Alessio Brugnoli's Blog, page 60

July 15, 2020

Alcune cose che ho imparato sulla distopia

Holonomikon


Aggiungiamo una nuova tessera al mosaico di questo luglio distopico. Come hanno fatto notare diversi lettori di Distòpia, nonché lo stesso curatore Franco Forte nella chiacchierata con Silvio Sosio durante la presentazione in streaming del volume, la distopia, che per una lunga stagione è stata identificata con un filone della fantascienza, è andata col tempo differenziandosi al punto da guadagnare una riconoscibilità del tutto svincolata dal nostro genere prediletto.



Credit: Gattaca.



È qualcosa che si evince anche nel documentatissimo saggio di Carmine Treanni che chiude la raccolta: non è un caso se, dopo aver messo bene in evidenza nella genesi del filone le radici comuni con la letteratura fantascientifica (a partire dalla sovrapposizione di nomi e opere riconducibili all’una o all’altra etichetta, giusto per citarne qualcuna pensiamo a Il risveglio del dormiente di H. G. Wells o a Il tallone di ferro di Jack London), il suo pezzo…


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Published on July 15, 2020 00:47

July 14, 2020

Tornando al memoriale di Sangallo

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Un paio di settimane fa, avevo accennato al memoriale con cui Sangallo, dopo la morte di Raffaello, aveva criticato il progetto che l’Urbinate aveva concepito per la ricostruzione della basilica di San Pietro





Memoriale, presentato a Leone X, di cui presento il testo completo





Mosso più a miserichordia e onore di Dio e di Santo Pietro e onore e utile di vostra S(antità) che a utilità mia per fare intendere chome li danari che si spendono in Santo Pietro si spendono chon pocho onore e utile di Dio e di Vostra Santità perchè sono buttati via le chagioni sono queste infraschritte.In prima bisognia chonchordare la pianta la quale ettuta difforme e fare che vi sia chonformita (a tale riguardo, in margine: fare che vi sia qualche chapella grande oltre alla magiore perche non eie se none chapellette) la quale non ve ne perfettione in molti luogi.





Sechunda li pilastri della nave sono piu grossi che quelli della trebuna che voriano esere manche o almancho equali Tertia chonchordare li pilastri di fuora che sono dorichi e sono piu di dodici teste e vogliono essere sette.





Quarta achordare quelli di dentro se anno avere zocholo onnon per li inchonvenienti che fanno nelle chapelle. Quinta se segue chome e chominciato la nave grande sarà lunga e stretta e alta che parerà uno vicholo.





Sesta detta nave sara ischurissima e chosi i molti altri luogi della chiesa seguita chosi perche non li posono dare lumj buonj.





Settima la trebuna grande rimediare che non posi in falso e fare chosa sopra alli archi che plastri (sic) possino chonportare sendo fatti nel mo di che sono fattj li ornamenti non parlo se ne può fare quanto lomo vole sechondo la volontà del patrone.





E a tutte queste chose sopra schritte se può rimediare e choregiere e achompagniare e chonformare facilmente. Ànchora levare via le porte che passano delluna chapella in ellaltra che so infame che parono balestrere.





Ancora dico che lemicichlo che e fanno nelle teste delle chroci e falso in questo- pera non chel lavoro non sia perfetto in sè solo e bello ma inperfetto in questa opera perche resta lie non seguita e schonpagnia e chosa pesima.





Item le chornige di marmo che a fatto rafaello nelle chapelle sono false perche non vole eservj le risalite che vi sono- Item le chornige che a fatte Rafaello di tevertino dicho essere false in quello locho perche e chornicie fregio e architrave e falso e non po stare quando non a sotto e pilastri cho loro / chapitelli e basa quale qui non è”.





Esaminiamo punto per punto le argomentazioni di Sangallo: il nostro eroe, conoscendo bene l’oculatezza di Leone X, comincia giustificandosi con la volontà di segnalare gli sprechi che la prosecuzione del progetto allora in via di realizzazione avrebbe comportato per il papa. Da questo punto in poi, cominciano le sue lamentele, a partire dal fatto che a fianco del quadrato, l’area del presbiterio, sarebbe dovuta essere realizzata un’altra “chapella grande”; di conseguenza, il progetto mancherebbe di unità e coerenza.





Subito dopo Sangallo, evidenzia lo spessore delle paraste nella navata centrale sarebbe maggiore che nell’abside; con le loro proporzioni molto assottigliate, di 1:12, le paraste dell’ordine dorico esterno richiederebbero una correzione; per quanto riguarda l’interno, si dovrebbe prendere una decisione a proposito della zona basale, che avrebbe provocato problemi nelle cappelle; la navata centrale avrebbe dato l’impressione di un vicolo, lungo, stretto, ripido e molto male illuminato, come pure altre parti della chiesa; il rapporto della cupola principale con i suoi pilastri sarebbe staticamente svantaggioso, dal punto di vista sia del peso che della posizione; la decorazione sarebbe arricchita secondo l’arbitrio del committente; i passaggi fra le nicchie di 40 p, “infami”, darebbero l’impressione di feritoie; i deambulatori, di per se stessi lodevoli, si porrebbero però disorganicamente rispetto al restante corpo dell’edificio; il cornicione marmoreo di Raffaello nelle nicchie di 40 p sarebbe sbagliato, a causa dei suoi aggetti al di sopra delle lesene; il cornicione dell’imposta, sempre di Raffaello, in travertino, avrebbe la struttura di una trabeazione tripartita, mancando però le corrispondenti lesene della base e del capitello richieste dalla regola.





Tutti questi argomenti avevano già occupato il Sangallo dall’inizio della progettazione, nell’autunno 1518, anzi già dal suo ingresso nel cantiere di San Pietro, e per quasi ognuno di essi egli aveva proposto soluzioni alternative. Anche dopo la morte di Raffaello, queste critiche non avevano perso il loro significato: in più rimaneva irrisolto il nodo del coro del Bramante.





Raffaello nelle sue diverse proposte a Leone X aveva proposto o la sia demolizione e ricostruzione o il suo rivestimento con decorazioni che ne avrebbero alterato e nascosto le peculiarità spaziali: ora il fatto che costituisse ancora la pietra dello scandalo per Sangallo, fa sospettare come il Papa, nel suo desiderio di tagliare le spese inutili, esitasse ancora a metterci mano.





Il Memoriale è istruttivo anche perché dimostra quanto diversamente i due maestri la pensassero riguardo a momenti decisivi del programma, e contro quali resistenze interiori Sangallo debba aver messo in pratica le idee di Raffaello. Sangallo tenta sempre di perseguire principi quali funzionalità, chiarezza, logica, modularità delle forme possibilità tecnica di realizzazione, in contrapposizione alla monumentalità e l’impostazione gerarchica di Raffaello.





E con il senno di poi, è quasi un miracolo che entrambi abbiano collaborato, senza troppo scannarsi, così a lungo…

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Published on July 14, 2020 12:03

July 13, 2020

Pirro (Parte II)

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Sotto molti aspetti, la geopolitica di Tolomeo fu una decisa rottura con la tradizione inaugurata da Alessandro Magno e proseguita dagli altri Diadochi: invece di concentrarsi sul controllo terrestre, fu invece incentrata sul dominio marittimo.





Da una parte, il controllo della rete commerciale mediterranea, incentrata sul porto di Alessandria e sulle sue dipendenze, come Cipro, e dei suoi alleati, Rodi e la Lega delle Isole, permetteva all’Egitto di essere destinatario di un flusso d’oro e di materie prime ben superiore a quello che potevano ricevere i suoi rivali.





Dall’altra, la flotta egiziana poteva imporre una sorta d’embargo sui nemici, controllando ad esempio il commercio del grano proveniente dalla Crimea e costringendoli alla fame. Infine, la mobilità della flotta, concedeva all’Egitto di mantenere l’iniziativa tattica, garantendo al contempo la massima flessibilità operativa.





Ma il potere marittimo, per esplicarsi al meglio, però doveva controllare delle teste di ponte sulla costa, per chiudere in una sorta di cerchio di ferro le potenze terrestri nemiche: Tolomeo, per tenere sotto pressione il suo rivale Cassandro, seguì questa strategia. Di conseguenza, non solo appoggiò il colpo di stato di Pirro contro il cugino, ma per rafforzare la sua posizione favorì le sue nozze con Lanassa, figlia di un altro personaggio tanto affascinante, quanto poco noto, Agatocle, re di Siracusa.





Questi, nel tentativo di raccogliere risorse per organizzare una nuova guerra contro Cartagine, aveva sottomesso le città della Magna Grecia e imposto il suo dominio su entrambe le coste dell’Adriatico: nel far questo, aveva conquistato le isole Ionie, sconfiggendo Cassandro.





Per cui, per il principio il nemico del mio nemico è mio amico, Agatocle si era avvicinato a Tolomeo e di conseguenza a Pirro. Il siracusano, poi, contava sull’amicizia con il re dell’Epiro, per assicurarsi anche buoni rapporti con degli Illiri, essenziale per garantirsi il monopolio dei commerci con l’Alto Adriatico.





Pirro fu abbastanza lesto ad adeguarsi alla politica tolemaica: nel 295 a.C., trasferì la capitale del regno nella città marittima di Ambracia. Inoltre, ottenne come dote dal suocero il possesso dell’isola di Corcira.





Nel frattempo, però, in Macedonia le cose erano cambiate: Cassandro, il persecutore di Pirro, era morto di edema nel 297 a.C. lasciando il trono al figlio Filippo, che morì d’infarto dopo appena quattro mesi. Dopo la sua morte, il regno macedone fu retto congiuntamente dai suoi fratelli Antipatro II e Alessandro V.





I due però, cominciarono a litigare sin da subito: nel 295 a.C. Antipatro organizzò il suo colpo di stato. Fece uccidere la madre, che parteggiava per il fratello e cacciò a pedate Alessandro, il quale, invece di rassegnarsi, chiese aiuto a Pirro e Demetrio Poliercete, promettendo loro un territorio costiero in Macedonia e le province di Ambracia, Acarnania, e Amfilochia. Il primo a muoversi fu Pirro, che sconfisse facilmente Antipatro, il quale si rifugiò presso Demetrio, chiedendogli a sua volta aiuto per riconquistare il trono.





Demetrio, però, invece, lo uccise e con le sue truppe, avanzò in Macedonia, con la scusa di rendere omaggio ad Alessandro, il quale tanto poco si fidava del suo alleato, che tentò di organizzare un piano per ucciderlo durante un banchetto. Demetro però lo scoprì e il giorno successivo partì, accompagnato da Alessandro fino in Tessaglia. Qui, a Larissa, cenò con Demetrio senza portare le guardie del corpo e venne assassinato insieme ai suoi amici, proclamandosi poi re di Macedonia.





Con l’appoggio di Tolomeo, che gradiva Demetrio ancora meno di Cassandro, Pirro tentò a sua volta di cacciarlo dal trono macedone: invadendo e occupando l’Acarnania e l’Amfilochia e, sia pure brevemente, la Tessaglia. L’anno seguente Demetrio rispose conquistando Corcira, approfittando dell’invito di Lanassa, moglie di Pirro, in rotta con il marito per la sua poligamia, ad occupare l’isola e a sposarla. Il tutto ovviamente con l’appoggio di Agatocle, che dato il disinteresse di Tolomeo, cercava nuovi alleati per organizzare una nuova spedizione contro i cartaginesi.





La guerra continuò con alterne vicende per un paio d’anni, e nel 289 a.C. Demetrio, a corto di risorse e soldati, concesse a Pirro le regioni conquistate in cambio della pace. Ma il re dell’Epiro non demordeva: l’anno successivo, strinse alleanza con Lisimaco e Tolomeo, proprio ai danni di Demetrio, il quale fu così preso tra due fuochi.





Demetrio, temendo che il suo esercito di macedoni disertasse in massa all’avvicinarsi da est di Lisimaco, antico compagno d’armi di Alessandro, preferì dirigersi a ovest verso l’accampamento di Pirro, ma i suoi timori si trasformarono ben presto in realtà, visto che la maggior parte dei suoi passò al nemico, e, come leggiamo nella Vita di Demetrio di Plutarco, il Poliorcete stesso dovette fuggire precipitosamente con un travestimento. Così Pirro divenne, in condominio con Lisimaco, re della Macedonia.





Demetrio, poi, dopo aver perso anche Atene (col contributo di Lisimaco, che, tramite Democare, finanziò con 130 talenti la ribellione della città) aveva tentato invano di contrattaccare il suo storico avversario dirigendosi con un nuovo esercito verso la Lidia, dove combatté con alterne vicende da Agatocle, il figlio di Lisimaco.





Gran parte del suo esercito fu distrutta da carestia e pestilenze, e Demetrio sollecitò aiuto e assistenza da parte di Seleuco. Ma prima che potesse raggiungere la Siria tra i due scoppiarono le ostilità; dopo aver inizialmente guadagnato posizioni a svantaggio del genero, Demetrio fu del tutto abbandonato dalle sue truppe sul campo e si arrese a Seleuco.





Suo figlio Antigono offrì tutti i suoi possedimenti e la sua stessa persona per riottenere la libertà del padre. Ma tutto fu inutile, e Demetrio morì dopo una prigionia di tre anni, nel 283 a.C. I suoi resti furono resi ad Antigono ed onorati con uno splendido funerale a Corinto.





Alla notizia della cattura di Demetrio, Lisimaco, convinto di non avere più nulla da temere e abbastanza consapevole della sua superiorità di risorse ruspetto al re dell’Epiro, cacciò a pedate Pirro, raggiungendo l’apice della sua potenza; su di lui, però, incombeva una tragedia familiare che lo avrebbe portato alla rovina.





La moglie Arsinoe gli rivelò infatti che il figlio Agatocle stava tramando con Seleuco per impadronirsi del trono e Lisimaco lo fece imprigionare e avvelenare (284 a.C.). Secondo Pausania, Arsinoe aveva spinto il marito a uccidere Agatocle per eliminare l’erede al trono e spianare così ai suoi figli la strada per la successione.





Lisandra, la moglie di Agatocle nonché sorellastra di Arsinoe, secondo la testimonianza di Pausania, fuggì alla corte di Seleuco, accompagnata da diversi sostenitori del principe, tra i quali Filetero, il tesoriere di Pergamo, che consegnò al re di Babilonia le ricchezze che gli erano state date in custodia da Lisimaco.





Vista che senza denaro, Lisimaco non poteva pagare le sue truppe, Seleuco ne approfittò per chiudere i conti con il suo antico rivale, conquistando Sardi, costringendo il governatore Teodoto a consegnargli il tesoro, come ci testimonia Polieno. Poco tempo dopo (febbraio 281 a.C.), sappiamo da Eusebioche nella piana di Corupedio, situata secondo Strabone nei pressi di Sardi, vi fu la battaglia decisiva tra i due diadochi. Purtroppo, nessuna delle fonti che ci sono rimaste riporta gli schieramenti e la descrizione dello svolgimento dello scontro, ma in ogni caso Seleuco ebbe la meglio su Lisimaco che, nonostante l’età avanzata (74 o 80 anni a seconda delle fonti) morì con le armi in pugno, ucciso da un certo Malacone di Eraclea Pontica, come ci testimonia Memnone.





Dopo la battaglia, Alessandro, il figlio di Lisimaco avuto secondo Pausania dalla principessa odrisia Macris, ottenne da Seleuco il corpo del re di Macedonia e Tracia e gli rese gli onori funebri nei pressi di Lisimachia. Duride di Samo, in uno dei pochi frammenti della sua opera storica che ci sono pervenuti, ci racconta che il fedele cane di Lisimaco, che si chiamava Ircano, dopo aver vegliato il cadavere del padrone e averlo protetto dagli avvoltoi, durante il rito funebre si gettò sulla pira del re trovando la morte.

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Published on July 13, 2020 12:45

July 12, 2020

Antropocene

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Uno dei libri più interessanti che ho letto in questi giorno è Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene di Simon Lewis e Mark Maslin, dell’University College di Londra, che, come è esplicato dal titolo, parla di come l’attività e la civiltà umana abbiamo modificato non solo l’ambiente, ma l’intero sistema geologico del pianeta Terra.





Per citare gli autori





La nostra influenza è ancora più profonda di quanto molti di noi realizzino. A livello globale, le attività umane spostano ogni anno più terreno, rocce e sedimenti rispetto a quanto trasportato da tutti gli altri processi naturali messi insieme.





La quantità totale di calcestruzzo prodotto dagli esseri umani è sufficiente a coprire l’intera superficie terrestre con uno strato di due millimetri di spessore. Le microplastiche si trovano in ogni oceano. Abbiamo abbattuto metà degli alberi della Terra, perdendo tre trilioni, con l’estinzione che è diventata la normalità.





Le fabbriche e l’agricoltura rimuovono tanto l’azoto dall’atmosfera quanto tutti i processi naturali della Terra, e il clima sta cambiando rapidamente a causa delle emissioni di biossido di carbonio derivanti dall’utilizzo di combustibili fossili.





Idea non certo nuova, paradossalmente risale a metà Ottocento, il primo primo studioso a proporre una definizione specifica per l’era geologica in cui la Terra è massicciamente segnata dalla attività umana fu Antonio Stoppani, lo zio della Montessori, un personaggio affascinante, un prete liberale, che si impegno a fondo per l’Unità d’Italia, grande geologo e autore di uno best seller dell’età umbertina, Il Bel Paese, in cui l’autore, con l’artificio di conversazioni didattico-scientifiche attorno a un caminetto, presenta nozioni di scienze naturali sul territorio italiano, con termini accessibili al lettore medio dell’epoca e con un occhio particolare verso la geologia e le bellezze naturalistiche delle diverse regioni.





Tra l’altro, nel 1906 il titolo del libro fu usato per il lancio pubblicitario dell’omonimo formaggio, che all’epoca, usò Stoppani come una sorta di testimonial pubblicitario, tanto da riportare il suo ritratto sulla confezione





Il 18 dicembre 1881, durante la seduta reale dell’Accademia dei Lincei alla presenza del re Umberto I e della regina Margherita, Stoppani lesse una nota Sull’attuale regresso dei ghiacciai nelle Alpi, all’epoca, a causa della conclusione della Piccola Era Glaciale, assai più accentuato che oggi. Il re, al termine della relazione, si mostrò preoccupato per il destino delle Alpi





– Sa, professore, che la sua relazione sul regresso dei ghiacciai mi ha fatto una grande impressione?
– Lo credo, Maestà; si tratta di un grande fenomeno che minaccia di disseccare le Alpi.
– Appunto, professore: sono rimasto impressionato anche dalla perfetta veridicità con cui ha parlato del fenomeno, perché deve sapere che, facendo alcune escursioni nell’alto Piemonte, ho veduto che i ghiacciai retrocedono continuamente, e che le cose stanno p
recisamente come dice lei. Ma che succederà in fine? Mancando i ghiacciai, mancherà l’acqua, si disseccheranno i torrenti ed i fiumi? E la vegetazione? E gli animali?
– Maestà, non si preoccupi troppo del fenomeno di quei ghiacciai che si ritirano dopo così grande invasione: lasci fare alla divina Provvidenza, a cui non mancano mai i mezzi di compensazione. (Nota mia: per quanto fosse liberale, sempre prete era !)
– Benissimo, professore! – esclamarono insieme gli augusti Sovrani.





Tornando al libro di Simon Lewis e Mark Maslin, è sicuramente pieno di spunti di riflessioni sul Passato e sul Futuro, su come potrà ad esempio configurarsi la società a seguito della rivoluzione digitale, ma non posso fare a meno di evidenziare un piccolo baco in un dei loro ragionamenti.





Parlando degli effetti della scoperta dell’America, hanno evidenziato come il tracollo demografico delle popolazioni indigene, provocando l’abbandono delle terre coltivate e l’espansione delle foreste, abbia causato una diminuzione dell’anidride carbonica, la cui percentuale raggiunge il minimo nel 1610, che, a sua volta, ha provocato la Piccola Era Glaciale.





Idea assai bislacca, per tre motivi, ben noti a chi bazzica la Storia.





Il primo è che il tracollo demografico americano fu ampiamente compensato dal boom europeo, cinese e indiano. A titolo d’esempiom nelle sole isole britanniche, per esempio, tra il 1541 ed il 1656 il numero degli abitanti raddoppiò, con un tasso d’incremento annuo dello 0,6%. Boom demografico che, a sua volta, portò invece a una forte deforestazione: di conseguenza, in teoria dovremmo avere avuto una sorta di gioco a somma zero.





Il secondo è legato alla durata effettiva della Piccola Era Glaciale: i primi effetti si cominciano a percepire a inizio 1300, ben prima anche della Morte Nera, per cui, si può ipotizzare come le sue cause possano essere indipendenti da quanto successo in America. Inoltre, i suoi ultimi stascichi posso essere identificati a fine Ottocento: ad esempio il gennaio 1893, è stato uno dei mesi più freddi del secolo non solo in Europa, ma in tutto l’emisfero Nord, sono centinaia infatti i record assoluti battuti in questo mese in diverse aree del pianeta; è il mese in cui Berlino conserva il suo record di freddo assoluto annuale, di -31,9 °C. Il gelo fu forte anche in Italia.





L’ultimo evento significativo riguarda il febbraio 1895 che, oltre ad esser stato come al solito gelido su Europa Centrale e Orientale (fra i febbraio più freddi del XIX secolo), vanta di nuovo nevicate eccezionali a Palermo, dove fece 20 cm di neve, Roma e Napoli.





Il terzo è dovuto al fatto di come la Piccola Era Glaciale non sia, nell’ambito della storia umana, un evento unico: di periodi analoghi di raffreddamento ce ne sono almeno altri tre: il primo risale all’inizio dell’Età del Bronzo, il secondo alla sua fine, il terzo incomincia nella Tarda Antichità e si estende sino ai tempi di Carlo Magno.





A tutti questi precedenti, oltre a non essere associati altri minimi di anidride carbonica, anche perché nessuno li ha mai cercati, non sono correlati eventi di tracolli demografici. Per cui, esiste un ciclo naturale, le cui cause sono ben poco chiare, di alternanza di periodi di caldo e di freddo, a cui è assai probabile che si associ un contributo legato all’attività antropica.





Se il controverso minimo dell’anidride carbonica, riducendo l’effetto serra, può avere ampliato gli effetti della Piccola Era Glaciale, l’attuale picco fa lo stesso con l’interglaciale che stiamo vivendo e probabilmente mitigherà gli effetti della futura Piccola Era Glaciale, che pur non sapendo quando, prima o poi rifarà capolino…

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Published on July 12, 2020 13:14

July 3, 2020

Verga e il 5G

[image error]Evoluzione del Mobile



La questione 5G è senza dubbio paradossale: rispetto alle precedenti tecnologie cellulari, prevede uno sproposito di vantaggi.





I più importanti, tra questi sono: una velocità di trasmissione dati fino a 100 volte superiore a quella del 4G; celle 5G con consumo energetico limitato; aumentata capacità di trasmissione dati; un tempo di intervallo tra l’invio del segnale e la sua ricezione da 30 a 50 volte inferiore al 4G, tale da permetterci di comandare a distanza e in tempo reale dispositivi e apparecchi, nonché di monitorare lo stato delle infrastrutture.





Una componente fondamentale, consentita dal 5G, riguarderà la possibilità di collegare fino a un milione di oggetti per chilometro quadrato, 100 volte di più rispetto al 4G, senza impattare sulla velocità di connessione e consentendo lo sviluppo dell’Internet of Things, in cui sensori e dispositivi wireless comunicano direttamente tra loro.





Vantaggi che renderebbero molto più efficace la trasformazione digitale a cui siamo stati costretti durante la pandemia, renderebbe le nostre città più vivibili, cambierebbe molte delle abitudini che davamo per scontate prima del 5 marzo…





Eppure questa grande opportunità, nonostante le dichiarazione delle autorità sanitarie, è stata sabotata una vera e propria campagna di fake news che ha dipinto il nuovo standard come nocivo per la salute, veicolo di diffusione del virus SARS-COV-2 e, negli scenari più distopici, come mezzo per controllare la popolazione.





Dinanzi a tale globale attacco di tafazzite, mi viene sempre da chiedermi





Cui prodest





Poi, mi torna in mente un vecchio brano dei Malavoglia di Verga, libro, detto fra noi, che poco ho sopportato





“Padron Cipolla lo sapeva lui perché non pioveva più come prima. – Non piove più perché hanno messo quel maledetto filo del telegrafo, che si tira tutta la pioggia, e se la porta via.
Compare Mangiacarrubbe allora, e Tino Piedipapera, rimasero a bocca aperta, perché g
iusto sulla strada di Trezza c’erano i pali del telegrafo; ma siccome don Silvestro cominciava a ridere, e a fare ah! ah! ah! come una gallina, padron Cipolla si alzò dal muricciuolo, infuriato, e se la prese con gli ignoranti, che avevano le orecchie lunghe come gli asini. – Che non lo sapevano che il telegrafo portava le notizie da un luogo all’altro; questo succedeva perché dentro il filo ci era un certo succo come nel tralcio della vite, e allo stesso modo si tirava la pioggia dalle nuvole, e se la portava lontano, dove ce n’era più di bisogno; potevano andare a domandarlo allo speziale che l’aveva detta; e per questo ci avevano messa la legge che chi rompe il filo del telegrafo va in prigione.
Allora anche don Silvestro non seppe più che dire, e si mise la lingua in tasca. – Santi del Paradiso! Si avrebbero a tagliarli tutti quei pali del telegrafo, e buttarli nel fuoco! incominciò compare Zuppiddu, ma nessuno gli dava retta, e guardavano nell’orto, per mutar discorso.”





E ahimè mi rendo conto come in Italia vi una lunga tradizione basata sulla paura della tecnologia, la superstizione e il dare retta ai demagogi: purtroppo, a nessuno interessa implementare l’unico rimedio a tale deriva, combattere l’ignoranza con una migliore e più accurata formazione scientifica dei cittadini, a partire dalla scuola

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Published on July 03, 2020 09:16

July 2, 2020

La Basilica Palatina di Mediolanum

[image error]San Lorenzo



Uno dei luoghi che amo di più di Milano è senza dubbio la Basilica di San Lorenzo, che per anni, è stata una sorta di mistero dell’archeologia milanese. Quando io vivevo ai Navigli, gli studiosi tendevano a ricollegare la sua costruzione con l’ambiente ariano della corte imperiale, identificando San Lorenzo con una chiesa di palazzo commissionata dal vescovo Aussenzio (355-374 d.C) o con la basilica Porziana, oggetto della contesa tra Ambrogio e l’imperatrice Giustina.





Ciò fissava una serie di limiti cronologici sulla sua costruzione: doveva per forza avvenire prima dell’ascesa di Ambrogio. Il mistero era reso peggiore anche dal silenzio delle fonti scritte: a prima testimonianza della dedicazione a San Lorenzo risale infatti a Gregorio di Tours, più di un secolo e mezzo dopo. Nel Catalogo dei Vescovi milanesi, la basilica viene invece indicata come luogo di sepoltura del vescovo Eusebio di Milano tra il 451 e il 462.





Le fonti medievali, poi, come dire, diedero parecchio fondo alla loro fantasia: secondo quanto riportato dal Torre all’inizio del XVIII secolo, la basilica di San Lorenzo risalirebbe ad un periodo compreso tra la fine del III e l’inizio del IV secolo, quando l’imperatore Massimiano avrebbe ordinato la costruzione di un tempio dedicato ad Ercole: andato bruciato il tempio “per giusto destino” in quanto “era stanza di demoni, cioè idoli diabolici”, sui suoi resti sarebbe stata costruita la primitiva chiesa dedicata a San Lorenzo. Il Latuada qualche decennio più tardi riporta quanto scritto dal Torre, mentre aggiunge che il tempio doveva avere una forma simile al pantheon romano citando lo scrittore latino Ausonio.





Altre descrizioni circa l’origine della chiesa parlano di un edificio termale di forma ottagonale costruito da Nerone, accostamento ricavato dall’assonanza col torrente Nirone che anticamente scorreva in prossimità della chiesa, sebbene non vi fosse mai stata alcuna prova concreta di questa congettura; mentre secondo un tradizione riportata da Bonvesin de la Riva e Galvano Fiamma il complesso nacque come mausoleo di Galla Placidia.





Tuttavia, recenti analisi archeometriche hanno permesso di delineare al meglio la cronologia della struttura. La prima fase costruttiva, composta dal tetraconco di San Lorenzo con le quattro torri e dalla cappella di San Ippolito è stata datata tra il 390 e il 410, stima confermata dal ritrovamento nelle di blocchi di pietra del vicino anfiteatro, la cui demolizione sappiamo essere cominciata nel 401.





La seconda fase, che coincide con la costruzione della cappella di Sant’Aquilino, risale tra il 410 e il 430. Un altro documento originale risalente agli anni a cavallo tra il 490 e il 512, parrebbe testimoniare un intervento di ristrutturazione della cappella di Sant’Ippolito da parte del vescovo Lorenzo, allo scopo di trasformarla nel suo mausoleo sepolcrale.





Fonti tarde attribuivano allo stesso vescovo Lorenzo la costruzione anche della Cappella di San Sisto: tuttavia la datazione dei mattoni con la termolumiscenza ha spostato la data della sua costruzione in piena epoca bizantina, intorno al 560.





Per cui, partendo da questi dati, possiamo formulare una serie di ipotesi sulla sua storia: di certo, sono da scartare, per ovvi motivi cronologici, sia la sua origine ariana, sia la costruzione da parte di Ambrogio. Anche perché, il buon vescovo dal pessimo carattere, sia per i suoi gusti alquanto conservatori, sia per ribadire la continuità tra la chiesa milanese e la Roma costantiniana, tendeva, nelle sue costruzioni ecclesiastiche a imitare la pianta delle grandi basiliche dell’Urbe. Mettiamola così, la pianta di San Lorenzo era troppo innovativa per le sue idee.





Basandosi sulle date, appare invece come San Lorenzo sia stata eretta nel periodo in cui Stilicone fungeva da reggente per Onorio. Ma a che scopo? L’ipotesi che fosse una chiesa palatina, è da scartare: da una parte, è troppo distante dal Palatium Imperiale, dall’altra, il suo ruolo era probabilmente coperto dalla chiesa su cui poi sorgerà San Giorgio in Palazzo.





La forma, poi potrebbe a prima vista ricordare un martyrion, ma, trascurando la carenza di martiri della chiesa milanese, questo ruolo era coperto dalla basilica di Sant’Ambrogio Rimane un’unica ipotesi. Collocato lungo l’importantissima via per Ticinum in modo da essere ben visibile a chi giungesse alla capitale, sopraelevato su di un colle artificiale, il tetraconco turrito forse già inizialmente dotato del quadriportico, possedeva numerosi caratteri architettonici ed urbanistici del mausoleo.





Stilicone avrebbe quindi concepito San Lorenzo come una mausoleo per la famiglia imperiale, con una tomba satellite, il nostro Sant’Ippolito, destinato alla sua sepoltura. Con la caduta di Stilicone, con il trasferimento della capitale a Ravenna e la costruzione del Mausoleo Imperiale nella Basilica Vaticana, la costruzione rimase incompiuta; ai tempi dei vescovi Marolo oppure di Martiniano, il mausoleo fu riconvertito in chiesa e completato con la costruzione di una cappella a supporto della celebrazioni ecclesiastiche. Chiesa che, progresssivamente divenne il luogo di sepoltura prediletto dei vescovi milanesi. Eusebio (451-452 d.C.), Teodoro I (475-490 d.C.) e Lorenzo I (489-510/12 d.C.) furono seppelliti in Sant’Ippolito; Eustorgio II o in San Sisto o in San Lorenzo a seconda delle tradizioni; Tommaso (755-783 d.C.) nell’atrio della cappella di Sant’Aquilino.





Una ristrutturazione profonda, legata alle mutate esigenze ecclesiastiche, avvenne nel periodo bizantino. E’ assai probabile che siano stati costruiti i prothesis e diaconicon, da cui si accedeva dai quattro portali collocati nell’esedra e nelle torri orientali. Gli interventi bizantini, che le datazioni per termoluminescenza sembrerebbero provare, potrebbero avere implicato anche la costruzione dei pastophoria che, stando alla letteratura, a partire dalla produzione architettonica di inizio VI secolo e per tutta l’età giustinianea vengono ad essere situati a lato dell’abside principale, sia in edifici a pianta basilicale che tetraconca, mentre la cappella di Sant’Ippolito dovette fungere sin dalla sua dedicazione quale secretarium della chiesa.





All’età bizantina sono stati ascritti altri lavori architettonici,quali il restauro della cappella di Sant’Aquilino, ove sono stati ritrovati altri laterizi che hanno fornito la medesima datazione dei precedenti, ma anche agli apparati decorativi, come le rilavorazioni bizantine al cosiddetto sarcofago di Galla Placidia. Le fonti liturgiche testimoniano l’importanza di san Lorenzo per l’età longobarda, attestato dalle Litanie Triduane, quindi alla metà del IX e dell’XI secolo. Soltanto nell’XI la cappella di Sant’Aquilino, allora dedicata a San Genesio, sarebbe entrata a far parte dell’itinerario liturgico, attestando il passaggio molto tardo dell’ottagono da mausoleo a cappella devozionale.





Il periodo tra l’XI e il XII secolo risultò molto travagliato per l’edificio: pesantemente rovinato da due incendi nel 1071 e nel 1075, la sua cupola crollò nel 1103, per poi essere di nuovo distrutta assieme a parte dell’edificio in un altro incendio nel 1124. La chiesa fu quindi ricostruita in forme romaniche pur conservando inalterato l’impianto interno originale.





Ma, ai tempi paleocristiani, come appariva l’edificio? Dalle ricerche archeologiche, all’epoca San Lorenzo sembrerebbe essere stato costituituo da un corpo centrale quadrato su cui si aprivano quattro esedre affiaancate da quattro torri laterali e tre cappelle di forma ottagonale (Sant’Aquilino, Sant’Ippolito e San Sisto). Preceduta da un atrio oggi perduto e da un imponente colonnato corinzio di reimpiego, la basilica è forse la più antica testimonianza conosciuta di chiesa tetraconca (con quattro pareti ricurve). L’ampio corpo centrale, probabilmente in origine coperto da una pesante volta a padiglione poggiante su quattro pilastri interni, aveva un diametro di ben 47,90 metri; su di esso poggiavano le esedre a semicupola, con colonnato a due piani.





Le quattro torri angolari (quella di nord-est è la sola conservata nelle forme paleocristiane)
permettevano l’accesso alle gallerie superiori e le ampie finestre del deambulatorio rendevano estremamente luminoso l’intero monumento. Quanto ai materiali di costruzione, l’edificio paleocristiano presentava pilastri di conci di pietra e un paramento murario esterno accurato, con letti di malta bianca di raffinata esecuzione.





Superbo doveva essere anche l’apparato decorativo se in età altomedievale San Lorenzo era ritenuta “praticamente la chiesa più bella d’Italia”, come affermato dal vescovo Verano di Cavaillon (VI secolo d.C.) e un esempio dello splendore della città di Milano (Versum de Mediolano Civitate, prima metà dell’VIII secolo d.C.). Ancora nel IX secolo, poi, il vescovo di Alba Benzo ricordava che “non esiste una chiesa più bella di Italia” e, incitandone il restauro, specicava che era “fatta di porfido e oro”. Dunque, che spettacolo doveva avere negli occhi chi varcava l’ingresso della basilica? Grazie agli studi più recenti possiamo affermare che le pareti e i pilastri dovevano essere ricoperti di marmi di svariate qualità, di cui rimangono purtroppo solo schegge e qualche elemento geometrico.





Mosaici preziosi ornavano poi la cupola del corpo centrale e delle cappelle di Sant’Aquilino, Sant’Ippolito e San Sisto, come testimoniano le numerosissime tessere vitree trovate negli strati di crollo. Tutti gli ornati erano giocati sui colori del blu, verde, azzurro e oro. Quanto ai pavimenti, l’impianto centrale presentava grandi lastre marmoree, mentre gli ambienti di servizio erano mosaicati a tessere bianche nere. La cappella di San Sisto conserva ancora oggi, subito dopo l’ingresso, un piccolo frammento di pavimento in opus sectile (lastrine marmoree).





[image error]Mosaico di Sant’Aquilino



Cosa rimane di questa ricchezza ? Per prima cosa, la cappella di Sant’Aquilino, originariamente intitolata a San Genesio, un Diocleziano e Massimiano. Secondo la tradizione, il culto del Santo sarebbe stato introdotto successivamente dall’imperatrice Galla Placidia. L’edificio si compone di un atrio a forcipe e di un corpo ottagonale all’esterno, articolato internamente in nicchie semicircolari e rettangolari alternate e ricavate nello spessore dei muri. Questi vani e la galleria superiore rimandano alla tipologia architettonica già vista nei noti edifici milanesi del mausoleo imperiale, presso l’attuale chiesa di San Vittore al Corpo, e del battistero di San Giovanni alle Fonti.





Come per il tetraconco, anche questo sacello doveva essere particolarmente prezioso, se ancora nel XVI secolo Galvano Fiamma nelle sue opere ricorda la decorazione in porfido, in marmi preziosi e mosaici, con “splendide figure”. I ritrovamenti archeologici, in effetti, confermano le fonti: le pareti dell’ottagono erano rivestite da uno zoccolo con specchiature, sormontato da partiture architettoniche, per le quali erano reimpiegati marmi provenienti da edifici antichi insieme a marmi colorati di nuova lavorazione, importati dall’Africa e dall’Oriente.





Oltre a motivi geometrici, la decorazione era impreziosita da lastre incise e decorate a bassorilievo, con fregi a girali vegetali, vasi e soggetti naturalistici. Al di là degli ornati in marmo, ciò che ancora lascia senza fiato è la decorazione a mosaico che doveva caratterizzare l’intera cappella e che costituisce una delle poche testimonianze superstiti di questa raffinata arte, molto apprezzata nella Milano tardoantica.





Entrato nell’atrio, infatti, il fedele poteva ammirare, volgendo lo sguardo verso le parti alte delle quattro pareti, la Gerusalemme Celeste, rappresentata con piccole tessere di mosaico. Le modeste porzioni che si sono conservate durante i restauri del 1937 consentono di ricostruire due registri con figure stanti a grandezza naturale, ciascuna inquadrata da pilastri dorati tempestati di gemme. Nel registro superiore, sopra l’ingresso, sei iscrizioni costituiscono le didascalie ai ritratti degli Apostoli (Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Giacomo e Giuda), di cui restano purtroppo solo i piedi e i lembi inferiori delle vesti sul fondo aureo.





Gli altri sei Apostoli dovevano essere raffigurati sulla parete opposta, probabilmente accanto ad un’immagine di Cristo Trionfante. Il registro inferiore presentava i Patriarchi delle tribù di Israele, ricordati da iscrizioni in tessere auree su fondo blu, di cui si conservano tre esemplari sulla parete di ingresso. Sopra le nicchie dell’atrio, infine, erano raffigurate Santi e Sante martiri, come si evince dalla scritta Pelagia leggibile sopra un ritratto di Giuda. Iconografia e stile hanno portato a ritenere gli ornati dell’atrio contemporanei alla costruzione dell’edificio. Ovviamente raffinati mosaici dovevano decorare anche l’ottagono vero e proprio dedicato ad Aquilino: purtroppo oggi la decorazione della cupola è nota solamente da un disegno seicentesco di un viaggiatore inglese, identificato come Rudolph Symonds.





Grazie a questo documento è possibile immaginare una teoria di figure stanti intorno ad una fascia con clipei (ritratti iscritti in cerchio) e a un medaglione centrale con un volto forse di santo. Anche le nicchie e la porzione superiore delle pareti erano occupate da un ciclo musivo di cui sopravvivono però solo due scene nei catini di due delle nicchie semicircolari.





La lunetta orientale conserva quattro frammenti della decorazione: la scena, di ambientazione pastorale, è stata letta come l’ascensione di Elia o come la rappresentazione di Cristo-Sole vincitore sulla morte. In un paesaggio montuoso con cascata d’acqua e ori, infatti, due pastori osservano in cielo una quadriga trainata da cavalli bianchi: alle redini il protagonista della scena di cui resta purtroppo solo il lembo del mantello. In corrispondenza delle lacune del mosaico è ancora oggi visibile il disegno preparatorio dell’opera, che però sembra non corrispondere perfettamente alla scena raffigurata, ma presentare un leggero sfasamento, come è evidente nelle immagini dei cavalli.





Sul lato opposto, nella nicchia occidentale, è un Cristo giovane senza barba attorniato dagli Apostoli in un prato fra due specchi di acqua (elementi distintivi del paradiso, così come il cielo reso con un fondo aureo). La scena viene interpretata come proiezione del regno di Dio alla fine dei tempi con la corte dei Dodici. La rappresentazione del Cristo giovane e la presenza delle lettere apocalittiche Alfa e Omega nel nimbo (aureola) sarebbero un’allusione all’eternità della salvezza promessa da Cristo.





Come l’interpretazione, così anche la cronologia di questi manufatti è ancora discussa: i mosaici della cappella, eseguiti non prima del V secolo d.C., per iconografia e stile potrebbero precedere quelli dell’atrio. La preziosa arte musiva era completata nella galleria superiore dell’ottagono da pitture, ancora ben conservate nel loro sviluppo, nei soggetti raffigurati e nella cromia originale. Le pareti dei quattro passaggi voltati riproponevano motivi geometrici che ricordavano, nelle cromie e nella disposizione, i sectilia parietali del piano inferiore.





Le piccole volte erano invece decorate da un sorta di imitazione di sotto cassettonato con ottagoni che racchiudevano diversi esemplari di volatili (il gallo, la fenice…), con chiaro valore simbolico allusivo di Cristo. Quanto alla vocazione della cappella, la stretta somiglianza con San Vittore al Corpo e la memoria degli undici “sepolcri antichi” messi in luce da Federico Borromeo durante le sue ispezioni nel 1608 hanno portato gli studiosi sin da subito a interpretare anche il sacello di Sant’Aquilino come un mausoleo. A questi dati si aggiunge la presenza di un monumentale sarcofago in marmo proconnesio, detto di Galla Placidia.





In effetti proprio per le sue dimensioni imponenti (2,04 x 2,39 metri) una tradizione cinquecentesca ne fece la tomba della principessa bizantina e del suo sposo Ataulfo, re dei Visigoti, morto nel 415 d.C. In realtà il manufatto risale al III secolo d.C. e fu rilavorato nel VI per ospitare un nuovo destinatario cristiano. Come in altri esemplari antichi, l’anonimo architetto operante in Sant’Aquilino studiò accuratamente il percorso del sole rispetto all’edifocio, così da collocare le finestre in posizione particolare. Il giorno di Natale i raggi del sole entrano da est, in corrispondenza del mosaico con quadriga, e poi si dirigono verso il pavimento, indicando, secondo la tradizione, il luogo di sepoltura privilegiato dell’imperatore.





Merita infine una visita l’area archeologica ricavata al di sotto del sacello e accessibile dalla scala posta sul retro dell’altare. Qui è visibile, infatti, parte delle sofisticate fondazioni della cappella, musealizzate secondo l’allestimento curato dall’architetto Annoni nel 1913, dopo gli scavi da lui diretti. La faglia affiorante e la natura del terreno sui cui era destinata la costruzione della basilica, indussero le maestranze antiche a realizzare una piattaforma unitaria ottenuta secondo una tecnica ben sperimentata a Mediolanum. Un’ampia palificazione lignea fu cementata nel calcestruzzo; su questa vennero messi in opera più strati di blocchi squadrati in ceppo e serizzo, alternati nella parte superiore a elementi architettonici di reimpiego, immorsati e spianati con malta e laterizi, per
un’altezza complessiva di 5 metri.





Lo studio analitico e il rilievo dei blocchi ha accertato la loro identificazione con elementi architettonici appartenuti originariamente all’anello esterno del vicino anfiteatro romano, in buona parte spogliato e usato come cava di materiale da costruzione nel momento della pianificazione della basilica.





Prezioso era anche il passaggio dall’atrio all’ottagono di Sant’Aquilino, caratterizzato da
un’incorniciatura in marmo lunense in nove pezzi. Questo portale risulta reimpiegato da un ignoto edificio romano. Gli stipiti presentano un complesso impianto ornamentale a tre fasce: l’interna e la mediana recano una decorazione a candelabri vegetali, mentre la più esterna un fregio continuo a girali di acanto, arricchiti da figurine isolate (putti,divinità, animali, vasi e cornucopie). Sono presenti anche vivaci quadretti con temi circensi e dionisiaci. L’architrave, infine, mostra una fascia inferiore con motivi vegetali a festone, una mediana con aquile in posizione araldica e ghirlande nel becco ed
una superiore ornata da un complesso fregio figurato.





Otto personaggi alla guida di carri o a cavallo sono alternati a conchiglie contenenti figure di delfini e uccelli. Quasi tutti i personaggi sono stati riconosciuti come divinità celesti, personificazioni di pianeti: la corsa delle divinità sui carri rappresenterebbe in modo simbolico il movimento degli astri nelle orbite celesti. Partendo da sinistra alla guida dei carri sarebbero dunque visibili: Sole, Giove, Marte, Vittoria o la dea Nemesi, Venere e Luna. Mercurio e Lucifero sarebbero invece i cavalieri posti alle estremità. La decorazione è riconducibile alla metà del I secolo d.C., quale rielaborazione dei raffinati modelli dell’arte ufficiale augustea. Il valore simbolico delle rappresentazioni era certamente legato alle funzioni del monumento di provenienza del portale, tuttora ignota: un sontuoso monumento funerario o più probabilmente un tempio o un altro importante edificio pubblico.





Nonostante il pessimo carattere e il fatto che sia stato il primo antipapa della Storia non ha impedito a Ippolito, di essere canonizzato da papa Damaso e di essere associato a San Lorenzo: associazione che si replica anche a Milano, dato che nella basilica è presente un’altra cappella ottagonale, più piccola di quella di Sant’Aquilino, posta ad est in asse con l’ingresso alla basilica. All’interno la forma ottagona del perimetro non è percepibile, visto che lo spazio è organizzato con pianta a croce greca. In corrispondenza dell’intersezione dei bracci si trovano quattro colonne in marmo africano che sorreggono altrettanti capitelli corinzi di reimpiego in perfetto stato di conservazione.





Questi elementi architettonici sono databili all’età adrianeo/antonina e appartenevano verosimilmente e un prestigioso edificio pubblico di Mediolanum Mosaici colorati dovevano impreziosire anche questa cappella: purtroppo ad oggi non ne resta alcuna traccia. Al di sotto dell’ottagono, risparmiate in un’area molto ampia, è tuttavia ancora possibile ammirare parte delle fondazioni dell’edificio costruite su più strati. Anche qui, come per Sant’Aquilino, ben riconoscibili sono i blocchi squadrati prelevati dall’anfiteatro: capitelli di semicolonna, conci di archivolti, cornici ed elementi con l’incasso per le antenne del velario.





Si è calcolato, in effetti, che nelle fondazioni della basilica di San Lorenzo e delle sue cappelle si riutilizzò almeno la metà dei conci in opera dell’anello esterno dell’edificio per spettacoli. Dall’osservazione di questi manufatti, infine, si può ragionevolmente ipotizzare la presenza sul cantiere della basilica di maestranze che, alle soglie dell’altomedioevo, in un clima di progressiva rarefazione delle competenze tecnologiche, padroneggiavano saperi tecnici di livello elevato, maturati nel solco della tradizione romana, e che erano in grado di utilizzare complesse macchine per il sollevamento e lo spostamento di blocchi così massicci.





[image error]Colonne di San Lorenzo



Infine contemporaneamente alla costruzione di San Lorenzo fu eretto come quinta scenografica il maestoso colonnato in marmo di Musso dell’atrio prospettante sulla strada per Ticinum: esso costituisce a tutt’oggi il monumento romano meglio conservato e più famoso di Milano. Gli elementi marmorei che lo compongono (basi, colonne, capitelli corinzi e architravi) appartengono ad un unico edificio monumentale, databile alla seconda metà del II secolo d.C. (età antonina). Inoltre le considerevoli dimensioni dei capitelli suggeriscono l’ipotesi dell’appartenenza originaria ad un edificio di ingenti proporzioni (alto circa 11 metri) e di un certo prestigio, un tempio ad esempio.





Il numero di capitelli conservati orienta nell’immaginare questo luogo di culto pagano come un tempio circondato su 4 o 3 lati da colonne. Ignota rimane l’ubicazione di questo edificio all’interno di Mediolanum, ma di recente si è formulata un’ipotesi in merito alla possibile dedica riconducibile alla familia imperiale. L’aspetto attuale del colonnato è il risultato di numerosi interventi di rimaneggiamento dall’età medievale fino ai giorni nostri. Quando il colonnato fu messo in opera le basi attiche delle colonne poggiavano su blocchi squadrati rivestiti da lastre di marmo (plinti) successivamente uniti in un unico podio continuo; i capitelli corinzi reggevano quindi un architrave, di cui oggi rimangono solo nove blocchi.





Nel 1605 fu rinvenuta un’iscrizione reimpiegata nel basamento e oggi murata sul anco settentrionale del monumento: si tratta di un’epigrafe onoraria dedicata dai decurioni milanesi all’imperatore Lucio Vero, fratello di Marco Aurelio che lo associò al potere dal 161 d.C. fino alla sua morte avvenuta nel 169 d.C.





Sempre all’inizio del Seicento vennero costruite le canoniche su entrambi i lati del quadriportico ed è documentata l’esistenza di strutture private tra le colonne e la basilica. Tali edifici costituivano un quartiere di artigiani che, cresciuto a partire dal Medioevo, venne demolito solo all’inizio del XX secolo (1936-1940). Furono proprio la distruzione di queste fabbriche e gli interventi sulle canoniche a portare all’isolamento delle colonne rispetto alla basilica così come ci appaiono oggi.

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Published on July 02, 2020 12:35

July 1, 2020

San Tommaso in Formis

[image error]Facciata chiesa



San Tommaso in Formis, situato a margine della Villa Celimontana, fu fondata intorno all’anno 1000, come chiesa abbaziale di un monastero benedettino. Il suo ingresso è presente in via di San Paolo della Croce 10, accanto all’Arco di Dolabella e Silano, che sostiene le grandi arcate dell’Acquedotto Neroniano: infatti il termine “in formis” significa proprio “presso l’acquedotto”.





La prima traccia documentaria della chiesa, però, risale al 1207, quando l’intero complesso fu donato da papa Innocenzo III al santo catalano Giovanni de Matha, fondatore dell’Ordine dei Trinitari, dedicato all’opera di liberazione dalla schiavitù, in particolare il riscatto dei cristiani caduti prigionieri dei mori.





Nel 1209 Giovanni adattò parte del monastero ad ospedale per assistere poveri, infermi, pellegrini e schiavi riscattati, secondo gli scopi propri dell’Ordine; ospedale che nelle cronache dell’epoca è noto come “Tommaso iuxta formam claudiam”, ossia “presso l’acquedotto Claudio”. Proprio quell’anno, San Francesco di Assisi si recò a Roma per ottenere l’autorizzazione della regola di vita, per sé e per i suoi frati, da parte di papa Innocenzo III. Giovanni de Matha, vedendolo mendicare fuori del Laterano in attesa che il Papa lo ricevesse, lo accolse nella sua chiesa di san Tommaso dove lo rifocillò. I due Santi divennero così amici. Successivamente Francesco dimorò più volte nel monastero annesso alla chiesa ospite dei Trinitari.





Le spoglie di Giovanni furono tumulate nella chiesa alla sua morte, il 17 dicembre 1213, per poi essere trasportate solennemente in Spagna nel XVII secolo. Nel 1217 papa Onorio III con la bolla Ordine Sanctissimae Trinitatis dotò la chiesa di San Tommaso e San Michele Arcangelo de Formis di vari beni a Roma e nei dintorni e e Urbano IV nel 1261 nominò protettore dell’Ordine il cardinale Riccardo Annibaldi della Molara.





Nel 1379 i Trinitari dovettero abbandonare Roma ed il complesso di San Tommaso, cacciati da papa Urbano VI per la loro adesione all’antipapa Clemente VII; in quell’occasione, il papa nominò amministratore dell’ospedale e dei suoi beni il cardinale Poncello Orsini. Dieci anni dopo, sotto Bonifacio IX, ospedale, chiesa e monastero passarono al Capitolo Vaticano, che dapprima vi tenne un proprio custode e poi affittò gli immobili. Nel 1532 si pose mano ad un primo restauro del complesso; nel 1571 Pio V restituì la chiesa, l’ospedale e il convento ai Trinitari, che li persero nuovamente alla morte del papa. Nel 1663 la chiesa fu completamente ricostruita nelle forme attuali dal Capitolo Vaticano





Dopo alterne vicende, nel 1898 il Capitolo Vaticano, per il centenario della fondazione dell’Ordine, lo restituì ai Trinitari che tuttora ne dispongono. Tuttavia, quando la chiesa fu finalmente riaperta al culto (1926), le strutture dell’Ospedale erano già state completamente distrutte per la costruzione della sede dell’Istituto Sperimentale per la Nutrizione delle Piante (1925), che era nato come Stazione Agraria Sperimentale nel 1871, assumendo poi la denominazione di Stazione Sperimentale di Chimica Agraria nel 1880.





Per chi non lo sapesse, quest’ente di ricerca si occupa di sviluppare le conoscenze sui problemi legati al suolo agrario e a una sua buona gestione politico-amministrativa. Tra i suoi obiettivi c’è lo sviluppo delle tecniche per il miglioramento della crescita delle piante e delle produzioni agrarie, basate su progressi della fisiologia vegetale, ma anche progetti di studio e salvaguardia del suolo, nonché di informazione e divulgazione scientifica, con l’utilizzo delle tecnologie informatiche in agricoltura.





Nella sede di Roma, tra l’altro, è tra l’altro presente una straordinaria biblioteca legata alle tematiche dell’agricoltura, la cui consistenza, tra libri, opuscoli, periodici e qualche manoscritto, ammonta a circa 20.000 unità, che coprono il periodo dal 1700 al 1950. La Biblioteca vanta, oltre che testi antichi e moderni di particolare valore storico-scientifico, libri rari e di grande pregio, pubblicati sia in Italia che all’estero nel corso dei secoli XVIII e XIX.





Tornando alla chiesa di San Tommaso in Formis, percorrendo lo stretto andito scoperto che conduce all’ingresso vero e proprio si può notare come questa sfrutti in basso un muro in opera mista di reticolato e mattoni di epoca romana, poi sopraelevato in epoca medioevale a tufelli. Ulteriori sopraelevazioni della chiesa si ebbero nel sec. XVII, quando furono chiuse le antiche finestre e aperte tre finestre rettangolari per parte; allora fu anche rifatta la facciata spartita da lesene con porta unica e sovrastante finestra.





Sulla porta è scritto:





Divo Thomae apost(olo) d(icatum).





Sulla destra della facciata è murato un emblema di san Bernardino (sec. XV) con il Nome di Gesù in lettere gotiche entro un cerchio radiante. La costruzione antica, visibile da Villa Celimontana, aveva apparentemente solo due finestre a sesto semicircolare per parte; esse furono ridotte di ampiezza in alto e lateralmente con murature a strombo; la parte restante era occupata da una transenna in travertino. L’abside semicircolare termina con una cornice a mensole. All’interno, ad un’unica navata, nulla rimane della decorazione medioevale.





Sull’altare maggiore spicca un dipinto moderno di Aronne del Vecchio raffigurante Gesù che invia san Giovanni de Matha. Le sette vetrate che riempiono di luce la chiesa sono opere moderne di Samuele Pulcini collocate qui nel 2000, in occasione del Grande Giubileo.





Sopra l’Arco di Dolabella è la Cella, oggi trasformata in oratorio, dove Giovanni de Matha, secondo una tradizione che risale al sec. XVIII, abitò dal 1209 e nella quale si spense il 17 dicembre 1213; erano in origine due vani cui si accede da una scaletta a chiocciola terminante in una piccola loggia, il tutto ricavato in un pilone dell’acquedotto neroniano.





L’Ospedale consisteva in una lunghissima corsia illuminata da ventisei finestre; unico superstite, sulla testata è ora il grande portale marmoreo a sesto semicircolare su via della Navicella (ora è stato ridotto di proporzioni per l’inserimento di una porta rettangolare), del tempo di Innocenzo III, firmato sull’estradosso da Iacopo e dal figlio Cosma (+ Magister Iacobus cum filio suo Cosmato fecit hoc opus). Sopra il portale è una edicola, pure in marmo, con due colonnine, che racchiude l’emblema a mosaico dell’Ordine dei Trinitari sormontato da una croce: Cristo in trono con ai lati due schiavi liberati, uno bianco e uno nero; intorno è la scritta:





Signum Ordinis Sanctae Trinitatis et Captivorum





Del Monastero invece resta una parte della facciata laterizia medioevale con finestrelle rettangolari in marmo e una porta a sesto acuto in peperino, al numero 2 di via della Navicella.





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Published on July 01, 2020 11:27

Mille (e non più mille) di questi mondi

Holonomikon


E così ci siamo. L’attesa è finita. Preceduto dal libro evento del 2019 (asso pigliatutto all’ultima edizione del Premio Italia), annunciato in pompa magna, accompagnato da una campagna promozionale come raramente se ne vedono in Italia quando si parla di fantascienza (e chissà perché ancor più quando si tratta di fantascienza italiana… se non quando la fantascienza è il pretesto per allenare la consolidata virtù italica del velleitarismo coloniale), è il momento del Millemondi dell’estate 2020: Distòpia.





Curata ancora una volta da Franco Forte, impreziosita come sempre da una cover memorabile di Franco Brambilla e completata da una postfazione di Carmine Treanni sulla strana attrazione che esercita “il peggiore dei mondi possibili”, l’antologia dedicata alla fantascienza scritta da autori italiani si è concentrata questa volta su un tema che, all’origine, nessuno si sarebbe di certo aspettato sarebbe stato così d’attualità al momento dell’uscita…


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Published on July 01, 2020 09:41

June 30, 2020

Il memoriale Sangallo

[image error]I lavori di costruzione di San Pietro



Subito dopo la morte di Raffaello, Sangallo fece un gesto che, vuoi o non vuoi, non è che gli renda proprio onore, dal punto di vista umano: scrisse infatti un memoriale, diretto a Leone X, in cui espose tutte le sue critiche alle parti di San Pietro realizzate o progettate fino a quel momento. Parti concepite sì da Raffaello, ma in cui l’artista fiorentino aveva dato un contributo fondamentale.





Infatti, oltre che per il coro del Bramante e la cupola pesantissima, Sangallo si scandalizzò soprattutto per il corpo longitudinale, le nicchie di 40 palmi e i deambulatori, tutte cose di cui aveva contribuito a definirne la statica e i particolari decorativi.





In particolare evidenziò la navata centrale





… sara lunga e stretta e alta che pareva uno vicholo”





che le porte comprese tra nicchie sarebbero sembrate “balestriere”





per poi stroncare i deambulatori in questo





l’emicichlo che e fanno nelle teste delle chrosi è falso in quest’opera; non che al lavoro non sia perfetto in se solo e bello […] ma non seguita e compagna l’opera”:





La sua critica colpisce infine il cornicione dell’imposta delle grandi arcate e quello aggettato delle nicchie, che, expressis verbis, attribuisce a Raffaello, quando invece erano sue idee





Secondo il Sangallo il cornicione dell’imposta non avrebbe dovuto avere la forma di una trabeazione tripartita non essendo sostenuto da un proprio ordine, mentre il cornicione marmoreo delle nicchie





non vole esser vi le risalte che vi sono”.





Cornicione, tra l’altro, che Sangallo aveva adottato nel suo progetto esecutivo di Villa Madama. Nel frattempo, nell’agosto 1520 Sangallo fu affiancato da Baldassare Peruzzi in qualità di coadiutore. Leone X lesse il memoriale e anche se non ne era proprio così convinto, nella primavera del 1521 diede l’incarico a lo strano due Sangallo e Peruzzi di presentare l’ennesimo, nuovo progetto.





Come nei precedenti disegni del Sangallo, anche lì il corpo longitudinale venne ridotto a tre campate, illuminato da una propria cupola e allargato. Nelle cappelle laterali furono eliminate le nicchie di 40 palmi e le sacrestie d’angolo, a pianta poligonale, sporsero dalla muratura. Benché non coordinasse il cornicione tripartito dell’imposta in travertino con un ordine preciso, il Sangallo convinse il papa sulla opportunità di continuare lo zoccolo negli ambienti adiacenti.





Nel progetto, però, non c’era nessuna indicazione sulla forma della cupola principale e della facciata, che nonostante tutte le lamentele del memoriale, sarebbero state forse molto simili alle idee di Raffaello. Nel frattempo, Peruzzi fece propria la critica del Sangallo al corpo longitudinale e rispose ritornando all’idea del corpo centrale, che aveva perso attualità dopo l’inizio dei lavori di costruzione, ma che sarebbe tornata in auge sotto Paolo III.





Ma al di là di tutte queste polemiche, come erano messi i lavori nel 1521 ? Grazie al cielo, ne abbiamo una testimonianza in una veduta anonima della collezione Ashby che mostra la basilica da sud-ovest.





In primo piano a sinistra è visibile il coro di Bramante provvisto di volta, con il suo ordine dorico gigante, le sue grandi finestre ad arcata rimaste vuote, attraverso le quali è visibile l’interno dell’edificio, e la sua trabeazione frammentaria. Si vedono i pilastri di sud-est e di sud-ovest della cupola collegati dal grande arco con intradosso a cassettoni. Osserviamo che l’estradosso dell’arcone di crociera non è ancora coperto a 2 spioventi. E’ già armata e dotata di un primo getto di calcestruzzo la volta a rosoni di fronte la nicchia di Fra Giocondo, ossia la volticella a botte di contrafforte tra il pilastro di sud-ovest della crociera e l’antistante contropilastro.





Nell’angolo fra il coro di Bramante e la nicchia di Fra Giocondo è rappresentata una gru con una grande ruota a pedali alla base, che sembra essere utilizzata per trasportare il materiale su una piattaforma antistante la volta a rosoni e sul colmo del pilastro sud-occidentale della cupola. Sul pilastro opposto della cupola, quello sud-orientale, viene disegnata un’altra gru, forse per la volta a rosoni della cappella del Re verso est.





Sotto il probabile ponteggio a sbalzo della volta a rosoni sono accennati i profili del cornicione d’imposta di Raffaello e più in basso le nicchie frammentarie della sacrestia del coro iniziata da Fra Giocondo. Si erge ancora il diroccato muro frontale del transetto del vecchio San Pietro; dietro ad esso sono chiaramente riconoscibili il corpo longitudinale della basilica costantiniana e il campanile. A destra è visibile la rotonda di Santa Maria della Febbre, dietro la quale spunta l’obelisco del circo di Nerone.





Emerge la calotta della nicchia meridionale di 40 palmi del contropilastro di sud-ovest, del quale sono disegnate la cornice e le paraste. L’emiciclo esterno è in costruzione: si vedono nella loro struttura grezza le calotte delle prime 2 nicchie interne del deambulatorio del 1519; la parte occidentale del muro esterno è priva ancora del paramento; dietro una casa bassa si può invece distinguere l’articolazione della parte meridionale della parete esterna, ovvero lo zoccolo ed i fusti delle semicolonne dell’ordine di 9 palmi. Il disegno mostra inoltre le 3 nicchie orientali della parete interna del deambulatorio e la nicchia meridionale del contropilastro di sud-est con parte delle relative paraste sul lato occidentale. Probabilmente è raffigurata la sommità di una colonna dell’emiciclo interno davanti il contropilastro di sud-est

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Published on June 30, 2020 11:09

June 29, 2020

Pirro (Parte I)

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Una delle figure più sottovalutate della storia classica è quella di Pirro: di solito, anche da persone di media cultura, è ricordato solo per le sue vittorie “inutili” e per avere utilizzato gli elefanti contro i romani.





In realtà, Pirro è ben di più: un uomo dalla vita avventurosa, che sembrerebbe incredibile se raccontata in un romanzo, e uno dei grandi generali dell’antichità: fu di certo un tattico meno geniale di Annibale, ma rispetto al cartaginese, fu assai più innovatore, introdusse una serie di riforme tattiche che misero una pezza ai tanti limiti della falange macedone, ottima contro alcune tipologie di nemici, ad esempio i persiani, ma capace anche di mediocri prestazioni: basti pensare a tutte le volte che dal 280 a.C. in poi fu letteralmente fatta a pezzi dai guerrieri celti.





E soprattutto, Pirro, rispetto ad Annibale, aveva una visione strategica assai superiore e soprattutto aveva chiari, con tutti i limiti dell’epoca, i problemi legati alla logistica: a differenza di tanti laureati in Storia dell’Università italiana era consapevole di come la guerra non fosse un campionato di calcio, in cui chi vince più partite, vince anche lo scudetto, e di come questa dovesse sempre confrontarsi con il vincolo delle risorse finite: i soldati, per combattere bene, debbono avere lo stomaco pieno, i soldi non crescono sugli alberi e un combattente non si addestra in un giorno. Come Alessandro, Pirro era poi un uomo dallo straordinario coraggio, ma, a differenza del Macedone, non eccedeva nei vizi e di certo non era altrettanto psicopatico.





Pirro, il cui nome significa “il colore del fuoco, rosso biondo” legato probabilmente alla sua capigliatura, apparteneva alla dinastia degli Eacidi, che secondo la leggenda, Essi vantavano di discendere dal leggendario Eaco, considerato fondatore della dinastia, padre di Peleo, nonno di Achille. Dinastia a cui apparteneva Olimpiade, mamma di Alessandro Magno, cosa che trascinò il giovane Pirro nel caotico succedersi di guerre, tregue ed alleanze che seguirono la morte del Macedone a Babilonia.





Pirro nache nel 318 a.C. da Eacide, sovrano dell’Epiro, e da Ftia, di stirpe tessala, e la sua giovinezza fu tutto fuorché quieta. Il padre, salito sul trono dopo la morte del cugino Alessandro il Molosso avvenuta in Italia nel 331 a.C., nel tentativo di crearsi un regno in Magna Grecia, Nel 317 a.C. supportò Poliperconte nel tentativo di far risalire sul trono di Macedonia la cugina Olimpiade e Alessandro IV di Macedonia, il figlio di Alessandro Magno, che era stato messo da parte dai Diadochi.





L’anno seguente Eacide marciò per aiutare Olimpiade, minacciata da Cassandro, tuttavia i suoi soldati, corrotti dal generale macedone si rivoltarono contro di lui cacciandolo dal regno che passò a Cassandro. Pirro, che aveva allora solo due anni, venne salvato con difficoltà da alcuni servi. Nel 316 a.C., quindi, Pirro, insieme alla madre e alle sorelle, fu accolto da Glaucia, capo della tribù illirica dei Taumalanti, la cui moglie, Beroea, discendente degli Eacidi, si assunse il compito di educare il bambino. Di conseguenza, il bambino crebbe in un ambiente che di greco aveva ben poco.





Cassandro, non aveva nessuna voglia di governare l’Epiro, cosicché vendette il regno a Neottolemo II, figlio di Alessandro il Molosso, che, per pagare il dovuto al re di Macedonia, riempì di tasse i suoi sudditi. Gli Epiroti si stancarono presto di questa situazione e richiamarono Eacide nel 313 a.C.. Cassandro, che nel frattempo aveva fatto fuori tutti i parenti prossimi di Alessandro Magno gli inviò immediatamente contro un’armata comandata da Filippo, anche perché, in teoria, Eacide poteva considerarsi, a seguito della strage, il legittimo pretendente alla corona macedone. Il padre di Pirro venne sconfitto dai macedoni in due battaglie, perdendo peraltro la propria vita. Cassandro, eliminato questo potenziale pretendente, si rese conto che, per governare l’Epiro, era più la spesa che l’impresa, quindi se ne lavò le mani dei potenziali sudditi: i quali, non volendo tornare a pagare le tasse esose di Neottolemo II, proclamarono re Epiroti richiamarono Alcetas, zio di Pirro, che era stato diseredato dal padre, per il suo carattere intrattabile: il che, visto che i regnanti dell’epoca, per i nostri standard, sarebbero matti come cavalli, vuol dire che Alcetas, per avere questa pessima fama, doveva somigliare al fratello cattivo di Vlad l’impalatore.





Benchè Alcetas non avanzasse nessuna pretesa sul trono macedone, Cassandro, per non sapere né leggere, né scrivere gli inviò contro un esercito sotto il comando di Licisco, che fu sonoramente battuto: ma gli Epiroti stanchi del comportamento oltraggioso e opprimente che il nuovo aveva nei loro confronti, fecero presto a insorgere uccidendo lui e i suoi due figli. Di conseguenza, richiamarono sul trono Neottolemo II, il quale, seguace dell’errare è umano, perseverare è diabolico, riportò in auge tutte le sue tasse.





Qualcuno dei Molossi, stanco di pagarle, si ricordò come Pirro se stesse in esilio tra gli Illirici: pensando che peggio di un sadico sanguinario e di un forsennato tassatore non poteva essere, gli epiroti lo andarono a prendere da Glaucia, lo accolsero con tutti gli onori e cacciarono a pedate Neottolemo.





Così, nel 306, Pirro divenne Hegemon d’Epiro, scontrandosi presto con il solito problema della sua famiglia: Cassandro, ormai convinto sostenitore della teoria





L’unico Ageade, anche acquisito, buono è quello morto”.





Così l’Epiro fu invaso di nuovo dai macedoni nel 302, Pirro scappò in esilio e il solito Neottolemo tornò di nuovo sul trono. Come potete ben capire, per gli Eacidi questo balletto di colpi di stato e fughe non poteva più andare avanti: per cui, dato che le forze dell’Epiro erano quelle che erano, serviva un forte alleato per riportare a miti consigli Cassandro. Dato che sua sorella Deidameia aveva sposato Demetrio Poliercete, fu abbastanza facile per Pirro allearsi alla fazione degli Antigonidi.





Antigono I Monoftalmo e Demetrio Poliercete erano due ottimi generali, ma alquanto scriteriati come politici, che avevano combattuto, con alterne fortune, contro tutti i loro colleghi diadochi. In quel periodo, avevano il ghiribizzo di fare le scarpe a Cassandro. Cosa non proprio semplice, dato che Demetrio, nonostante le sue abilità belliche, fu un ottimo insegnante per Pirro, era, come dire, un tizio alquanto peculiare.





Uno dei suoi scandali era la passione nutrita per un fanciullo, Democle. Il giovane continuò a respingere le sue attenzioni, finché un giorno si trovò messo alle strette alle terme. Dal momento che non poteva sfuggire né resistere al suo corteggiatore, Democle tolse il coperchio dal calderone dell’acqua bollente e vi saltò dentro. In un’altra occasione, Demetrio annullò una multa di cinquanta talenti nei confronti di un cittadino in cambio dei favori del figlio di quest’ultimo, Cleeneto. Cercò anche le attenzioni di Lamia, una cortigiana greca. Richiese 250 talenti agli ateniesi; poi consegnò la somma a Lamia ed altre cortigiane affinché comprassero cosmetici.





Però, strategicamente, a Demetrio faceva comodo avere un saliente che potesse costituire una potenziale minaccia per la Tessaglia e la Macedonia: per cui, non ebbe problemi ad appoggiare Pirro. Però, tutti i progetti di riconquista dell’Epiro, andarono a ramengo, a causa delle ambizioni di Antigono: nonostante avesse più di ottanta anni, il terribile vecchio, invece di godersi gli ultimi anni di vita, continuava a sognare di riunire nelle sue mani il regno di Alessandro Magno, sconfiggendo una volta per tutte i suoi antichi rivali: Tolomeo, re dell’Egitto, e Seleuco, che controllava il territorio dalla Siria all’Indo.





Approfittando del fatto che Tolomeo era occupato in una campagna in Siria proprio contro Seleuco, Antigono si alleò al figlio Demetrio al fine di dare una decisiva prova di forza in Anatolia. In vista di ciò Seleuco si alleò con Lisimaco, re di Tracia, e provocò Antigono a dargli battaglia ad Ipso; gli eserciti in campo furono di dimensioni impressionanti da entrambe le parti, ma Seleuco disponeva di un numero nettamente maggiore di elefanti.





La battaglia non durò molto, Demetrio Poliorcete guidò una potente carica di cavalleria travolgendo l’ala sinistra nemica, tuttavia non poté poi convergere al centro perché Seleuco lo anticipò bloccandolo con alcuni elefanti, impedendogli sia di portare aiuto ad Antigono, sia di ripiegare in caso di sconfitta. Lo scontro decisivo si svolse al centro, dove la fanteria di Antigono, subissata dalle frecce e dai giavellotti dei Seleucidi, cominciò a ripiegare; quando Antigono stesso cadde trafitto da un giavellotto fu la disfatta.





Con la morte di Antigono, Demetrio, che in fondo voleva solo crearsi il suo regno in Grecia e non aveva ambizioni di dominio universale, trovò un compromesso con i rivali: si riconciliò con Seleuco, cui diede in sposa la figlia Stratonice. In più , per fornire a Tolomeo un pegno della sua buona volontà, gli inviò Pirro come ostaggio ad Alessandria. Il nostro eroe, si trovò talmente bene, che oltre a diventare amico intimo di Tolomeo e ad approfondire le strategie e tattiche di Alessandro il Macedone, rimase ad Alessandria dopo la morte di sua sorella Deidameia.





Che tale soggiorno fosse in buona fede, o il nostro eroe stesse complottando per defenestrare Tolomeo e proclamarsi re d’Egitto, è difficile a dirsi: tuttavia Tolomeo, da vecchia volpe quale era, decise di anticipare le mosse di Pirro. Per prima cosa, gli fece sposare la sorella Antigone, poi per toglierselo definitivamente dalle scatole, lo mise a capo di una grande flotta, che, nel 297 a.C., fece capolino sulle coste dell’Epiro





Neottolemo II, trovandosela davanti, dato che Cassandro era morto l’anno prima e i suoi eredi, Alessandro e Antipatro, erano più intenzionati a litigare tra loro che a correre in suo soccorso, decise di scendere a miti consigli, accettando sia di ridurre le tasse, sia di condividere il trono con il cugino Pirro. Una diarchia che non durò molto, se è vero che Neottolemo morì avvelenato dopo qualche mese…

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Published on June 29, 2020 09:52

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Alessio Brugnoli
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