Alessio Brugnoli's Blog, page 57
August 16, 2020
Tornando dalle vacanze
Da ragazzo, frequentavo assai spesso la zona di Napoli: le cose cambiarono circa 25 anni fa, quando fui vittima di un tentato scippo. Essendo cresciuto a pane e ignoranza, le cose andarono alquanto male per gli aggressori: però, con il senno di poi, l’evento fu una sorta di trauma psicologico, da cui mi sono ripreso con molta difficoltà. Per uno sproposito di anni, non ho mai voluto avere niente a che fare con Partenope e dintorni.
Questa posizione talebana, si è ammorbidita con gli anni, grazie alla profonda umanità degli amici napoletani che ho frequentato: per cui, una decina di giorni fa, quando mi è toccato organizzare una vacanza in fretta e furia, non ho avuto problemi a prenotare a Marina di Varcaturo, località di cui sapevo solo che si trovava poco prima di Bacoli e di Capo Miseno.
Scelta di cui sono stato assai felice: per prima cosa, l’hotel che ho scelto, La Costiera, mi ha stupito sia per il confort e per i servizi, sia per la disponibilità e la gentilezza delle persone che vi lavorano. Ho mangiato assai bene e a prezzi contenuti: se volete un consiglio, andate al ristorante La Primavera in Via Ripuaria, 248… Ottimi il pesce, la carne e la pizza.
Il mare, non me l’aspettavo, debbo confessarlo, è assai pulito e le spiagge immense: ora, dato che il professor Bellavista mi avrebbe definito un uomo di libertà, che preferisce vivere da solo e non essere scocciatoi, debbo ammettere di essere stato spiazzato da diversi usi e costumi locali. Per me che amo guardare il tramonto in spiaggia, un lido chiuso alle 18.30 è inconcepibile: soprattutto, amo i luoghi solitari e silenziosi.
Marina di Varcaturo non è certo definibile in questo modo: è un’esplosione barocca di suoni, colori e profumi. Alla fine, però, nella vita, ci sono destini ben peggiori che essere circondati da uomini d’amore, che preferiscono vivere abbracciati gli uni con gli altri. La straordinaria umanità che si incontra, fa perdonare le piccole disorganizzazioni che si incontrano.
Poi, diciamola tutta, ogni angolo della zona è una scoperta, dal punto di vista naturalistico e culturale: certo potrebbero essere valorizzati assai meglio, a volte trovarli è una sorta di caccia al tesoro e spesso gli orari di apertura sono tutt’altro che chiari, però ognuno di loro è uno spettacolo per il cuore e gli occhi
August 10, 2020
Pirro (Parte VI)
Uno dei brani che più amo di Plutarco, che tengo sempre presente come promemoria, quando comincio a dare troppo valore a cose futili, è un dialogo, sicuramente inventato, tra Pirro e Cinea, suo ambasciatore-luogotenente, oratore tessalo di grande abilità e discepolo di Demostene.
Cinea vedendo che Pirro si accingeva a partire per l’Italia, trovatolo in un momento libero, iniziò la sua conversazione.
Cinea: Si dice, Pirro, che i romani siano buoni combattenti e governino popoli bellicosi; se la divinità ci concede di vincerli, che cosa faremo della vittoria?
Pirro: Tu mi chiedi, Cinea, una cosa che appare evidente : una volta sconfitti i romani non ci sarà nessuna città barbara o greca in grado di resisterci e ben presto ci impadroniremo di tutta l’Italia, di cui nessuno può conoscere meglio di te l’estensione, la prosperità e la potenza.
Cinea: Dopo aver conquistato l’Italia o re, cosa faremo?
Pirro: Là vicino ci tende le braccia la Sicilia, isola ricca, popolosa e facilissima da conquistare, poiché la momento, o Cinea, tutto vi è in preda alla sedizione, all’anarchia delle città, alla violenza dei demagoghi, dopo la morte di Agatocle.
Cinea: Ciò che dici è probabile, ma la conquista della Sicilia segnerà la fine della nostra spedizione?
Pirro: Che un Dio ci conceda la vittoria e il successo; ciò costituirà per noi il preludio a grandi imprese. Chi infatti si tratterrebbe dal conquistare, una volta che siamo alla portata, l’Africa e Cartagine? Una volta compiute tali conquiste, chi potrebbe negare che nessuno dei nemici che ora ci insultano potrà resisterci?
Cinea: No: è chiaro infatti, che con tali forze, potremo sicuramente recuperare la Macedonia e dominare la Grecia. Ma quando avremo sottomesso tutti, che faremo?
Pirro: ci riposeremo a lungo, mio caro, e ogni giorno, con la coppa in mano, ci rallegreremo conversando tra noi.
Cinea: Ebbene, che cosa ci impedisce adesso, se lo vogliamo, di prendere una coppa e di riposarci insieme, dal momento che già ne abbiamo le possibilità e disponiamo, senza darcene pena, di tutto ciò che ci accingiamo ad ottenere a prezzo di sangue, di grandi fatiche e di pericoli, dopo aver inflitto ad altri e subito noi grandi mali?
Un brano dal grande significato etico, troppo spesso è difficile accontarsi di ciò che si ha, apprezzandone la bellezza e il significato, ma che da un’immagine distorta del disegno geopolitico di Pirro. Il re dell’Epiro infatti, non aveva nessuna intenzione di estendere il suo dominio su popoli e stati barbari: il suo obiettivo era giocare al meglio la complessa partita dell’eredità di Alessandro Magno, arraffandone il più possibile.
Il problema, rispetto agli altri Diadochi ed Epigoni e che l’Epiro, nonostante le abilità militari e il coraggio di Pirro, non aveva sufficienti risorse economiche ed umane, per supportare le ambizioni del suo re. L’intuizione di Pirro fu trovare queste risorse in un’area dell’ecumene ellenico, che, per la sua marginalità geografica, nessuno dei suoi rivali aveva considerato: la Magna Grecia e la Sicilia. Imposto il suo dominio su tale area, di cui era nota da secoli la ricchezza, Pirro avrebbe avuto così il capitale economico ed umano per realizzare le sue ambizioni in Grecia e Macedonia.
Per fare questo, doveva sconfiggere Roma, per allontanarlo dalla Magna Grecia, e Cartagine, per strappargli l’epicrazia siciliana, il più ricco tra i domini della città punica. Pirro riteneva entrambe le imprese alla sua portata. Ignaro delle complesse dinamiche che spingevano all’integrazione politica tra Roma e Magna Grecia, era convinto che con l’Urbe si potesse, come per gli altri stati ellenistici, la strategia del bastone e della carota: ossia dopo aver sconfitto duramente il suo esercito, si sarebbe raggiunto un accordo per delimitare le aree di influenza nel Sud Italia. Inoltre, era abbastanza certo che gli interessi tra Cartagine e Roma fossero talmente divergenti tra loro, da impedire una collaborazione tra queste due potenze.
Per cui, appena ricevuta la richiesta d’aiuto di Taranto, non esitò ad accettare: con il massimo delle faccia tosta, Pirro, spacciando la sua spedizione come impresa a difesa della grecità contro i barbari, cosa assai campata in aria, dato che all’epoca Roma e Cartagine erano già più ellenizzate di parecchi domini tolemaici e seleucidi, mandò ambasciate agli altri epigoni, per chiedere aiuti. Questi, applicando il principio del
“Meglio che dia fastidio ai barbari che a noi”
accettarono senza grossi problemi. Antioco I, re del regno seleucide, Antigono II Gonata,figlio di Demetrio I Poliorcete, Tolomeo Cerauno, re di Macedonia, pagarono le spese della spedizione e dell’arruolamento dei cavalieri tessali e degli arcieri cretesi. Tolomeo II, mantenendo la tradizione di famiglia, orientata al controllo diretto o indiretto del Mediterraneo orientale, inviò un contingente di 5.000 uomini, 400 cavalieri e 50 elefanti, in gran parte utilizzati per presidiare l’Epiro, dato che fidarsi dei macedoni è bene, ma non fidarsi è meglio.
Nel frattempo, il Senato, ignaro delle decisioni di Pirro e dato che i tarantini avevano esagerato, decise di organizzare una spedizione punitiva nei confronti della città della Magna Grecia, con a capo Lucio Emilio Barbula, che era già in zona, impegnato a litigare con i Sanniti: l’obiettivo, sempre nell’ottica di non dare troppo potere al partito filo-campano, era limitato. Non si trattava di conquistare e sottomettere Taranto, ma dopo aver saccheggiato la sua chora e opportunamente terrorizzato i suoi abitanti, di imporre la revisione del vecchio trattato e un ricco tributo a favore di Roma. Insomma, se Pirro non si fosse messo in mezzo, un accordo si sarebbe trovato, anche perchè il principale problema di Roma, all’epoca era tenere a bada etruschi e celti.
Lucio Emilio Barbula si dedicò con sommo impegno al suo compito di maltrattatore autorizzato dei tarantini, tanto da stringere in un blando assedio la città, allo scopo di fare prevalere la fazione locale favorevole a un accomodamento con i romani. I negoziati, però, a causa di biechi motivi economici, dall’entità del tributo, alla sua ratealizzazione, al tasso di cambio tra moneta tarantina e monete romano campane, temi su cui Barbula era assai poco ferrato, andarono per le lunghe.
Così, l’arrivo di Cinea con 3.000 soldati, forza d’avanguardia di Pirro posta sotto il comando del generale Milone di Taranto, cambiò le carte in tavola, facendo prevalere nella città italiota il partito pro-guerra.
Barbula, che si era spinto nel Metapontino, così si ritrovò pure sotto il tiro delle macchine da guerra delle navi nemiche che erano disposte lungo la costa a presidiare il golfo. Nella battaglia che ne scaturì, Barbula riuscì a subire perdite minori del previsto poiché aveva astutamente disposto sul lato destro della colonna, esposto ai colpi, i prigionieri di guerra….
August 9, 2020
Il museo archeologico di Teramo
A Teramo esiste anche un museo archeologico, dedicato al grande studioso Francesco Savini, posto proprio a due passi dalla Cattedrale e alla Biblioteca provinciale Melchiorre Dèlfico, che per chi non lo sapesse, è una delle più prestigiose del Centro Sud.
Il 23 gennaio 1814 fu inaugurato il Real Collegio di Teramo ed entrarono ufficialmente in carica il Rettore e i professori. All’interno del Collegio, nel 1816, in seguito a decreto di Gioacchino Murat fu istituita una Biblioteca con una prima dotazione libraria. La costruzione fu commissionata per volontà dei fratelli Delfico – Giamberardino, Melchiorre e Gianfilippo – e la sua funzione consisteva nel sottolineare la posizione di guida politica, culturale e sociale occupata dai Delfico. Nel 1826, Melchiorre Delfico fece dono alla biblioteca di una raccolta di circa 300 libri, con edizioni del 600, 700 e 800. Da questo momento la Biblioteca, divenuta semi-pubblica, resterà intitolata al filosofo e uomo politico teramano, uno degli esponenti dell’Illuminismo napoletano, che ebbe importanti ruoli di governo sia nella Repubblica Partenopea, sia durante il periodo napoleonico.
Con il tempo, la biblioteca è riuscita a raggiungere oltre 300.000 volumi: ha una sezione di libri antichi e di manoscritti, una Quadreria, e speciali sezioni di abruzzesistica, emeroteca, mediateca, archivio fotografico, con fondo Domenico Nardini.
Tornando al museo, L’edificio che lo accoglie ha cambiato più volte destinazione d’uso nel corso del tempo. Il fabbricato insiste su di un’area edificata nel XIII secolo. Nel 1613 avvennero le prime trasformazioni quando furono avviati i lavori interni per la costruzione della chiesa intitolata a san Carlo cui si aggiunse un convento che, nel 1742, fu trasformato in orfanotrofio. In seguito, nell’anno 1833, il fabbricato beneficiò di una serie di restauri e nel 1842 di un ampliamento dei volumi. Nel 1878 avvenne lo spostamento dell’orfanotrofio e l’immobile fu destinato a diventare il Palazzo del Tribunale.
A seguito dello spostamento del Palazzo del Tribunale, nell’anno 1997 divenne del museo archeologico cittadino, allo scopo di raccontara la storia di Teramo dalla Preistoria al Rinascimento. Il museo è suddiviso in due sezioni:
È ripartito in due sezioni: al piano terra si trovano le sale che custodiscono i reperti datati dalle origini dell’insediamento romano fino allo sviluppo della città nell’Alto Medioevo, ripercorrendo il tempo che va dal XII secolo a.C. fino al VII secolo d. In questo settore sono riunite le testimonianze archeologiche che provengono dall’abitato, dalle necropoli del teramano e dagli edifici pubblici del teatro e dall’anfiteatro e dalle domus romane come il mosaico del Leone. Vi sono, inoltre, alcune delle sculture romane in marmo bianco ed il busto con l’effigie di Settimio Severo.
Al primo piano sono esposte le testimonianze dalla preistoria al periodo medievale, ricomponendo la storia del territorio dei Pretuzi e dei Piceni.I numerosi materiali provengono dalle grotte presenti sul territorio (Grotta di Sant’Angelo di Civitella del Tronto) e dalle necropoli protostoriche di Ripoli, Tortoreto e Campovalano, dalle ville romane dei siti di Basciano, Giulianova, Pagliaroli e Tortoreto. In questo spazio vi è anche la trattazione della produzione ceramica medievale e dell’architettura romanica teramana. In una sala vi sono le statue fittili del ninfeo di Tortoreto, ritrovate nell’anno 1956 ed un frammento di un gruppo scultoreo di tre figure che ritrae l’episodio dell’accecamento di Polifemo.Fra altre sculture vi sono le muse: Calliope, Euterpe ed Erato.
All’ultimo piano del museo sono conservati alcuni documenti della storia della città, provenienti dall’Archivio storico comunale
August 8, 2020
Porta Mazzara
Come raccontato altre volte, le antiche mura puniche di Zyz furono profondamente ristrutturate ai tempi di Balarm. Anche le porte civiche furono aumentate: dalle precedenti quattro vennero portate a nove. Il solito geografo e storico arabo Ibn Hawqal elenca il nome di otto delle nove porte presenti, in senso antiorario e a partire da quella dell’accesso portuale, ovvero: “Bab al-Bahr” (Porta di Mare o dei Patitelli perché qui vivevano e lavoravano gli artigiani che confezionavano gli zoccoli – i ‘patitelli’ appunto – all’altezza della chiesa di S.Antonio in via Roma); “Bab al-Sifà” o Safà (la porta della “fonte della salute” poi denominata Porta Oscura, e i cui resti permangono all’interno di un cortile su via Venezia); “Bab tif al minar” (Porta degli Schiavi, su via del Celso nei pressi di palazzo Galletti di Santamarina); “Bab Sciantagàth” o Porta S. Agata (alla Guilla); “Bab Rutah” o Porta Rota (ubicata ai margini del quartiere militare di S. Giacomo, che dava accesso all’omonimo fiume alimentato dalla fonte di Ayu Abi Sa ‘Idin detto Abu Said, il Walì di quel tempo), poi appellata Danisinni; “Bab ar-ryad” (Porta dei Giardini, ubicata nei pressi del palazzo reale); “Bab al-abna” (Porta dei giovanotti, nelle vicinanze di S. Giovanni degli Eremiti); “Bab as-Sudan” (la Porta dei negri lungo la Via Biscottai all’altezza dell’ex ospedale Fatebenefratelli, toponimo poi distorto nel tempo e detta poi Porta Buscemi, con l’omonima torre, eretta proprio sulle pre-esistenti mura puniche); “Bah al-Hadid” (Porta di ferro o anche Porta giudaica, là dove è oggi l’ingresso laterale della Facoltà di Giurisprudenza).
Un ulteriore ristrutturazione avvenne in epoca normanna: uno degli effetti fu l’apertura di Porta Mazzara, intorno al 1100, il cui nome deriva dall’arabo Ma’skar, il mulino in cui veniva lavorata la canna da zucchero, che si trovava nelle sue vicinanze, corrotto durante il periodo normanno in Mahassar e successivamente divenne Mazzara, senza alcun riferimento alla città di Mazzara del Vallo, nella Sicilia sud-occidentale.
Questa porta, oltre a facilitare la lavorazione e il commercio dello zucchero, la principale risorsa palermitana dell’epoca, sostituiva una precedente porta, riportata alla luce dalla Soprintendenza Archeologica negli anni 1984-1986, nell’ala orientale del Palazzo dei Normanni al di sotto del piano di calpestio della Sala del Duca di Montalto, databile alla fine del V sec. a.C. e in età medievale obliterata. Questa porta potrebbe essere quella che il viaggiatore iracheno Ibn Hawqal, chiamò “Porta di Ibn Qurhub”, ritenuta poco fortificata per cui Abu ‘l Husayn, secondo emiro kalbita, la fece chiudere perché poco difendibile.
Una delle sue prime attestazioni della Porta si trova nel 1329 in una pergamena del Monastero di Santa Maria de Marturano, relativa all’acqua che aveva origine dal fiume Cannizzaro (il Kemonia) presso Sabugie e scendeva fino alla Porta Mazzara. Attestazione che risale però alla seconda fase della costruzione: nel 1326 Federico d’Aragona incaricò il gran cancelliere del Regno di Sicilia, Federico Incisa, di ristrutturare Porta Mazzara. Fu costruita così una porta a tre fornici: a tre fornici: uno grande in mezzo, e due più piccoli ai lati. La porta fu sovrastata da due rampe di ripide scale in muratura che conducevano alla torre sulla porta, ora crollata e dal camminamento. Sull’arco maggiore furono scolpite tre armi: quella del regno di Aragona, l’aquila della città di Palermo e quelli della famiglia Incisa.
Intorno al 1417 Domingo Ram y Lanaja, vicerè di Sicilia e vescovo che stava cercando di mediare tra Papa e Antipapa, decise una serie di interventi decorativi sulle porte urbiche di Palermo, sacralizzandole e ponendole sotto la protezioni dei santi. Destino a cui non sfuggì porta Mazzara: il suo intradosso fu affrescato con quattro apostoli entro riquadri con arcatelle, in cui certamente sono riconoscibili San Pietro con la chiave e San Giacomo Maggiore col bastone di pellegrino. Di notevole significato
tematico, in relazione alla sua presenza all’interno di uno dei varchi di accesso alla città, è proprio la figura di quest’ultimo apostolo, assimilabile al viandante che si sposta di luogo in luogo.
L’ignoto pittore reinterpretò e aggiornò la locale iconografia di tradizione bizantina ridefinendo il rapporto tra le figure e lo spazio circostante attraverso i volti degli apostoli impostati di tre quarti e il disporsi ampio e articolato dei panneggi, con esiti consapevoli di effetti volumetrici, in parte riscontrabili anche nelle tavole dipinte importate a Palermo in quegli anni dalla Toscana e dalla Liguria.
Nel XVI secolo, l’avvento delle prime armi da fuoco e dei cannoni, rese necessario il passaggio ad un altro sistema di difesa cittadino, con la costruzione di grandi e resistenti bastioni che sostituissero le più fragili mura medievali. Uno di questi baluardi venne costruito nel 1533 proprio accanto alla Porta Mazzara, ad opera dell’ingegnere militare Antonio Ferramolino e, nel 1569, il viceré Francesco Ferdinando Avalos, marchese di Pescara, ordinò la costruzione di un secondo baluardo, posizionato proprio sulla porta, che venne così ostruita ed inglobata nella nuova costruzione.
Per cui fu necessario trovare un’alternativa a Porta Mazzara: così nel 1637 fu edificata Porta Montalto, dal nome del viceré di Sicilia Don Luigi Guglielmo I Moncada, duca di Montalto, con l’obiettivo di ripristinare il passaggio dall’Albergheria al corso Tukory. Dello stesso progetto fecero parte la fortificazione di Porta Felice e quella di Porta Carini.
La nuova porta Montalto era decorata con un’aquila marmorea, coronata e con le ali spiegate, 2 scudi ai lati recanti rispettivamente le armi della famiglia Moncada e le armi della città. Al centro presentava l’iscrizione, un’altra interna posta lateralmente. Misurava 48 palmi di altezza per 41 di larghezza, il vano centrale alto 20 palmi e largo 12. Restaurata nel 1625 da Giannettino Doria, cardinale e presidente del Regno, pretore Nicolò Placido Branciforte, principe di Leonforte, fu demolita nel 1885, riportando così alla luce la precedente porta Mazzara, ahimè, mai troppo valorizzata.
August 7, 2020
Selinunte (Parte III)
Continuando la nostra visita a Selinunte, a nord dell’acropoli, sulla collina di Manuzza, la strada moderna traccia il confine di un’area di forma grossomodo trapezoidale in cui si presume si dovesse trovare anche l’agorà. Tutta l’area era occupata dall’abitato di schema ippodameo – riconosciuto con fotografie aeree – lievemente divaricato rispetto all’asse dell’acropoli, ma con isolati allungati di m 190 x 32 rigorosamente orientati nord-sud, che originariamente era cinto da un muro difensivo. Nell’area non sono stati fatti ancora degli scavi sistematici, ma solo dei saggi i quali hanno comunque confermato che il luogo era abitato fin dalla fondazione di Selinunte (VII secolo a.C.), e che dunque non si tratta di una fase successiva di espansione della città. Dopo la distruzione di Selinunte, quest’area della città non fu più riabitata; i profughi tornati al seguito di Ermocrate, si insediarono unicamente sull’acropoli, in quanto era più facilmente difendibile. Sulla collina Manuzza nel 1985 è stata rinvenuta una costruzione in tufo, probabilmente un edificio pubblico risalente al V secolo a.C.
Sulla collina orientale vi sono tre templi che, benché disposti lungo lo stesso asse nord-sud, tuttavia non sembra avessero un unico recinto sacro (tèmenos), come dimostrerebbe il muro di separazione esistente fra il Tempio E ed il Tempio F. Questo complesso sacro ha fortissime analogie con le pendici occidentali dell’acropoli Caria di Megara Nisea, madrepatria di Selinunte, elemento prezioso, forse indispensabile, per un discorso corretto sull’attribuzione dei culti praticati nei vari templi.
Il Tempio E, dedicato ad Era, che ha una pianta molto simile a quella dei Templi A e O dell’Acropoli, ha una storia lunga e assai complessa, avendo avuto ben tre diverse fasi costruttive. La più antica, il cosiddetto tempio E1, risale ai tempi della fondazione della colonia. L’edificio, che quasi coincide come dimensioni alla cella del tempio E3, era composto da una lunga cella con aditon e pronao in antis costruito con calcare giallastro proveniente dalle Latomie. Dell’elevato conosciamo due serie di colonne monolitiche di dimensioni diverse e con due tipi di capitelli con echino espanso a mensole e collarino poligonale realizzati su modelli corinzio corciresi. Il tempio E1 era inoltre coperto con tegole dipinte a scacchiera e tegole terminali decorate con palmette a fiori di loto con il colmo del tetto protetto da coppi. Una copertura teologicamente vicina ai tetti arcaici dell’Etolia, con tegole di tipo corinzio arcaico interpretato in chiave siceliota.
Il tempio era inserito in un temenos, di cui si conserva ancora un tratto del muro di peribolo meridionale costruito con la tecnica a telaio databile alla fine del Vil secolo a.C., munito di propileo ad H posto ad ovest.Distrutto da un incendio intorno al 510 a. C. il tempio venne sostituito da un periptero con cella, realizzato in calcare stuccato, dalla pianta quasi uguale al tempio oggi visibile. Questo tempio denominato E2, realizzato con tutta probabilità, durante la tirannide di Eurileonte, è rimasto incompiuto a causa della caduta del tiranno.
Per uno dei due templi arcaici (E1 o E2) dovette essere realizzata la statua di culto, della quale conosciamo solamente la testa con polos, rinvenuta nella cella di E3 e conservata al Museo Regionale Archeologico di Palermo. La scultura, realizzata in tufo finissimo agli inizi del VI secolo a. C., si presenta fortemente abrasa nel volto; tuttavia è possibile notare la struttura cubica della testa e la capigliatura ad elementi ondulati continui molto stilizzati che ben evidenziano una matrice ionica.
Il tempio E3, il cui attuale aspetto attuale aspetto si deve all’anastilosi (ricomposizione e reinnalzamento delle sue colonne) effettuata – tra polemiche – tra il 1956 ed il 1959, presenta un peristilio (lunghezza m 67,82; larghezza m 25,33) di 6 x 15 colonne (altezza m 10,19), realizzate con il calacare estratto dalle cave di Cusa, su cui sono presenti numerose tracce superstiti dell’originario stucco che le ricopriva.
È un tempio caratterizzato da diverse scalinate che determinano un sistema di rialzamenti successivi: una prima di 10 gradini conduceva all’ingresso sul lato est; dopo il pronao in antis un’altra di 6 gradini conduceva nella cella; e per finire un’ultima di 6 gradini dava accesso – in fondo alla cella – all’adyton; dietro l’adyton, separato da esso, vi era l’opistodomo in antis.
Il tempio E3 è da considerarsi tra i templi “dorico canonici”, accogliendo tutte le soluzioni della tecnica costruttiva di tale ordine architettonico, come ad esempio le curvature e le correzioni di tutte le parti destinate a fare incontrare sempre due triglifi negli angoli del fregio e mai due metope. Un fregio girava lungo le pareti della cella, mentre il pronao e l’opistodomo erano decorati con metope; cinque di queste ed altri frammenti, ritrovati tra il 1831-1832 e nel 1865, si conservano al Museo Salinas di Palermo. Scolpite nel tenero calcare tufaceo le metope vennero realizzate con la tecnica acrolitica consistente nell’applicazione delle parti nude dei bassorilievi femminili, in marmo pario, al calcare tufaceo. Di stile preclassico detto “severo” mostrano nella tipologia com positiva, specialmente quelle appartenute al lato occidentale raffiguranti “Atena ed Encelado” e “Apollo e Dafne”, preesistenze tardo arcaiche. Le altre tre metope raffiguranti “Zeus ed Hera”, “Eracle e Antiope” e “Artemide ed Atteone” provenienti dall’opistodomo, ricche di espressività e movimento, motivi caratteristici dello stile severo, vengono attribuite allo scultore Pitagora di Reggio.
Dinanzi alla facciata est del tempio è stato rinvenuto un crogiuolo, scavato in parte nella roccia in parte nel terreno, dove si pensa che i Cartaginesi, in seguito al riuscito assalto alla città del 409 a. C., abbiano fuso le tegole bronzee del tempio trasformandole in lingotti per più facilmente trasportarle.
A titolo di curiosità, così Ranuccio Bianchi Bandinelli, il grande archeologo, commentò la ricostruzione del tempio E3
“l’esempio più grave di iniziativa sbagliata è però offerto ora dalla ricostruzione del tempio E di Selinunte. Si è speso assai, oltre i cento milioni; si sono fatti, da parte della direzione dei lavori, miracoli di ingegnosità tecnica, che solo un’intelligente passione per il monumento antico poteva dettare; e tutto ciò per un risultato deplorevole. Deplorevole da vari punti di vista. Si è alterato un paesaggio ormai classico, sul quale sono state scritte pagine di alta poesia, un paesaggio che aveva ormai un suo valore culturale così come esso era; e questa distruzione di un valore culturale (evidentemente non sentito o ignoto a chi ha voluto il ripristino) avrebbe potuto essere giustificato, tutt’al più, da un preciso interesse scientifico archeologico, in modo che la perdita di un valore culturale fosse compensata dalla acquisizione di un altro. Invece, ricostruendo, come si è fatto, senza prima aver eseguito il rilievo dei frammenti pezzo per pezzo, si sono distrutte le possibilità di accertamento e di studio di quei particolari strutturali dell’architettura antica, che sono ancora oggetto di indagine e di discussione, specialmente per precisare i rapporti complessi e in parte ancora ignorati tra Grecia e Sicilia. Culturalmente e archeologicamente, quindi, il risultato è del tutto negativo”
[image error]Tempio F
Poco a nord del tempio E sorge il tempio F, forse dedicato a Dioniso, perfettamente allineato ai templi E e G, è il più piccolo e il più spoglio dei tre templi posti sulla collina orientale. Le rovine di questo tempio furono, infatti, saccheggiate in epoca imprecisata ed utilizzate come materiale di cava. L’edificio creduto in passato opera del 550-540 a. C. dobbiamo oggi, alla luce di saggi effettuati all’interno del tempio e intorno al crepidoma, datarlo al 520 a. C. periodo a cui appartengono i materiali più antichi ritrovati nel riempimento. Il tempio presenta una pianta allo stilobate di 61,83 m. x 24,43 m. con una peristasi di 6 x 14 colonne doriche che non presentano entasis, ma rastremazione continua. L’interno, formato da una cella tripartita in pronao, naos e aditon, presenta una doppia fila di colonne sulla facciata separate da un intercolumnio: caratteristica tratta dal più antico tempio C sorto sull’acropoli. Il tempio possedeva fin dalla sua realizzazione una ricca decorazione fittile sostituita, in seguito, da splendide metope poste sulle fronti.
Due di queste, capolavoro del tardo arcaismo scultoreo selinuntino, si conservano come la altre al Salina di Palermo. Le due metope, databili tra il terzo e l’ultimo quarto del Vi secolo a.C., mutili superiormente, raffigurano Dioniso, con un lungo chitone ed Himation dalla sottile pieghettatura, che sta per uccidere un gigante ed Atena vittoriosa su Encelado; quest’ultimo riverso sul terreno è raffigurato con gli occhi semichiusi e con la bocca aperta, spasimante dal dolore, contornata da una folta barba a riccioli stilizzati. Peculiarità del tempio F è la presenza tra le colonne della peristasi di un muro, marcato da una specie di triplice lesena, alto quasi cinque metri, che lascia liberi solamente stretti passaggi sulla facciata. Questa insolita soluzione dell’architettura dorica ci lascia alquanto perplessi e fa ipotizzare che il muro servisse a proteggere gli ex voto offerti dai fedeli oppure a celare, a occhi indiscreti, riti misterici.
[image error]Tempio G
Il più settentrionale dei tre templi della collina orientale di Selinunte è il tempio G, dedicato a Zeus, uno dei più grandi templi dell’antichità classica; oggi ridotto ad un immenso cumulo di architravi, colonne e capitelli, devastati dalla furia del sisma, da cui emerge un’unica possente colonna, restaurata dallo scultore Valerio Villareale nel 1832, volgarmente chiamata “fuso della vecchia”. Malgrado il suo stato di rovina pare celare gelosamente le strutture interne, bene conosciamo la pianta dell’edificio le cui misure allo stilobate sono di 113,14 m. x 54,05 m. Il tempio aveva 8 colonne sulla facciata e 17 sui lati lunghi comprese le angolari; le colonne alte 16,27 m. sostenevano un capitello il cui abaco si estendeva per oltre 16 mq., mentre tutto il tempio era alto 30 m.circa
L’interno era costituito da un pronao prostilo, con quattro colonne sul lato d’accesso e due sui fianchi; seguiva la cella divisa in tre navate da due file di dieci colonne monolitiche con capitello dorico su due ordini, e l’opistodomo in antis. Addossate ai muri delle navate laterali della cella erano due scale, tramite le quali era possibile raggiungere il tetto e il sottotetto per le periodiche ispezioni delle capriate lignee che sostenevano la copertura. In fondo alla navata centrale, che pare avesse forma ipetrale (senza copertura), era posto l’aditon, che aveva la forma di una cappella, dove si trovava la statua di culto (da questo luogo proviene la scultura tardo arcaica raffigurante un torso di gigante, oggi al Museo Salinas di Palermo). L’aditon insieme allo spazio libero dei due intercolumni, posto tra il peristilio e la cella per meglio simulare una doppia peristasi, accostati alla monumentalità dell’edificio ci consentono di paragonare il tempio G ai grandi edifici cultuali della lonia e della Grecia dell’est; anche essi con cella a cielo aperto realizzati a partire dalla metà del VI secolo a.C.
Ciò porta a supporre la presenza a Selinunte di immigrati dalla Ionia, a questi non è estranea la spedizione di Pantatlo che portò a Selinunte un congruo numero di Cnidi. La costruzione del tempio G iniziò intorno al 530 a.C. ed ancora nel 409 a. C., data della distruzione della città da parte dei Cartaginesi, non era del tutto ultimata: lo testimoniano le colonne del tempio, molte delle quali ancora non scanalate, e la mancanza di rifiniture nonostante sono visibili molte parti stuccate. Con sicurezza sappiamo che l’edificio venne iniziato dal fronte est; grazie alla lunga durata di realizzazione è possibile cogliere l’evoluzione dell’architettura dorica ed in particolare dei capitelli: arcaici con echino basso e rigonfio ad est, più classici con echino meno espanso ad ovest.
Tra le rovine del tempio è stata ritrovata nel 1871 la “Grande Tavola Selinuntina”, testo mportantissimo sui culti della città, databile intorno alla metà del V secolo a. C. Nell’iscrizione, gli abitanti della colionia ringraziano gli dei per una vittoria di cui ignoriamo le circostanze:
I selinuntini sono vittoriosi grazie a Zeus, Fobos, Eracle, Apollo, Poseidone, i Tindaridi, Atena, Demetra, Pasikrateia e gli altri dei, ma soprattutto grazie a Zeus
E per festeggiare tale vittoria, venisse realizzata una donario in oro, essendo disponibili sessanta talenti d’oro: ora se si considera il talento attico, questo corrisponde a 25,86 kg; se invece, come più probabile, si parla di quello ionico, questo è pari a 37,8 Kg. Di conseguenza, la quantità totale sarebbe stata pari a 2.268 kg, ossia circa 122.450.000 euro, a testimonianza della ricchezza della polis.
Periodicamente, salta fuori il dibattito anche sulla ricostruzione del Tempio G, che strano a dirsi, ha sul groppone più di 200 anni. Il primo a formulare tale proposta fu infatti il principe di Torremuzza, primo Regio Custode delle Antichità della Valle di Mazara, il 28 aprile 1789 e sospetto che la relativa discussione continuerà ancora per secoli…
Ai piedi della collina, alla foce del fiume Cottone vi è il porto est; esteso per m. 600 circa verso l’interno e guarnito probabilmente da un molo o da una diga che si protendeva dall’acropoli, subì nel IV-III secolo a.C. delle trasformazioni: infatti fu allargato e fiancheggiato da banchine (orientate nord-sud) e da depositi. Dei due porti di Selinunte – attualmente insabbiati – il porto W, posto alla foce del fiume Selino-Modione, era quello principale.I quartieri extra moenia, collegati alle attività emporiche, commerciali e portuali, erano sistemati invece su grossi terrazzamenti lungo le pendici della collina.A nord dell’attuale villaggio Marinella, infine, si trova una necropoli in località Buffa.
August 6, 2020
I misteri della Mediolanum paleocristiana
Il primo dei tre grossi misteri della Mediolanum paleocristiana è la cosiddetta Basilica Portiana, uno dei principali teatri di scontro tra ariani e cattolici. La prima attestazione dell’esistenza di un luogo di culto ariano conteso tra le due varianti del cristianesimo risale al 378, quando Graziano sequestra una basilica contesa tra le due fazioni e, influenzato da Ambrogio, la concesse i cattolici. Le cose cambiano con Valentiniano II e di sua madre Giustina, che su richiesta del vescovo ariano Mercurino Aussenzio, decisero di assegnare anche a questa fazione una chiesa.
Le richieste degli ariani si concentrarono prima sulla basilica Portiana e poi sul complesso episcopale. È proprio grazie alla narrazione, ovviamente di parte, che Ambrogio fa di questo conflitto, abbiamo qualche indizio su dove questa basilica potesse essere.
Se la basilica Portiana, pretesa durante la settimana Santa del 385 o 386, è, come è stato ipotizzato, la stessa implicitamente menzionata nel Contra Auxentium e in precedenza sequestrata dall’imperatore Graziano per sedare i disordini, se ne deduce che si tratta di una chiesa su cui l’imperatore esercita il proprio potere, per il rapporto preferenziale che intrattiene con essa.
Inoltre poiché gli ariani rivendicano costantemente questo luogo di culto, sembra verosimile ritenere, pur senza poterlo dimostrare, che soprattutto da quando l’arianesimo era diventato il credo ufficiale della chiesa milanese la basilica fosse il punto di riferimento del culto ariano. Essa d’altronde era stata edificata ante 378, data a cui risalgono i primi disordini nell’attribuzione dell’edificio, dovuti probabilmente al preteso controllo dei niceni anche sugli edifici in precedenza ariani, in seguito all’affermarsi delle posizioni di Ambrogio. Non si può quindi escludere che la chiesa fosse stata edificata al più tardi sotto l’episcopato di Aussenzio I (355-374), quando gli ariani beneficiavano di un largo sostegno imperiale.
Nell’epistula ad sororem, Ambrogio ci fornisce le sole indicazioni concrete sull’edificio, scrivendo che si tratta di una chiesa extramurana, di minori dimensioni rispetto alla nova, la più grande delle basiliche in città
nec iam Portiana, hoc est extramurana, basilica petebatur, sed basilica nova, hoc est intramurana, quae maior est
Nella descrizione della dinamica degli eventi viene inoltre spiegato che la domenica Ambrogio, proprio mentre si accinge ad entrare nella basilica baptisterii del complesso episcopale, riceve la notizia che dal palazzo imperiale sono stati mandati presso la Porziana dei decani perché apprestassero le cortine imperiali. Questo comporta l’intenzione dell’imperatore di assistere alla funzione ariana e di conseguenza l’esistenza di una sorta di pulvinar, un palco in cui la corte poteva assistere, protetta da tende alle cerimonie religiose
ad Portianam basilicam de palatio decanos misissent et vela suspenderent
Il brano implicherebbe anche la relativa vicinanza della basilica Portiana con il Palazzo Imperiale, dato che sia i decani, sia la corte imperiale, la poteva raggiungere con facilità. Il testo ambrosiano fornisce, in maniera implicita, un altro interessante dettaglio sull’edificio di culto. La contesa delle basiliche si svolge, infatti, durante la Settimana Santa ed è scatenata dalla necessità da parte della comunità ariana di disporre di una basilica per la liturgia pasquale che comprendeva la cerimonia battesimale. La basilica Portiana doveva quindi essere dotata di uno battistero.
Inoltre, se prendiamo come esempio l’esperienza dei tituli romani, il sintagma delle basilica Portiana, la porrebbe in relazione ad un nome di persona o ad un aggettivo ad esso corrispondente, rimarrebbe il dubbio su chi diavolo fosse questo Portius, dato che non appare tra i cortigiani di Valentiniano I. Ora, se ammettiamo che la chiesa sia stata eretta su commissione imperiale, Portius sarebbe stato il proprietario del fondo su cui questa è stata costruita.
Ora, a quale chiesa attuale potrebbe corrispondere la Basilica Portiana? Di ipotesi ne sono state fatte a iosa. La prima è quella di Sant’Eustorgio, ma né la posizione, né le caratteristiche e la datazione dei resti paleocristiani ritrovati in questi anni, confermano tale identificazione. San Simpliciano, altra ipotesi, è di fondazione ambrosiana, per cui si può escludere a priori. San Lorenzo è stato costruito dopo la morte di Ambrogio. Infine, a San Vittore al Corpo, nonostante l’identificazione medievale con la basilica Portiana, non sono stati ancora trovati resti risalenti all’epoca paleocristiana.
Il secondo è la cosiddetta basilica Fausta, preesistente all’attività edilizia di Ambrogio. Le fonti non permettono agganci prosopografici circostanziati per il nome della fondatrice, che si è cautamente suggerito di poter identificare con quello dell’imperatrice Fausta, figlia di Massimiano e moglie di Costantino, il cui triste destino e la conseguente damnatio memoriae avrebbe favorito la perdita delle tracce della basilica legata al suo nome.
Di questa basilica, in cui sono vengono temporaneamente custoditi i corpi dei martiri Gervasio e Protasio dopo l’inventio, abbiamo un’idea assai indiretta dell’aspetto, grazie al mosaico absidale di Sant’Ambrogio: qui il vescovo è rappresentato mentre si assopisce in tale basilica durante l’esercizio del culto, nelle nota scena di destra del miracolo dell’ubiquità, quando appare al funerale di San Martino.
Mosaico che ha però una storia alquanto travagliata: esso fu concepito probabilmente in epoca ambrosiana (IV-V secolo), ma già in epoca carolingia fu restaurato. Danneggiato tra il 1190 e il 1198 da una serie di dissesti statici che interessarono l’intero edificio, il mosaico fu parzialmente ricostruito presumibilmente all’inizio del Duecento, il che motiverebbe in esso la presenza di alcuni elementi stilistici tipicamente legati alla pittura toscana del XIII secolo, quali ad esempio la particolare forma del trono e la presenza di Santa Candida, il cui culto iniziò a diffondersi non prima dell’XI secolo. La figura di San Satiro dev’essere stata invece ricostruita nel Trecento, per via della presenza dell’ostensorio: una volta diventato suo attributo caratteristico e costante, è probabile che il ritratto a mosaico sia stato modificato per aggiungere l’oggetto fra le mani del santo.
Nel corso dell’Ottocento il mosaico subì un pesante restauro che, purtroppo, comportò la rimozione delle teste di San Martino, Sant’Ambrogio e, probabilmente, anche di San Gervasio e San Protasio, i cui frammenti furono successivamente dispersi tra musei e collezioni privati. In occasione di tale intervento venne completamente rifatta anche la fascia presente nella parte inferiore della decorazione, con iscrizioni in nero su fondo oro alternati a pannelli decorativi.Nel 1943, infine, durante i bombardamenti di Milano, l’abside venne pesantemente colpita con la perdita di un’ampia zona, comprendente l’angelo in volo posto sulla sinistra, tutta la figura di Cristo e parte del trono. Dopo la guerra il mosaico fu ricostruito rispettando l’iconografia precedente e mantenendo alcuni elementi d’origine, attualmente riconoscibili poiché separati dai rifacimenti da una sottile linea rossa.
A titolo di curiosità, nei frammenti originali di mosaico, infatti, il volto di Sant’Ambrogio appare diverso rispetto all’iconografia tradizionale presente nel sacello di San Vittore in ciel d’Oro e nell’altare d’oro di Volvinio, caratterizzandosi con tratti somatici simili a quelli dell’apostolo Pietro. Questo fenomeno può essere letto come un gesto di sfida nei confronti di Roma da parte dell’arcivescovo di Milano Ansperto (868-881), il quale fu deposto e scomunicato dopo un violento conflitto con papa Giovanni VIII. In questo contesto l’immagine dell’abside milanese diventa esplicativa di un manifesto programma politico, in cui Ambrogio doveva essere percepito come un “alter Petrus” e, dunque, rendere legittima la posizione della chiesa ambrosiana, senza che questa si sottomettesse a Roma.
Nonostante tutte queste traversie, noi conosciamo l’aspetto originario di questo mosaico al pittore Ralph Sumonds, che, a inizio Seicento, durante un suo viaggio in Italia, si fermò a Milano e assai stranamente per l’epoca, cominciò a riprodurre i suoi monumenti paleocristiani. Nel suo schizzo, che rappresenta il mosaico, antecedente ai più antichi restauri documentati (1706), oltre testimoniare la fedeltà dell’attuale iconografia del mosaico rispetto al mosaico altomedievale, evidenzia la scritta identificativa della Basilica Fausta, almeno come appariva all’epoca carolingia.
Nel Medioevo, la basilica era con la chiesa di San Vitale, esistente fino al XVIII sec. tra via Santa Valeria e via Necchi grazie alla tradizione altoaltomedievale: l’evangeliario di Busto e quello ambrosiano (IX sec.) definiscono la chiesa, meta delle rogazioni, come ad Faustas. L’associazione è ribadita dal Liber notitiae Sanctorum mediolani (XIII sec.). La dedica a San Vitale potrebbe essersi affermata dopo il trasferimento nell’edificio di reliquie dei martiri Vitale e Agricola rinvenuti a Bologna nel 394 e da Ambrogio traslati a Firenze. Purtroppo però la sua distruzione non permette ahimè di verificare questa identificazione.
L’ultimo mistero è la basilica dei Santi Nabore e Felice: Paolino, nella biografia di Ambrogio, ricorda cone il santo rinvenne i loro corpi presso i cancella dei due santi, dove solo al tempo del biografo (hodie) esisteva una basilica: se ne deduce che il recinto funerario venne monumentalizzato tra la consacrazione della basilica ambrosiana (ante 386) e il 422 quando Paolino scrive, se non direttamente per committenza ambrosiana certamente nel segno della sua opera. Questa basilica è collocata nell’area occupata sino al XVIII sec. dalla chiesa di San Francesco, titolo che la basilica naboriana assume nel 1256. L’edificio era forse nella zona dell’attuale caserma Garibaldi, dove sono stati messi in luce modesti resti archeologici attribuiti ad un recinto funerario o ad una basilica.
August 5, 2020
Il sacro Almone
“Un giorno ci avviammo a piedi seguendo la via Appia, da lungo tempo rovinata e invasa dalla vegetazione: per dodici miglia avanzammo, arrampicandoci su per una serie ininterrotta di monticelli, di ammassi e di collinette formate da rovine; ora rintracciavamo un tratto dell’antica strada sul terreno, poi sotto un manto erboso, come se fosse stata la sua tomba:ma comunque furono rovine lungo tutto il percorso..”
Così descriveva la via Appia antica lo scrittore inglese Charles Dickens, che visitò l’Italia nei primi mesi del 1845; ai suoi tempi, la Regina Viarum non era più percorribile: i muretti a secco che delimitavano i fondi privati ne avevano tagliato trasversalmente il percorso, suggerito ormai soltanto dalla sequenza dei monumenti funerari che in origine la fiancheggiavano, ridotti allo stato di rovina per l’usura del tempo e per le sistematiche spoliazioni messe in atto fin dal Medioevo.
Il recupero avvenne tra il 1850 e il 1853 su incarico dello Stato Pontificio fu promosso il “ristabilimento della via Appia”, realizzato dal Commissario alle Antichità Luigi Canina, archeologo e ingegnere piemontese: un organico progetto di restauro dell’originale asse stradale della via Appia Antica, da Cecilia Metella a Bovillae. Fu acquisita da parte dello Stato una fascia di circa 10 metri ai lati della strada, l’area archeologica fu isolata dai fondi retrostanti per mezzo di muretti a secco, le “macère”, e chiusa con due cancelli nel tratto restaurato, che veniva controllato regolarmente da un custode e da un guardiano a cavallo.
Molte delle strutture che caratterizzavano la strada furono parzialmente ricomposte dal Canina che, con una serie di pannelli in muratura, in cui venivano applicati i frammenti archeologici rinvenuti lungo il percorso, intendeva restituire al visitatore l’immagine di quelle che ipotizzava fossero in origine la forma e la decorazione di ciascun edificio.
Per cui l’Appia che conosciamo oggi, è frutto del suo impegno e della sua fantasia… A cominciare dalla copia della prima colonna miliaria della via Appia, il cui originale, rinvenuto nel 1584, è conservato sulla balaustra della scalinata del Campidoglio. Si ipotizza che cadesse in questo punto il primo miglio della “Regina Viarum”, che aveva in realtà origine, così come la via Latina, dalla Porta Capena del circuito repubblicano delle Mura Serviane, localizzata pressappoco di fronte al lato curvo del Circo Massimo.
Ai primissimi anni della Repubblica ci riporta il tratto di strada in discesa tra il confine del I miglio e il fiume Almone. In questo luogo, denominato Clivus Martis, vi era il Tempio di Marte, importante santuario da cui partiva la transvectio equitum, una solenne processione della cavalleria che il 15 luglio di ogni anno rievocava la vittoriosa battaglia del Lago Regillo, che nel 499 a.C. aveva segnato la supremazia di Roma sui i popoli latini.
Sul lato sinistro, al di sotto del cavalcavia ferroviario, i blocchi di tufo, pertinenti al rivestimento di un edificio che doveva estendersi anche sul lato opposto della via, sono stati interpretati come appartenenti a tale santuario. L’Almone, affluente del Tevere e fiume sacro ai Romani, è oggi visibile in corrispondenza dell’ex cartiera Latina, sede dell’Ente Parco, in via Appia antica 42.
Già Ovidio nelle Metamorfosi parlava dell’Almone come di un “affluente del Tevere, a mezzogiorno di Roma, dove i sacerdoti di Cibele ogni anno lavavano la statua della dea e tutti gli arredi sacri appartenuti al suo culto” e ascrive all’omonimo dio fluviale, padre della ninfa Lara, l’origine del nome Almo. L’Almone nasce dai Colli Albani (acqua di risorgiva, da infiltrazioni del lago Albano) e fino a circa un secolo fa sfociava nel Tevere nei pressi della ex area industriale del Gazometro,più o meno nella attuale Circonvallazione Ostiense, presso il quartiere Garbatella.
Lì un ponte passava sopra la confluenza delle acque che scorrevano accanto ad un piccolo mulino, la moletta di San Paolo. Oggi invece il fiume non raggiunge più il suo naturale recettore a causa di una deviazione che porta le sue acque direttamente al depuratore di Roma sud. In età romana l’importanza del fiume Almone era legata al rito della Lavatio Matris Deum: ogni 27 marzo la pietra nera, simbolo della dea Cibele, la Magna Mater veniva condotta in processione e lavata nel fiume, insieme ai coltelli sacrificali, proprio nel punto in cui questo sfociava nel Tevere.
Nel Medioevo, i romani definivano “Acquataccio” quel tratto di Almone che attraversa la Valle della Caffarella. Le origini di questa scelta toponomastica si trovano nelle piantine medievali e cinquecentesche, dove Via Appia dirimpetto a Porta San Sebastiano, era indicata con il vocabolo “Accia” perciò l’appellativo di “Acquataccio” sta proprio a significare “Acqua dell’Appia”. Scorrendo all’epoca in luoghi deserti e desolati, il fiume divenne scenario di infinite leggende. Una di queste racconta come nel XVI secolo una bufala impazzita, che aveva provocato morti e feriti in città, fu inseguita fino al fiume dove si gettò per poi riemergerne parlante. Infine, la Via dell’Almone, progettata per giungere al Forte Prenestino dal Forte Appio, un tempo fu chiamata Via Militare per il continuo passaggio di soldati.
[image error]Ex Cartiera Latina
L’Almone alimentava l’ex Cartiera Latina,formidabile esempio di continuità funzionale. Infatti, intorno al 1000 nei pressi della chiesa del Domine Quo Vadis ? erano attestate fulloniche, impianti per il lavaggio dei panni; nel 1656, durante l’epidemia di peste, il complesso, definito “valca di Acquataccio”, era utilizzato per il lavaggio dei materassi; la valca fu poi rilevata dai Cappuccini, per la realizzazione dei tessuti di lana prodotti nel loro convento di Roma. All’inizio dell’ 800 il complesso fu trasformata in mulino per macinare sostanze naturali per usi diversi. Nel 1912 l’impianto fu modificato e iniziò la produzione della carta dagli stracci di lino e cotone e in seguito da carta da macero. La fabbrica chiuse nel 1985.
Oggi il complesso multifunzionale della ex Cartiera Latina è dotato di due sale per esposizioni (Nagasawa e Appia) e una Sala Conferenze che possono essere concesse in affitto per eventi e manifestazioni (vedi Regolamento); una biblioteca; uno spazio didattico espositivo naturalistico, Dì Natura, dove si svolgono attività per le scuole e le famiglie e dove è presente un Punto Info con Bookshop.Uno spazio verde esterno attrezzato che ospita un orto didattico, denominato Hortus Urbis, un’area didattica dedicata alle tradizioni della Campagna Romana ed una area attrezzata per la sosta.
August 4, 2020
San Pietro nel 1546
Nel 1545 Sangallo era in piena attività: iniziò a definire le parti murarie dei tabernacoli sotto le volte a rosoni,che incorniciavano gli ingressi ai ricetti del deambulatorio. Nel 1546 l’architetto mise in opera le 4 colonne con capitelli dei tabernacoli della volta a rosoni di sud-ovest e 3 della
volta a rosoni di sud-est, 2 delle quali con capitelli, e almeno un timpano.
Fin dall’ottobre 1545 si armava intato l’arcone di crociera di Bramante, che come suo solito aveva sottodimensionato la struttura, per impedirne i cedimenti causati dalla nuova volta a botte, la cui muratura nel 1546 venne ammorsata con quella dell’arcone, che quindi deve essere in parte demolito-
Nel dicembre 1545 si iniziò a montare l’armatura per il voltone a botte, che sarà completamente armato nel marzo 1546 con i legni progressivamente smantellati dal braccio orientale. L’armatura era costituita da una doppia incavallatura formata da aste di dimensioni diverse. L’opera fu serrata il 12 giugno 1546 e il completamento si festeggiò, essendo una sfida immensa per l’ingegneria dell’epoca, 2 giorni dopo con un banchetto offerto ai lavoranti. La lunghezza della volta di 128 palmi (28.60 m) copriva l’intera distanza tra l’arcone della crociera e l’abside del Re,cioè corrispondev alle misure delle sue imposte; la maggiore lunghezza della volta rispetto a quella del braccio, pari a 123 palmi circa (27.48 m) era dovuta alla necessità di ammorsarne la muratura con quella dell’arcone di Bramante, nel disperato tentativo di integrare il coro quattrocentesco nel resto della struttura
Nel 1546 Sangallo quindi costruì la volta a botte dall’arcone di Bramante sino alla terza parasta del braccio, in modo analogo a quanto già realizzato nel braccio anteriore. Si iniziarono poi le fondamenta di una parte dell’abside interna e di una parte dell’emiciclo esterno della cappella dell’Imperatore e probabilmente il rivestimento in travertino degli spiccati del deambulatorio. Entro il 1546 i muri del braccio settentrionale erano sufficientemente alti per realizzare la volta a rosoni orientale, che era armata già in aprile e serrata entro novembre dello stesso anno.
Lo stato dei lavori della basilica nel 1546 è illustrato nell’affresco di Vasari del Palazzo della Cancelleria, databile intorno all’estate. Sulla sinistra, cioè sul lato occidentale, è ben rappresentato il coro di Bramante con paraste doriche piegate sugli spigoli e sormontate da trabeazione, mancante di cornice e con metope prive di ornamenti; intorno a esso sono addossate le costruzioni provvisorie dei lavoranti. Il voltone a botte della cappella del Re appare ormai terminato, ma ancora armato, e con la muratura di rinfianco appena iniziata; sono visibili i 2 ottagoni adiacenti con le loro cupole e le paretimeridionali dei contropilastri con paraste e trabeazione in travertino.
L’abside interna del Re presenta i fusti delle colonne senza parete di riscontro. Gli scalpellini stanno lavorando all’emiciclo esterno meridionale, rimasto sostanzialmente invariato dal tempo di Heemskerck, a parte la chiusura del portale centrale. Nell’antistante “piazza degli scarpellini” si osservano blocchi, basi e rocchi lavorati da scalpellini. Attraverso il braccio meridionale s’intravede la crociera, di cui si riconosce il pilone di nord-est con 2 nicchie sovrapposte e parte del sovrastante pennacchio. Si osservano rampe attraverso le quali, quadrupedi, anche dromedari, e uomini trasportano materiali fino all’estradosso del voltone del Re. Nel lato orientale, sono dipinti la parete meridionale della navata centrale della basilica costantiniana con 4 finestroni, il palazzo di Innocenzo VIII con merlature e finestre a croce, la rotonda di Santa Maria della Febbre e l’obelisco.
Nel gruppo di figure a sinistra, presso la statua della Magnificenza, è rappresentato Paolo III con alle spalle la setta sangallesca, da cui emerge Antonio da Sangallo il Giovane che porta un insolito copricapo a volute e protende il braccio destro. Quattro figure femminili, simboleggianti la tecnica e le arti, distendono un rotolo su cui è disegnata la pianta sangallesca di San Pietro; il papa è in atteggiamento di seguirne la rispondenza con la nuova basilica in costruzione. Sul lato destro, presso la statua della Sincerità, un gruppo di sei bambini, allusivi a quella virtù, preleva da una grande coppa ghirlande e una di queste viene deposta sul capo di una figura maschile, adagiata sulla scala, che sostiene con la mano destra il padiglione (la “basilica”) con le chiavi decussate e stringe nella sinistra una preziosissima tiara
August 3, 2020
Pirro (Parte V)
Per fare degenerare la situazione, mancava solo un casus belli: questo fu causato sia dagli intrighi romani, sia dalla serie di boiate compiute dagli stessi tarantini. Alla morte di Agatocle di Siracusa nel 289 a.C., il suo tentativo di costruire un regno unitario che unisse le città greche della Sicilia e del Sud Italia, in ottica anti cartaginese e anti romana, crollò come un castello di carte. I Lucani, un tempo alleati di Roma, si ribellarono insieme ai Bruzi ed iniziarono ad avanzare nel territorio di Thurii devastandolo; gli abitanti della città, consci della propria debolezza e assai poco fiduciosi nelle capacità militari di Taranto, inviarono due ambasciate a Roma per chiedere aiuto, la prima nel 285 a.C. e poi nel 282 a.C.
Inizialmente il Senato si mostrò poco entusiasta di impelagarsi nelle vicende nella Magna Grecia, ma tanto fece la lobby “filo campana”, che si decise di inviare il console Gaio Fabricio Luscino, con un mandato di fatto limitato: porre una guarnigione a Thurii, in modo da proteggerla da eventuali colpi di mano italici e al contempo, mediare con i Lucani, per trovare un accomodamento diplomatico tra i due contendenti. Di fatto Roma mostrava il desiderio di avere una sorta di indirect rule sulla Magna Grecia, nell’ottica di non provocare né gli stati ellenistici, né Cartagine.
Gaio Fabricio Luscino, il primo appartenente alla gens Fabricia a trasferirsi a Roma da Aletrium, sia per la sua equanimità, sia per il suo essere incorruttibile, pareva essere la persona più adatta per questo compito: il problema è che Fabricio era tutt’altro che un mediatore. La situazione degenerò rapidamente: fregandosene della presenza del contingente romano, i lucani, guidati da Stenio Stallio assediarono Thurii, così per evitare che Fabricio Luscino facesse una brutta fine, il Senato dovette mandare un paio di legioni, che malmenarono pesantemente gli italici.
Visto il risultato, non solo Thurii si proclamò fedele alleata di Roma, ma tutte le città greche che avevano problemi con i vicini italici, imitarono il suo esempio: Locri, Crotone e Rhegio chiesero e ottennero la protezione dell’Urbe.
Tutta la politica tarantina, finalizzata a contenere l’espansione romana verso sud, era andata in frantumi. A peggiorare il tutto vi era il vecchio trattato del 303 a.C., stipulato tra l’Urbe e Taranto, in cui le navi romane non potevano superare il capo Lacinio, ossia il nostro capo Colonna, vicino a Crotone. Trattato che, nel 282 a.C. danneggiava sia gli interessi economici della lobby filocampana, che vedeva ridotti i suoi commerci, sia rendeva complicata la logistica militare a supporto dei nuovi alleati.
Per cui, ritenendo decaduto, a seguito della mutata situazione geopolitica, il trattato, Roma tentò di imporre de facto una sua rinegoziazione. Il Senato inviò una piccola flotta duumvirale composta da dieci navi nel golfo di Taranto, guidata Lucio Valerio Flacco, che avendo la passione di pescare al largo di Ostia, si era autoproclamato ammiraglio e dall’ex console Publio Cornelio Dolabella, noto per avere preso più volte a randellate i galli. L’obiettivo della flotta era triplici: riempire di doni i tarantini, convincerli a stipulare un trattato che aprisse ai commerci e alla navigazione il golfo di Taranto e rifornire la guarnigione di Thurii.
Purtroppo, in una delle rare volte in cui i romani volevano comportarsi con moderazione e buonsenso, la sfiga si accanì contro di loro: i tarantini, che stavano celebrando in un teatro affacciato sul mare delle feste in onore del dio Dioniso, erano ubriachi come cocuzze: così, scorte le navi romane, credettero che volessero attaccare e saccheggiare la città e senza porsi troppi problemi le attaccarono. Di conseguenza ne affondarono quattro e una fu catturata, mentre cinque riuscirono a fuggire, tra cui quella di Lucio Valerio Flacco, che consolidò così la fama, assai poco meritata, di grande navigatore. Il povero Dolabella, che si era sempre vantato di non saper nuotare, invece morì affogato.
Dopo l’attacco alla flotta romana, i Tarantini, resosi conto che la loro reazione alla provocazione romana avrebbe potuto condurre alla guerra e convinti dell’atteggiamento ostile di Roma, marciarono contro Thurii, che fu presa e saccheggiata; la guarnigione che i Romani avevano posto a tutela della città ne fu scacciata assieme agli esponenti dell’aristocrazia locale. Il problema è che per, motivi di politica interna, il Senato non aveva nessuna voglia di combattere: la guerra avrebbe favorito più gli interessi di Neapolis, che quelli dell’Urbe e avrebbe rafforzato la gens Fabia e la gens Appia, che in termini moderni, costituivano la lobby campana.
Per cui fu spedita un’ambasciata a Taranto, con delle richieste tutto sommato ragionevoli: la liberazione di coloro che erano stati fatti prigionieri, il rimpatrio dei cittadini aristocratici espulsi da Thurii, la restituzione dei beni a loro depredati e la consegna di coloro che erano responsabili dell’attacco alle navi romane.
I senatori avevano però un problema: gli unici tra loro che parlavano decentemente greco e potevano farsi comprendere dai tarantini appartenevano al partito favorevole alla guerra: non fidandosi di loro, misero a capo delle delegazione il povero Postumio, che parlava greco peggio di quanto io parli inglese, il che è tutto dire.
Postumio entrò nel teatro di Taranto, cominciò a parlare, pronunciando un discorso degno del buon Marco Pisellonio. Di conseguenza, non solo i tarantini gli risero in faccia, ma addirittura, terminata la sua orazione, un uomo chiamato Filonide, in preda all’ubriachezza, si sollevò la veste e orinò sulla toga degli ambasciatori con l’intento di oltraggiarli. A tale atto, che ledeva il diritto all’inviolabilità degli ambasciatori, Postumio reagì tentando di suscitare lo sdegno della folla dei Tarantini verso il concittadino; tuttavia, accortosi che tutti coloro che erano presenti nel teatro sembravano aver apprezzato l’atto di Filonide, li apostrofò, secondo Appiano di Alessandria, promettendo loro che avrebbero pulito con il sangue la toga sporcata da Filonide,o dicendo, secondo la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso,
“Ridete finché potete, Tarantini, ridete! In futuro dovrete a lungo versare lacrime!“
Dinanzi a tale provocazione, la pace era purtroppo impossibile
July 31, 2020
War of the Sicilian Vespers: A Byzantine Epic- Everything about the film
A VERY SPECIAL EDITION ARTICLE
WARNING THIS IS AN EXTREMELY LONG ARTICLE BUT ENJOY!!
In the middle of the COVID-19 Pandemic of 2020, independent home-based film studio and Youtube channel No Budget Films released its longest Lego film so far with a running time of 47 minutes, the highly action-packed Lego Byzantine era epic War of the Sicilian Vespers which has a voice cast of over 28 voice actors, a wide variety of settings and historical and fictional characters of the 13th century. If you haven’t watched the film yet, please watch the movie first before you get spoilers by reading this article!
Watch No Budget Films’ War of the Sicilian Vespers here.
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