Alessio Brugnoli's Blog, page 62
June 17, 2020
Villa Celimontana
Le nostre passaggiate romane proseguono in un parco, in cui posso affermare di essere cresciuto: Villa Celimontana. Nella prima metà del Cinquecento, la sua area era occupata da una vigna di proprietà della famiglia Paluzzelli, i quali avevano fatto eseguire scavi che avevano portato all’estrazione di pregiati marmi colorati (probabilmente appartenenti ad un tempio) ed utilizzati per la “Sala Regia” che Antonio da Sangallo stava in quegli anni sistemando in Vaticano.
Le cose cambiarono nel 1553, quando Giacomo Mattei acquistò la vigna per 1000 scudi d’oro. che la diede in dote alla figlia Claudia, sposa e cugina di Ciriaco Mattei, artefice della profonda trasformazione del luogo. Oltre a estendere la proprietà infatti, trasformò la vigna in un giardino ricco di statue e di fontane, profondendovi grande spesa e impegnando assiduamente architetti, artisti e altre maestranze.
I lavori ebbero inizio probabilmente nel 1572, ma la costruzione del casino, tradizionalmente assegnata nella fase iniziale a Jacopo Del Duca, allievo di Michelangelo, prese avvio solo dopo il 1577 e dal 1586 si avvicendarono alla sua realizzazione e alla progettazione di tutto il complesso altri artisti.
Contemporaneamente alla costruzione della palazzina, probabilmente terminata entro il 1581, veniva realizzato il giardino pensile, a essa collegato, sostenuto da grandi muraglie, e sistemato verosimilmente anche il “teatro” o “prato”, ossia il settore che occupava il lato sud-occidentale del giardino, reso nelle forme di un antico circo, con un emiciclo a gradinate, e sormontato da un’edicola in cui era “una testa grande di Alessandro Magno con il suo busto”, mentre al centro, a mo’ di spina, era stato innalzato nel 1587, a cura degli architetti dagli Giovanni e Domenico Fontana l’obelisco egizio concesso dal Consiglio Segreto del Comune capitolino a Ciriaco Mattei cinque anni prima.
Obelisco, detto lo “Spiedino”, fatto realizzare in origine dal buon Ramses II, che proviene dalla spoliazione del Tempio del Sole a Eliopoli; originariamente sistemato nel Santuario di Iside Capitolina (Tempio di Iside), prima del suo trasloco era situato alla base della scalinata dell’Ara Coeli. La leggenda narra che il globo posto sulla sua cima contenga le ceneri di Augusto e che fosse stato alzato sul Campidoglio da Cola di Rienzo, come simbolo della libertà romana.
Tornando a parlare della villa, ai due architetti Fontana, è forse anche dovuto l’intero progetto del giardini all’italiana. Fu poi realizzato un nuovo edificio, la “loggia che guarda verso S. Sisto”, ornato con intonaci graffiti e altre pitture, destinato a sede espositiva per la ricca collezione di antichità del proprietario, che ebbe tuttavia vita breve. Di fronte a esso era un labirinto e, poco più in là, un boschetto con statue di animali in peperino dipinto, collocate anche in altri punti salienti del giardino o poste a ornamento di fontane.
Di grande effetto si presentava poi la sistemazione della pendice occidentale, articolata in un sistema di loggiati, balconi e scalee affacciato dal livello superiore, dove era la palazzina. Al lato di questa, sulle pendici, una loggia tra due padiglioni a uso di uccelliere, sovrastanti due piccoli ninfei dava accesso al viale sottostante chiuso sul fondo dalla Fontana del Fiume, con figura maschile sdraiata in peperino, unica superstite delle molte che decoravano la villa.
In quegli anni, inoltre, Ciriaco Mattei, con grande magnanimità, aveva concesso l’apertura del suo giardino al popolo romano, almeno una volta all’anno, in occasione del pellegrinaggio alle Sette Chiese istituito da San Filippo Neri, suo grande amico: i fedeli infatti, a metà del percorso, avevano la possibilità di sostare nel “circo” di Villa Mattei e di consumare una refezione offerta dai padri Filippini, che consisteva in una pagnotta, vino, un uovo, due fette di salame, un pezzo di formaggio e due mele per ciascuno. La predisposizione della Villa in quella circostanza richiedeva una grossa organizzazione, arrivando ad accogliere fino a 3530 persone. Seguendo una rigida divisione per rango e ceto sociale, nel “teatro” semicircolare prendevano posto cardinali e prelati, nello “stazzo” i nobili e le persone qualificate e sul “prato” e nei viali tutti gli altri. Le zone erano delimitate da un’ incannucciata, che veniva chiusa dopo l’entrata, e contraddistinte da biffe (paletti con i cartellini numerati).
L’assetto manierista, però, sopravvisse integro pochi anni: già tra il 1620 e il 1623, in concomitanza dei lavori di ampliamento del casino, scomparve il padiglione superiore dell’uccelliera antistante la palazzina. Nel 1602 l’acquisto di sei once dell’Acqua Felice consentì infine di dotare la villa di fontane e giochi d’acqua. Da alcune testimonianze documentarie risulta che nel 1605 molte fontane erano già state realizzate: la Fontana dell’Idra, la Fontana della Natura, la Fontana di Bacco e la Fontana d’Atlante con la peschiera, purtroppo perdute. Pochi anni dopo la morte di Ciriaco, avvenuta nel 1614, il figlio Giovan Battista trasformò la palazzina da sede della collezione in residenza vera e propria, curando il rinnovo degli arredi e decorando con affreschi le volte dei nuovi ambienti creati.
Morto costui nel 1624 senza figli, la villa passò ad Asdrubale, fratello di Ciriaco e da lui al figlio Girolamo che, alla morte del padre rimase l’unico proprietario di un notevole patrimonio di beni e possedimenti. Diede allora nuovo incremento ai lavori di risistemazione della villa, acquisendo nuovi terreni dalla parte di SS. Giovanni e Paolo e dotandola, tra il 1645 e il 1648, di nuove fontane, la “fontana dell’Aquila” e la “fontana del Tritone”, entrambe disegnate da Gian Lorenzo Bernini, oggi non più esistenti. A lavori finiti, il nuovo giardino, nonostante la relativa esiguità, si presentava con un impianto a forma stellare, denominato “Piazza dei sedici viali”, ispirato nel disegno alle nuove concezioni francesi. La villa rimase di proprietà della famiglia Mattei fino all’estinzione della linea maschile all’inizio dell’Ottocento, ma già nel 1770 erano state vendute da Giuseppe Mattei gran parte delle sculture antiche,(tra cui l’Amazzone, la “Pudicizia”, il “Traiano seduto”, ora al Louvre) che andarono a costituire il nucleo originario del Pio Museo Clementino in Vaticano. Questa vendita fu seguita nel 1802 da quella della testa di Augusto sempre al Vaticano.
Nel 1804, la villa fu ceduta all’arciduchessa Maria Anna d’Austria dall’ultimo Mattei di Giove, Giuseppe. Dopo altri brevi passaggi di proprietà, nel giugno 1813 venne acquistata dal principe Manuel Godoy y Alvàrez de Faria, principe della Pace, ministro del re di Spagna Carlo IV, che incaricò l’architetto catalano Antonio Celles di ampliare e regolarizzare la palazzina. Venne inoltre realizzato un nuovo percorso che collegava la piazzetta dove si trovava la fontana del Tritone (forse in quella stessa epoca distrutta), al centro della quale venne innalzata una colossale statua di Cerere (oggi sostituita da una Artemide), a una nuova grande piazza, nell’area del “belvedere” (presso cui una volta si ergeva il “Casino di San Sisto”), dove, nel 1817, fu collocato l’obelisco un tempo nel “prato”.
Il trasloco fu sempre opera dell’architetto spagnolo Antonio Celles: fu in questa occasione che venne posto sul basamento attuale al posto dell’antico basamento cinquecentesco, costituito da quattro leoni angolari. Triste la vicenda legata ai lavori di posa in opera del nuovo basamento: un canapo si ruppe ed un povero operaio vi rimise le mani e parte di un braccio, amputati d’urgenza e rimasti da allora sotto l’obelisco.
Afflitto dai debiti, Godoy nel 1834 cedette la Villa a Felice Trocchi, suo creditore, che a sua volta nel 1842 la rivendette alla marchesa Maria del Soccorso Tudo y Castelan e ai suoi figli marchesi Stefanoni. Nel 1851 la proprietà passò alla principessa Marianna d’Orange-Nassau, figlia di Guglielmo I re d’Olanda, e nel 1856, venne acquistata dalla principessa Laura di Bauffremont. Si decisero allora sostanziali lavori nel giardino, con nuovi viali curvilinei, ancora in parte esistenti, l’inserimento di boschetti e percorsi irregolari, e di alberature romane e “classicheggianti”, quali lecci, cipressi e allori, con reperti antichi disposti in maniera più libera, quasi naturale, realizzando, così, una sorta di “giardino archeologico”.
Nel 1869 il complesso fu venduto al barone tedesco Richard Hoffmann, che dovette proseguire gli interventi già avviati dai Bauffremont sull’edificio, edificando, tra l’altro, l’edicola-tempietto in stile neogotico, addossata al muro di cinta sull’attuale via San Paolo della Croce. Dopo la prima guerra mondiale, la Villa fu confiscata dallo Stato italiano che la incamerò come bene nemico, essendo la famiglia Hoffmann di nazionalità tedesca. Intanto, nel 1923, in previsione di un’imminente concessione, molte delle opere antiche esposte nel giardino, tra cui il celebre Sarcofago delle Muse, collocato sul piedistallo ora vuoto in fondo al viale dei Lecci, sopravvissute alla diaspora dei secoli precedenti, vennero rimosse e depositate al Museo delle Terme.
La palazzina Mattei, consegnata al suo definitivo assegnatario, la Regia Società Geografica Italiana, dopo alcuni lavori di sistemazione, il 7 giugno 1926 fu inaugurata come sede di quell’Istituto. Il parco intanto veniva destinato a verde pubblico: due piccole porzioni del giardino furono assegnate alla Stazione chimico-agrario-sperimentale, mentre l’area residua, cioè il parco, nel 1925 fu concesso in uso perpetuo al Governatorato di Roma, che ne prese possesso l’anno successivo, ma solo nel 1928 veniva deliberata l’apertura al pubblico della Villa, che fu allora dotata anche di illuminazione elettrica. Nel 1931, a compimento dei lavori di allargamento di via della Navicella iniziati nel 1926, l’ingresso principale fu abbellito dal portale della Villa Giustiniani-Massimo al Laterano, demolito nel 1885 e rimontato con alcune aggiunte, che ricordato dalla lapide
“Questo portale, già ingresso della Villa Massimo, demolito nel MDCCCLXXXV (1885) e donato alla Città di Roma dalla Ecc. Famiglia Lancellotti , venne qui ricostruito e restaurato dal Governatorato di Roma nell’anno MCMXXXI (1931)”
Come accennavo prima, nella palazzina Mattei ha sede La Società Geografica Italiana fondata a Firenze nel 1867 e trasferita nel 1872 a Roma. Questa alla morte di morte di Ciriaco Mattei, fu trasformata da sede della collezione di stature a residenza privata. I lavori vennero affidati all’architetto Francesco Peparelli che li concluse nel 1623. Risalgono a questo periodo gli affreschi presenti nelle sale della Biblioteca:
nella Sala del Mosaico, la volta affrescata da Andrea Lilli rappresenta al centro la Primavera che riceve il vaso da Apollo-Sole alla presenza di Giunone ai lati sono posti l’Autunno e la Primavera. Il suo nome deriva da un mosaico romano risalente al III secolo d.C. – rinvenuto nell’area antistante all’edificio e inserito durante i restauri ottocenteschi –nella Sala del Consiglio, l’affresco attribuibile a Pietro Sigismondi rappresenta Abigail accompagnata da cinque ragazze e da messi di Davide per diventare sua sposa;nella Sala di Lettura, la tela attribuita ad Andrea Sacchi raffigura Dalila in procinto di tagliare i capelli a Sansone;nella Sala C, l’affresco attribuito a Orazio Monaldi rappresenta la disputa tra Apollo e Marsia, ovvero, la competizione accademica tra il Dio e l’uomo;nella Sala L, l’affresco attribuito a Orazio Zecca rappresenta il ratto di Proserpina: Plutone, sceso dal carro, in atto di rapire Proserpina intenta a cogliere fiori, mentre Diana con l’arco e la mezza luna e Minerva armata di lancia si scagliano contro il gruppo. A destra, in cielo il fulmine di Giove, favorevole al ratto mentre Venere guarda la scena compiaciuta. Quest’opera risente dell’influenza della scuola del Cavalier d’Arpino.
Sacro, profano, natura e mitologia: elementi presenti delle pitture e negli arredi del palazzetto. Personaggio centrale nelle raffigurazioni sono le donne esaltate sia per le loro virtù, sia per le doti di bellezza e abilità. Convivono elementi propri del mondo classico romano (celebrazione di Ciriaco Ercole e Cesare attuata nella sistemazione cinquecentesca della villa) e il tema moralizzante legato alla Controriforma del Seicento. I pittori che parteciparono all’arricchimento degli arredi del palazzetto provenivano dall’Accademia di San Luca, ambiente classicistico per eccellenza della cultura romana seicentesca.
Oggi la palazzina custodisce una biblioteca che conserva oltre 400.000 volumi con una sezione di libri Rari che comprende opere pubblicate dal XVI al XIX secolo. La Cartoteca custodisce materiale di notevole valore scientifico e storico-artistico, costituito da circa 200.000 carte geografiche. Di rilevante interesse è la raccolta di carte geografiche cinesi e giapponesi, appartenenti prevalentemente ai secoli XVIII e XIX, quasi tutte manoscritte.
L’Archivio storico tramanda la memoria dell’attività della SGI dalla fondazione. Migliaia di lettere, taccuini di viaggio e disegni raccontano le esperienze di esploratori e viaggiatori. L’Archivio fotografico raccoglie circa 400.000 fototipi (positivi, negativi, diapositive e cartoline d’epoca), molti dei quali uniscono al valore documentario un intrinseco valore artistico.
June 16, 2020
Villa Madama (Parte II)
Il progetto originario di Villa Madama ci è noto grazie due piante, una di Battista da Sangallo, su indicazione e l’altra di Antonio da Sangallo, una sorta di progetto esecutivo, una descrizione dettagliata contenuta in una lettera dello stesso Raffaello, probabilmente destinata a Baldassarre Castiglione, che citerò la prossima settimana e una decina di altri disegni, sempre di mano sangallesca.
Tali documenti, partendo da quando costruiti ai tempi di Leone X, permettono di ricostruire il progetto della villa nella sua integrità concettuale e di individuare le varianti eseguite nella realizzazione. Le due planimetrie sono varianti di uno stesso impianto che prevedeva un vasto podio con una terrazza, al centro del quale si elevavano un corpo di fabbrica e un teatro incassato nella collina, alle spalle di una sovrastruttura; questa era affiancata a Sud Est da una corte d’entrata e un giardino chiuso da mura e a Nord Ovest da un giardino pensile, con una peschiera al livello inferiore. In entrambi i disegni la sovrastruttura era composta da tre ali disposte a U intorno a un cortile interno che si apriva sul teatro.
La prima pianta, della di Battista di Sangallo, più antica, è di certo una delle più belle dedicate a una fabbrica civile del Cinquecento, mostra come l’edificio, un trionfo scenografico di logge e scale, si articoli attorno ad un cortile rettangolare. Vi compaiono due giardini, uno a sinistra accanto all’ingresso principale e l’altro a destra, definito come xisto o loco d’alberi. Sotto questo giardino vi è una piscina, identificata come tale dai gradini che scendono tutt’intorno allo specchio d’acqua.
Nella pianta figurano almeno due edifici circolari, il perimetro interno dei quali è tutto decorato da nicchie, ispirato al progetto del mausoleo di Giulio II progettato da Giuliano da Sangallo. Parallelo all’edificio principale c’è l’edificio minore delle scuderie, interrotto nel mezzo, dove era previsto un passaggio per un viale o una scala discendente a valle verso il Tevere. Come scritto la scorsa settimana, i lavori circostanziati e costosi di terrazzamento del terreno argilloso portarono però, nella primavera del 1519, a un radicale mutamento del progetto iniziale e per risolvere i problemi insorti fu chiamato Antonio da Sangallo, che mise a disposizione la sua abilità tecnica.
[image error]Secondo progetto di Villa Madama
La seconda planimetria, a lui attribuita, la più importante per la nostra conoscenza della villa,
appare molto vicina a ciò che ha avuto esecuzione; si possono tuttavia rilevare sensibili differenze con la parte realmente costruita. Stando così le cose si deve concludere che la pianta definitiva non è pervenuta fino a noi. La pianta di Sangallo mostra un aspetto importante: la sostituzione del cortile rettangolare con uno circolare. Considerando la parte della pianta che si riferisce alla sovrastruttura, è verosimile ipotizzare che il Sangallo l’abbia eseguita su richiesta di Raffaello al fine di chiarire i problemi derivanti proprio dall’introduzione del cortile circolare e dall’abbassamento della corte d’ingresso.
La pianta mostra la soluzione adottata per quanto riguarda il problema della circolazione interna, che portò Raffaello ad abbassare il livello del cortile d’ingresso della villa in modo da aprirla al traffico proveniente sia da Sud Est, sia da Nord Est. Una soluzione che aveva il vantaggio non trascurabile di ridurre la pendenza della strada che si snodava sul fianco della collina e che portava all’ingresso.
Il cortile d’ingresso, infatti, risulta essere composto da una parte inferiore accessibile attraverso una grande rampa esterna a ventaglio e da uno scalone monumentale fiancheggiato da avancorpi a loro volta contenenti un gioco di rampe che danno accesso a uno spiazzo antistante la facciata Sud Est della sovrastruttura.
Nel 1519 il progetto iniziale subì ulteriori, drastici mutamenti, nella metà nella metà sinistra del corpo di fabbrica, di cui abbiamo idea grazie a due disegni di Sangallo. Nel primo schizzo, Il nuovo cortile d’ingresso viene compreso, sui due lati, entro possenti muri spessi dieci piedi e alti cento piedi. Davanti alla torre circolare in bugnato, la scala piuttosto larga che sale a semicerchio fino alla bassa corte, ovvero il secondo cortile. Alla fine di questa sono schizzati i percorsi delle strade centrali pedonali e di quelle laterali per i cavalli. Infine segue l’edificio con le sei finestre e il portale in bugnato del basamento.
Per comprendere le conseguenze dell’introduzione del cortile circolare e dall’abbassamento del livello del cortile d’ingresso, bisogna notare che l’idea centralizzante esigeva che la pianta del corpo di fabbrica superiore fosse centrata attorno al cortile stesso, se non trasversalmente almeno longitudinalmente. L’operazione fu facilitata dalla riduzione dello spazio occupato dal cortile nel senso dell’asse SE-NE, mentre l’ala NO si allargava in conseguenza divenendo uguale alla controparte di SE. Le scuderie della villa, invece, dovevano essere al livello del podio, parallelamente alla lunga facciata NE del complesso e di conseguenza sarebbero state inaccessibili dalla corte d’ingresso.
Il secondo schizzo nel margine superiore mostra il modello vitruviano di teatro romano, con solo tre triangoli invece di quattro, mentre il teatro greco schizzato a destra si sviluppa intorno a tre quadrati. La grande pianta al centro del foglio, dove il palcoscenico arriva quasi fino al centro dell’orchestra, si avvicina al teatro romano e Sangallo ne schizza la sezione, evidenziando come la sua copertura arrivi fino al colmo del tetto della villa. Perciò, dai posti più in alto, si sarebbe potuto vedere, oltre alla scena, anche il paesaggio, come dichiarato più volte da Raffaello
A destra del disegno sono visibili due varianti dei sedili dell’auditorium con o senza sedie. La metà inferiore del foglio, mostra infine, tre sezioni longitudinali del teatro, a tre livelli diversi del terreno. A sinistra della sezione è schizzato l’alzato della villa, a destra l’auditorium e, nelle due varianti superiori, la scalinata, che solo nella versione centrale raggiunge la linea del tetto della villa. In questo schizzo l’orchestra si trova a sette piedi sotto il livello del terreno, mentre l’auditorium sale per nove gradini che partono dal piano del palcoscenico.
La planimetria di Antonio da Sangallo dà tuttavia una chiara idea della disposizione dei giardini e ci aiuta a ricomporre idealmente la veste di verde della villa. Se risulta, infatti, chiara la situazione per quanto riguarda il giardino affianco alla loggia e il bosco che esiste tuttora verso il monte, a valle della fabbrica, invece, le cose sono meno chiare. All’estrema sinistra, sotto il viale che volge verso Roma, si vede un solo recinto completo, al contrario degli altri due recinti più in basso, per i quali è difficile stabilire la destinazione.
Forse non si trattava di giardini, ma di spazi per le esercitazioni della guardia, oppure soltanto di orti e vigne. Un ulteriore schizzo di Antonio da Sangallo mostra una fuga di giardini minori, con ninfei, fontane e scalinate, che sarebbe apparsa come un complesso di spazi racchiusi entro il bosco. I recinti ricchi di decorazioni architettoniche, con la loro successione, affermano ancora una volta la concezione del giardino inteso come un insieme di saloni collegati fra loro in una scenografia unitaria. Queste innovazioni sembrano azionare idee artistiche e umanistiche nuove. La corte circolare, ad esempio, continua la lunga tradizione che, passando per il cortile attorno al Tempietto di Bramante, la casa di Mantegna e i progetti dei Sangallo e Francesco di Giorgio, arriva al Teatro Marittimo di Villa Adriana e al Laurentinum di Plinio il Giovane.
June 15, 2020
Carbonio 14 e prima Età del Ferro in Grecia
Negli ultimi giorni, nell’ambito dell’archeologia, sta destando notevole interesse uno studio dell’’Osterreichisches Archäologisches Institut, pubblicato sulla rivista Plos One, relativo alla cronologia della Prima Età del Ferro in Grecia.
Tradizionalmente questa era basata sulla sequenza degli stili della ceramica, così articolata
Stile submiceneo, dal 1200 a.C. al 1050 a.C., caratterizzato da decorazione astratta, ma spontanea e poco curata
Stile protogeometrico, dal 1050 al 900 a.C., in cui sono presenti due schemi decorativi fondamentali, entrambi ereditati dal miceneo. Il primo era usato principalmente su vasi di grandi dimensioni e divenne meno popolare verso la fine del periodo; si distingue per una decorazione su fondo chiaro la cui luminosità veniva enfatizzata dagli scarsi ornamenti e dalle fasce dipinte in scuro. Il secondo, complementare al precedente, è chiamato black style o stile a fondo scuro. Evoluzione provocata dall’introduzione di nuovi strumenti di lavoro, come un tornio più veloce e il compasso per i cerchi concentrici.
Primo stile geometrico, evoluzione del precedente, che andava dal 900 all’850 a.C. in cui si supera l’identificazione protogeometrica del volume con la linea curva e sono introdotti nuovi motivi decorativi: la merlatura e il meandro, motivi tettonici, angoli retti, che contemporaneamente riflettono i campi orizzontali che occupano e la costruzione verticale del vaso, e che continuamente tornano su sé stessi.
Medio stile geometrico, dal 850 al 760 a.C. in cui i vasi raggiungono una dimensione monumentale e cominciano ad apparire, nelle decorazioni, le prime figure stilizzate.
Tardo stile geometrico, dal 760 al 700 a.C. in cui vengono definite le forme standard dei vasi della tradizione classica, emergono le prime personalità artistiche distinte, come il maestro del Dipylon. In ambito pittorico le fasce decorative ricoprono l’intera superficie del vaso, perdendo la funzione di marcare l’articolazione delle sue parti e si moltiplicano le scene figurate, in alcuni casi anche scene mitologiche, e i motivi decorativi sono più ricchi e variati.
Questa cronologia non è frutto del caso, ma un lungo e meticoloso lavoro, complicato dal fatto che in Grecia, a differenza del Vicino Oriente, i resti degli insediamenti antichi non sono strutturati a Tell, ossia a tumuli, rendendo così complicata qualsiasi definizione di una stratigrafia verticale.
Per cui gli archeologi hanno definito una cronologia relativa degli stili ceramici, basandosi sui ritrovamenti nelle tombe: poi, dato il ritrovamento di frammenti di vasi negli scavi della Siria e Palestina, la datazione dei relativi strati ha svolto il compito di fornire dei punti di riferimento per stabilire una cronologia assoluta anche in Grecia.
Cronologia assoluta che è stata poi ritarata in funzione delle testimonianze degli storici dell’età classica, che si erano costruiti una loro datazione, legata al numero di generazione trascorsi tra gli eventi del passato e il loro tempo, prendendo come riferimento l’anno della prima gara olimpica nota.
Insomma, un lavoraccio, che nell’ultimo decennio è entrato progressivamente in tilt: per prima cosa, è saltato all’occhio come ogni storico antico avesse un concetto di generazione differente, per cui il meccanismo di taratura doveva essere messo da parte. Poi, la datazione degli strati di riferimento del Vicino Oriente è stata oggetto di una profonda revisione, che però cozzava con la cronologia definita per la Grecia, cosa che ha fatto venire diversi dubbi sull’effettiva corrispondenza tra strato e frammento del vaso.
Faccio un esempio concreto, per spiegarmi: se un archeologo scavasse casa mia e trovasse i frammenti di un vaso cinese della mamma della mia bisnonna, risalente a inizio Novecento, e questo fosse uno dei pochi indizi per costruire la cronologia della Cina comunista, questa sarebbe sfalsata di più di un secolo. Poi a complicare questa situazione, sono emersi negli ultimi anni frammenti di ceramica geometrica in Sicilia e Tunisia, che dagli strati, sembrerebbero troppo antichi per la cronologia tradizionale.
Nel frattempo, gli archeologi austriaci hanno cominciato a studiare una serie di insediamenti della prima età del ferro in Tessaglia e Macedonia, che svolgevano il ruolo di hub commerciale tra la Grecia e i Balcani, tra cui quello di Sindos.
Dai primi scavi, sono emersi una serie di dati interessanti: primo, questi insediamenti avevano una durata di vita pari alla prima Età del Ferro. Secondo, come i tell del Vicino Oriente, erano dotati di una perfetta stratigrafia verticale. Terzo, in ogni stato vi erano frammenti di ceramica locale e proveniente della Grecia, realizzata da vasai ateniesi, corinzi e dell’Eubea, distribuiti secondo la cronologia relativa. Quarto, in ogni strato erano presenti resti organici, che ne permettevano la datazione sia con il Carbonio 14, sia dendrocronologia.
Per cui, agli archeologi sono brillati gli occhi: datando gli strati, si poteva datare anche la relativa ceramica, fissando in maniera definitiva la cronologia assoluta ed eliminando le contraddizioni che erano emerse negli anni. Per cui, hanno cominciato a raccogliere i vari dati e tararli ed elaborarli con l’analisi bayesiana e il metodo Montecarlo.
I risultati sono stati alquanto inaspettati e sconvolgenti: l’inizio del tardo Geometrico si anticiperebbe al 870 a.C., quello del Medio Geometrico al 930 a.C., quello del Primo Geometrico al 1050 a.C., mentre quello del Protogeometrico risalirebbe a poco dopo il 1200 a.C. ossia negli anni successivi al collasso dell’età del Bronzo e alla crisi del sistema palazialme miceneo.
Se tale analisi fosse verificata da terze parti, il rischio di errore c’è purtroppo sempre, e validata da altri scavi, le conseguenze sarebbero interessanti.
Per prima cosa, il concetto di Medioevo ellenico, la presunta età di barbarie, verrebbe definitivamente accantonato: poi, data la continuità dell’evoluzione tra ceramica micenea e protogeometrica, questa datazione sarebbe l’ennesimo colpo mortale all’ipotesi della presunta invasione dorica. L’introduzione del nuovo modello di tornio e del compasso non sarebbe frutto dell’arrivo di barbari, tra l’altro tecnologicamente più evoluti, il che sembrerebbe un ossimoro, ma dal trasferimento di artigiani specializzati dall’Italia e dell’Anatolia nell’Ellade, come testimoniato a Tirinto.
Poi, sia l’introduzione della scrittura, sia la colonizzazione greca della Ionia e del Sud Italia, associate al Medio e Tardo Geometrico, sarebbero assai più antiche di quanto immaginato: lo stesso varrebbe per l’elaborazione dell’epica omerica. Tutto ciò confermerebbe come il sistema commerciale mediterraneo, messo in crisi dalla fine dell’età del Bronzo, non si sia mai interrotto definitivamente e sia ripreso in tempi estremamente ristretti.
June 14, 2020
Museo dell’Abruzzo Bizantino ed Altomedievale
Il Castello ducale di Crecchio ha una lunga e complessa storia: con la conquista normanna dell’Abruzzo, portò da una parte alla ristrutturazione delle vecchie fortificazioni longobardo-bizantine, dall’altra alla diffusione di un nuova tipologia di fortezza, il castellum, inteso come residenza fortificata del rappresentante del potere centrale, generalmente collegata alla cinta muraria di un abitato ed imposta immediatamente alle città più importanti.
Castellum, che, spesso e volentieri, nella sua fase iniziale di torri isolate di forma regolare o con base tronco-piramidale: ciò vale anche per Crecchio. Infatti, nella sua fase iniziale, la struttura coincideva solo con la cosiddetta Torre dell’Ulivo, la cui muratura è realizzata in pietrame squadrato su una sola faccia, impilata, con blocchi di arenaria compatta ben squadrata agli angoli. Gli spessori delle sue mura variano da circa 1,80 a 0,80 metri. La torre normanna la più grande ed alta del castello, era sino al 1943, era sormontata da merli irregolari, a testimonianza della sua funzione difensiva.
La torre è articolata in tre piani. Il piano terra era destinato a deposito per viveri ed era accessibile solo attraverso una botola ubicata al primo piano. L’accesso al primo piano invece era possibile solo attraverso una scala a levatura che si andava a chiudere in caso di attacco. L’accesso al piano superiore ed al piano esterno di avvistamento era possibile solo attraverso una stretta scala a chiocciola in pietra che salendo gira a destra; tale accorgimento, utilizzato nelle costruzioni strettamente militari, avvantaggiava i soldati posti a difesa, in quanto, chi attaccava era costretto a portare le armi con la mano sinistra.
Le continue scorrerie e le cruenti vicende storiche del Regno di Napoli portarono, tra il XIII e XIV secolo, ad un completo riassetto del castello con l’edicazione di tre nuove torri poste agli angoli del recinto forticato e di due grossi corpi di fabbrica ad uso residenziale, collocati a nord e ad est; realizzati con imponenti muri esterni atti a reggere la spinta delle volte romaniche, costruite in pietra della Maiella a grossa porosità, in modo da essere più leggere. La più antica di queste nuovi torri è probabilmente la cosiddetta Torre Aragonese a pianta quadrata ed è decorata da una sommità con merlature e beccatelli, dato che le altre dure furono ristruttate nel Settecento.
Una stima del feudo redatta nel 1633 da Scipione Paterno Tabulario napolitano, ci restituisce una puntuale descrizione del castello, testimoniandoci che dal XIV al XVII secolo non vi furono sostanziali modiche, chiarendo e specicando meglio l’aspetto e le funzioni degli ambienti che lo componevano.
La città predetta di Lanciano sua patrona ci possiede un castello posto nella testa della Porta de Capo in parte d’essa più eminente, et qualbo consiste in un cortile scoverto in piano, del quale ci si trova nel frontespitio del suo intrato una stalla con un’altra stanza contigua, et a sinistra intrando una cantina con fondaco per riporre vittovaglie, con fumo cisterne et altre comodità tutte a lamia, et salendo per un grado di fabrica si ritrova una loggia coverta con l’aspetto del medesimo cortile, dalla quale s’entra in un cammarone grande con dui altre stanze contigue, et ritretto, et da quelli di passa con intrata separata dalla medesima loggia in una saletta comoda con camera, cammarino et cucina generalmente in piano coverta a travi et mattunate nel suolo, et tornando nel piano del cortile, et proprio in uno delli suoi angoli è una torre quatra consistente in tre appartamenti uno sopra l’altro, et ciascheduno d’essi contiene in una camera et camerino declarando che al piano inferiore si sale con la scala a levatura, et dal piano fino alla sua sommità con caroglio di pietra, dal quale castello si gode et vede tutta la marina el suo general tenimento. Et contiguo d’esso, ei proprio sul suo fianco è un orto chiamato fosso murato quale è ad uso d’ortilitio per comodità detto castello con un altro poco accanto l’intrata maggiore contiguo la strada
Pervenuto ai Duchi De Riseis, che, a partire da Panfilo, avranno un ruolo importante nel Risorgimento, il castello fu trasformato da struttura difensiva a residenza. Nel 1789 venne ampliato il porticato al piano terra costruendo l’ala occidentale e fu coperto a tetto il camminamento merlato ubicato al secondo piano, in modo da ricavarne le stanze per la servitù e dispense; proprio in segno di riconciliazione con la popolazione locale fu piantato un ulivo sulla sommità della torre normanna, in segno di pace verso
la cittadinanza e da allora fu chiamata “torre dell’ ulivo”.
Il cortile del castello ed il parco che lo adornavano al 1943 , erano arredati con reperti archeologici tardo-romani provenienti dalla località Vassarella e busti in marmo pregiato. Il 9 settembre 1943, il castello è diventato lo scenario di importanti eventi della storia recente d’Italia: durante la fuga da Roma, dopo l’armistizio sostarono nel castello sua maestà Vittorio Emanuele III, la Regina Elena, il Principe Umberto, Badoglio e tutto lo Stato Maggiore. Qui si decisero le sorti della monarchia sabauda e ci fu l’ultimo tentativo della duchessa Gaetana De Riseis per convincere inutilmente il Principe Umberto a far ritorno a Roma. Negli ultimi giorni del 1943 il castello veniva bombardato
Il Castello è stato restaurato negli anni Settante ed è ora sede del Museo dell’Abruzzo Bizantino ed Altomedievale, in cui sono esposti gli oggetti rinvenuti nelle ricerche dell’Archeoclub d’Italia in collaborazione con la Sopraintendenza Archeologica d’Abruzzo in una villa rustiva romano-bizantina presso la località di Vassarella nel comune di Crecchio tra il 1988 ed il 1991, che hanno restituito uno spaccato della vita quotidiana dei bizantini in Abruzzo tra il VI e il VII sec. d.C. e permettono di ricostruire le rotte commerciali dell’Abruzzo bizantino con l’Oriente e con l’Egitto copto. Il contesto storico-economico evidenzia la situazione di Crecchio e più in generale dell’Abruzzo, diviso tra dominio longobardo all’interno e bizantino sulla costa, aperto ai commerci adriatici grazie al porto di Ortona, base militare forticata e direttamente dipendente dall’Esarcato di Ravenna, centro di irradiazione delle merci bizantine.
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Di particolare importanza sono le ceramiche dipinte di produzione locali, chiamate ovviamente di tipo Crecchio, che evidenziato sia l’alto livello delle officine abruzzesi, sia il loro essere inserite nei circuiti commerciali internazionali. Gli arredi lignei, straordinariamente conservatisi grazie all’ambiente umido e anaerobico della cisterna, restituiscono uno spaccato della vita quotidiana e delle attività produttive della villa, principalmente finalizzate alla produzione di lana e vino. Si segnalano i resti di una sedia del tipo ‘Cathedra’, quasi integra, parti di un telaio, oggetti riferibili al mundus muliebris, frammenti di almeno tre tini e altri manufatti usati per la produzione del vino.
Sono poi conservati monili, vasellame in bronzo, vetri e gioielli in bronzo/dorato di eccezionale fattura. Incantevole l’anello in bronzo ragurante una figura femminile con il capo velato, sormontata da una stella a sei punte e fiancheggiata da due aste. Ad arricchire l’esposizione si aggiungono reperti provenienti da varie località dell’Abruzzo costiero, tra cui la tabula patronatus del 383 d.C., rinvenuta nei pressi di San Salvo (Chieti), che attesta il conferimento al nobile Aurelio Evagrio Onorio del patronato della città di Cluviae (Piano Laroma-Casoli). La guerra Greco-Gotica che sconvolse il territorio abruzzese nell’inverno 537-538 d.C. è documentato da una serie di armi, tra cui un elmo ostrogoto in rame dorato e ferro rinvenuto in località Santa Lucia, presso Torricella Peligna.
Il Museo ospita una sezione etrusca (composta da circa 600 reperti) allestita dalla sede locale dell’Archeoclub d’Italia. Nelle quattro vetrine della sala è esposta una selezione dei materiali archeologici più significativi della Collezione “Alberto Carlo Fraracci”, donata al museo nel 1995. Il criterio espositivo è quello cronologico: i reperti delle diverse classi – ceramica, terracotte, bronzi, marmo, pietra, ecc.- vengono inquadrati all’interno del loro contesto storico-culturale, in un arco di tempo che va dal IX sec. a.C. al II sec. d. C.
La prima vetrina raccoglie materiali ceramici e bronzei della I e della II fase villanoviana, prodotti in Etruria meridionale nel IX e nell’ VIII sec. a. C. Il panorama del materiale villanoviano prosegue poi nella seconda vetrina, in cui sono esposti reperti ceramici e bronzei dell’ VIII sec. a. C., nell’ambito della II fase villanoviana. Con la terza vetrina l’orizzonte cronologico si sposta al periodo c. d. “orientalizzante” – tra la fine del sec. VIII a. C. ed i primi decenni del sec. VI a. C. – di cui la Collezione Fraracci offre una serie assai signicativa di esemplari. Nell’ultima vetrina sono raccolti materiali più eterogenei, che vanno dalla piena età arcaica all’età romana repubblicana ed imperiale, dal VI sec. a. C. al II sec. d. C.
La sezione italica raccoglie materiali rinvenuti sporadicamente durante lavori agricoli, provenienti in gran parte da contrada Villa Tucci e Santa Maria Cardetola. Resti di corredi funerari databili tra il VI e Il sec. a. C. permettono di testimoniare i primi insediamenti sul territorio crecchiese, in una terra di confine tra Marrucini a nord e Frentani a sud. Degni di nota sono i corredi funerari tra i quali spiccano: le bulle e la collana in vaghi di bronzo, pasta vitrea ed osso, le olle frentane in ceramica depurata, le ceramiche a vernice nera, le punte di lancia e la spada corta proveniente da S. Pietro-Selciaroli. Qui è conservato anche il calco dell’epigrafe in lingua osca scoperta nel 1846 a Santa Maria Cardetola da Francesco Carabba, una delle più lunghe iscrizioni del tipo bustrofedico (scritta nel senso dell’aratura del campo) non a carattere funerario mai rinvenute, custodita oggi presso il Museo archeologico di Napoli.
La presenza di santuari italici denotata spesso dal rinvenimento di materiale lapideo a connotazione architettonica, è ulteriormente avvalorata dai numerosi votivi fittili tra i quali uno a forma di mano e svariate statuette di Ercole alcune qui conservate, altre esposte in musei della provincia. La sezione storica ospita alcuni arredi interni ed esterni del castello e una ricca ed interessante documentazione fotografica, donata dagli eredi della famiglia De Riseis, che ci permette di rivivere, attraverso le immagini, gli arredi del castello e la vita sociale che vi svolgeva, legata spesso a quella della Casa Savoia.
June 13, 2020
Il Teatro Marmoreo
Uno dei monumenti palermitani poco noti e ancora meno valorizzati è il Teatro Marmoreo a Villa Bonanno, che, nonostante il nome, non ha nulla a che vedere con Musica, Tragedia e Commedia; ha invece molto a che fare con la propaganda, intesa come rappresentazione che il Potere da di se stesso, sia per ottenere l’approvazione dei suoi contemporanei, sia per conquistare il cuore e la mente dei posteri.
Tra l’altro, la sua fortuna consistere nell’essere in Italia: data la furia iconoclasta che si sta diffondendo nei paesi anglosassoni, in cui pare sia più semplice prendersela con le statue che realizzare riforme sociali, ma d’altra parte, il meccanismo del capro espiatiorio funziona sempre bene, se tale monumento, per tutto il suo retroterra ideologico, si fosse trovato a Londra o a New York, sarebbe stato sicuramente demolito.
Questo monumento, eretto nell’agosto 1631 nel grande Piano del Palazzo reale (oggi Piazza del Parlamento), è senza dubbio un’esaltazione dell’imperialismo spagnolo e di tutta l’ideologia che lo supportava: inizialmente, consisteva soltanto la statua di bronzo di Filippo IV d’Asburgo re di Spagna e di Sicilia, detto Filippo il Grande e soprannominato il Re Pianeta in quanto i suoi possedimenti si estendevano per tutti i continenti del mondo allora conosciuti.
La statua, opera di Scipione Li Volsi, lo stesso che aveva realizzato quella di Carlo V a Piazza Bologni, era posta sopra un piedistallo alquanto modesto. Intorno al 1660, fu rifatta la statua da Carlo d’Aprile, ma di proporzioni più grandi: in quell’occasione, saltò fuori da un cassetto un vecchio progetto di Pietro Novelli, relativo a quel monumento, in cui l’artista, come suo solito quando si dedicava all’architettura e all’arredo urbano, si era fatto prendere un poco la mano. Aveva infatti concepito un monumento piramidale – con base vagamente ottagonale – ricco di statue e balaustre: il Senato Palermitano, all’epoca, per motivi di risparmio, aveva però bocciato la proposta.
Le cose cambiarono proprio nel 1660: il viceré Fernando de Toledo Fonseca y Ayala, III conte di Ayala, giunto in quell’anno a Palermo, aveva trovato condizioni quanto mai difficili in molti ambiti, a causa dell’avidità dei reggenti del Consiglio d’Italia, il messinese Ascanio Ansalone, duca della Montagna, e l’asturiano Benito de Trelles, marchese di Torralba, e dell’arcivescovo di Palermo, Pedro Martínez de Rubio, tutti e tre coinvolti in diversi scandali finanziari.
Per evitare che la situazione degenerasse e fosse occasione di nuovo moti antispagnoli, il viceré mise fine alle loro ruberie: i tre divennero quindi suoi feroci avversari, accusandolo di tessere intrighi contro la Corona. Per cui, per dimostrare la sua fedeltà a Madrid e ridare vigore alla fiducia nella Monarchia, che appariva in qualche modo indebolita sul piano internazionale dopo la firma del trattato dei Pirenei (1659) e l’ascesa della Francia, cominciò a mettere mano, in chiave propagandistica, all’urbanistica palermitana.
Cominciò con il completamento del Teatro del Sole, i nostri Quattro Canti, facendo porre le statue dedicate ai re spagnoli, per poi riprendere il vecchio progetto di Novelli: per realizzarlo ingaggiò Gaspare Guercio, impegnato nella ricostruzione di Porta Nuova, Carlo d’Aprile, ormai specializzato nella realizzazione delle opere di propaganda filospagnole, e Gaspare Serpotta, padre di Giacomo. Lo storico Vincenzo Auria, nel suo “Diario”, scrisse che la nuova statua ed il Teatro marmoreo furono inaugurati il 25 Luglio 1662, giorno di San Giacomo. L’opera costò 20mila scudi, che furono fatti pagare, come punizione al Senato di Palermo, accusato di connivenza con i tre ladroni.
Infine, per ribadire il valore simbolico del monumento, insieme rappresentazione e scena, testo e immagine, ai pochi a cui poteva essere sfuggito, il vicerè commissionò il libro la Dichiaratione del Nuovo Theatro a Francesco Angelo Strada, segretario del Senato di Palermo, in quale diede fondo alla sua retorica, in cambio dell’esenzione dal pagare i lavori.
Riassumendo i contenuti del suo periodare barocco, il monumento a forma di anfiteatro che viene realizzato dinanzi al palazzo regio rappresenta il mondo intero, così come esso si dispone sotto il dominio di Filippo IV. Le statue che sono collocate in circolo rappresentano i suoi principali domini (la Sicilia affiancata alla Castiglia, nel lato più a favore del visitatore, Napoli, Milano, Sardegna, Portogallo, Catalogna e America), mentre i bassorilievi che si stagliano sul basamento centrale rappresentano i quattro continenti fino a quel momento noti, tutti luoghi dove si espande la sovranità del re.
Europa, splendor et ornamentum; Africa, spes optima salutis; America, delicium atque amor; Asia, expectatio et desiderium, sono il frutto dell’azione bellica della dinastia asburgica. A questo alludono i quattro prigionieri curvi e in catene, ormai vinti: il re di Granada; il re di Tremisen, in Mauritania; il capo guerriero degli Araucani nell’aspra regione delle Ande; il tiranno di Mindanao. Si tratta di condottieri la cui sconfitta suona tanto più gloriosa per la Monarchia, perché si sono rivelati particolarmente valorosi sul campo. Ma, Filippo IV, così come egli viene rappresentato nel Teatro marmoreo, non ha più bisogno della spada per governare il mondo. Quest’ultima riposa dentro il fodero, mentre lo scettro nella mano destra del sovrano e la corona sormontata dalla croce rimandano alla vera forza della dinastia, la pietas asburgica in grado di fornire un’ideologia forte e vincente alla Monarchia universalis.
A completare il tutto, per citare invece il marchese di Villabianca
Geroglifici finalmente di virtù e pregi drizzati al merito dell’augusto sovrano in ogni parte ammiransi; e le iscrizioni senatorie, de’ tempo de’ Pretori principe di Raffadali, Cesare La Grua, duca di Villareale, e Luigi Naselli, principe di Aragona, vanno al tutto a dar fornimento
Il monumento subì un primo restauro nel 1811, infatti il personaggio che sovrasta l’Europa fu reinterpretato dallo scultore Federico Siracusa. Durante la Rivoluzione del 1848, la statua di bronzo di Filippo IV fu abbattuta, non per odio ideologico, ma per pura necessità: per Decreto del Parlamento siciliano servì per la fusione di nuovi cannoni. In questa circostanza furono anche danneggiati gli altorilievi dell’America e dell’Africa che furono in seguito rifatti dallo scultore neoclassico Valerio Villareale
Per alcuni anni, il Teatro marmoreo rimase per alcuni anni senza la statua del monarca, finché, per venire incontro alle richieste dei palermitani, il governo borbonico commissionò una nuova statua di Filippo IV a Nunzio Morello, il quale, nel ritrarre il sovrano spagnolo, si basò sulla statua di Carlo d’Aprile ai Quattro Canti.
La cosa comica è che diversi giornalisti locali, che non sarebbero sfigurati nella redazione di Roma fa Schifo, data la loro ignoranza, negli articoli dedicati alla nuova statua, sbagliarono nome del regnante, mettendo Filippo V di Borbone al posto di Filippo IV d’Asburgo. Errore che di bocca in bocca, è arrivato sino ad oggi, apparendo anche in diverse guide turistiche.
June 12, 2020
Il trattato di Alaksandu
Le complesse vicende politiche e militari accennate dalla Lettera di Manhapa-Tarhunta ebbero nell’immediato una conseguenza diplomatica: il cosiddetto trattato di di Alaksandu, un testo redatto nel XIII secolo a.C. (1280 a.C. circa) in lingua luvia/ittita, con il quale l’imperatore ittita Muwatalli II ed il sovrano di Wilusa/Troia Alaksandu strinsero un accordo di vassallaggio, alleanza e protezione. Il testo è giunto a noi in discreto stato di conservazione.
Alaksandu è ovviamente un falso somigliante del greco Alexandros, il soprannome con cui, nell’epica omerica era noto Paride. Probabilmente, nella tradizione orale dei potentati locali che erano nati dal collasso del stato Ahhijawa, in qualche modo vi era un eco distorto della guerra combattuta in quegli anni contro gli Ittiti per il controllo dell’area luvia, su cui, con il passare del tempo, le idee divennero assai più confuse e che furono trasfigate in chiave poetica da generazione di aedi.
Piccola premessa: benché gli ittiti non possano essere considerati gli inventori del diritto internazionale, i più antichi trattati diplomati che ci sono giunti sono stati infatti stipulati tra le città stato sumere, sono, tra i popoli dell’età del bronzo quelli che lo hanno portato al massimo livello di sofisticazione.
Il motivo era alquanto semplice: il cosiddetto impero ittita era in realtà una sorta di Commonwealth di staterelli differenti sia per interessi geopolitici ed economici, sia per lingua e cultura. Questo, ovviamente dipendeva dalla diversa configurazione del territorio rispetto a Mesopotamia ed Egitto. L’altopiano anatolico, con le sue valli divise da catene montuose, se da una parte aveva il vantaggio di avvicinare diverse nicchie ecologiche e produttive, dall’altro presentava gli svantaggi di soffrire di una perenne mancanza di manodopera e di fare prevalere le spinte centrifughe su quelle centripete.
Per mantenere una parvenza di unità nella loro varietà di domini, oltre a ricorrere alla forza, gli ittiti dovettero codificare una serie di obblighi reciproci, basati sul principio di sussidarietà, tra potere centrale ed élites locali. Tali rapporti erano formalizzati in un documento, che seguiva struttura predefinita e standardizzata.
I paragrafi di un trattato diplomatico ittita, erano infatti:
Preambolo: dove compare la titolatura dei due sovrani per i paritetici, mentre troviamo solo il sovrano ittita per i testi di subordinazione.
Prologo storico: in cui si illustra la storia dei rapporti tra Hatti e la controparte, esponendo le cause e gli avvenimenti che hanno interessato i contraenti, ovviamente secondo l’ottica ittita, e che hanno portato alla stipulazione del trattato.
Sezione normativa: qui si stabiliscono obblighi e doveri per le due controparti.
Invocazione divina: qui si chiamano gli dei a testimoni e garanti dell’accordo.
Maledizioni e benedizioni: queste si rivolgono a chi trasgredisce o rispetta gli accordi.
Nel trattato di Alaksandu, dal punto di vista storico, ci interessano proprio il Prologo e la Sezione Normativa.
Nel lungo prologo, Muwatalli II ricorda che il rapporto di amicizia tra gli Ittiti e Wilusiani, i nostri troiani, dura da secoli, dando atto che questi si sono sempre dimostrati sudditi fedeli; il sovrano elenca una serie di rivolte avvenute contro gli Ittiti nel corso dei secoli da parte degli stati dell’area arzawa, di cui anche Wilusa faceva parte, rimarcando che tuttavia, a differenza degli altre nazioni luvie, mai i Wilusiani vi hanno preso parte.
Muwatalli passa poi ad elencare le circostanze in cui Alaksandu è divenuto re, succedendo all’unico sovrano di Wilusa precedentemente noto, Kukunni: in questa parte piuttosto frammentaria del testo pare di leggere la parola padre. Da quello che capiamo, integrando le informazioni presenti con quanto contenuto nella lettera di Lettera di Manhapa-Tarhunta, Kukunni era stato cacciato da Wilusa da una coalizione di ribelli luvi e di Ahhijawa.
Muwatalli dà atto ad Alaksandu di essere rimasto lui pure fedele agli Ittiti quando, alcuni anni prima, il padre di Muwatalli, Muršili II era morto, lasciando il trono al figlio. Come ricompensa a tale fedeltà, sottolinea Muwatalli,
“…e per il giuramento fatto a tuo padre, ho risposto alla tua richiesta di aiuto ed ho ucciso i tuoi nemici al posto tuo”
Per cui, possiamo arguire che la spedizione del generale ittita Kassu, da cui Manhapa-Tarhunta si era defilato alla grande, fosse finalizzata a rimettere sul trono lo stesso Alaksandu e che la sua posizione fosse stata confermata nel trattato di pace tra Achei e Hattusa.
Invece, guardiamo i dettagli della Sezione Normativa, che comincia con
Se tu vieni a sapere di qualche questione di rivolta, sia che [promuova una ribellione] l’uomo della valle del fiume Seha o l’uomo del paese di Ar[zawa], quelli che ora sono a te di pari rango, e tu vieni a conoscenza prima della cosa e non la scrivi a Sua Maestà, ma distogli lo sguardo da qualche altra parte su queste cose dicendo così: «Avvenga pure questo male»: non appena senti della cosa scrivila subito senza indugio a Sua Maestà.
Ossia il primo obbligo del re di Wilusa consisteva nell’avvertire gli ittiti di eventuali rivolte che minacciavano di verificarsi tra i popoli luvi.
Inoltre, voi che siete i quattro re all’interno dei paesi di Arzawa, tu, Alaksandu, Manapatarhunta, Kupantakurunta e Urahattusa: Kupantakurunta per linea maschile appartiene alla famiglia del re del paese di Arzawa, e per linea femminile appartiene alla famiglia del re del paese di Hattusa in quanto è figlio della sorella di mio padre Mursili, Gran Re, re del paese di Hattusa, e cugino di Sua Maestà. Ora, i suoi servi e gli Arzawiti sono falsi: se qualcuno trama del male contro Kupantakurunta tu, Alaksandu, sii di aiuto e di appoggio a Kupantakurunta e difendilo, mentre costui difenda te! Se un servo di Kupantakurunta si ribella e viene da te, tu prendilo e restituiscilo a Kupantakurunta. Siatevi di aiuto e di appoggio l’uno con l’altro e difendetevi a vicenda!
Il suddetto Kupantakurunta, cugino di Muwatalli, era una sosta di proconsole ittita nella zona. Tra l’altro, aveva aiutato Kassu nella sua campagna di riconquista di Wilusa. Di conseguenza, era visto con il fumo negli occhi dai “nazionalisti” luvi, che in caso di rivolta, lo avrebbero appeso a testa in giù
Inoltre, se un qualche nemico si solleva e viene ad attaccare le terre che io, Sua Maestà, ti ho dato ed i confini del paese di Hattusa, tu (ne) vieni a conoscenza e non scrivi al generale che è all’interno del paese, non muovi in aiuto e distogli slealmente lo sguardo, oppure il nemico attacca ed occupa (una località), tu non corri in aiuto e non muovi a battaglia contro il nemico, oppure il nemico marcia attraverso il tuo territorio, tu non combatti contro di lui e dici: «Va, attacca e saccheggia, io non so nulla»: anche questo sia sotto i giuramenti divini e che i giuramenti divini ti perseguitino! Oppure chiedi truppe e carri a Sua Maestà per attaccare un qualche nemico, Sua Maestà ti dà truppe e carri e tu li abbandoni di fronte al nemico: anche questa questione sia sotto i giuramenti divini e che i giuramenti divini ti scaccino, Alaksandu!
Ossia, in caso di invasione achea, invece di arrendersi, scappare o trovare un compromesso con i nemici, doveva combattere sino all’ultimo uomo, in attesa dei rinforzi ittiti.
Così [sia] la questione dei fuggiaschi sotto i giuramenti divini: se [un fuggiasco] viene [in fuga] dal tuo paese nel paese di Hattusa [non te lo restituir]anno: non è lecito [restituire] un fuggiasco [dal paese di Hattusa. Se però] scappa un artigiano […] che non porta lavoro, [lo cattureranno e] te lo restituiranno. [Se un fuggiasco] catturato al nemico [fugge dal paese di Hattusa] e attraversa il tuo paese, tu [lo] prendi e non lo restituisci ma [lo] rendi al nemico, anche questo sia sotto i giuramenti divini.
Regole strane, ma che si spiegano proprio per la storica carenza di manodopera presso gli ittiti: in qualche modo, Muwatalli voleva favorire il trasferimento di braccia presso Hattusa e impedire la fuga degli schiavi. Al contempo, essendo Wilusa un importante centro commerciale e produttivo, la sua città bassa aveva la stessa popolazione di Ugarit, non voleva, con il trasferimento di artigiani specializzati, indebolire la sua economia. Infine, Muwatalli elenca le nazioni straniere con cui contro i quali, in caso di guerra, Alaksandu dovrà schierarsi: i re di Egitto, Babilonia, Mitanni ed Assiria.
Sull’Egitto, la questione è alquanto immediata: siamo anni immediatamente precedenti alla grande campagna ittita in Siria, che portò allo scontro diretto con tale potenza. Babilonia rispondeva alla tradizionale ambizione di Hattusa di espandersi in Mesopotamia. L’Assiria, all’epoca, essendosi affrancata da poco dal dominio hurrita, era considerata poco più che una seccatura, tanto che nel trattato il suo re non è definito Lugal, ma “uomo di Assiria”, una perifrasi che nei testi ittiti era impiegata per indicare i governanti di piccoli territori. Infine stride la presenza di Mitanni, scomparso come regno dalla circolazione da una cinquantina d’anni.
Per cui o la formula è una sineddoche, per indicare tutti i nemici per l’impero, oppure si tratta di una distrazione dello scriba: probabilmente, in originale, non erano citato Mitanni, ma i Ahhijawa. Per concludere gli obblighi,
“…per prendere familiarità con gli obblighi del trattato, tu, Alaksandu, dovrai leggerlo tre volte all’anno”
Il che, come testimoniato anche da un ritrovamento di un sigillo, è la riprova come a Walusa/Troia si parlassero correntemente il luvio e l’ittita. Di fatto, Il trattato non imponeva ad Alaksandu impegni gravosi: a fronte di ridotti obblighi in politica estera, gli lasciava completa autonomia, amministrativa e tributaria. In cambio la protezione della potenza militarmente più forte del periodo; la lunga fedeltà e la stabilità che ne era derivata, consentirono a Wilusa di svilupparsi e di prosperare economicamente e culturalmente, con elevati standard di vita per l’elite dominante.
June 11, 2020
La Basilica Maior di Mediolanum
Tornando a parlare di ciò che esisteva prima della costruzione del Duomo di Milano, nel 342 l’imperatore Costante, uno dei tre figli di Costantino aveva ricevuto a Mediolanum il vescovo Atanasio di Alessandria, che gli aveva esposto la necessità di convocare un concilio ecumenico per condannare l’arianesimo. Il concilio si era tenuto nel 345 nella Basilica vetus, ma l’imperatore aveva ritenuto necessaria la costruzione di una nuova e più adeguata basilica, alla quale dette la sua sovvenzione.
La basilica venne costruita inglobando il presunto tempio di Minerva-Belisama, del quale resterà una pervicace memoria locale. E’ fuori discussione che in quel periodo il tempio fosse in disuso e che l’area fosse data in concessione alla Chiesa cattolica direttamente dall’imperatore. Obiettivo di Costante era replicare quanto fatto dal padre a Roma, sia per affermare la continuità dinastica, sia per ribadire il ruolo di Mediolanum come erede primogenita dell’Urbe, alternativa a Costantinopoli. Di conseguenza, la nuova basilica fu una sorta di clone di San Giovanni in Laterano, con una pianta cinque navate, con un transetto inscritto anch’esso a cinque navate e abside semicircolare.
Le sue dimensioni erano assai più grandi delle esistenti basilica vetus e minor: la nuova chiesa vava una lunghezza totale di m 80,80 e per una larghezza totale di m 45,30. Le navate laterali misuravano m 7, quella centrale m 17; i muri erano realizzati in mattoni poggianti su fondazioni in ciottoli di fiume affogati nella malta ed avevano uno spessore di m 1,20. Il pavimento era in cocciopesto nella navata e in lastre di marmo grigio nel presbiterio, sopraelevato di cm 27
La maestosità della basilica era evidenziata dal cromatismo, ricalcato anche questo da Sa Giovanni in Laterano: breccia rossa africana, proveniente dalla cava imperiale numidica di Simitthu (Chemtou in Tunisia) per le colonne della navata maggiore e marmo verde antico per le colonne sulle navate minori, poggianti su plinti di marmo bianco d’Ossola. Al centro della navata, in corrispondenza con un lato del presunto tempio gallo-romano, si trovava un pozzetto.
Il transetto inscritto sottolineava il diverso utilizzo delle due parti della basilica: laico per la navata, che poteva ospitare pellegrini, rifugiati, forestieri che vi potevano passare la notte, oppure poteva servire per il disbrigo delle faccende curiali; esclusivamente religioso per il transetto, in modo da creare una chiesa nella chiesa. Uno degli scopi perseguiti nella costruzione delle nuove grandi basiliche fu di offrire ambienti adeguati alle sempre più importanti attività extra-liturgiche, in quanto la legislazione promossa da Costantino e dai suoi successori prevedeva molti compiti amministrativi a carico della Chiesa.
Davanti alla facciata vi era un esonartece o portico profondo solo 14 m, perché la fitta rete di costruzioni, anche se modeste, che circondava la basilica non permise la costruzione di un grandioso quadriportico, come nella Basilica Vaticana. Anche in questo caso, la facciata costituiva una citazione del Laterano: San Giovanni possedeva un portico retto da sei colonne che sorreggevano un architrave, composto a sua volta da una cornice aggettante, dal fregio mosaicato e da un’altra cornice di dimensioni minori e dalla fascia su cui correva l’iscrizione “Dogmate papali datur”…, che celebrava il ruolo di “Mater et Caput” della Basilica lateranense. La differenza tra i due portici, però, era nella copertura: se quello romano era coperto da un tetto spiovente coperto con tegole, il milanese, invece doveva avere una sorta di terrazza, perché il biografo e segretario di S. Ambrogio, Paolino, narra di
“un tale Innocenzo che era salito di notte sul tetto della chiesa per aizzare gli odi della gente contro Ambrogio, compiendo sacrifici”
L’inaugurazione avvenne nel gennaio del 355, paradossalmente, visto che era concepita come esaltazione del credo niceano con un grande concilio in difesa dell’arianesimo, organizzato dal prefetto Flavio Tauro. Fu un inizio infelice, perché di fronte al tumultuare del popolo nella grande navata, l’assemblea dovette trasferirsi nel palatium. Il vescovo cattolico Dionigi fu condannato all’esilio e venne sostituito con il filo-ariano Aussenzio, un vescovo della Cappadocia, che resterà in carica fino al 374. Aussenzio, di lingua e origine greca, proveniva come formazione dalla scuola di Origene di Cesarea, ignorava il latino e questa estraneità gli suscitò l’ostilità dei milanesi; inoltre sosteneva che Maria, dopo Gesù, aveva partorito a Giuseppe altri figli, negandone quindi la perenne verginità. Il suo insediamento avvenne solo con scorta armata. Atanasio, il vescovo di Alessandria in esilio e scomunicato nuovamente in questo concilio, lo definì “faccendiere”, ossia uomo di regime, con l’unica dote di essere amico di Costanzo II.
La consacrazione con il trionfo ariano segnò il destino della basilica anche durante l’episcopato di Ambrogio, successo ad Aussenzio: la grande basilica avrebbe potuto godere di un rilancio cattolico grazie alla forte personalità e al prestigio del vescovo, se non fosse subentrata a Milano nuovamente la corte ariana guidata dall’imperatrice Giustina.
Dal 378, appena quattro anni dopo l’elezione di Ambrogio, la corte di Sirmio si era infatti spostata a Milano per sottrarsi alla pressione dei Goti e solo il trasferimento in pianta stabile dell’imperatore Graziano a Milano nel 381 e la sua alleanza con Ambrogio poterono sbilanciare brevemente la situazione a favore dei cattolici. Dopo l’assassinio del giovane imperatore, l’ago tornò a spostarsi a favore di Giustina e a partire dal 384 Ambrogio dovette lottare non poco per riavere il controllo completo sulla grande basilica, contestatagli dal rivale vescovo ariano Aussenzio II, fino agli scontri radicali di Pasqua del 386.
Dalla descrizione degli avvenimenti di quella settimana di passione che Ambrogio fa alla sorella Marcellina riusciamo a vedere il grande complesso cattedrale: martedì 31 marzo 386 Ambrogio è asserragliato nella basilica vetus e poi va a casa a dormire, ossia nella sua domus collocata sul lato meridionale della basilica vetus (unita?). Prima dell’alba di mercoledì 1° aprile i soldati circondano la vetus e Ambrogio è svegliato dal clamore:
“Dai lamenti del popolo compresi che la basilica era stata circondata”.
Anche la basilica nuova era piena di gente, inclusi i soldati. Comunque vinse Ambrogio e Giustina festeggiò la Pasqua nella più permissiva Aquileia.
Nella basilica si visse un altro momento carico di pathos e di tensione nel Natale del 390, quando Ambrogio impose all’imperatore Teodosio la penitenza prima di essere riammesso alla comunione dei fedeli dopo la strage di Salonicco, avvenuta nell’agosto di quell’anno. L’imperatore, privo delle insegne imperiali, entrò in chiesa tra due ali di fedeli e, piangendo, si gettò più volte in ginocchio, chiedendo perdono a Dio.
La vigilia di Pasqua dell’anno 397, giorno di battesimo, morì il vescovo Ambrogio e la sua salma venne esposta nella Basilica Maior prima di venir tumulata nella basilica Ambrosiana. I neofiti che avevano appena ricevuto il battesimo nel nuovo battistero e si recavano in processione nella basilica per ricevere la prima comunione raccontarono di aver visto il vescovo seduto sulla cattedra episcopale e si dissero stupiti nel sapere che in realtà era già morto. In questo periodo, probabilmente voluto da Aussenzio e quindi destinato inizialmente agli ariani, fu costruito il secondo battistero dell’area, San Giovanni alle fonti.
Ovviamente, la Basilica Maior subì le stesse vicissitudini della Vetus: a seguito del saccheggio di Attila, le basilica ebbe bisogno di interventi nelle coperture lignee incendiate e nella parte absidale, ma soprattutto a causa della profanazione subita dovette essere riconsacrata nel 453 e dedicata al Santissimo Salvatore. Nel triennio 454-457 i lavori di restauro vennero sospesi a causa di nuove invasioni e della presenza di Ricimero a Milano.
Quest’ultimo, che poco si studia a scuola, è stato un politico e generale goto dell’Impero Romano d’Occidente, effettivo detentore del potere negli anni 460 fino alla sua morte; intrigante e ambizioso, passò la vita a nominare imperatori fantoccio e guerreggiare contro di loro, appena cercavano di affermare la lori indipendenza. Essendo ariano, a Roma fece costruire Sant’Agata dei Goti, provò a riconsegnare la Basilica del Santissimo Salvatore al culto di questa variante del cristianesimo: tentativo fallito a causa dello sciopero ad oltranza dei muratori milanesi, che lasciano incompiuti i lavori in corso.
Nel 491 Milano fu invasa da Burgundi e Rugi, chiamati in soccorso dal generale Odoacre, re degli Eruli, contro i Goti di Teodorico. Ennodio scrive che l’irruzione dei nemici riempì la città di desolazione e di rovine. Molti abitanti fuggirono, altri furono fatti prigionieri, tra cui lo stesso vescovo Lorenzo, che patì freddo, ingiurie e aggravamento degli acciacchi dell’età avanzata. La città era ridotta al terrore e al disordine: ovunque lutti, un marcire d’immondizia e un ristagnare d’acqua putrida; le chiese servivano solo per albergare animali, ma ancora una volta i danni non furono irrimediabili. La cattedrale, identificata col potere del vescovo, venne intenzionalmente danneggiata e furono rotte alcune colonne rosse e verdi delle navate.
Terminata l’emergenza, dal 493 al vescovo Lorenzo spettò il restauro degli edifici religiosi rovinati, anche grazie alla sovvenzione del vittorioso Teodorico, che mise a disposizione della Chiesa i beni sequestrati ai milanesi che avevano parteggiato per Odoacre. L’intervento principale interessò la cattedrale del S. Salvatore: il pavimento risultò interamente rivestito di marmi in opus sectile a formare disegni geometrici, che suddividevano i vari spazi liturgici; al centro della navata la solea, delimitata da transenne e ascendente con scale fino al presbiterio, doveva sottolineare il valore cerimoniale degli ingressi in chiesa del corteo vescovile.
I materiali erano il marmo bianco di Luni e greco, il cipollino, la breccia rossa africana (proveniente dalle colonne centrali), il verde antico (dalle colonne delle navate laterali), il nero di Varenna. Per la base della transenna venne riutilizzato materiale parimenti di spolio, tra cui un blocco di cornice del II secolo d.C., che è stato ritrovato negli scavi. L’altare fu ricoperto da un ciborio su colonne. Al presbiterio furono aggiunti due vani di servizio (forse due torri) con pavimento in mosaico di reimpiego. La volta venne realizzata con tubi fittili e il nuovo catino absidale fu decorato con un mosaico, completato probabilmente da decorazioni e crustae intorno alla cattedra episcopale, sopra la quale penderà a partire dal secolo XI una croce contenente la reliquia del Santo Chiodo, importata dall’Oriente cristiano.
Da questo momento in poi, la Basilica del Santissimo Salvatore cominciò a decadere: nel 569 il re dei Longobardi Alboino entrò a Milano e il vescovo Onorato, data la pessima fame del conquistatore fuggì a Genova con il clero maggiore e l’aristocrazia. I Longobardi non toccarono il gruppo cattedrale cattolico, non pretendendo, a differenza di Ricimero, il ripristino del culto ariano nell’ex Basilica Maior.
Per cui, sia la Vetus, sia la Maior furono ufficiato dal clero minore rimasto a Milano (che prese il nome di decumano), e costruirono un proprio polo liturgico. La basilica regia longobarda divenne San Simpliciano, mentre per il culto dei fedeli ariani si costruì fuori dalle mura la chiesa di San Giovanni in augirolum con annesso battistero, dove ora si trova la Torre Velasca.
Nonostante la conversione al cristianesimo dei Longobardi, la Basilica Maior rimase assai trascurata: le cose cambiarono però con i Carolingi. Nell’anno 811 Carlomagno assegnò alla Chiesa milanese una dotazione suntuaria, forse anche un avorio tardo-antico, noto come Dittico delle cinque parti, di fattura ravennate, conservato nel Tesoro del Duomo. Si tratta di due grandi copertine di avorio, suddivise ciascuna in cinque parti finemente intagliate. Sul frontespizio si vede l’Agnello realizzato in granati incastonati in argento e inserito in una ghirlanda; nella tavola di chiusura al centro vi è una croce. Ma il dono più prezioso venuto dalla Francia fu la testa di Santa Tecla, per sistemare la quale si diede avvio al lavoro di ripristino della basilica del Santissimo Salvatore.
La nuova reliquia trasformò l’ex Basilica Maior in un luogo di pellegrinaggi: per cui, Ludovico il Pio, figlio e successore di Carlo Magno, ne approfittò per rinnovare l’edificio.Il presbiterio venne rialzato a formare una grande tribuna alla quale si accedeva con una scalinata centrale, sul modello della basilica Ambrosiana. L’abside venne arretrata per dar maggior ampiezza al presbiterio, ma fu ridotta in profondità e rimpicciolita. Per l’occasione ricevette una nuova decorazione a mosaico, sfortunatamente a noi ignota. La cripta, posta a – 1 m dal piano di calpestio della chiesa, era dotata di sedici colonnine che sostenevano il pavimento del presbiterio. Vi si trovavano le reliquie di Santa Pelagia, l’altra nuova titolare della basilica insieme a Santa Tecla. Inizia da questo momento la depositio ad sanctos nella basilica; la gestione delle inumazioni e i proventi derivati dalle cerimonie funerarie spettavano ai decumani. La basilica maior venne così a essere intitolata al Santissimo Salvatore e Santa Tecla, ma col tempo rimase solo il titolo di Santa Tecla. Collegata al piano superiore della basilica di S. Tecla (palatium) da un passaggio forse sopraelevato vi era la canonica dei decumani, una struttura articolata dotata di stalle, pozzo, spazi porticati e loggiati, con locali per i dodici canonici. Si affacciava su quella che veniva detta la stretta dei Decumani, sull’area dell’attuale via Foscolo, una strada senza uscita che conduceva alla Canonica.
Da quel momento in poi, Santa Tecla fu teatro di episodi molto cruenti che vedevano fazioni cittadine in guerra contro l’arcivescovo. Il 4 giugno 1066, Pentecoste, nella cattedrale avvenne uno scontro tra i patarini, guidati da Arialdo ed Erlembaldo, e il vescovo Guido da Velate, di scelta imperiale e quindi accusato già nel 1050 di simonia, ossia di aver comprato la carica, e di proteggere i preti concubinari. Guido dal pulpito accusò da parte sua i patarini di voler assoggettare la Chiesa ambrosiana a quella romana e si scagliò contro Arialdo, che rimase gravemente ferito. I patarini assalirono l’arcivescovado e catturarono Guido, che ne uscì piuttosto malconcio, ma abbastanza in forze da lanciare un interdetto sulla città finché Arialdo girava a piede libero. Il capo patarino verrà ucciso nel giugno dello stesso anno in un’isola sul lago Maggiore e Guido, impaurito e malconcio, si ritirerà a vita privata a Bergoglio, dove morirà nel 1071.
Danni ben peggiori vennero all’antica basilica dagli incendi del 1071 e del 1075, evento scatenante – come un tempo lo fu quello neroniano – per l’aggiornamento architettonico e urbanistico di tutta la città. Dovendo rifare il tetto della basilica, si ricorse alla copertura in muratura: si sostituirono le colonne con pilastri cilindrici che sostenevano il soffitto a volte e dividevano la navata in sei campate. Venne forato con una porta lo pseudo-transetto e incamiciata l’abside medievale per rinforzarla. La cattedrale visse il suo primo momento di gloria dopo i rifacimenti quando ricevette la visita di papa Urbano II, che dal suo pulpito invocò alla fine di settembre 1096 la partecipazione dei Milanesi alla crociata.
L’offesa che la basilica ricevette dalle truppe imperiali fedeli al Barbarossa fu veramente ingente e il restauro fu l’occasione per aggiungere nuovi elementi alla basilica, come il pontile in marmo rosso di Verona con gli Apostoli, opera dei Maestri Campionesi. All’epoca, la facciata di S. Tecla aveva un ingresso principale e due laterali e contrafforti con corrispondenti lesene all’interno, allineate coi filari dei pilastri. Davanti alla facciata vi era un portico su due livelli, detto Paradiso, che aveva una profondità irregolare di ca. m 5,50, con sette campate, sostenute da pilastri di m 1 di lato ed era aperto sui fianchi. Al piano superiore si accedeva con una scala posta sotto la prima campata sud del portico. Questo piano superiore aveva una certa importanza e veniva detto “palatium”. Vi si trovavano sia le stanze dei canonici decumani di S. Tecla, sia uffici mercantili.
Con la crescita economica di Milano, il Paradiso divenne sede del mercato cittadino. Le botteghe e i banchi erano appoggiati alla facciata della basilica. Tra i banchi e i pilastri c’era un piccolo transito al coperto, che separava anche il mercato della polleria e della pescheria minuta. La profondità del Paradiso corrispondeva a quella di due banchi più il transito. Il Paradiso era un luogo di sepoltura, per cui la nostra sensibilità considera veramente fuori luogo la commistione fra morte e mercato, che invece era giudicata assolutamente normale nel medioevo. Addossate alla facciata di Santa Tecla c’erano diverse arche funebri, sotto il pavimento vi erano tombe con sopra lastre di pietra; i banchi si disponevano sopra le tombe e lasciavano libero solo un accesso alla tomba, senza suscitare alcuna perplessità.
Il diritto di esposizione era pagato a carissimo prezzo; le botteghe erano in legno e non misuravano di solito più di due metri. Vi si vendevano per lo più drappi di lana, berrette e calzature, oppure vi si potevano trovare banchi di sarti, ma non mancavano anche le bancarelle alimentari. Appoggiati al lato meridionale di Santa Tecla c’erano i banchi dei pellicciai, mercanti di pelli ovine, che ostruivano la contrada che da loro prendeva il nome, stretta tra l’isolato del Rebecchino. A nord della basilica, per tutta la sua lunghezza, era appoggiato dal XII secolo il coperto dei Borsinari, noto anche come coperto di Santa Tecla, dove si vendevano borse, borsini, cinture e bottoni. La zona absidale di S. Tecla era occupata da bancarelle varie, incluse quelle del pane, di abiti usati (pataria) e per le varie riparazioni.
Azzone Visconti, oltre a dedicare le sue attenzioni a Santa Maria Maggiore, decise di mettere ordine in questo caos, creando uno spazio nuovo “molto utile alle attività mercantili” da affiancare alle nutrita serie di botteghe che circondavano oramai Santa Tecla.La nuova piazza dell’Arengo creata da Azzone viene ad occupare l’area compresa tra le due basiliche, che era delimitata a sud dal palazzo del Broletto Vecchio (già sede comunale), che venne rinnovato e divenne il palazzo dei Visconti (oggi Palazzo Reale) e a nord era separata dalla “carradizia” da un edificio di proprietà pubblica affittato a vari generi di negozi. Quest’ultimo edificio dal XV secolo sarà noto come il Coperto delle Bollette.
Con l’edificazione del nuovo Duomo visconteo, che lentamente stava “divorando” la vecchia Santa Maria Maggiore, la Basilica di Santa Tecla perse la sua preminenza e sin dal 1440 si pensò alla sua rimozione, oramai obsoleta, mal ridotta e d’intralcio per la creazione di una più vasta piazza. Fra il 1461 ed il 1462 l’avanzare del cantiere della cattedrale, Santa Tecla venne progressivamente demolita, ed il clero che l’officiava fu trasferito nella nuova cattedrale in costruzione. Dell’antico edificio rimasero solo le navate settentrionali.
Questi resti furono comprati dal mercante milanese Pietro Figini, che diede l’incarico di ristrutturarli all’architetto Guiniforte Solari, ingegnere capo degli Sforza prima di Bramante, che trasformò tutto in palazzo tardo gotico, il Coperto dei Figini. Il nome “coperto” deriva dal fatto che a livello stradale c’erano i portici davanti all’ingresso dei negozi. L’edificio, che si trovava nella zona nord-ovest della piazza, fu per 400 anni un luogo d’incontro per i milanesi e sede di molti negozi e bar storici come il Caffè Campari e fu scenario di un romanzo di Iginio Ugo Tarchetti. Il Coperto dei Figini venne abbattuto nel 1864, quando la zona venne ristrutturata per l’ampliamento della piazza e la costruzione della Galleria.
Per l’importanza che ricopriva la Basilica di Santa Tecla, subito dopo l’inizio della sua demolizione si pensò ad una sua ricostruzione. La facciata e il Paradiso dell’antica basilica non vennero demoliti completamente nel 1461 ma furono lasciati in piedi sia perché erano occupati dalle botteghe, sia perché la vecchia facciata doveva servire da ingresso per la nuova chiesa di dimensioni ridotte. Pare che proprio a partire dal 1481 si costruì una piccola chiesa rotonda, nella parte occidentale della nuova piazza del Duomo. Purtroppo non conosciamo le fattezze di questo edificio, che alcuni hanno supposto che fosse stato ideato dal Bramante o da Lazzaro Palazzi. Si sa soltanto che i lavori procedettero faticosamente e tra mille polemiche senza veramente concludersi mai. Si sa anche che la chiesa aveva almeno un altro ingresso verso il Duomo e che almeno una cappella sporgeva dal corpo circolare dell’edificio. La copertura, forse prevista a cupola, non venne probabilmente mai realizzata.
Per l’arrivo di Filippo II di Spagna in città si mobilita mezza città. Uno dei problemi maggiori era proprio l’aspetto indecoroso e ristretto di piazza del Duomo. Per accedere alla piazza arrivando dalla contrada dei Mercanti d’oro (Via Torino) ci si imbatteva ancora nella vecchia facciata di Santa Tecla ancora dall’aspetto decadente, e dalla presenza della nuova Santa Tecla, costruita a conclusione della piazza.Nel 1548 Vincenzo Seregni formula un nuovo progetto per la piazza del Duomo che ci è giunto fortunatamente grazie ad un prezioso disegno della Raccolta Bianconi.
Il Seregni riporta la situazione all’epoca e mostra la presenza di un edificio semicircolare posto nella piazza. Segna comunque le linee rettangolari per la realizzazione di una nuova e grande piazza per il Duomo, il quale è raffigurato con i due campanili laterali per lungo tempo ipotizzati. In sostanza il progetto ripreso del Mangoni nel 1863. Di tutto quello che si realizzerà però sarà la demolizione della “nuova” Santa Tecla, che così terminò la sua lunga vita.
Dell’antica Basilica Maior rimangono soltanto i resti dell’abside, posti nell’area archeologica del Duomo. Inoltre, nel mezzanino della stazione Duomo della linea Rossa è conservato un tratto della pavimentazione in opus sectile della solea (corridoio liturgico che portava all’altare) della basilica (metà V secolo d.C.) e di un pozzo paleocristiano situato a circa metà della navata centrale, quasi sull’asse longitudinale della chiesa.
Il pozzo rimase certamente in uso fino ad epoca rinascimentale con successive sopraelevazioni della vera e della canna. La peculiarità di tale struttura è data anche dalla sua ubicazione: esso continuò ad occupare una posizione “privilegiata” in corrispondenza dell’accesso alla solea, in un punto di grande visibilità e attrazione anche per lo sguardo dei fedeli. Quanto al contenuto del suo riempimento, particolare interesse riveste il recupero dei frammenti di una ventina di boccali in ceramica, principalmente dei tipi graffiti e in parte ricostruibili, databili nell’arco di circa un secolo, tra la seconda metà del XIV secolo e la seconda metà del XV secolo. Tale recupero invita a interrogarsi sulla funzione del pozzo e su quella dei boccali in esso consapevolmente scaricati.
June 10, 2020
Il tempio del Divo Claudio
Proprio accanto alla chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, vi sono i resti del tempio dedicato al grande imperatore Claudio, che, secondo un uso introdotto a Roma dal tempo di Giulio Cesare, dopo la morte fu in numerum deorum relatus.
La vedova Agrippina, che secondo la tradizione lo avvelenò con un piatto di funghi, cominciò a costruirlo nello stesso luogo dove, prima del 27 d.C., si trovava la casa del senatore Guino e che, dopo l’incendio di quell’anno, era stata consacrata alla gente Claudia per esservi rimasta intatta la statua di Tiberio.
Il luogo è indicato in maniera sicura da Frontino, il quale fa sapere che gli archi neroniani terminavano presso questo tempio. Grazie alla “Forma Urbis”, la grande pianta marmorea di età severiana, sappiamo come quest tempio fosse prostilo esastilo, con tre colonne sui lati, mentre il resto dell’area, recinta da un portico, era occupato da un giardino. Il suo orientamento, per creare un legame simbolico tra gli esponenti della dinastia Giulio Claudia, era lo stesso del Tempio del Divo Augusto sul Palatino.
I due edifici erano accomunati anche dai sacrifici che vi erano compiuti: su un’iscrizione romana è infatti specificato
A Giove due tori, a Gionone due vacche, a Minerva due vacche, alla Salute Pubblica due vacche, nel tempio nuovo due buoi al divo Augusto, due buoi al divo Claudio.
L’opera venne gravemente danneggiata dal grande incendio di Roma del 64, sotto Nerone, il quale, più per amore della bellissima posizione che per odio nei confronti del patrigno, distrusse quasi per intero l’opera della madre Agrippina e prolungò fin qui un’ala della sua casa, a quanto racconta il poeta Marziale, utilizzando l’alta pendice del colle per far cadere scroscianti, nel sottoposto stagno, l’acqua proveniente da una diramazione dell’acquedotto Claudio, costruita ad opera di Nerone (Arcus Neroniani, poi chiamato Arcus Caelemontani dall’inizio del III secolo).
La ristrutturazione architettonica del lato est delle sostruzioni, trasformate nel grande ninfeo laterizio tuttora esistente lungo via Claudia per opera di Nerone, era finalizzato alla creazione di uno sfondo scenografico rivolto sia verso il quartiere abitato sottostante, ovvero il Capo d’Africa, sia verso il nucleo centrale della Domus Aurea che occupava le prospicienti pendici dell’Esquilino. Con queste modifiche, la distribuzione dell’acquedotto, quindi della cisterna presso il lato sud del tempio, fu adibita anche all’alimentazione del ninfeo oltre che della Domus Aurea stessa e dello stagno che si estendeva nella futura valle del Colosseo.
Vespasiano, nella sua opera di riordinamento edilizio, restituì il luogo alla sua primitiva destinazione, ricostruendo magnificamente il tempio: non demolì che le soprastrutture create dal predecessore, mentre si valse di gran parte della sua ricca e grandiosa opera di sistemazione. Grazie alla DISCRIPTIO XIIII REGIONVM VRBIS ROMÆ, un elenco degli edifici presenti a Roma tardo antica, sappiamo come questo tempio fosse ancora integro nel IV secolo. Da quel momento in poi cominciò progressivamente a decadere: dopo il saccheggio di Roberto il Guiscardo del 1084, il papa Pasquale II provvide al primo restauro e vi fece costruire accanto un primo piccolo convento: le poderose murature del tempio ben si prestavano a sostenere ulteriori costruzioni.
L’ultima citazione documentale è in una bolla del 1217 di papa Onorio III si parla di
formae et alia aedificia positae intra clausuram Clodei
Scarse sono le notizie inerenti al saccheggio avvenuto all’inizio del XVII sec. d.C., che privò il colle di una parte della sua storia. Il Vasari rilevò nella chiesa e nel palazzo di S. Marco una grande presenza di travertino che, a suo avviso, doveva essere stato cavato da alcune vigne in vicinanza dell’Arco di Costantino. Secondo Collini e Lanciani questa notizia si riferisce alle sostruzioni del Tempium Divi Claudii, esistente nelle vigne oggi corrispondenti al sito dell’ex Orto Botanico: si può quindi affermare che il monumento doveva essere in travertino.
Venne considerato per molto tempo il “Vivaio di Domiziano”, cioè il recinto in cui si contenevano le belve per i giochi del circo al tempo di Domiziano. Così lo descrive Piranesi a metà del Settecento, e questa interpretazione viene ancora citata, seppur dubbiosamente, nel 1834, dal Melchiorri nella Guida metodica di Roma e suoi contorni
VIVAIO DI DOMIZIANO Gli avanzi magnifici di arcuazioni a grandi massi di travertini, che si osservano sotto il convento de’ SS. Giovanni e Paolo sul Celio vennero un tempo giudicati erroneamente per essere appartenuti alla Curia Ostilia. Riconosciuta falsa questa opinione congetturarono altri, che quei resti fossero degli edifici di Claudio, e ciò potrebbe essere, giacché in quel dintorno era il famoso tempio erettogli da Agrippina, distrutto da Nerone, e nuovamente riedificato da Vespasiano. Ora però vuolsi generalmente attribuire quella fabbrica al Vivaio, o serraglio di belve feroci, che Domiziano edificò per uso del vicino anfiteatro Flavio. A comprova di ciò si adduce l’aver trovata nei scavi una quantità di ossa di bestie non indigene del nostro suolo, ed una strada sotterranea a comunicazione fra questo monumento e l’anfiteatro ripiena ancor essa di ossa consimili. Comunque ciò possa in qualche parte recare dubbiezza, è fuori d’ogni dubbio però, che quegli avvanzi sono d’una costruzione bella, solida, ed imponente per meritare l’attenzione di chiunque visita le romane antichità.
Cosa rimane di questa imponente costruzione ? Il nostro giro comincia dal lato est, le cui sostruzioni, risalenti all’epoca neroniana, furono riportate alla luce nel 1880 con l’apertura di via Claudia. Queste si presentano come una grande parete con nicchie grandi e piccole alternate, ai lati di un vano maggiore centrale. Dietro questa facciata ornamentale vi sono dei corridoi a volta e delle stanze a pozzo: aecondo la teoria del Cassio queste fungevano cisterne adibite al rapido riempimento dell’arena dell’Anfiteatro Flavio di acqua, in occasione delle naumachie.
Altri studiosi ipotizzano come il sistema di camere e dei corridoi sia in rapporto con il funzionamento del ninfeo, ma senza escludere che possano essere servite come gallerie di servizio. Però è molto difficile che abbiano contenuto acqua, dato che non presentano rivestimenti impermeabili, né tracce di concrezioni. E’ probabile inoltre che alcune anomalie della costruzione all’epoca di Nerone fossero mascherate da un portico colonnato con arcate in corrispondenza delle nicchie. L’architettura di questo lato delle sostruzioni del Tempio di Claudio s’intravede singolarmente ricca, ma tutto è creato solo in funzione della visione esteriore: si tratta di un grandioso prospetto che decorava il fianco della valle del Capo d’Africa, offrendo un colpo d’occhio alla prospiciente Domus Aurea
Andando sul lato ovest, proprio accanto alla chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, ammiriamo i resti più caratteristici e famosi del Tempio di Claudio: strutturalmente non presentano alcuna relazione di somiglianza con quelle del lato est, ma svolgono la stessa funzione. Il convento dei Ss. Giovanni e Paolo, sovrapponendosi, ne ha conservato un tratto quasi integro. Si presentano costituite da una serie di ambienti a due piani, coperti a volta appoggiati a muraglie che hanno dietro di loro due corridoi longitudinali, coperti anch’essi a volta.
La fronte delle sostruzioni, rivestita di travertino, è un notevole saggio dell’architettura rustica. La parte inferiore è interrata e i suoi ambienti non erano comunicanti tra loro, probabilmente erano utilizzati come botteghe. Osservando la parte superiore invece si può dedurre che l’insieme era costituito da una serie di pilastri, sulla cui superficie completamente grezza vi erano delle lesene coronate in alto da capitelli dorici completamente rifiniti. Esse sostengono una trabeazione in cui il fregio è completamente grezzo e la cornice contiene risalti corrispondenti ai capitelli. Tra un pilastro e l’altro si sviluppa, sotto la trabeazione, un arco formato da conci lasciati grezzi, con la chiave sporgente tanto all’interno quanto all’esterno.
A metà altezza dei pilastri si trovava una piattabanda, alla quale corrispondevano le volte che dividevano il piano inferiore da quello superiore. Gli archi non erano aperti ma chiusi da un muro, probabilmente di mattoni, attraverso il quale si aprivano dei vani: questi fornici hanno il loro inizio esattamente sotto il campanile della chiesa. Lo stile è lo stesso della facciata: le modanature architettoniche furono lasciate sezionate e dal pilastro sporge il concio destinato a formare l’imposta dell’arco. I fornici si appoggiano, non si uniscono al muro di fondo, il quale presenta fino all’imposta della volta superiore una superficie grezza e da quel punto in poi è lavorato a cortina. Il muro ha un considerevole spessore di 6.10 m ed è costituito da più strati, di cui l’esterno è realizzato in due fasce larghe rispettivamente 1.45 m e 1.65 m, formato da scaglie di travertino miste a rari tufi provenienti da costruzioni in opus reticulatum.
Passando al lato Nord, le sostruzioni sono costituite da una serie di ambienti coperti a volta disposti in senso normale alla fronte, parallelamente tra loro. Furono interamente realizzate in opera laterizia: prima venne costruita la parete di fondo lasciando le caratteristiche ammorsature al posto dei muri trasversali e delle volte, poi si procedette con il resto della costruzione.Questo procedimento è ben visibile nella parte più vicina a via Claudia dove, essendo crollate le mura degli ambienti, non rimane che la parete di fondo, dietro la quale esiste, per tutta l’estensione del lato nord, una fondazione di calcestruzzo siliceo troncata a filo della parete.
Gli ambienti che formano la parte esterna della sostruzione non hanno tutti uguale larghezza, ed erano stati in origine costruiti con un lucernario che fu poi chiuso per collocare al di sopra del muro di fondo una serie di plinti formati da grandi blocchi di peperino. Al loro livello la costruzione non termina, ma si notano sopra di essi gli avanzi di un muro che presenta il medesimo andamento di quello sottostante. Nella parte centrale gli ambienti conservano il loro muro frontale che è interamente chiuso e al centro si trova un’apertura, a sinistra della quale c’è uno strappo rivestito di spesse incrostazioni calcaree
All’epoca di Nerone erano presenti delle fontane, tanto che dei resti di una di queste, composta da una prora di nave con testa di cinghiale, furono trovati in passato (oggi sono al Museo Capitolino). Anche sotto la dinastia dei Flavi, però, questa disposizione rimase, sebbene Vespasiano fece ridurre il consumo d’acqua riconsegnandolo all’uso civile.
La collina sulla quale si elevava il Tempio di Claudio non sorgeva isolata dal fondo delle valli circostanti ma si distaccava dalla dorsale principale del colle, dove la terrazza era sollevata di poco dal terreno adiacente. Per cui, nel lato sud, on si trovano sostruzioni grandiose, ma un dislivello sensibile e regolare tra il giardino e l’Orto Botanico dei Padri Passionisti rivela la presenza di una sistemazione muraria. All’estremità orientale si trovano tre ambienti paralleli coperti a volta, appoggiati ad un grosso muro costruito entro cassoni di cui seguono l’andamento. All’estremità occidentale è presente un sistema di fondazioni che formano l’angolo tra il lato meridionale e quello occidentale. Le strutture dell’angolo sud – ovest si possono seguire fino al loro appoggio sulle rocce a circa 11 m di profondità, sembrano essere vere e proprie concamerazioni e servivano a completare la platea nel punto in cui il terreno mancava.
Per concludere il nostro giro, diamo uno sguardo ai sotterranei, a cui si accede dal lato occidentale del podio, attraverso una scala che scende dal livello moderno fino al livello dell’antica strada romana. Questi ambienti non sono mai stati studiati con particolare attenzione: solo Rodolfo Lanciani ne dissegnò a fine Ottocento una planimetria. Una prima analisi seria è state eseguita dal 2004 al 2006 dall’associazione Roma Sotterranea. La nuova mappatura ha mostrato come il complesso sia costituito da gallerie scavate nel tufo, coni di rifiuti e detriti e pozzi.
Le gallerie scavate nel tufo testimoniano la funzione di cava, un’attività che deve essere durata molti secoli (forse fin da prima della costruzione del tempio), perché era una consuetudine (ed era logico) andare a cercare la materia prima il più vicino possibile. Il tufo era un materiale utilizzato molto frequentemente in un cantiere edile, ad esempio le scaglie di tufo (caementa) immerse nella malta davano luogo all’opus caementicium, fondamentale nell’edilizia romana, e così le pavimentazioni di epoca repubblicana che erano formate da blocchi di tufo, perciò i sotterranei del Claudium potrebbero aver svolto la loro funzione di cava fin dall’epoca della Roma repubblicana.
I coni di rifiuti si sono formati nel corso del tempo e sono tutti situati sotto alcuni pozzi. È probabile che questi pozzi siano stati creati in epoca medievale (o successiva) per agevolare la funzione di cava dei sotterranei e portare in superficie il tufo; successivamente gli stessi pozzi sono stati utilizzati per gettare calcinacci e rifiuti.
I pozzi costituiscono l’aspetto più intrigante dei sotterranei del Claudium, sono 16 e sono divisi in due tipologie: la prima, abbastanza ovvia, è costituita da quelli utilizzati per portare in superficie il tufo. Più problematica l’interpretazione della seconda categoria, costituira da pozzi che misurano circa 90 cm di diametro pari a tre piedi romani e dotati di pedarole (gradini scavati nel tufo utilizzati per salire e scendere). Questi pozzi arrivano fino al suolo e sono stati tutti tagliati dall’attività di cava, quindi sono precedenti alla cava che vediamo oggi. L’ipotesi più accreditata è che abbiano avuto una funzione idraulica, per accedere al vecchio livello della falda freatica del Celio.
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June 9, 2020
Villa Madama (Parte 1)
Havendo Giulio cardinale de’ Medici, il quale fu poi Clemente Settimo, preso un sito in Roma sotto Monte Mario, dove oltre una bella veduta, erano acque vive, alcune boscaglie in ispiaggia et un bel piano che, andando lungo il Tevere per fino a ponte Molle, haveva da una banda e dall’altra una largura di prati che si estendeva quasi fino alla porta di San Piero, disegnò nella sommità della spiaggia, sopra un piano che vi era, fare un palazzo con tutti gl’agi e commodi di stanza, loggie, giardini, fontane, boschi et altri che si possono più belli e migliori desiderare
Così il buon Vasari racconta la nascita di Villa Madama, attribuendone la committenza a Giulio de Medici, tesi che fu accettata per anni: come spesso accade, l’aretino prese una delle sue cantonate. Un documento, risalente 1517, racconta invece dell’acquisto da parte del Capitolo Vaticano del terreno su Monte Mario dove sarebbe stata costruita e della sua cessione a Leone X dietro versamento di un canone annuo. Per cui, l’idea di una villa tanto imponente, nata con lo scopo di celebrare la magnificenza della casata dei Medici e a richiamare i fasti della Roma classica, è frutto del carattere estroverso e appassionato di ogni arte e bellezza proprio di Leone X, papa troppo spesso maltrattato a sproposito.
Ovviamente, per realizzare tale ambizione, il papa non poteva non rivolgersi che alla strana coppia, la quale con tutte le sue incompresioni e stranezze, stava collaborando a mettere in piedi la sua San Pietro: il buon Raffaello e il solito Antonio da Sangallo.
Ovviamente, la loro divisione dei compiti fu molto simile a quella della Basilica Vaticana: l’Urbinate fu incaricato dell’impostazione architettonica della vigna del papa, mentre il Fiorentino dovette smazzarsi le implementazioni e gli accorgimenti statici del progetto: entrambi, pieni di lavoro sin sopra i capelli, dovettero delegare la gestione quotidiana del cantiere ad altri, forse allo stesso Giulio Romano. La prima data certa riguardante l’inizio dei lavori per la vigna del papa è quella del 16 giugno 1519, quando Baldassarre Castiglione scrisse a Isabella d’Este marchesa di Mantova, che
« […] fassi una vigna anchor del rev.mo Medici che sarà cosa excellentissima. Nostro Signore vi va spesso, e questa è sotto la croce di Monte Mario».
Sappiamo quindi che in quell’anno i lavori erano in pieno svolgimento e che lo saranno anche nell’anno successivo: tuttavia, sembrerebbe come i lavori di costruzione fosse stati interrotti, alterando così il progetto originario, già a inizio febbraio 1520. Il motivo era il solito: Leone X, nonostante la sua fama di spendaccione indefesso, era assai attento al controllo dei costi. Tutte le volte che qualche artista di faceva prendere la mano e sforava il budget, era costretto a fermare i lavori e a revisionare in ottica di risparmio il progetto. E per Villa Madama, per i problemi connessi allo sbancamento, terrazzamento e contenimento del terreno, al controllo delle acque e il pericolo di smottamenti e frane, questi benedetti costi erano lievitati. Raffaello, da febbraio ad aprile 1520, era impegnato nel tentativo di fare quadrare i conti: per non bloccare il cantiere, però continuarono i lavori di decorazione della Villa. La morte dell’artista il 6 aprile 1520 giunse quindi come un fulmine a ciel sereno. Ora, da una parte, se le opere di pittura ripresero immediatamente, sempre Vasari racconta
Venuto a morte Raffaello, Giulio Romano e Giovan Francesco (Penni), stati suoi discepoli, stettono molto tempo insieme e finirono di compagnia l’opere che di Raffaello erano rimaste imperfette, e particolarmente quelle che egli aveva cominciato nella vigna del papa e similmente quelle della Sala Grande di Palazzo
Il lavoro revisione al risparmio del progetto cadde sul groppone di Antonio da Sangallo. Nel dicembre 1521 papa Leone X morì. Gli succedette per un breve periodo Adriano VI. Durante il pontificato di quest’ultimo, il cardinale Giulio de’ Medici si allontanò da Roma per ritornarci nell’aprile del 1523. Sette mesi più tardi, il 14 novembre, uscì dal lungo conclave apertosi dopo la morte di Adriano VI, con il nome di Clemente VII. Se Adriano VI a tutto pensava, tranne che a Villa Madama, Clemente VII, al grido dell’ottimo è nemico del bene, decise di puntare a una soluzione ancora più al ribasso di quella che avrebbe voluto Leone X: incaricò Antonio da Sangallo di provvedere alle sistemazione della parte esistente per rendere pienamente utilizzabile quanto già costruito. Di conseguenza, nel 1524 avvenne la realizzazione, sotto la direzione del Sangallo, dell’impianto del ninfeo, della fontana dell’Elefante, della vasca della terrazza, e della sostruzione con peschiera, le cui linee architettoniche sarebbero state dettate da Raffaello ispirandosi alle antichità di Villa
Adriana a Tivoli.
Nel maggio del 1527, i lanzichenecchi di Carlo di Borbone e le soldatesche spagnole di Carlo di Lannoy si gettarono su Roma devastando quanto incontravano. Villa Madama fu data alle fiamme, secondo quanto riportavano i cronisti dell’epoca: in realtà, la notizia fu probabilmente esagerata. In realtà, questi si limitarono a saccheggiarla, guadagnandone ben poco, essendo ancora un cantiere in corso.
Il 25 settembre 1534 morì Clemente VII e sul trono pontificio salì Alessandro Farnese con il nome di Paolo III. Con quella morte si aprì la successione dei beni di Giulio de’ Medici che con il suo testamento aveva lasciato eredi il duca Alessandro per i possedimenti in Firenze e il cardinale Ippolito per tutti gli altri tra i quali appunto Villa Madama. Ippolito de’ Medici era l’unico figlio, per di più illegittimo, di Giuliano de’ Medici, duca di Nemours, fu un cardinale e un arcivescovo italiano, che governò come “capo della città” di Firenze fino alla “terza cacciata dei Medici” nel 1527 e che partecipò alla spedizione dell’imperatore Carlo V d’Asburgo contro i Turchi del 1532. Bello d’aspetto e ricco d’ingegno e di cultura, autore di rime, traduttore in versi sciolti del II libro dell’Eneide, che dedicò all’amica Giulia Gonzaga, irrequieto, ambizioso, circondato di poeti, di eruditi, di artisti, di musici, ma anche “de bravi et sbricchi” questo “diavolo matto” fu tra le più bizzarre figure della sua epoca.
Ippolito morirà un anno dopo, forse per avvelenamento, e tutti i suoi averi passeranno nella mani di Alessandro de’ Medici, altro personaggio assai noto nella storia italiana del Cinquecento. Presunto figlio del cardinale Giulio e imposto da lui come primo duca di Firenze, morì per mano di Lorenzino de’ Medici nel gennaio del 1537. Molto probabilmente non ebbe modo di interessarsi molto della villa su Monte Mario se non per difenderne la proprietà contro i creditori di Ippolito.
La villa toccò in eredità alla Madama, Margherita d’Austria, figlia naturale di Carlo V e vedova di Alessandro de’ Medici, che sposò in seconde nozze Ottavio Farnese, duca di Parma e Piacenza e nipote di papa Paolo III. La villa di Monte Mario fu per lei luogo di passeggiate e di piacevoli soggiorni, così come avevano fatto ai tempi i due cardinali medicei. La duchessa si interessò della villa, seguì scrupolosamente le vicende giudiziarie e ne difese la proprietà e proprio questo le fece acquisire il nome di Villa Madama, così come del Palazzo Madama (sede del Senato della Repubblica) e della cittadina di Castel Madama, presso Tivoli.
Alla morte di Margherita la villa passò agli eredi della famiglia Farnese, duchi di Parma e Piacenza, avviandosi ad un lento e progressivo abbandono. Estinta la famiglia Farnese, la villa continuò il suo decadimento passando in eredità al re di Napoli Carlo di Borbone, il fatto che il Vasi nel 1761 inserisca Villa Madama nella sua magistrale opera sulle Magnificenze di Roma antica e moderna, lascia intendere che la villa era, in questo primo periodo dell’amministrazione borbonica,tenuta in notevole efficienza anche se alcune sue parti (come l’emiciclo di ingresso e gli ornati in stucco) già minacciavano rovina. Quelli furono gli ultimi anni di una sufficiente e decorosa manutenzione della villa.
Nel corso dell’Ottocento e i primi del Novecento la villa finì in rovina, venendo adibita a fienile, magazzino agricolo e finanche ad alloggiamento di truppe. Nel 1913 fu acquistata da Maurice Bergès, un ingegnere di Tolosa, che incaricò del restauro Marcello Piacentini. Nel 1925 fu acquistata dalla ereditiera americana Dorothy Caldwell-Taylor, contessa Dentice di Frasso che, in tre anni, completò il progetto di restauro. All’intervento di Piacentini è dovuta la costruzione del secondo piano che la famiglia di Frasso vollero il più possibile in armonia con il progetto originario. Su disegno del padre, Pio Piacentini, ispirato probabilmente dai lavori di Bramante a San Pietro e di Antonio da Sangallo il Giovane a Caprarola, Piacentini realizzò la scala elicoidale in travertino in stile rinascimentale che conduce al piano nobile. In epoca moderna furono, altresì, chiuse le arcate della Loggia con ampie vetrate al fine di proteggere le decorazioni delle volte dalle intemperie.
Fu abitata dal conte Carlo Dentice di Frasso e dalla moglie Dorothy Cadwell Taylor che l’arredarono sontuosamente. Ospite della contessa fu anche il giovane attore Gary Cooper. Dorothy dispose donazione della villa alla persona del Capo del Governo italiano del tempo, Benito Mussolini, il quale immediatamente, la devolse a favore dello Stato, come fu testimoniato da iscrizione in apposita lapide affissa all’interno per oltre 20 anni (permaneva nel 1962, e fu registrata durante restauri del tempo, da parte del Genio Civile di Roma).
Attrezzata dallo Stato per i ricevimenti ufficiali, fino agli anni ’60 del XX secolo custodiva servizi di porcellane finissime e bicchieri di vetro prezioso, tutto con l’emblema ufficiale dello Stato, includente la corona ed i fasci. Servizi certamente alienati, per fare luogo a meno compromettenti oggetti, per gli ospiti internazionali successivi. Nel secondo dopoguerra, dopo breve disponibilità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che vi svolse alcune riunioni, almeno fino al Governo Scelba, fu fatta assumere in carico al non lontano Ministero degli Esteri, che tuttora la cura e detiene.
Nel 2004 l’arredatore italiano Giorgio Pes è stato incaricato dal Ministero degli Esteri di effettuare interventi di decorazione ed arredo dell’interno e in parte degli esterni. Il Ministero degli Esteri utilizza Villa Madama come sede di rappresentanza per ospitare ricevimenti diplomatici, conferenze, convegni o altre attività istituzionali. Il Casale di Villa Madama, che si trova nello stesso comprensorio della Villa, ospita l’Istituto diplomatico “Mario Toscano” del Ministero degli Affari Esteri.
June 8, 2020
La lettera di Manhapa-Tarhunta
Una delle questioni che i sostenitori della tesi di Omero nel Baltico evitano con accuratezza di affrontare, perché difficilmente è inquadrabile nelle loro elucubrazioni, riguarda la documentazione presente nelle tavolette in lingua ittito/luvia, ritrovate negli archivi di Hattusa, le quali, con parecchie zone d’ombra, ci illuminano però su quanto accaduto nell’area egeo anatolica.
Area che per generazioni, fu teatro di scontro tra l’Impero Ittita e la compagine statale micenea. Ora, se fosse stato per gli Ittiti, se ne sarebbero alquanto fregati di quell’infinito manicomio costituito dagli staterelli di lingua luvia, in perenne lite tra loro.
I loro interessi commerciali, strategici e culturali furono storicamente sempre proiettati verso le regioni dell’alto Eufrate e della Siria, molto più ricche e crocevia dei grandi imperi dell’epoca. Inoltre dal punto di vista logistico, la costa egea dell’Anatolia era assai più difficile da raggiungere della Siria. Difficoltà di collegamento, ridotto interesse economico e marginalità strategica, facevano propendere Hattusa ad applicare nell’area una sorte di indirect rule, basato su trattati di vassallaggio più o meno vincolanti per gli staterelli locali.
Il problema è che i micenei la vedevano in tutt’altro modo: per i signori della guerra achei, la costa anatolica costituiva una sorta di terra promessa, ben più interessante, dal punto economico, degli strani barbari che popolavano le coste dell’Italia, della Sicilia e della Sardegna.
Il dominio sulle fertili pianure costiere costituiva un’opportunità per ampliare le aree destinate alla produzione di beni di sussistenza, di cui la Grecia insulare e continentale non era mai sufficientemente dotata, mentre le montagne dell’hinterland accrescevano le potenzialità dell’allevamento ovino, attraverso cui, come è noto, gli stati micenei si innestavano nei circuiti della wealth finance. Di certo, la struttura urbana degli stati luvi, rendeva queste queste risorse più facilmente dominabili, rispetto all’organizzazione cantonale e seminomade della civiltà appenninica: basti pensare alle diverse modalità di controllo degli hub commerciali e produttivi e di relazioni con le élite locali. Nel caso dei luvi, con una struttura rigida e centralizzata, bastava sottomettere pochi nodi, per dominare l’intero sistema; nel caso della civiltà appenninica, strutturata a rizoma, era necessaria invece un’occupazione pervasiva del territorio, che, per carenza di risorse umane ed economiche, gli achei non potevano permettersi.
Il commercio tra le due sponde dell’Egeo, la cui natura ed entità è oggetto di dibattito, poteva essere legato proprio alla confezione di vestiario di pregio, prodotto che, come è noto, non lascia traccia, ma, probabilmente, rimaneva, come era stato per il millennio precedente, legato all’importazione dell’argento e dei beni di lusso: in un’economia non monetaria, il modo migliore per legare le élite militari e burocratiche al proprio centro di potere, per i capi micenei, era concedere ricchi doni ai propri seguaci.
Un altro fattore rappresentava un grande motivo di attrazione per le compagini statali micenee: il potenziale umano. Nell’arco dei circa 200 anni che vedono lo svolgersi dei rapporti tra Hatti e Ahhijawa, i nostri Achei, a fronte di uno stato di belligeranza pressoché continuo, tra spedizioni ittite e micenee, oltre alle ben più numerose attività belliche di paesi come Arzawa, e quindi Mira, Seha, Wilusa, Hapalla e Lukka, si possono direttamente contare circa 83.000 deportati. Una massa di lavoratori, anche specializzati, che furono una manna dal cielo, per un’area geografica, quella dell’Ellade, caratterizzata all’epoca da una bassa densità di popolazione.
Per cui gli Ittiti dovettero, a malavoglia, confrontarsi con la volontà di espansione del vicino greco, che godeva, rispetto agli altri imperi dell’Età del Bronzo, di un vantaggio strategico non indifferente: era infatti l’unica potenza marittima. Il predominio dell’Egeo permetteva di colpire il nemico con rapidità, concentrando e disperdendo le proprie truppe in funzione delle esigenze tattiche. A fronte di tale mobilità offensiva, il predominio sul mare o, se non altro, l’assenza di una forza marittima nemica organizzata teneva i punti economicamente e politicamente nevralgici di Ahhijawa – ovunque si siano trovati – al riparo degli effetti immediati della reazione ittita o delle compagini statali locali, mentre le enclaves della costa erano facilmente difendibili anche da avversari che provenissero dall’entroterra.
Infine, la presenza micenea nel Dodecaneso e a Creta permetteva, di fatto, il controllo completo del commercio tra l’Est e l’Ovest, bloccando l’afflusso in Anatolia delle materie prime fondamentali per l’epoca, come lo stagno e il rame. Ora, uno dei luoghi principali di frizione tra Ittiti e Achei era Wilusa, la nostra Troia, che, nonostante fosse uno stato di lingua e cultura luvia, seguiva tradizionalmente una politica pro Hattusa.
Se facciamo un paragone con l’età classica, è facile comprendere il perchè dell’interesse miceneo per la Troade. Il terreno dell’Ellade era favorevole alla produzione di fichi, olive e uva ma non era molto adatto alla coltivazione del frumento; anche se la popolazione era assai minore rispetto a quella dei tempi di Pericle, la produttività agricola, complice il cambiamento climatico della tarda età del Bronzo, era ancora minore. Per cui, anche nella tarda età del bronzo, era necessario importare grano e orzo dal Bosforo Cimmerio e dal Chersoneso Tracico, anche perché gli artigiani che orbitavano attorno ai megaron achei erano pagati in razioni di cibo. Chiunque dominasse la Troade, avrebbe messo una seria ipoteca sul questo approvvigionamento: per cui, per la geopolitica di Ahhijawa era necessario che a Wilusa vi fosse stato un governo amico.
Siamo abbastanza informati su una di queste dispute, accadute ai tempi del sovrano ittita Muwatalli II, grazie a una lettera che gli scrisse Manhapa-Tarhunta, re dello stato arzawa dell’Asia Minore denominato Terra del fiume Seha, posto lungo il nostro fiume Gediz, vassallo Ittita, tra la fine del 14° e l’inizio del XIII secolo a.C., una sorta di Don Abbondio dell’epoca.
Manhapa-Tarhunta, minore dei tre figli del sovrano Muwa-Walwi, il vassallo Ittita appuntato sul trono della Terra del fiume Seha da Šuppiluliuma I al termine della conquista e divisione in regni dell’area Arzawa, la zona abitata dai Luvi, Manhapa-Tarhunta fu designato erede dal padre per ragioni a noi ignote, ed ascese al trono giovanissimo, alla morte di questi, avvenuta attorno al 1321; scampò ad un tentativo di assassinio da parte dei fratelli, riparando nella terra di Karkiya (Caria) dove trovò rifugio grazie ai buoni uffici del sovrano Ittita Muršili II. Poco tempo dopo il suo popolo scacciò il fratello maggiore, Urha-Tarhunta, pessimo governante, e Manhapa-Tarhunta, con il beneplacito degli Ittiti, poté tornare sul trono.
Seguì tuttavia il sovrano di Arzawa minor Uhha-Ziti alcuni anni dopo (1319) nella rivolta anti-Ittita; una volta che Muršili II ristabilì però il predominio sull’area, ne implorò il perdono e dietro promessa di sottomissione venne confermato sul trono come vassallo.
Intorno al 1285 a.C. però Piyama-Radu, nome che somiglia assai a quello del nostro Priamo, figlio o nipote del deposto Uhha-Ziti, assieme al genero Atpa, che era il governatore miceneo di Mileto, dopo avere occupato l’isola di Lesbo, conquistò Wilusa, in una sorta di Iliade ante litteram. Manhapa-Tarhunta provò ad opporsi, ma ha riportato un’umiliante sconfitta militare e personale. Fu così necessario che il sovrano Ittita, ora Muwatalli II, inviasse una guarnigione per recuperare Wilusa, caduta in mano a Piyama-Radu e di conseguenza agli Ahhiyawa.
Il nostro eroe, vista la batosta subita, si diede malato astenendosi dal partecipare alle operazioni militari di riconquista della città da parte degli Ittiti del generale Kassu e, mentre comunica la riuscita dell’impresa, professa a Muwatalli II il proprio rincrescimento per non aver potuto combattere al fianco delle sue milizie. Ovviamente, dopo tale performance di assoluto valore, Manhapa-Tarhunta fi cacciato a pedate dal trono. Ilsuo successore fu Masduri, cui venne data in moglie Massanauzzi, sorella di Muwatalli II,nell’ottica di rafforzare il legame tra la casa reale del paese del fiume Seha e quella di Hatti.
In più, Muwatalli II dovette trovare un compromesso con i vicine achei: a riprova di questo, vi è la lettera KUB 26 91 , che per quanto frammentaria, risulta di notevole interesse storico. Infatti essa è la copia di una missiva inviata dal re di Ahhiyawa a Muwatalli II, in cui si fa riferimento a una disputa sulle isole dell’Egeo, contese tra le due potenze.
Probabilmente, i micenei, in cambio del possesso di Lesbo e dell’impegno a non appoggiare più gli intrighi e le rivolte di Piyama-Radu, accettavano il ritorno dello status quo filo ittita a Wilusa. In più, entrambe le potenze si impegnavano a non bloccare il commercio delle materie prime strategiche per la controparte: metalli per gli Ittiti, cereali per gli achei.
Tra l’altro, questa è l’unica lettera conservatasi che sia stata inviata da Ahhiyawa a Hatti; non conosciamo le modalità con le quali si svolgevano le comunicazioni tra Hatti e Ahhiyawa, cioè in quale lingua queste avvenissero, se esse fossero solo orali con colloqui tra i messaggeri regi –e in questo caso il testo KUB 26 91 sarebbe la verbalizzazione di parte ittita di un messaggio orale miceneo- oppure se venissero usati da parte degli Egei supporti scrittori deperibili e non pervenutici.
Però è certo che doveva esistere una classe ben definita di burocrati palaziali bilingue…
Alessio Brugnoli's Blog

