Alessio Brugnoli's Blog, page 56
August 25, 2020
La meridiana di Plinio
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Questa settimana, salto le vicende relative alla costruzione di San Pietro, per commentare il post, evidenziato nella foto, e apparso in una simpaticissima pagina su Facebook, che negli anni mi ha regalato uno sproposito di risate.
Ora il post su Plinio ha scatenato una ridda di interventi, dal banale e scontato
Se ne sono accorti presto!
al più colto ed erudito, che in sintesi, afferma come i romani non avessero poi in fondo necessità di meridiane così precise, perché non legati alle esigenze del capitalismo e della liturgia cristiana. Però, per l’annoso problema del gap tra cultura umanistica e matematica, nessuno si è accorto del contenuto implicito di quel brano.
Cominciamo, ricordando tre cose: la prima è che il Sole non è un orologio esatto per la mancanza di regolarità del suo moto apparente lungo l’eclittica e la durata del giorno, definita come l’intervallo tra due passaggi successivi del Sole al meridiano, è variabile, di conseguenza ogni giorno la meridiana fisserà un mezzogiorno differente. La seconda è che i tempi locali tra due località differiscono di una quantità costante che è uguale alla differenza di longitudine tra i due luoghi: nel caso citato di Plinio,il mezzogiorno di Catania differisce da quello di Roma di circa 10 minuti. La terza è che in Italia il Sole non è mai a picco e anche d’estate ci sono ombre anche a mezzogiorno, inoltre la lunghezza dell’ombra della meridiana varia a seconda delle stagioni e della latitudine, cosa che impatta anche sulla differenza precedente.
Per cui, un antico romano, subito dopo la Prima Guerra Punica, ipotizziamo attorno al 240 a.C. per accorgersi dell’errore presente nella meridiana di Messalla, avrebbe dovuto impelagarsi in un meccanismo assai macchinoso.
Per prima cosa, la più semplice, avrebbe dovuto procurarsi almeno altre due meridiane: una per la stima dell’istante esatto in cui il sole passava sul meridiano locale, il mezzogiorno astronomico, l’altra fornire l’ombra con cui confrontare quella proveniente dalla meridiana siciliana.
Questo perché la linea di mezzogiorno delle due meridiane, per le differenza di longitudine, avrebbe coinciso: di conseguenza, serviva un punto di riferimento indipendente tra le due, per definire una linea di mezzogiorno standard, che avrebbe sostituito quella iniziale della meridiana di Messalla.
A mezzogiorno avrebbe misurato l’ombra reale della meridiana di riferimento e quella della lunghezza dell’ombra di quella catanese. Poi avrebbe stimato ad occhio il fattore di correzione dovuto alla differenza di latitudine tra Catania e Roma, all’epoca era già nota la relazione che nel giorno dell’equinozio di primavera e autunno permette di approssimarla con la formula
Latitudine = 90 – Altezza apparente del sole
In funzione di questo valore, avrebbe corretto la lunghezza dell’ombra della meridiana di Messalla, trasformando l’ombra reale in una virtuale. Infine, avrebbe fatto la differenza tra la lunghezza dell’ombra reale di riferimento e quella dell’ombra virtuale. In funzione del valore ottenuto, avrebbe dovuto correggere a mano l’inclinazione dello gnomone, ripetendo tante volte il procedimento, finché tale differenza non fosse stata pari a 0.
Ora al di là della lunghezza del procedimento, i conti effettuati con l’abaco e gli aggiustamenti ad occhio avrebbero introdotto una serie di errori, che il gioco non ne sarebbe valso la candela. La procedura si semplifica notevolmente, se si hanno a disposizione tre cose: la prima è uno strumento meccanico, che funga da riferimento, producendo un modo uniforme e indicando un un tipo di ora diverso da quello delle Meridiane, misurato in ore uguali, ciascuna pari alla ventiquattresima parte del giorno solare medio, la cui durata corrispondeva alla media aritmetica di tutti i giorni solari di un anno. La seconda i valori tabellari della cosiddetta equazioni del tempo, che, a seconda del giorno dell’anno, indica i minuti da aggiungere o togliere per calcolare dal tempo medio dell’orologio il tempo reale solare; equazione che è la somma di due curve sinusoidali con periodi rispettivamente di un anno e sei mesi. Questi due elementi, permettono di calcolare al meglio e in maniera oggettiva il tempo di riferimento per eseguire il confronto tra le due meridiane. L’ultimo cosa è un set efficace di formule trigonometriche e dei relativi valori, in modo assai meno complicati e più precisi i calcoli precedenti.
Queste tre cose, sono disponibili dopo la Seconda Guerra Punica: se la costruzione del Planetario di Archimede, che introduce le ruote dentate e i rotismi epicicloidali o differenziale, e l’introduzione dello scappamento permette la costruzioni di orologi meccanici, risalgono intorno al 230 a.C. le tavole trigonometriche di Ipparco sono invece del 180 a.C.
Per cui la testimonianza di Plinio ci indica che a Roma, intorno al 170 a.C. ci fosse un tizio, di cui purtroppo ignoriamo l’identità che: aveva a disposizione un orologio meccanico, padroneggiava abbastanza bene le recenti scoperta ellenistica e aveva sufficiente curiosità da affrontare il problema della meridiana.
Il che aggiunge un ulteriore spunto: il procedente algoritmo, basato sul confronto sul tempo oggettivo fornito da un orologio meccanico e due meridiane, se queste sono poste in due località differenti, può essere utilizzato anche per il calcolo della longitudine, ovviamente con un errore rispetto al più preciso cronometro marino, utilizzato dal 1700 in poi.
Come forse sapete, Tolomeo nella sua Geografia compie un errore sistematico nel calcolo della longitudine, apparentemente del 40%. Cosa che ha portato Luigi Russo ha ipotizzare come il geografo alessandrino avesse confuso la posizione del Meridiano di Ferro, l’equivalente antico del nostro Greenwich, spostandolo dai Caraibi alle Canarie, arrivando poi alla discutibile conclusione che ai tempi dell’Ellenismo, i greci avessero scoperto l’America.
In realtà, se ipotizziamo che Tolomeo utilizzasse come unità di misura lo stesso stadio di Poseidonio, pare a 222 metri, per semplificarsi i conti, in modo che un grado coincidesse con 500 stadi, rispetto ai 700 di Eratostene,tale errore si riduce drasticamente. In particolare, ha un ordine di grandezza analogo a quello che si ha se si calcolasse la longitudine con le meridiane, invece che con il cronometro
Per cui, non è da escludere che il metodo della meridiana fosse di uso comune per i geografi dell’epoca. Di conseguenza, il brano di Plinio, più che mostrare che i romani fossero scemi o che avessero un rapporto con il Tempo diverso dal nostro, ci da qualche spunto di riflessione sulle questioni scientifiche e matematiche dell’epoca classica.
August 24, 2020
Pirro (Parte VIII)
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Dionigi di Alicarnasso e Plutarco riferiscono che all’alba del 1º luglio 280 a.C. i Romani attraversarono il Sinni, con l’idea di prendere di sorpresa Pirro, dato che il re dell’Epiro, tutto si aspettava, tranne che il console Levino volesse dargli battaglia.
Per questo Pirro aveva disposto l’accampamento più vicino ad Eraclea che al fiume Sinni, in modo da garantirsi la massima facilità di approvvigionamento e aveva lasciato a guardia della riva i 3.000 hypaspistai, che dovevano pattugliarla e avvertirlo quando i romani, come da lui ipotizzato, si fossero ritirati per carenza di viveri.
Paradossalmente, Levino aveva compiuto un errore di valutazione simmetrico: convinto che gli hypaspistai non svolgessero un ruolo di pattuglia, ma fossero l’avanguardia dell’esercito di Pirro e che quindi il grosso delle truppe epirote fosse nelle vicinanze, il console aveva organizzato l’attraversamento del Sinni come se fosse una sorta di manovra a tenaglia.
La fanteria guadò il fiume davanti agli hypaspistai, fungendo da incudine, mentre la cavalleria scelse un guado più lontano, in modo da aggirare il fianco del presunto grosso dell’esercito nemico, svolgendo il ruolo di martello: date le somiglianze della tattica di Levino con quella adottata da Alessandro nella battaglia del Granico, forse il console, a differenza di quanto affermato da qualche storico, non poi così ignaro delle tattiche ellenistiche.
La manovra riuscì perfettamente, ma invece di accerchiare l’intero esercito epirota, ne coinvolse una minima parte. Ora gli hypaspistai, tutt’altro che entusiasti di prendersi in pieno due legioni romane, mandarono subito un messaggero all’accampamento di Pirro, per chiedere aiuti.
Pirro si trovò davanti a una scelta difficile: nell’ipotesi migliore, si trattava di una manovra diversiva, organizzata da Levino per eccesso di prudenza, per impedire un inseguimento da parte della truppe epirote. Nella peggiore, i romani erano così scemi da attaccare battaglia in condizioni di inferiorità numerica. In entrambi, i casi, non c’era tempo, per soccorrere con tutte le truppe gli hypaspistai. Per cui, con grande coraggio, si mise a capo della cavalleria, dandole poi l’ordine di raggiungere il campo di battaglia. La fanteria leggera e pesante sarebbe eventualmente giunta poi.
Il re dell’Epiro, giunto alle rive del Sinni, si rese conto della pessima situazione del suoi soldati, per cui decise di agire in modo assennato: da una parte ordinò ai poveri hypaspistai di ritirarsi, poi per coprirne la fuga, lanciò una carica di copertura da parte della cavalleria macedone e tessala.
Carica che però abortì subito, dato che Pirro dovette scontrarsi con un nuovo imprevisto: l’arrivo della cavalleria romana. Durante lo scontro uno dei capitani di Pirro, Leonato il Macedone, si accorse come uno dei romani Oblaco Volsinio, prefetto della cavalleria alleata romana dei ferentani, avesse preso di mira il dell’Epiro. Pochi istanti dopo, Oblaco spinse il cavallo e, abbassando la lancia, aggredì Pirro. Nello scontro entrambi caddero da cavallo, dopo aver gettato le insegne, Leonato intervenne in aiuto di Pirro, mentre Oblaco fu bloccato e ucciso dai soldati macedoni. Sia perché se l’era vista brutta, sia perché era memore di tante sconfitte nelle battaglie tra i Diadochi, dovute alla morte in battaglia dei comandanti, Pirro chiamò a sé Megacle e decise di scambiare con quest’ultimo i panni e le armi, continuando così a combattere come un normale soldato e scongiurando altri rischi.
A togliere le castagne dal fuoco a Pirro, fu l’arrivo del resto del suo esercito: gli opliti e i pezeteri corsero in soccorso dei pochi hypaspistai e disposti in falange ingaggiarono i manipoli romani. Per cercare di sopraffare i legionari, gli epiroti effettuarono ben sette cariche. Ora, abbiamo idee parecchio confuse sulle caratteristiche della legione manipolare dell’epoca: tuttavia, possiamo ipotizzare come, a seconda dei casi e delle esigenze tattiche, i manipoli potevano disporsi o in un fronte continuo o con dei varchi tra loro.
Dato che gli epiroti, riuscirono a sfondare le prime linee nemiche ma non poterono avanzare ulteriormente a meno di non rompere la propria formazione, è assai probabile che Levino, proprio per contrastare la falange, abbia adottato la disposizione con i varchi. Le taxis dei pezeteri, per infilarvisi, si sarebbero rotti e questi soldati, meno pesantemente armati dei legionari, ne sarebbero stati sovrastati.
Per rompere lo stallo, Levino lanciò una carica avvolgente di cavalleria, consapevole della fragilità della falange ad attacchi laterali: i Romani, inoltre, continuarono a prendere di mira colui che portava le armi reali finché un cavaliere di nome Destro assalì e uccise Megacle; lo spogliò quindi delle vesti reali e corse verso il console Levino, annunciando a tutti di aver ucciso Pirro. Dopo tale notizia i legionari, galvanizzati dalla morte del re epirota, sferrarono un deciso contrattacco, mettendo in difficoltà opliti e pezeteri, mentre gli epiroti sbigottiti cominciarono a perdersi d’animo. Pirro, avendo inteso il fatto, si mise a correre per il campo e a capo scoperto si fece riconoscere dai suoi soldati. Per riprendere in mano le sorti della battaglia, decise di schierare la sua arma segreta: mandò in campo gli elefanti da guerra.
Mossa che ebbe un successo assai maggiore di quanto aspettato dal re dell’Epiro: i soldati romani, dinanzi a quelle bestie ignote, entrarono in panico, cominciando a ritirarsi in disordine. Pirro, allora, ordinò alla cavalleria tessala di attaccare, sbaragliando definitivamente la fanteria romana. Tuttavia, la fortuna aiutò Levino: da una parte i tessali, invece di continuare ad incalzare i Romani in fuga, si dedicarono a saccheggiare il loro accampamento, trovando ben poco. Come aveva ben previsto Pirro, i legionari erano prossimi alla fame. Dall’altra, vi fu il sopraggiungere della notte, che rese impossibile il combattimento.
Così i Romani seguendo la via Nerulo-Potentia-Grumentum, si ritirarono a Venosa. Dionigi di Alicarnasso ci evidenzia le seguenti perdite: 15.000 morti tra i Romani e 13.000 tra le truppe di Pirro. Inoltre Eutropio riferisce che 1.800 soldati romani furono fatti prigionieri, nel seguente brano
Pirro prese mille e ottocento Romani e li trattò con il massimo riguardo, seppellì gli uccisi. E avendoli veduti a terra giacere con ferite sul petto e con volti truci, anche morti, si dice che egli alzasse le mani al cielo con queste parole: “Avrebbe potuto essere il padrone di tutto il mondo, se gli fossero toccati tali soldati”
Facciamo due conti: complessivamente, l’esercito romano contava complessivamente 80.000 soldati. A seguito della battaglia di Eraclea il tasso di perdita complessiva era del 21%, importante, ma sostenibile. Nell’esercito epirota, il tasso di perdita era invece pari al 46%, un’ecatombe. Per cui, Pirro aveva ottenuto un successo tattico, ma una disfatta strategica: la battaglia di annientamento si era trasformata in battaglia d’attrito, dove Pirro, era consapevole di essere il perdente, avendo a disposizione assai meno risorse. Secondo la leggenda, così commentò, il risultato della battaglia
«Un’altra vittoria come questa e me ne torno in Epiro senza più nemmeno un soldato»
August 23, 2020
Il Museo Capitolare di Atri
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Benché sia poco nota, Atri, grazie agli Acquaviva, tra le principali del regno di Napoli, è stata dei poli di elaborazione del linguaggio quattrocentesco centro italiano, fondendo le istanze fiorentine, con una serie di suggestioni tardo gotiche, provenienti dalla Francia e dalla Spagna.
Processo che è ben testimoniato dal museo capitolare, il più antico d’Abruzzo: nel 1912 il Canonico Raffaele Tini cominciò ad esporre con un certo ordine oggetti pregiati che, in verità, erano già conservati nella sacrestia della Cattedrale. Si attrezzarono più tardi altre stanze, dove furono collocate le ceramiche, i codici miniati e gli incunaboli che prima erano stipati in accoglienti casse, anch’esse notevoli per pregi artistici. Il Museo è sistemato nei locali di un antico monastero benedettino – cistercense del XII secolo, situato a ridosso della Cattedrale, dove fa bella mostra di sé un nobilissimo chiostro su tre lati e a due piani. In seguito, a motivo della erezione a Diocesi di Atri, divenne abitazione dei canonici, i quali vi risiedevano conducendo quasi una vita monastica.
L’ultima trasformazione radicale si ebbe negli anni ‘60 sotto la direzione del soprintendente Guglielmo Matthiae che ristrutturò tutto l’edificio demolendo e ricostruendo ex novo l’ala nord dello stesso. Vi furono sistemati più razionalmente tutti gli oggetti esposti, compresi gli armadi scolpiti da Carlo Riccione che, dopo la demolizione della sacrestia e del coro interno, furono ricostruiti e sistemati nei primi 2 locali del nuovo museo. Un’ultima definitiva ristrutturazione, si é avuta nei primi mesi del 1994, quando, grazie alla Soprintendenza, alla Regione Abruzzo e alla Fondazione Tercas. Il Museo in questi ultimi anni si é arricchito di donazioni private come la raccolta di ceramiche di Vincenzo Bindi, e la raccolta di arte lignea di Tommaso Illuminati donata dagli eredi dello stesso.
Nell’ingresso del museo è dedicato agli arredi sacri: tra tutti, spiccano due grandi reliquiari francescani del XVII sec. in legno, con reliquie che provengono dalle catacombe romane, tre portaceri lignei del XVI sec. di buona fattura; lungo le scale una discesa dello Spirito Santo, opera di Giuseppe Prepositi, pittore locale allievo del Solimena. e una serie di sei candelieri e croce in legno dorato con Cristo in argento.
La prima e la seconda sala conservano i mobili provenienti dalla distrutta sagrestia della Cattedrale; a questi, nella seconda sala, si affianca la collezione dei codici miniati e degli incunaboli (quasi 30), provenienti sia dai canonici della Cattedrale che dal Palazzo Acquaviva, contenute in espositori del 1931 opera di Renato Tini.
La terza sala è dedicata sia ai paramenti sacri, tra cui spicca il tappeto rosso ricamato in argento donato nel 1732 al cardinale Troiano Acquaviva dalla regina d’Inghilterra, sia a reliquari provenienti dalle chiese locali
Nella quarta sala comincia la Pinacoteca: entrando da sinistra si due tavole Natività e Flagellazione attribuite a Pedro de Aponte, pittore di Saragozza, che seguì il Re Ferdinando il Cattolico durante la sua visita a Napoli, ove dovette ottenere l’incarico per le dette tavole dal Duca d’Atri Andrea Matteo III d’Acquaviva. Dato che gli elementi architettonici richiamano molto quelli del Bramante milanese e del Bramantino, che è assai probabile che il pittore abbia soggiornato per un certo periodo alla corte di Ludovico il Moro.
Al centro della sala vi una grande tavola Madonna col Bambino e Santi dei primi del 1500, opera attribuita Antonio Solario detto “lo Zingaro”, pittore assai poco noto: i punti fermi della sua biografia è che fu allievo prima di Antonello da Messina, poi di Bellini, che lavorò nelle Marche, a Napoli e a Venezia e che un certo punto della sua vita si trasferì a Londra, per entrare al servizio di Enrico VIII. Ma l’importanza della sala è nell’importante collezione di sculture lignee, che vanno dal dal XIII al XVII secolo.
Nella quinta sala sono esposti alcuni quadri del del XVI-XVII secolo, tra cui spicca una Madonna del Cavalier d’Arpino, mentre nella sesta vi sono opere barocche, di scuola napoletana.
La settima e ottava sala sono dedicate alla collezione Bindi, comprendente collezione di ceramiche abruzzesi di Castelli dal XVI al XIX secolo, oltre alla ceramica povera del XIX-XX sec. di Bussi, Lanciano, Atri e Torre de Passeri. Enttando sulla destra, sulla destra, Diploma di Laurea di Francesco Antonio Saverio Grue, datato 1798. Al centro, in vetrine modulari, dalla particolare forma a capanna, sono esposti i 100 pezzi della raccolta Vincenzo Bindi costituiti da piatti, mattonelle, piastrelle, vasi, ecc. prevalentemente di Castelli, ma anche di altre scuole, rappresentanti pressoché l’intera storia della ceramica d’Abruzzo, dagli inizi del XVI sec. al XIX. Sulla destra in vetrine della stessa tipologia di quelle centrali, altre ceramiche di Castelli e di officine di ceramica popolare abruzzese, raccolte e conservate negli anni dai canonici del Capitolo Cattedrale. Sono presenti mattoni maiolicati che provengono dal soffitto di S. Donato in Castelli, opere dei Grue (Francesco, Carlantonio, Francesco Antonio Saverio, Anastasio, Liborio, Francesco Saverio e Niccolò Tommaso), dei Gentili (Carmine, Giacomo e Berardino).
Non mancano i Cappelletti: Nicola (1691-1767) e Fedele (1874-1920), Gernaldo Fuina e tante altre ceramiche di autori non determinati ed altre più recenti costituenti la cosiddetta ceramica povera. Nel mezzo, solitaria, La Madonna col Bimbo maiolica bicolore, invetriata, attribuita a Luca della Robbia ed eseguita verso il 1470. In fondo due grandi vasi policromi di Francesco Saverio Grue (1720-1755) rappresentanti “Natività” e “Adorazione dei Magi” determinati ed altre più recenti costituenti laceramica povera. Nel mezzo, solitaria, La Madonna col Bimbo maiolica bicolore, invetriata, attribuita a Luca della Robbia ed eseguita verso il 1470.
La nona sala ospita oltre 100 pezzi di oreficeria, dal XIII al XX secolo, donati dalla fondazione Tercas, che opera molto per rivalutare i beni culturali della provincia di Teramo. La maggior parte dei pezzi viene dalla Cattedrale, ma gli altri vengono tutti dalle chiese di S.Chiara, S.Agostino, S.Nicola, S.Domenico e S.Reparata. I pezzi sono di varie scuole; molto presente quella abruzzese, oltre a pezzi della scuola orafa di Atri, che rientra nella lunga lista di artisti della scuola atriana. La scuola orafa di Atri fu l’unica dell’Abruzzo a sopravvivere fino al XVII secolo con artisti di alto livello (pur operando solo nella provincia di Teramo): infatti tutte le altre scuole orafe abruzzesi nel XVII secolo erano praticamente scomparse, per via della crescita di notorietà dei pezzi provenienti da Napoli.
Tra i vari pezzi esposti spiccano la stupenda Croce in cristallo di Rocca, un lavoro di scuola veneziana della fine del XIII sec., un pastorale in avorio intagliato fine XIII sec.,un riccio di pastorale, sempre in avorio intagliato, in origine dipinto, con un agnello e un drago, risalente agli inizi del XIV sec. e la grande Croce processionale in argento sbalzato e dorato, eseguita in Atri, nel 1518 da Mastro Giovanni di Rosarno di Calabria. La decima sala custodisce le opere dello scultore novecentesco locale Tommasi Illuminati.
Il percorso museale continua nello splendido chiostro, da cui si accede all’undicesima sala, in cui sono collocati alcuni materiali lapidei databili tra il II e il XIX secolo; vi si possono notare colonne, resti di finestre, balaustre, pietre tombali, stemmi, statue ecc. provenienti da varie zone di Atri e anche da alcune chiese della città. Una vera curiosità è la palla del campanile del duomo (XV secolo) con lo squarcio provocato dal fulmine nel 1996: si trovava collocata in cima alla torre campanaria, poi gravemente danneggiata a causa del fulmine e quindi sostituita da una uguale che funge da parafulmine.
Nella tredicesima sala si possono ammirare resti romani, mentre la quattordicesima è costituita dalla Cisterna Romana che alimentava le Terme che sorgevano dove ora è il Duomo. Lungo le volte e le colonne della cisterna si trovano affreschi del XIV e XV secolo, opere delle botteghe dei più importanti artisti attivi in queste epoche nel duomo di Atri: il Maestro di Offida e Antonio di Atri, protagonisti della transizione locale tra Tardo Gotico e Primo Rinascimento.
Nell’ultima sala sono infine conservate alcune fotocopie delle lettere scritte da vescovi e papi (gli originali si trovano nell’annessa Biblioteca Capitolare) tra il XIV e il XVII secolo e indirizzate alla diocesi di Atri.
August 22, 2020
Complesso dei Santi Elena e Costantino
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Benché sia situata in un luogo centralissimo, in Piazza Vittoria, tra Palazzo dei Normanni e la Cattedrale, il complesso dei Santi Elena e Costantino è assai poco noto ai palermitani. Benché fosse situato nella Galka, questo luogo non era di pertinenza delle grande Moschea.
Dall’epistola di “Teodosio monaco a Leone arcidiacono” sappiamo che questo monaco e il vescovo di Siracusa, testimoni dell’assedio e della presa della città da parte degli Arabi, il 21 maggio 878, furono fatti prigionieri, insieme ad altri religiosi, e trenta giorni più tardi condotti a Balarm. La città era sede del nuovo potere aghlabita di Sicilia ed uno dei due prigionieri fu costretto a partecipare ad una disputa teologica con l’emiro seduto in trono sotto un portico e nascosto dietro un velo. Al termine della quale il vescovo ed il monaco Teodosio furono portati via dai guardiani nel luogo dove erano trattenuti prigionieri. Lungo il percorso (per plateam) furono circondati da una folla di cristiani in lacrime e di saraceni curiosi venuti a vedere il vescovo di Sicilia condotto nella oscurità di una prigione a cui si accedeva attraverso una piccola porta, discendendo quattordici gradini scavati nella terra.
Da quello che siamo riusciti a ricostruire, anche dai sondaggi archeologici, questo portico, che svolgeva da padiglione delle udienze, dovrebbe coincidere con l’attuale complesso dei Santi Costantino ed Elena. Dopo la caduta del Kalbiti (948-1053) e fino all’insediamento a Palermo di Ruggero di Altavilla, Balarm era amministrata da un consiglio (giamà‘a) di sceicchi (shuyùkh) insieme agli uomini di religione, ai giuristi e agli stessi figli delle famiglie dei tuggiàr che possedevano delle navi e si dedicavano al trasporto a lunga distanza commerciando i prodotti del Mediterraneo orientale (la nave Shaykhi, degli sceicchi di Palermo, effettuò un carico in Egitto nel 1037-1038).
I membri di questo consiglio, eletti dall’Umma dei fedeli, trasformarono quel portico in un complesso di fondachi e magazzini. In un documento del 1153, appare come un tale Leone de Bisiniano fosse proprietario di un recinto denominato “il fondaco” comprendente: sette case terranee, pagliera, pozzo, e terreno piantato con alberi nel mezzo, nella strada detta misit de Sipene, dal nome della Moschea di Sibyà, posta fuori dalla Galka, vicino la sua porta d’ingresso accanto alla chiesa di San Costantino de plano.
Documento che testimonia due cose: la persistenza della destinazione commerciale dell’area, confermata anche dagli scavi archeologici, e la precoce “sacralizzazione” di parte del complesso. Dato il valore simbolico della titolatura della chiesa, gli Altavilla, come Costantino ha sconfitto con l’aiuto divino Massenzio amico dei pagani, hanno sottomesso gli infedeli, ponendosi in continuità con l’Impero Romano e proponendosi come alternativa al Basileus, questa deve essere avvenuta nei primi anni dopo la presa di Balarm.
Con il progressivo spopolamento dell’area nel tardo Medioevo, la chiesa di San Costantino fu progressivamente abbandonata: nei primi del Quattrocento, in occasione di un restauro di cui sappiamo ben poco, nella titolatura fu aggiunta anche quella di Sant’Elena. Nel 1568 fu rinominata Santa Maria del Palazzo e consacrata alla Madonna di Monserrat: il motivo fu legato al trasferimento sopra l’altare maggiore di un quadro, dipinto su pietra, proveniente dall’antica Porta dei Patitelli, che sorgeva dove ora si trova la chiesa di S.Antonio Abate e pare essere stata costruita sopra le mura dell’antica torre Pharat, che insieme ad un’altra torre quella di Baich, sovrastavano l’attuale “Vucciria”. Trasferimento che fu voluto dal Viceré di Sicilia Francesco Ferdinando d’Avalos, duca di Pescara. In tale occasione, la chiesa divenne sede dell’omonima Confraternita, successivamente trasformata in Compagnia, che vi rimase fino al 1832. In seguito la chiesa fu assegnata alla Compagnia della Carità che vi rimase fino al 1944.
Nel 1587, però la confraternita di Santa Elena e Costantino, volendo rinnovare il vecchio culto, decise di costruire una nuova chiesa, proprio accanto a quella normanna: i lavori languirono per diverso tempo, finché nel 1602, il Vicerè Don Lorenzo Suarez, Duca di Feria, al fine di predisporre una migliore difesa del Palazzo dei Normanni, decise di fare demolire santa Santa Maria del Palazzo.
Per le pressioni della Confraternita di Sant’Elena e Costantino e di quella di Santa Maria di Monserrat, rimasta senza una sede sociale, il senato palermitano concesse un finanziamento di cento scudi: di conseguenza, un annetto dopo, la nuova chiesa dei Santi Elena e Costantino fu termina. Nel 1612 fu inoltre completata l’adiacente canonica. A fine Seicento il complesso fu oggetto di un’ulteriore trasformazione, con l’aggiunta dell’Oratorio del primo piano, dedicato a Costantino.
Abbandonato nel 1947, dopo un lungo periodo di incuria il Complesso è stato acquisito dalla Regione Siciliana e, conclusi nel 2007 i restauri avviati nel 1988, è stato preso in carico dell’ARS che ne ha fatto la sua Biblioteca Archivio storico e un Info Point Centro di Informazione e Documentazione Istituzionale. I documenti dell’Archivio storico, consultabili da parte di studiosi e di cittadini, sono custoditi al piano terreno e conservati all’interno di moderne strutture di innovativa concezione realizzate dall’architetto milanese Italo Rota.
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Dato che gran parte degli arredi è stata trasferita nel museo diocesano, nella chiesa è rimasto ben poco: in asse con l’ingresso è il cappellone con l’altare maggiore in legno, illuminato da un oculo e riccamente addobbato con stucchi. Sull’altare una nicchia plurilombata custodisce la sacra immagine della Madonna con Bambino e Santi, donata da d’Avalos, mentre sulla sinistra un pregevole ambone ligneo proveniente da una chiesa dismessa. Il transetto, con due brevi cappelle sulle ali, è l’unica parte rimasta della chiesa seicentesca, nonostante i danni provocati, nell’800, da un incendio. Una cantoria lignea, dalle linee curve e spezzate, sovrasta l’ingresso. La cappelletta di destra del transetto ospita dei simulacri: Assunta dormiente e Crocifisso.
L’Oratorio, di grande valore artistico, situato sopra l’andito d’ingresso, si raggiunge grazie a uno scalone monumentale in pietra di Biliemi. Scalone – definito nel 1715 e affrescato nel 1724 con scene della Passione, perdutesi nel tempo – che si diparte dal lato sinistro del cortile
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Gli affreschi che impreziosiscono la volta e le pareti laterali sono opera di Filippo Tancredi, Guglielmo Borremans e Gaspare Serenari allievo del Borremans. Rappresentano la Visione della Croce, il Ritrovamento della croce, la Battaglia di Ponte Milvio, il Battesimo di Costantino e il Sogno di Costantino, con San Pietro e San Paolo e l’indicazione dei committenti nel cartiglio 1690, raffigurante la visione e la voce che attribuisce all’imperatore il motto «in hoc signo vinces».
Le pareti sono decorate invece con episodi della vita di Sant’Elena la Storia della vera Croce, Sogno della Santa Imperatrice, Viaggio a Gerusalemme, La distruzione degli idoli, Scavi alla ricerca della Croce, Incontro con il Saladino; immagini che risulterebbero essere delle sinopie. Gli affreschi veri e propri, furono staccati durante l’ultima guerra mondiale per proteggerli dai potenziali effetti distruttivi delle bombe. Ahimé, purtroppo, se ne è persa ogni traccia: il mio sospetto è che siano finiti a decorare la villa. di qualche riccone inglese o americano.
Meraviglioso è il pavimento in maiolica, che rappresenta Costantino in battaglia, eseguito dalla bottega dei Sarzana su disegno del domenicano Andrea Palma, architetto del Senato cittadino, che fu molto legato a questa chiesa. Il suo maestro, Paolo Amato, ne fu infatti cappellano
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August 21, 2020
Selinunte (Parte IV)
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Tornando a visitare Selinunte, ci spostiamo sulla collina occidentale, con un sentiero che parte dall’acropoli ed attraversa il fiume Modione; qui, nella contrada Gaggera, ai tempi dei greci e dei fenici vi era un nucleo di santuari che, nell’orientamento degli edifici, seguivano gli allineamenti principali del tessuto urbani.
Santuari messi in luce durante gli scavi effettuati da Cavallari e Patricolo nel 1818 e da Salinas nel 1903-1905, è stata sistematicamente indagata tra il 1915 ed il 1926 da Gabrici, che rinvenne una quantità immensa di materiali archeologici, attualmente conservati nel Museo Archeologico Regionale di Palermo.
Il principale di questi era dedicato a Demetria Malophòros, “Colei che dà mele” o “Colei che dà greggi”; Costruzione complessa, molto rimaneggiata ed altrettanto danneggiata, fu eretta nel VI secolo a.C. sul declivio sabbioso della collina; serviva probabilmente da stazione dei cortei funebri che proseguivano poi per la necropoli di Manicalunga. Agli inizi il luogo, sicuramente privo di qualsiasi costruzione, prevedeva pratiche cultuali all’aperto intorno a qualche ara; solo in seguito all’erezione del tempio e dell’alto muro di recinzione (tèmenos), esso fu trasformato in santuario.
Questo consiste in un recinto quadrangolare (m 60 x 50) al quale si accede sul lato E attraverso un propileo quadrato in antis – costruito nel V secolo a.C. – preceduto da una piccola gradinata e da una struttura circolare; all’esterno del muro di recinzione, il propileo è affiancato dai resti di un lungo porticato (stoà) fornito di sedili per i pellegrini, davanti al quale si evidenziano diversi altari o donarii. All’interno del temenos, invece, al centro, vi è il grande altare (lunghezza m 16,30; larghezza m 3,15), rinvenuto colmo di ceneri, di ossa animali e di altri resti di sacrifici; esso mostra un’aggiunta verso sud-ovest, mentre i resti di un precedente altare arcaico sono visibili presso la sua estremità nord-ovest, ed un pozzo quadrato è posto in direzione del tempio. Tra l’altare ed il tempio vi è inoltre un canale in pietra che, provenendo da N, attraversa tutta l’area portando al santuario acqua da una vicina sorgente.
Subito oltre il canale vi è il vero e proprio Tempio di Demetra a forma di mègaron, (lunghezza m 20,40; larghezza m 9,52), privo di basamento e di colonne, con pronao, cella e adyton con nicchia voltata nella parete di fondo; un ambiente di servizio rettangolare si appoggia al lato nord del pronao. Il mègaron ebbe una fase più antica, riconoscibile però solo a livello di fondazione.
Moltissimi sono i reperti provenienti dal santuario della Malophòros (tutti conservati al Museo di Palermo): arule scolpite con scene mitologiche; circa 12.000 figurine votive di offerenti maschili e femminili in terracotta (alcune delle quali ricavate dalla stessa matrice), databili tra il VII e il V secolo a.C.; grandi busti-incensieri che raffigurano Demetra e forse Tanit; una grande quantità di ceramica corinzia (del primo corinzio e del tardo proto-corinzio); un bassorilievo raffigurante il ratto di Persefone da parte di Ade proviene dalla zona dell’ingresso al recinto. I materiali cristiani rinvenuti (soprattutto lucerne col monogramma XP), provano la presenza dal III al V secolo d.C. di una comunità religiosa cristiana nell’area del santuario.
Il primo edificio sacro che si incontra a sud del recinto della Malophoros è un tempio, comunemente chiamato edificio Triolo dal nome della famiglia proprietaria di un immobile esistente in zona, preceduto da un grande altare e incluso in un’area sacra delimitata a sud da un muro di peribolo. L’edificio si presenta come un tempio arcaico di notevoli proporzioni orientato in senso est-ovest con una lieve inclinazione verso sud; realizzato in arenite marina, con pianta rettangolare tripartita in pronao, cella e aditon, accessibili tramite Porte rastremate poste nel muro frontale e in quelli divisori. Dalle tracce ritrovate sulle pareti interne del tempio si suppone che fossero intonacate con finissimo stucco color bianco avorio. Grazie ad un rigoroso restauro sono stati ricostruiti i lati nord e sud dell’edificio crollati, probabilmente, a causa di un terremoto avvenuto in epoca imprecisata. Con sicurezza sappiamo che l’edificio dopo la distruzione della città (409 a. C.) venne riutilizzato dai Cartaginesi che aggiunsero sulla fronte orientale un portico a pilastri sormontati da capitelli a gola egizia, mentre l’altare posto dinnanzi alla fronte venne utilizzato per raccogliere le offerte votive.
Tra i materiali ritrovati durante lo scavo sono interessanti le statuette raffiguranti una kourotrophos che fanno identificare l’edificio dedicato ad una divinità femminile (Hera) il cui culto, data l’arcaicità della costruzione, pare avere radici nella fase coloniale così come in altre città magnogreche dove veniva venerata come regina e patrona della natura, degli animali,della guerra, ma soprattutto del ciclo della vita femminile: nozze (ierogamia), parto (eileithia), maternità (kourotrophos).
Poco a nord del santuario di Demetra Malophoros, in un peribolo quadrato di 17 m. per lato che pare inglobato in un successivo ampliamento del peribolo della Malophoros, è il temenos consacrato a Zeus Meilichios. L’appellativo Meilichios “dolce come il miele” è un attributo di Zeus come divinità ctonia attestato in alcune iscrizioni recanti il nome di Zeus Meilichios in caratteri arcaici. Un culto, assai diffuso nell’occidente greco insieme a quello di Meilichia riconosciuta in Afrodite e Hera a Poseidonia (Paestum) e in Demetra a Selinunte, praticato anche in ambiente italico come dimostra il tempio dedicato a Giove Meilichio a Pompei. Il piccolo peribolo presentava, nella sua ultima fase di vita (prima metà del III secolo a. C. ), lungo i lati sud e nord, due portici con colonne di vario genere provenienti da un preesistente portico di età ellenistica. All’interno del peribolo è ancora visibile un piccolo sacello prostilo di 5,22 m. x 3,02 m. con colonne doriche monolitiche ed epistilio ionico con gocciolatoio senza mutuli, preceduto da due altari. Il complesso che si fa risalire al IV secolo a. C., è stato oggetto di ripetuti rimaneggiamenti durante il IV secolo a. C. e nella prima metà del III secolo a.C.
Questo culto tipicamente greco, infatti, venne assorbito durante la fase fenicio-punica alla quale si fanno risalire i numerosi ex voto, ritrovati attorno al temenos, formati da una stele singola o a doppia protome maschile e femminile (Meilichios e la sua paredra ?); considerate puniche anche se una stele reca un’iscrizione greca. Quest’ultima, oggi esposta al Museo Regionale Archeologico di Palermo, nonostante sia stata dettata con caratteri greci, non può essere con sicurezza attribuita alla fase greca classica poichè‚ tra i punici convivevano molti greci che continuavano a parlare la lingua ellenica. Alla stessa fase punica è attribuibile l’altare in pietra, posto ad ovest del temenos di Zeus Meilichios, inglobato nell’ampliato peribolo della Malophoros, al centro di una vasta area. Qui sono state rinvenute numerose deposizioni rituali costituite da corredi vascolari figurati importati dalla Grecia, da ossa di animali combuste e da una serie di stele aniconiche e antropomorfe. L’altare, con basamento alto 1,05 m., ha sopra il piano sacrificale tre blocchi squadrati di forma trapezoidale posti in piedi, il più meridionale dei quali ha nell’estremità superiore una decorazione a “gola egizia” poco pronunciata. Questi blocchi simboleggiano i tre betili della religione punica.
Infine, a pochi metri a nord dalla fonte della Gaggera, la stessa che alimentava il santuario di Demetra Malophoros, sono le vestigia del cosiddetto tempio M. Dell’edificio, attribuibile all’inizio del VI secolo a.C., dalle dimensioni di 26,80 m. x 10,85 m., si conservano solamente i blocchi di fondazione e quasi tutta la parete est, in origine alta otto metri, oggi crollata. La struttura pare avere la forma di un megaron arcaico bipartito con pronao e cella, preceduto da una gradinata (altare) e da una zona lastricata. Tra le rovine si notano vari elementi del fregio dorico con metope lisce, pertinenti alla parete posteriore del muro di fondo dell’edificio dove è pure una canaletta di pietra.
Svariate sono le ipotesi fatte su questa costruzione: la più suggestiva è quella che l’edificio fosse una fontana monumentale alimentata dalla sorgente Gaggera realizzata, durante l’epoca delle tirannidi, su modello della fontana costruita a Megara Nisea, dal tiranno Teagene intorno alla fine del VII secolo a. C. Selinunte riproduce quindi, ancora una volta, un modello dalla madrepatria in terra di Sicilia? Tesi ancora incerta e non definita e solo nuovi scavi potrebbero chiarire la funzione del muro ovest e delle strutture poste tra la sorgente e l’edificio. Alla luce delle attuali conoscenze dobbiamo ritenere l’edificio un tempio inglobato in un temenos monumentale, simile a quello della Malophoros, dentro il quale potrebbe anche trovarsi qualche altro tempio, quello a cui appartenevano le due lastre calcaree di fregio ionico databili tra il 480-470 a. C. raffiguranti scene di amazzonomachia rinvenute durante lo scavo del tempio M ma non pertinenti a questo edificio. Tale fregio, forse frutto della bottega di Pitagora, si accosta stilisticamente alle metope del tempio E, ad una scultura a rilievo in calcare raffigurante Eos e Kephalos e ad una testa marmorea barbata (ambedue provenienti dall’acropoli), tutte conservate nel Museo Regionale Archeologico di Palermo.
August 20, 2020
La Basilica Trium Magorum di Mediolanum
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Secondo la leggenda, Elena, madre dell’imperatore Costantino, nella sua spedizione archeologica in Terra Santa, che portò al ritrovamento delle presunte Reliquie della Crocifissione, conservate all’Esquilino, a Santa Croce in Gerusalemme, tranne il cosiddetto “Santo Chiodo”, conservato nel Duomo di Milano e celebrato con il Rito della Nivola, scoprì anche le spoglie dei Tre Re Magi.
Sempre secondo questo racconto, nel 325 d.C. Costantino le donò al vescovo milanese Eustorgio, che si era recato a Costantinopoli per ricevere l’investitura ufficiale da parte dell’imperatore. Eustorgio fece costruire il sarcofago che ancora oggi vediamo nella basilica che da lui prese il nome, ci infilò le reliquie, lo caricò su un carro trainato da due buoi e partì per tornare a Milano.
Il viaggio fu lungo, estenuante e non privo di pericoli. Un lupo assalì il carro e sbranò uno dei due buoi. Eustorgio, però non si perse d’animo: per continuare la spedizione ammansì la fiera selvatica e la legò al giogo a tirare il carro con il bue rimasto (che poi l’episodio si tratto pari pari da una leggenda relativa alla traslazione delle reliquie di Buddha in uno dei tanti stupa indiano, è un dettaglio insignificante…).
In vista di Milano l’incedere delle due bestie si fece sempre più faticoso e lungo l’attuale corso di Porta Ticinese, poco lontano dall’ingresso della città, il carico sembrava essersi fatto così pesante che gli animali non riuscivano più a spostare il carro. Eustorgio ci mise poco a interpretarlo come un segno divino e fece fondare una chiesa suburbana, la Basilica Trium Magorum, che avrebbe ospitato le sacre reliquie. Quella stessa chiesa, alla morte del vescovo, nel 355 d.C., ne accolse le spoglie e ne prese il nome.
Re Magi, che i milanesi, a differenza del resto del mondo, non chiamano Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, ma Dionigi, Rustico ed Eleuterio, rimasero a sant’Eustorgio sono al 1162, quando Milano fu presa e distrutta dal Barbarossa. L’arcivescovo di Colonia Rinaldo di Dassel, volle come bottino di guerra i tre corpi, nel tentativo di trasformare la cattedrale della sua città in un nuovo centro di pellegrinaggio. Secondo un cronista dell’epoca al momento della transazione i corpi dei Magi erano ancora integri, con pelle e capelli ben curati e dimostravano un’età apparente di 15, 30 e 60 anni.
Questa è la pia tradizione… Ma cosa dice invece l’archeologia ? Allo stato attuale non è possibile datare con precisione l’impianto della basilica paleocristiana, né stabilire con sicurezza il rapporto con la sepoltura di Eustorgio. Di certo a partire dal V secolo d.C., accanto al culto di Ambrogio e di Dionigi, si sviluppò fortemente anche il culto per questo vescovo, detto confessor perché aveva sostenuto la fede cattolica nei due concili antiariani tenutisi a Milano negli anni 345-346 e 347-348 d.C.
Le fonti storiche ricordano per la prima volta la chiesa solo nell’inoltrato VII – inizio VIII secolo nell’Itinerarium Salisburgense, una sorta di guida per chi intendesse visitare le chiese milanesi che ospitavano i corpi dei martiri. Il monumento venne successivamente segnalato anche nel Versum de Mediolano civitate del 739 d.C., un componimento che esaltava le bellezze e l’importanza della città.
Gli interventi ottocenteschi e le indagini più approfondite condotte tra il 1959 e il 1966, infatti, hanno rilevato l’esistenza della basilica più antica, la cui abside, unica testimonianza paleocristiana giunta sino a noi, è conservata per lo più a livello di fondazione sotto il coro dell’attuale basilica ed è tutt’ora visibile. Tale struttura, in ciottoli e mattoni, risulta addossata a un muro rettilineo più antico, scandito esternamente da lesene che dovevano disegnare una serie di arcature cieche, di cui è difficile definirne la funzione: poteva delimitare un sacello funerario oppure una primitiva aula di culto.
Per quanto riguarda l’abside, essa potrebbe essere associata ad una ristrutturazione significativa del primitivo impianto, databile non oltre il VI secolo d.C. A queste poche testimonianze antiche, si aggiunge una porzione di alzato murario, inglobato nella struttura dell’abside della chiesa romanica, caratterizzato dalla presenza di lari di frammenti laterizi disposti a spina di pesce e altro materiale eterogeneo. Muro su cui si intervenne in epoca alto medievale, a testimonianza di un restauro, legato
alla crescita del culto del santo, documentata nel VII-VIII secolo dalle fonti letterarie.
Per il resto le strutture della grande chiesa romanica, conclusa nell’XI secolo, e le successive modiche che hanno portato l’edificio ad essere così come lo vediamo oggi, hanno quasi cancellato del la memoria delle sue origini. Infine merita un accenno il cosiddetto sarcofago dei Magi, da tempo immemorabile addossato al muro di una cappella del transetto meridionale (e quindi solo parzialmente visibile).
Il sarcofago, per quanto rimaneggiato, è datato all’età romana medio e tardo imperiale (III, o al più tardi, inizio IV secolo d.C.) ed è decorato con semplici specchiature. Notevole, dal punto di vista tecnico, è che sia stato ricavato da un unico enorme blocco di marmo proconnesio; il dato impressionante è costituito dalla sua dimensione eccezionale (2 x 3,70 x 2 metri di altezza, coperchio escluso), che sembra non avere confronti in Italia, ma richiamare prototipi microasiatici.
In compenso, sotto la navata centrale della basilica sono state rinvenute numerose tracce di una necropoli tardoantica, costituita da sepolture pagane e cristiane. Il nucleo di tombe più antico è costituito da due sepolture alla cappuccina (con tetto a doppio spiovente) e da una in cassa di laterizi disposti in verticale: queste strutture, infatti, risultano più profonde e forniscono elementi cronologici di corredo, anche se scarsi, riferibili al III-IV secolo d.C. Nel IV secolo d.C. avanzato la necropoli si ampliò verso ovest: le tipologie più diffuse divennero la cassa in lastre di serizzo e la
cassa in muratura.
Le indagini hanno poi evidenziato che queste sepolture presentavano tutte pressoché lo stesso orientamento e i defunti vi erano stati deposti con il capo verso ovest. Altre tre tombe, una delle quali intonacata internamente, e alcune inumazioni a bara lignea o in nuda terra, che sembrano indicare la presenza di sepolture “povere” accanto a quelle di personaggi di un certo rango, risalgono al V secolo d.C.
Gli scavi del 1959-61 hanno restituito anche un discreto numero di iscrizioni funerarie, ora musealizzate all’interno dell’area archeologica. La raccolta epigrafica di Sant’Eustorgio testimonia il clima composito della società milanese del tempo, segnalando ad esempio la presenza di orientali, come il macedone Heliodorius o un altro anonimo defunto ricordato in lingua greca, e di militari, come un certo Severianus, forse appartenente alla guardia imperiale. L’originario uso pagano del cimitero sembra poi essere testimoniato dall’epitaffio del piccolo schiavo Cardamione, probabilmente databile al III secolo d.C.; la cristianizzazione dell’area trova invece un importante elemento cronologico nell’epigrafe, la prima iscrizione cristiana milanese, dell’esorcista Vittorino, membro del clero deposto nel 377 d.C.
E’ interessare osservare come uno dei tratti distintivi della raccolta della basilica sia la frequenza di graffiti figurati in genere poco attestati a Mediolanum: molto interessante è quello del cosiddetto “orante”, un ufficiale o un funzionario della burocrazia locale rappresentato abbigliato con una tunica manicata e con un sagum (mantello).
Altre iscrizioni, inoltre, offrono informazioni sulla longevità dei defunti. Si legge, infatti, che un certo Domese, ad esempio, visse fino a novant’anni, mentre tale Asteria sembra abbia festeggiato addirittura gli ottant’anni di… matrimonio!
Per i cristiani delle origini, tuttavia, la data della depositio, cioè della sepoltura, non era importante come fine della vita terrena, ma in quanto principio di quella nuova. In questo senso potrebbe essere letta anche l’insolita sequenza “omega-alfa” ai lati del cristogramma in un’epigrafe del IV secolo della necropoli di Sant’Eustorgio: non si tratterebbe, cioè, di un errore di inversione fra la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, ma probabilmente la precisa volontà di sottolineare come proprio la morte segni il passaggio all’eternità.
L’esteso uso funerario dell’area in cui sorse la chiesa è anche ben documentato anche dagli scavi archeologici condotti tra il 1998 e il 2001 sul lato occidentale del secondo chiostro del monastero di Sant’Eustorgio: qui fu messo in luce un vasto cimitero, rimasto in uso dal III al VI secolo d.C. e poi riutilizzato dal XII al XVI secolo come fonte di reliquie.
Le novanta sepolture rinvenute rappresentano verosimilmente l’estensione verso nord, caratterizzata da un più intenso sfruttamento dello spazio disponibile, della necropoli messa in luce sotto la basilica. La maggior parte di esse sono in cassa di laterizi, elementi lapidei di reimpiego e ciottoli legati da malta o argilla. Il fondo è costituito da mattoni coperti da uno strato di cocciopesto, da semplice terra battuta o da malta. Purtroppo non abbiamo testimonianza dei sistemi di copertura perché molte delle strutture furono manomesse già in antico per il recupero di materiale edilizio.
Due dei tre oggetti di corredo superstiti (ora conservati nell’Antiquarium “Alda Levi”) – un pettine di osso associato ad una moneta del regno ostrogoto (V – metà VI secolo d.C.) e una guarnizione di bardatura di cavallo in bronzo – sembrano essere indizi della presenza a Milano di militari o funzionari della corte imperiale provenienti da aree di confine dell’impero.
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August 19, 2020
Il sepolcro di Priscilla
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Sull’Appia Antica, all’altezza della Chiesa di Domine Quo Vadis, sorge un antico sepolcro romano, del tipo a tumulo su basamento quadrangolare, purtroppo poco visibile dalla strada, perché nascosto da due casali moderni, di cui uno, prospiciente la via Appia, era già conosciuto dal Canina come “Osteria dell’Acquataccio”.
Mausoleo attribuito a Priscilla, giovane moglie di Tito Flavio Abascanto, liberto di Domiziano, che ricoprì nella cancelleria imperiale l’importante carica di segretario ab epistulis (addetto alla corrispondenza) e che nelle vicinanze del fiume Almone possedeva dei terreni ed un edificio termale. Tale attribuzione è supportata da due testimonianze particolari.
La prima è una poesia delle Silvae di Stazio, la cui moglie era grande amica di Priscilla, che racconta come la donna fosse imbalsamata e non cremata secondo l’uso funerario dell’epoca. Così il poeta descrive i suoi funerali.
ammassati in una interminabile fila passano tutti i balsami che la primavera d’Arabia e di Cilicia produce, i profumi della Sabea, le messi dell’India destinate ad essere bruciate, l’incenso delle divinità, le essenze di Palestina e di Israele, lo zafferano di Corico ed i germogli di mirra.Essa giace su un letto funebre costruito dai Seri ed è ricoperta da una coltre di stoffe di Tiro…
Le sue spoglie imbalsamate e avvolte in vesti di porpora furono deposte in un sarcofago di marmo e perché la sua immagine superasse le generazioni, ripose le sue sembianze nei corpi bronzei di dee ed eroine collocate all’interno del sepolcro…
In particolare, in un verso Stazio citò la posizione del Mausoleo
sulla via Appia, appena passato il fiume Almone
Ad ulteriore conferma dell’identificazione nel 1773 venne rinvenuta, nella vigna di Carlo Simone Neroni,situata nei pressi del mausoleo una lapide dedicata alla sepoltura del proprio schiavo Afrodisio, da un certo Tito Flavio Epafrodito, aedituus (custode) del sepolcro dei propri patroni Abascanto e Priscilla. Attualmente è conservata nel lapidario civico di Ferrara dove giunse nel 1779 a seguito della donazione del Cardinale Gian Maria Riminaldi. Su di essa si legge
Dis M(anibus) Sacr(um)
Aphrodisio
vernae suo dulc(issimo),
fec(it) T(itus) Flavius
Epaphroditus
aedituus
Abascanti et Priscil
laes patronor(um)
et sibi suis b(onis) b(ene)
ossia in italiano
Sacro agli Dei Mani.
Tito Flavio Epafrodito,
custode del sepolcro dei patroni Abascanto e Priscilla,
fece in memoria di
Aphrodisio suo dolcissimo e affezionato schiavo
a sé stesso ed al proprio bene.
In realtà l’archeologia racconta una storia lievemente differente: dal punto di vista della tipologia costruttiva – ascrivibile all’ambito dei “tumuli con podio” – e della tecnica edilizia – basamento in calcestruzzo di lava basaltica e tamburo in opera reticolata di tufo – il mausoleo è piuttosto databile alla seconda metà del I sec. a.C. Per cui, Tito Flavio Abascanto, più per la fretta che per risparmiare, dato che non gli mancavano certo sesterzi, non costruì nulla di nuovo, ma rilevò dai vecchi proprietari un sepolcro di un secolo prima, riadattandolo alle sue esigenze.
Il sepolcro fu utilizzato a partire dall’XI secolo come fortificazione: sul cilindro superiore venne costruita con materiale da recupero una torre cilindrica (“torre Petro”). Appartenne ai conti di Tuscolo, dai quali passò in seguito ai Caetani. In epoca moderna, fino agli anni ’60, la camera funeraria fu usata come “caciara” per la stagionatura dei formaggi e le strutture lignee, funzionali a tale uso, si addossano ancora oggi alle strutture murarie.
Il nucleo del basamento del monumento, rivestito in opera quadrata di travertino, è ancora in buona parte conservato, al di sopra di questo si elevano due tamburi cilindrici in opera reticolata di tufo: in quello superiore, citato proprio da Stazio, si aprivano le 13 nicchie che custodivano le statue di Priscilla. Attraverso i sotterranei del casale che, come già menzionato, nasconde l’accesso originario del sepolcro, si raggiunge il corridoio antico, coperto da una volta a botte che immette nella cella funeraria, attualmente debolmente illuminata dall’apertura esistente sulla sommità della torre medievale. La cella, anch’essa coperta da una volta a botte, era rivestita, come testimoniano alcuni resti delle murature, in opera quadrata di travertino, su tre lati si aprono nicchie per la deposizione di sarcofagi
August 18, 2020
L’arrivo di Michelangelo
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La morte improvvisa di Antonio di Sangallo, avvenuta nel settembre 1546, mise di nuovo in crisi il cantiere di San Pietro: Paolo III, nel tentativo di non bloccare i lavori, decise di affidare l’incarico di Primo Architetto a Giulio Romano, che, data la vicinanza con Raffaello, aveva un’idea abbastanza chiara di tutte le traversie progettuali subite dalla basilica vaticana. Tuttavia, Giulio non fece neppure in tempo a prendere possesso della carica, dato che morì anche lui, in maniera alquanto inaspettata, nel novembre 1546.
Paolo III, allora, provò ad attuare una soluzione di compromesso: da una parte, affidò la gestione la gestione quotidiana del cantiere, allo scopo di realizzare nel concreto quanto previsto nel modello ligneo a tutti l’equipe di collaboratori e apprendisti di Sangallo, dall’altra, come una sorta di manager e uomo immagine, per raccogliere più donazioni possibili, gli affiancò il buon Michelangelo Buonarroti, che per accettare l’incarico, fece anche il prezioso.
Michelangelo, inizialmente, fece finta di rifiutare l’incarico adducendo “che l’architettura non era arte sua propria”; solo dopo le insistenze papali, “non giovando i preghi” accettò a settantuno anni “con sommo suo dispiacere e contra sua voglia” l’incarico, che viene ratificato l’1 gennaio 1547. La cronologia degli avvenimenti è ricostruibile con precisione sulla base dei racconti del solito Vasari, alquanto di parte, e delle lettere, assai più oggettive, che i deputati Giovanni Arberino e Antonio Massimi inviarono da Roma al loro collega Filippo Archinto, uno dei più influenti deputati della Fabbrica, che alla fine di novembre 1546 si era trasferito a Trento per seguire il concilio e gestirne la logistica, per non fare morire di fame e di sete i cardinali.
Il problema è che Paolo III non aveva considerato né il pessimo carattere di Michelangelo, né la sua avidità di denaro: il primo obiettivo dell’artista fiorentino fu quindi cacciare quella che Vasari definì impropriamente la “setta sangallesca”, composta dai deputati della Fabbrica e da una vasta schiera di imprenditori, commercianti e e capomastri, che seguivano il cantiere dai tempi di Bramante e che erano consapevoli le evoluzioni, i problemi e i compromessi che erano dietro al progetto, allo scopo di gestire personalmente gli appalti e il relativo, fisiologico, giro di bustarelle.
Vasari narra che durante una visita di Michelangelo a San Pietro, per vedere il modello di Sangallo e la Fabbrica, tutta la setta sangallesca si rallegrò in buonafede con il maestro per l’incarico ricevuto, affermando che quel modello è “un prato che non vi mancherebbe mai da pascere”; conoscendo, infatti la pessima fama dell’artista, si erano mostrati disposti a metterselo a libro paga, pur di non avere rotture di scatole e lavorare tranquilli.
Michelangelo, che puntava a tutto il banco, scese sul piede di guerra, replicando che la cosa risponde al vero “per le pecore e buoi che non intendono l’arte”.
In quell’occasione, poi, Michelangelo criticò pubblicamente il progetto sangallesco, con argomenti, per i paradossi della storia, molto simili a quelli utilizzati da Antonio nel suo memoriale contro Raffaello: sostenne infatti come l’illuminazione fosse insufficiente, che vi fossero troppi ordini di colonne all’esterno e che gli aggetti, le cuspidi e gli ornamenti dessero alla basilica un aspetto gotico,piuttosto che classico e moderno.
Infine, mentendo spudoratamente, conoscendo le preoccupazioni economiche di Paolo III, Michelangelo dichiarò che non terminando l’opera di Sangallo si potessero risparmiare trecentomila scudi e cinquanta anni di lavoro e edificare San Pietro con “più maestà e grandezza e facilità e maggior disegno di ordine, bellezza e comodità”
Per sottolineare ulteriormente tale concetto, presentò in un modello in legno costato 25 scudi e realizzato in quindici giorni, a ovvio discredito di quello realizzato da Sangallo, che era costato un occhio della testa.
Qualche giorno dopo, Michelangelo dichiarò pubblicamente di non volere più nessuno della setta sangallesca nella fabbrica; da quel momento la setta dichiarò guerra al fiorentino, con un odio che crescerà ogni giorno di più “nel veder mutare tutto quell’ordine drento e fuori, che non lo lassarono mai vivere, ricercando ogni dì varie e nuove invenzioni per travagliarlo”.
In pratica, oltre che applicare una sorta di sciopero bianco, nella spartizione degli appalti fecero terra bruciata a tutti i fornitori, legati, più o meno alla lontana, a Michelangelo, in modo da prosciugare le fonti delle bustarelle che riceveva.
Le critiche di Michelangelo al progetto sangallesco sono testimoniate anche da una lettera che alla fine del 1546 o nei primi giorni del 1547 inviò a un certo Bartolomeo, personaggio che era nelle grazie di Paolo III. Il fiorentino criticò come suo solito il modello di Sangallo, tirando fuori il suo asso nella manica, con il lodare spudoratamente Bramante “valente nella architectura quante ogni altro che sia stato dagli antichi in qua” e la “prima pianta di Santo Pietro” concepita dallo stesso Bramante “non piena di confusione ma chiara e schietta, luminosa e isolata a torno, in modo che non nuoceva a chosa nessuna del Palazzo”.
Con questa dichiarazione, Michelangelo toccò vette sublimi di cialtronaggine: era infatti sia consapevole della quantità industriale di progetti che il povero Bramante aveva dovuto presentate a Giulio II, sia del fatto che il progetto sangallesco era una naturale evoluzione di tali proposte, nel tentativo, anche velleitario, di conciliare le loro contraddizioni.
Per giustificare queste triplo tuffo carpiato, invece di riferirsi a questi progetti, Michelangelo si limitò a citare quanto effettivamente costruito da Bramante: i quattro pilastri di crociera e soprattutto il coro occidentale di Giulio II, che è “cosa bella, come ancora è manifesto”; quest’ultimo è a quel tempo l’unica struttura bramantesca visibile all’esterno, libero da ambulacri, cappelle e torri angolari e risolto con un unico ordine.
Elementi, ricordiamolo, che cozzavano tra loro e che erano stati eretti da una parte per coniugare le idee architettoniche di Bramante con le pressanti richieste di Giulio II di avere una sua cappella funebre, che ricalcava il progetto quattrocentesco del Rossellino; il coniugarli, aveva provocato una serie di esaurimenti nervosi a Fra Giocondo, a Giuliano da Sangallo, a Raffaello, a Peruzzi e ad Antonio da Sangallo.
Nella stessa lettera il fiorentino aggiunse “che chiunche s’è discostato da decto ordine di Bramante, come à facto il Sangallo, s’è discostato dalla verità”. Michelangelo toccò il culmine della malafede, re criticando la mancanza di luce del progetto sangallesco determinata dall’introduzione dei deambulatori, che si svolgevano lungo il perimetro della fabbrica, e avanzò con ironia il dubbio che i criminali possano essere invogliati a cercare rifugio in un edificio così pieno di “nascondigli fra di sopra e di socto, scuri, che fanno comodità grande a ’nfinite ribalderie”.
Insomma fece finta di dimenticare come questi fossero stati introdotti proprio dallo stesso Bramante: infine, mostrando di avere idee assai vaghe sulle dimensioni finali della basilica, accusò Sangallo di essere un grande distruttore poiché la sua pianta “nel circuire con la g[i]unta che ’l modello vi fa di fuora decta compositione di Bramante” interferirebbe con i Palazzi Vaticani e richiederebbe la demolizione di edifici importanti, come la Cappella Paolina, le Stanze del Piombo, la Ruota, la Cappella Sistina e le costruzioni adiacenti.
Nella chiusa della lettera Michelangelo chiese a Bartolomeo d’intercedere presso Paolo affinché acconsenta a far demolire il perimetro esterno delle absidi, mettendo in rilievo che la perdita sull’investimento costituito dal modello del Sangallo sarebbe stata più che compensata dalle economie consentite da una pianta più compatta.
August 17, 2020
Meet Charles Clos: The Father of Clos Networks
Around Cumulus Networks we’re constantly talking about this thing called a Clos network. If you don’t know much about what those are, check out the following descriptions from Network World and Wikipedia:
https://www.networkworld.com/article/2226122/cisco-subnet/clos-networks–what-s-old-is-new-again.html
https://en.wikipedia.org/wiki/Clos_network
They were a concept initially envisioned in the 1950’s by a gentleman working at Bell Labs named Charles Clos. Not a ton is known about Mr. Clos aside from the fact that his seminal paper in “The Bell System Technical Journal ( Volume: 32, Issue: 2, March 1953 )” A study of non-blocking switching networks went on to make waves in the Data Center Computer Networking space many years later as it turns out non-blocking telephone networks have a lot to do with modern Data Center design pillars.
It bothered me that were no images to be found anywhere on the internet of Mr. Clos. So one day I decided I would get this mystery solved…
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Pirro (Parte VII)
Pirro, nel dichiarare guerra a Roma, aveva scommesso su due ipotesi di scenario: il primo è che l’Urbe avesse maggiore interesse nell’espandersi ai danni degli Etruschi e dei Galli. Il secondo è che non avesse sufficiente risorse umane da potere combattere diversi nemici su più fronti. Purtroppo per lui, entrambe le ipotesi si rilevarono errate.
I Romani, infatti, mobilitarono otto legioni. Queste comprendevano circa 80.000 soldati divisi in quattro armate: la prima armata, comandata dal solito Barbula, si stanziò a Venosa per impedire ai Sanniti e ai Lucani di congiungersi con le truppe di Pirro. La seconda fu schierata a protezione di Roma nell’eventualità che Pirro tentasse di attaccarla, con un colpo di mano. La terza, comandata dal console Tiberio Coruncanio, aveva il compito di attaccare gli Etruschi per scongiurare che si alleassero con Pirro. L’ultimo, invece, comandata da Publio Valerio Levino, avrebbe dovuto attaccare Taranto ed invadere la Lucania.
Pirro, dinanzi a tale spiegamento di forze, essendo anche privo di adeguate artiglierie d’assedio, invece di marciare con un rapido raid verso Roma, per intimorire il Senato e costringerlo alla pace, decise di azzardare un diverso piano strategico; avanzare per linee interne, battendo separatamente e in momenti distinti le diverse armate romane. Le perdite inflitte all’Urbe l’avrebbero così costretta a scendere a patti.
Nel frattempo, però il console Levino invase la Lucania allo scopo di raggiungere due distinti obiettivi strategici: impedire alle armate dei Lucani e dei Bruzi di unirsi all’esercito di Pirro e bloccare la sua avanzata verso sud, scongiurando in questo modo una sua alleanza con le colonie greche di Calabria. Ovviamente, Pirro, in vista della sua prossima campagna contro i Cartaginesi e poi contro i Macedoni, aveva proprio necessità dei mercenari italici e del denaro italiota. Di conseguenza, per lui era necessario eliminare dallo scenario per prima l’armata di Levino.
Per cui, il re dell’Epiro decise di accamparsi e di attendere i Romani nella piana lucana situata tra le città di Eraclea, la nostra Policoro e di Pandosia, la nostra Anglona, frazione di Tursi, dove fu ucciso Alessandro il Molosso, nei pressi della riva sinistra del Sinni, all’epoca navigabile, in modo da sfruttare il fiume a proprio vantaggio contando sulle difficoltà che i Romani avrebbero avuto per attraversarlo.
Dato che però il suo obiettivo principale era la Sicilia ed era abbastanza consapevole delle difficoltà di rimpiazzare suoi veterani caduti in battaglia, Pirro cercò in qualche modo di trovare un compromesso con i Romani. Inviò quindi alcuni diplomatici al cospetto del console romano Levino per proporgli una mediazione nel conflitto tra Roma e le colonie della Magna Grecia. Se ci fosse stato un altro generale, probabilmente un compromesso si sarebbe trovato; ma Levino era a libro paga del partito filo campano, per cui, qualsiasi accordo, pena la scomparsa politica di tale fazione, era impossibile.
Pirro, udito ciò, cavalcò lungo il fiume per spiare i nemici. Meravigliandosi della disciplina militare romana e dell’ordine con cui era disposto l’accampamento, si voltò verso Megacle, uno dei suoi più fidati ufficiali, esclamando, secondo Plutarco
Questa disposizione dei barbari, Megacle, a me non pare barbara, ma vedremo le opere loro
Inoltre, da buon tattico, si era anche reso conto come le salmerie romane scarseggiassero: di conseguenza, il tempo lavorava a suo favore. Le truppe romane consistevano infatti in circa 19.000 soldati suddivisi in:
a) 2 legioni di cittadini romani e 2 alae di socii, composte ciascuna da 4.200 fanti per un totale di 16.800 combattenti.
b) 600 cavalieri legionari e 1.800 alleati pari a 2.400 complessivi, alcuni dei quali posti a difesa dell’accampamento e che non presero parte ai combattimenti iniziali.
Pirro invece, invece disponeva di circa 28000 uomini, così articolati:
a) 3.000 hypaspistai (“scudieri”), opliti scelti armati con una lancia un po’ più lunga della consueta dory in uso agli opliti greci ed una spada, che proteggevano i fianchi della falange sotto il comando di Milone di Taranto. A differenza degli altri diadochi ed epigoni, che abolirono tale corpo, Pirro, imitando Alessandro Magno, lo mantenne in piena efficienza, per aumentare la flessibilità strategica del suo esercito.
b) 3.000 cavalieri: “Amici del Re”, Epiroti, mercenari dell’Ellade e alleati d’Italia
c) 14.000 fanti Epiroti e Macedoni disposti a falange
d) 2.000 arcieri cretesi
e) 500 frombolieri di Rodi, ossia soldati armati di una particolare fionda che scagliava proiettili anche a 400 metri di distanza. In genere portavano con sé una borsa a tracolla con i proiettili di pietra, argilla o palline di piombo a forma di prugna del peso di 20-50 grammi, la cui forza d’urto poteva anche sfondare un elmo, arrecando ferite letali agli avversari.
f) 3.000 opliti (“scudi bianchi”) di Taranto
g) 3.000 peltasti mercenari Messapi, una sorta di opliti leggeri, che potevano fungere anche da lanciatori di giavellotti.
Infine, la sua arma segreta: 20 elefanti da guerra
Nell’ipotesi, assai razionale, che i romani volessero evitare uno scontro combattuto in condizioni di grossa inferiorità numerica, Pirro si convinse che gli sarebbe bastato aspettare, affinché la fame, li costringesse a sloggiare. Il problema è che per Levino, per motivi di politica interna, non fare perdere la faccia ai suoi padrini politici, non poteva certo ritirarsi senza combattere: per cui, il console decise di agire proprio secondo lo scenario che Pirro riteneva meno probabile, ossia dando battaglia.
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