Pirro (Parte V)

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Per fare degenerare la situazione, mancava solo un casus belli: questo fu causato sia dagli intrighi romani, sia dalla serie di boiate compiute dagli stessi tarantini. Alla morte di Agatocle di Siracusa nel 289 a.C., il suo tentativo di costruire un regno unitario che unisse le città greche della Sicilia e del Sud Italia, in ottica anti cartaginese e anti romana, crollò come un castello di carte. I Lucani, un tempo alleati di Roma, si ribellarono insieme ai Bruzi ed iniziarono ad avanzare nel territorio di Thurii devastandolo; gli abitanti della città, consci della propria debolezza e assai poco fiduciosi nelle capacità militari di Taranto, inviarono due ambasciate a Roma per chiedere aiuto, la prima nel 285 a.C. e poi nel 282 a.C.





Inizialmente il Senato si mostrò poco entusiasta di impelagarsi nelle vicende nella Magna Grecia, ma tanto fece la lobby “filo campana”, che si decise di inviare il console Gaio Fabricio Luscino, con un mandato di fatto limitato: porre una guarnigione a Thurii, in modo da proteggerla da eventuali colpi di mano italici e al contempo, mediare con i Lucani, per trovare un accomodamento diplomatico tra i due contendenti. Di fatto Roma mostrava il desiderio di avere una sorta di indirect rule sulla Magna Grecia, nell’ottica di non provocare né gli stati ellenistici, né Cartagine.





Gaio Fabricio Luscino, il primo appartenente alla gens Fabricia a trasferirsi a Roma da Aletrium, sia per la sua equanimità, sia per il suo essere incorruttibile, pareva essere la persona più adatta per questo compito: il problema è che Fabricio era tutt’altro che un mediatore. La situazione degenerò rapidamente: fregandosene della presenza del contingente romano, i lucani, guidati da Stenio Stallio assediarono Thurii, così per evitare che Fabricio Luscino facesse una brutta fine, il Senato dovette mandare un paio di legioni, che malmenarono pesantemente gli italici.





Visto il risultato, non solo Thurii si proclamò fedele alleata di Roma, ma tutte le città greche che avevano problemi con i vicini italici, imitarono il suo esempio: Locri, Crotone e Rhegio chiesero e ottennero la protezione dell’Urbe.





Tutta la politica tarantina, finalizzata a contenere l’espansione romana verso sud, era andata in frantumi. A peggiorare il tutto vi era il vecchio trattato del 303 a.C., stipulato tra l’Urbe e Taranto, in cui le navi romane non potevano superare il capo Lacinio, ossia il nostro capo Colonna, vicino a Crotone. Trattato che, nel 282 a.C. danneggiava sia gli interessi economici della lobby filocampana, che vedeva ridotti i suoi commerci, sia rendeva complicata la logistica militare a supporto dei nuovi alleati.





Per cui, ritenendo decaduto, a seguito della mutata situazione geopolitica, il trattato, Roma tentò di imporre de facto una sua rinegoziazione. Il Senato inviò una piccola flotta duumvirale composta da dieci navi nel golfo di Taranto, guidata Lucio Valerio Flacco, che avendo la passione di pescare al largo di Ostia, si era autoproclamato ammiraglio e dall’ex console Publio Cornelio Dolabella, noto per avere preso più volte a randellate i galli. L’obiettivo della flotta era triplici: riempire di doni i tarantini, convincerli a stipulare un trattato che aprisse ai commerci e alla navigazione il golfo di Taranto e rifornire la guarnigione di Thurii.





Purtroppo, in una delle rare volte in cui i romani volevano comportarsi con moderazione e buonsenso, la sfiga si accanì contro di loro: i tarantini, che stavano celebrando in un teatro affacciato sul mare delle feste in onore del dio Dioniso, erano ubriachi come cocuzze: così, scorte le navi romane, credettero che volessero attaccare e saccheggiare la città e senza porsi troppi problemi le attaccarono. Di conseguenza ne affondarono quattro e una fu catturata, mentre cinque riuscirono a fuggire, tra cui quella di Lucio Valerio Flacco, che consolidò così la fama, assai poco meritata, di grande navigatore. Il povero Dolabella, che si era sempre vantato di non saper nuotare, invece morì affogato.





Dopo l’attacco alla flotta romana, i Tarantini, resosi conto che la loro reazione alla provocazione romana avrebbe potuto condurre alla guerra e convinti dell’atteggiamento ostile di Roma, marciarono contro Thurii, che fu presa e saccheggiata; la guarnigione che i Romani avevano posto a tutela della città ne fu scacciata assieme agli esponenti dell’aristocrazia locale. Il problema è che per, motivi di politica interna, il Senato non aveva nessuna voglia di combattere: la guerra avrebbe favorito più gli interessi di Neapolis, che quelli dell’Urbe e avrebbe rafforzato la gens Fabia e la gens Appia, che in termini moderni, costituivano la lobby campana.





Per cui fu spedita un’ambasciata a Taranto, con delle richieste tutto sommato ragionevoli: la liberazione di coloro che erano stati fatti prigionieri, il rimpatrio dei cittadini aristocratici espulsi da Thurii, la restituzione dei beni a loro depredati e la consegna di coloro che erano responsabili dell’attacco alle navi romane.





I senatori avevano però un problema: gli unici tra loro che parlavano decentemente greco e potevano farsi comprendere dai tarantini appartenevano al partito favorevole alla guerra: non fidandosi di loro, misero a capo delle delegazione il povero Postumio, che parlava greco peggio di quanto io parli inglese, il che è tutto dire.





Postumio entrò nel teatro di Taranto, cominciò a parlare, pronunciando un discorso degno del buon Marco Pisellonio. Di conseguenza, non solo i tarantini gli risero in faccia, ma addirittura, terminata la sua orazione, un uomo chiamato Filonide, in preda all’ubriachezza, si sollevò la veste e orinò sulla toga degli ambasciatori con l’intento di oltraggiarli. A tale atto, che ledeva il diritto all’inviolabilità degli ambasciatori, Postumio reagì tentando di suscitare lo sdegno della folla dei Tarantini verso il concittadino; tuttavia, accortosi che tutti coloro che erano presenti nel teatro sembravano aver apprezzato l’atto di Filonide, li apostrofò, secondo Appiano di Alessandria, promettendo loro che avrebbero pulito con il sangue la toga sporcata da Filonide,o dicendo, secondo la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso,





“Ridete finché potete, Tarantini, ridete! In futuro dovrete a lungo versare lacrime!





Dinanzi a tale provocazione, la pace era purtroppo impossibile

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Published on August 03, 2020 12:28
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Alessio Brugnoli
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