grosso scrittore.Ma lí ebbe poi una swerve, una svolta inattesa, che lo portò a leggere Graham Green. Le ragioni di quella swerve non le ricordava.
- Questo è uno che sa scrivere – aveva detto a Rūta – ti porta al punto, ti narra la storia, fa dialogare i personaggi e ti mostra le loro debolezze, la componente umana del successo o dell’insuccesso di una vita. Un grande scrittore
Poi aveva visto su filmai.in alcune puntate di Homelande The forth protocol ed era stato travolto dal ritmo di The Bourne Ultimatum e dalla complessa struttura di Red Sparrow.Stava meditando anche lui di scrivere una storia di spionaggio in Lituania, dove la natura umana fosse il fattore predominante.
Guardò Rūta, che ora si era girata dalla sua parte, e dormiva in modo curioso con la mano sinistra sotto la guancia e con il mento all’insú che sembrava guardasse verso l’alto. Il suo alito era dolce e le sue labbra appena increspate emettevano un quasi impercettibile brusío.Aveva un’aria beata.Fra tutte le donne che aveva conosciuto lei era la piú singolare, ed unica nella sua singolarità. A tutte le donne che aveva conosciuto aveva dovuto dire che erano uniche, perché ogni donna vuole sentirsi dire questo – in verità le aveva trovate tutte quante normali, e aveva mentito loro dicendo che erano uniche ma con Rūta sapeva che stava dicendo la verità.Il fattore umano non aveva cozzato nella menzogna, stavolta.
Published on April 11, 2018 02:00
April 5, 2018
From "Love, šaltibarščiai and red tomatoes" - The black days

Her favorite place in the house was the kitchen. In the kitchen she spent her days: she read, she prepared the dinner, she made calls, she wrote emails, she worked and cried, she laughed and thought.
In the kitchen we made love, often.
The kitchen was full of her self unlike any other part of the house.
There (in the kitchen) she had erected her inner sanctuary, fortified her self and learned to esteem and trust in herself or how pleasurable was to torture herself on questions that could not be answered.
She never wanted to share that space even with me.
She housed me in that space but it remained exclusively hers.
From every other space she excluded me in the black days of menstruation. Who was in those days the hidden Demiurge that broke the world and the space surrounding her? Did that Spirit decide for her and spoke for her?
In those days it seemed that every thought of her mind had already been decided in spite of her . Her thoughts no longer were direct to me but aimed to the depths of her own self unable to decipher any kind of reason.
Those were the days when she once again savoured a childhood in which she had never decided anything.
- My childhood in Klaipeda was very poor, I lived in a house without heating. The temperature that was outside was inside. There was almost nothing to eat. The best dish my mother served was šaltibarščiai. This is why I still love this soup. It's the taste of my poor childhood.
I could see from her eyes that still kept tracks of it.
It seemed like a childhood that has never passed whenever she ate šaltibarščiai.
I wondered what I loved in those days that menstruation altered Austėja's perceptive state.
I didn't see perfection, I was madly in love but I did not see perfection in her.
I could solely imagine her life as a prelude to a search just made of fatigue that was trying to find a direction. But it was life indeed, an intense desire to live that I realized was not denying life itself, despite her claim to be desperate.
As Ričardas gavelis says in Vilniaus Pokeris "In days like these, lighter things weigh more than heavy and [...] show directions for which there is no name".
Published on April 05, 2018 02:21
April 4, 2018
Da "Isole di felicità Laimės salos" - Diego

Quel pomeriggio uscendo da Impuls, la palestra dove andava nel dopo pranzo, era abbastanza indeciso sul che fare.
Era indeciso se andare al Cafè Huracán o alla libreria Vaga di Pilies gatvė. Entrambi erano stati fra i suoi luoghi preferiti. ‘Erano stati” in quanto ora aveva cominciato a pensare di evitartli, perché si sentiva osservato.
Sentiva che la gente cominciava a domandarsi chi fosse e che facesse. Troppi mesi che trascinava i suoi giorni per quella città che ogni giorno di piú diveniva meno estranea e perciò piú angusta.
Quando non hai un lavoro, quando cerchi di venire fuori da solo da una situazione che pare irrimediabile, quando non hai che te stesso a cui aggrapparti perdi il senso di appartenere al mondo, perché il tuo universo ha i limiti delle tue stesse capacità.
Il mondo va secondo i suoi schemi, le sue velocità, i suoi usi, le sue leggi, le proprie dinamiche. O riesci ad entrarvi o vai controcorrente.
E Diego stava andando controcorrente e in un mondo che non era quello dove era nato e cresciuto.
Si sentiva positivo tuttavia quel pomeriggio. Splendeva il sole, assaporava l’aria di primavera, poteva finalmente girare per Vilnius senza sciarpa e con il giaccone sbottonato.
Aveva voglia di camminare e siccome Gedimino 9 dove si trovava il Café Hurcán era vicino alla palestra pensò che era meglio andare alla Vaga. Avrebbe camminato per tutta Gedimino prospektas attraversato la Katedros Aikštė e preso per Pilies gatvė, risalendo su verso Didžioji gatvė.
Arrivò. Si sedé al tavolo grande, che era vuoto. Accese il computer, quello che usava per scrivere – ormai vecchio e lento.
Mentre aspettava che divenisse operativo andò al banco a prendere il solito cappuccino.
Ritornò con il cappuccino, si sedé. Cominciò a scrivere.
Mentre scriveva entrò qualcuno a cui Diego non prestò attenzione. Quel qualcuno girò per la libreria, poi si diresse al tavolo e venne stranamente a sedersi dalla parte di Diego, poco distante da lui (questo sí lo notò – seppur distrattamente senza focalizzare la figura).
- I saw you many times in this area? Are you working around here? In which business are you?
Diego non era sicuro di aver inteso bene.
Sí girò alla sua destra e vide un ragazzo sui trenta anni che lo fissava. Era alto, capelli neri corti, abbastanza robusto. Non ebbe tempo per vedere il colore dei suoi occhi ma gli parvero scuri. Lo colpirono le sopracciglia: forti, robuste e folte.
- I come here, once in a while
- Really?
- Yes, really
- What do you do?
A Diego suonò un campanello. Le parole di Giovanni.
- I write books
- Oh!
- Where do you come from?
- I am local
- Lithuanian?
- Yes
- What’s your name
- Tadas
- It’s a tipical Lithuanian name
- Not really…are you Spanish?
- No, I am Italian…anyway …Diego…nice to meet you!
- Nice to meet you
Diego ritornò a scrivere e non parlò ancora al tipo. Aveva notato come osservava il suo computer mentre parlava con lui.
Non gli piaceva quell’ incontro. Forse era una suggestione, ma era strano che proprio in quei giorni che si sentiva sotto osservazione avesse incontrato improvvisamente uno che lo approcciasse diretto e senza motivo. Diego, quel Tadas, non l’aveva mai visto.
Aveva detto di interessarsi di grafica. Eppure Diego aveva sbirciato un paio di volte nello schermo del suo computer: era stato sempre aperto su una pagina e vi era rimasto per tutto il tempo finché Diego non se ne era andato. Lui, Tadas, pareva aspettare piú che lavorare.
Uscito dalla libreria e fatti un centinaio di metri chiamò al telefono Giovanni e gli raccontò l’incontro.
- E’ uno dei tanti…ce ne sono a decine qui come lui. Mettiti l’animo in pace per tre mesi sarà cosí. Poi ti lasceranno in pace…a me all’ inizio sono entrati almeno due volte in casa
Pensò che per un po’, almeno un mese, era meglio che se ne stesse a casa. Sparisse di circolazione, dalle strade, dalle librerie, dai caffè…non esistesse per la gente di Vilnius fino a sperare che non si ricordassero piú di lui. Doveva crearsi una comoda solitudine in cui vivere per un poco.
Sentí l’odore di una nuova vita, il cui aroma non era poi cosí male. Aveva l’odore dell’urgenza e a Diego non dispiacque.
Un cambio di ritmo gli avrebbe fatto bene.
E cosí fece.
La mattina accompagnava Rūta al lavoro. Poi andava in palestra. Ritornava a casa mangiava qualcosa e si metteva a leggere o scrivere.
Aveva la sensazione che ormai fosse tutto deciso. Non aveva la forza di opporsi. Si sentiva pronto a seguire il destino, al quale neppure credeva.
Che avrebbe potuto fare?
Aveva sperato che Kitos Knygos almeno rispondesse. Non aveva risposto. Aveva inviato il manoscritto a Tyto Alba, nemmeno lui aveva dato una risposta.
Lo aveva inviato anche ad Alma Littera, neppure loro avevano dato segno di un riscontro.
Aveva sperato in quella biografia, evidentemente però scrivere un libro per quanto buono non era quello che gli editori cercavano.
- Devi diventare interessante per un editore – gli aveva detto una scrittrice lituana che aveva conosciuto
Chiaramente la sua storia non era interessante.
La vita di Diego era corsa anonima negli ultimi mesi. L’unica esposizione erano state le strade, i caffè, le librerie. E si era sovraesposto evidentemente. Aveva attirato la curiosità e l’attenzione esattamente nel modo in cui non avrebbe voluto.
Si era esposto soprattutto nei mesi gelidi e freddi, ora invece che veniva il sole e le temperature miti (era aprile) aveva deciso di chiudersi in casa. Un controsenso.
Quella mattina erano quasi 18 gradi.
Uscito di palestra, pur con le migliori intenzioni non riuscì a prendere il filobus e a tornare a casa.
Si sedé su una panchina in Vokiečiᶙ gatvė. Posò lo zaino con il computer dentro vicino a sé. Appoggiò le spalle alla panchina, allungò le gambe e volse avido la faccia al sole.
Quando era in Italia non capiva perché i turisti del nord non appena vedevano un raggio di sole come lucertole subito rimaneva immobili al calore.
Adesso capiva invece bene che significava vedere raramente il sole e goderne gli effetti anche solo per un attimo.
Mentre era lì sentì il suono del telefono. Aveva ricevuto un email. Era Rūta.
- Amore tutto bene. La Lituania ti dà da vivere qui
Aveva ricevuto il permesso di soggiorno per cinque anni.
Published on April 04, 2018 20:39