Alessio Brugnoli's Blog, page 59
July 23, 2020
Benvenuto Flavio
Benvenuto Flavio… Probabilmente quando ti racconteremo di quest’anno strano, farai la stessa mia faccia di quando la mia bisnonna mi narrava dei giorni della Spagnola. In futuro, ti faremo arrabbiare, ci considererai dei vecchi babbioni incompetenti, magari anche a ragione, non capirai subito le nostre azioni o le nostre parole…
Ma sappi che tutti quanti, tua mamma, tuo papà, Valerio, i nonni, noi zii, ti vogliamo un bene dell’anima e tutto quello che facciamo, è al meglio delle nostre possibilità. Mi piacerebbe che tu e Valerio amasse i libri che mi fanno sognare, l’arte e la musica popolare… Però, in fondo a ragione il buon Gibran
I tuoi figli non sono figli tuoi.
Sono i figli e le figlie della vita stessa.
Tu li metti al mondo ma non li crei.
Sono vicini a te, ma non sono cosa tua.
Puoi dar loro tutto il tuo amore,
ma non le tue idee.
Perché loro hanno le proprie idee.
Tu puoi dare dimora al loro corpo,
non alla loro anima.
Perché la loro anima abita nella casa dell’avvenire,
dove a te non è dato di entrare,
neppure col sogno.
Puoi cercare di somigliare a loro
ma non volere che essi somiglino a te.
Perché la vita non ritorna indietro,
e non si ferma a ieri.
Tu sei l’arco che lancia i figli verso il domani.
E questo vale anche per gli zii… Insomma, qualsiasi cosa tu voglia essere o fare nella vita, che ti renda felice e ti riempia di soddisfazione.
July 22, 2020
Santa Maria in Domnica
Una delle chiese più rinomate per i matrimoni a Roma è Santa Maria in Domnica, nota ai più come Navicella, è anche una delle principali testimonianze della storia e delle stratificazioni del Celio. Nome, quello della Navicella, che deriva dalla fontana posta dinanzi al suo ingresso, che rappresenta una galera romana, poggiata su due scalmi. Il ponte è delimitato da un corrimano sostenuto da nove mensole alternate ad altrettanti boccaporti. Particolarmente caratteristica la testa di cinghiale posta a decorazione della prua della nave, mentre sulla poppa è riprodotto il castello.
In epoca romana nei pressi del colle Celio sorgevano i Castra misenatium, il quartiere del reparto di marinai della flotta di stanza a capo Miseno, il cui principale incarico, quando non era impegnato in attività militari in mare, era quello di manovrare il velarium, l’enorme tenda che copriva il Colosseo e che, manovrato da un sistema di funi e carrucole, serviva a riparare il pubblico dal sole e dalle intemperie durante lo svolgimento degli spettacoli.
Secondo la tradizione i marinai del castra avrebbero fatto realizzare un modello marmoreo di una barca, per offrirlo (una sorta di ex voto) alla dea Iside, protettrice dei naviganti. Un’altra versione attribuisce la paternità dell’ex voto ai soldati del Castra peregrina (alloggi riservati, tra l’altro, ai militari di passaggio a Roma) per ringraziare la dea per uno scampato naufragio.
Andato perduto durante il Medioevo, i resti del modello furono ritrovati all’inizio del XVI secolo nei pressi della basilica di Santa Maria in Domnica. Prima che andassero di nuovo definitivamente perduti, papa Leone X incaricò lo scultore Andrea Sansovino di farne una copia che, tra il 1518 e il 1519, fu collocata davanti all’entrata della chiesa.
Tornando alla chiesa, questa occupa occupa il luogo dove era situata la V Coorte dei Vigiles, il corpo che aveva compiti di polizia urbana e di prevenzione degli incendi,istituito da Augusto nel 7 a.C. e suddiviso in sette caserme – le Coorti appunto – e sette distaccamenti – Excubitora.
Ne sono conferma i resti di un edificio a due piani, ritrovati nei primi anni del Duemila e alcune basi marmoree con iscrizioni riguardanti proprio la V Coorte, rinvenuti durante alcuni scavi svolti nel XIX secolo. Intorno al IV secolo, l’edificio, non si sa bene in quali circostanze, fu cristianizzato: prima divenne un oratorio, poi un titulus, ricordato negli atti del sinodo di papa Simmaco, nel 499.
Intorno al 678, papa Agatone, palermitano, vissuto la bellezza di 106 anni, la trasformò in una diaconia, dedicata all’assistenza dei poveri del Celio. Notizie di diaconia compaiono nell’Itinerario di Einsiedeln poi nel Liber Pontificalis nella vita di Leone III (795‐816) che elargì ricchi doni alla ecclesia sanctae Dei genitricis quae appellatur dominica.
Perchè abbia avuto l’appellativo di Dominica, è complicato a dirsi. Potrebbe derivare dal latinizzazione nome di Ciriaca (la cui traduzione dal greco significa “che appartiene al Signore”), santa di Nicomedia, il cui culto era assai diffuso nella Sicilia greca, da cui proveniva Agatone, oppure dai praedia dominica, aree di pertinenza imperiale sul cui territorio si edificò la chiesa.
La primitiva basilica giunse in cattive condizioni ai tempi di papa Pasquale I (817‐824), il quale volle restaurarla dalle fondamenta, ampliandola e arricchendola di decorazioni. Il nuovo edificio, con un portico a quattro colonne antistante la facciata, con l’abside e l’arco trionfale preziosamente decorati di mosaici, è giunto quasi intatto fino ai nostri giorni.
Dopo un piccolo restauro voluto da Innocento VIII, il destino della basilica fu strettamente legato a quello della famiglia Medici. Il primo cardinale titolare di quella famiglia fu infatti Giovannide’ Medici, il futuro papa Leone X, che nei primi anni del Cinquecento, affidò ad Andrea Sansovino la costruzione della nuova facciata. Lungo tutta la navata centrale, sopra le finestre, fa poi dipingere un fregio di leoni (richiamo al nome che il committente ha assunto da pontefice), putti e dalle insegne medicee dell’anello, del diamante e delle tre piume.
Fu poi il turno di Giuliano de’ Medici, il futuro papa Clemente VII. Dopo qualche decennio, il titolo tornò ai Medici, con Giovanni di Cosimo I de’ Medici, nominato cardinale a 17 anni, ma che lo tenne per due soli anni (1560-1562), morendo giovanissimo di tubercolosi. La diaconia passò così (1565-1585) a Ferdinando, sesto figlio di Cosimo I de’ Medici e fratello del precedente, creato cardinale a 14 anni e divenuto poi, a 38, Granduca di Toscana. A lui si deve la realizzazione del soffitto della basilica.
Intorno al 1670, il pistoiese Lazzaro Baldi, allievo di Pietro da Cortona, dipinse gli affreschi posti sotto il mosaico dell’abside. Nel 1734 Clemente X affidò la chiesa ai padri Melchiti, mentre intorno al 1830 furono eseguiti i primi restauri da parte del cardinale Tommaso Riario Sforza. Nel 1876, sotto la direzione del pittore ferrarese Alessandro Mantovani, Giovanni Brunelli e Luigi Roncati eseguono gli affreschi della navata centrale a motivo floreale, con scritte che riproducono alcune litanie alla Vergine Maria. L’opera si accorda sia con i motivi delle litanie mariane del soffitto, che con i putti ed i leoni del fregio di papa Medici.
I restauri furono poi ripresi a fine Ottocento sotto la direzione tecnica di Busiri Vici e dell’architetto ingegnere Gaetano Bonoli, patrocinato dal cardinale Consolini e finanziato da Propaganda Fide. Il loro scopo era sanare gravi infiltrazioni di umidità, riparando i relativi danni e a ricostituire l’unità stilistica interna della chiesa (che era ormai chiusa da tempo) e a restaurare il portico. Con l’occasione venne anche fabbricata e installata la cancellata ancor oggi in situ, e il 5 marzo 1882 la chiesa venne ufficialmente riaperta. La chiesa divenne parrocchia nel 1932, dell’area tra piazza di Porta Metronia, il Colosseo e piazza San Clemente. Tra il 1920 e il 1930 Giuseppe Ceracchini realizza gli affreschi degli altari laterali, mentre nel 1958 è stata costruita la confessione semianulare sotto l’abside da Ildo Avetta.
Cosa visitare della Navicella, matrimoni permettendo? Cominciamo dalla facciata rinascimentale, come dicevo opera del Sansovino, caratterizzara da un arioso portico con cinque arcate separate da lesene in travertino, con due finestre, aperte ai lati del rosone circolare originale. Nel timpano, gli stemmi marmorei di Innocenzo VIII (al centro) e dei cardinali Giovanni e Ferdinando de’ Medici (ai lati). Nel campanile a vela, sito lungo il fianco destro, è installata un’antichissima campana che reca la data 1288.
L’interno della chiesa è a pianta basilicale con tre navate divise da colonnati che sostengono arcate con tre absidi. La navata centrale è divisa da quelle laterali da due file di nove colonne che, con i pilastri sporgenti rispettivamente dalla facciata e dal muro di fondo, portano i dieci archi delle arcate su entrambi i lati. Le absidi che coronano la navata centrale e le laterali, a pianta semicircolare, sono legate ai muri della chiesa. Le diciotto colonne della navata sono tutte di reimpiego: sedici in granito grigio e due in granito rosa di Assuan.
La chiesa è dominata dal mosaico absidale, raffigurante la Beata Vergine Maria che, seduta in trono, è in procinto di consegnare Gesù bambino e benedicente ai fedeli. Ai suoi piedi, con lo sguardo rivolto verso il popolo, Pasquale I (raffigurato con il nimbo quadrato ad indicare che era vivente durante la composizione del mosaico) sembra consegnare ai fedeli la Vergine e, tramite Lei, Gesù. Le schiere angeliche fanno da corona a questa scena. Una scritta commemorativa chiude il catino absidale. Sia i tratti della Vergine che gli angeli sono eseguiti secondo il canone artistico bizantino e monastico e non secondo l’iconografia romana di Maria Regina. Potrebbe essere la realizzazione da parte di artisti orientali accolti a Roma durante la persecuzione iconoclasta. Nell’arco è raffigurato Cristo Salvatore racchiuso in una mandorla (segno della vita) e seduto su una sfera (segno del mondo) affiancato da due angeli e dai dodici Apostoli. In basso (a destra e a sinistra) sono raffigurati Mosè ed Elia, per ricordare la Trasfigurazione
Il mosaico è dominato dall’epigrafe voluta dallo stesso Pasquale I
Questa casa prima era stata ridotta in rovine, ora scintilla perennemente decorata con vari metalli e la sua magnificenza splende come Febo nell’universo che mette in fuga le tenebre della tetra notte. O Vergine, il probo vescovo Pasquale ha fondata per te questa aula regale che deve rimanere splendida nei secoli
Gli affreschi di Lorenzo Baldi rapresentano invece tre episodi della vita di san Lorenzo e santa Ciriaca di Roma, divisi da colonne dipinte che riprendono quelle autentiche poste ai lati del catino. Guardando da sinistra verso destra sono rispettivamente raffigurati: la guarigione di santa Ciriaca (in ginocchio davanti a san Lorenzo); la lavanda dei piedi; la distribuzione dei beni ai poveri da parte di san Lorenzo secondo le direttive di papa Sisto II. Nelle piccole lunette laterali sono inoltre raffigurati san Zaccaria, con vesti sacerdotali e turibolo, ai cui piedi c’è san Giovanni Battista (sinistra) e l’angelo che ispira l’evangelista san Giovanni, riconoscibile per l’aquila posta ai suoi piedi (destra).
Guardando verso l’altro, si può ammirare il soffitto ligneo voluto da Ferdinando de’ Medici, costituito da cassettoni dipinti e suddiviso in lacunari, che ha nel riquadro centrale la dedica a Leone X e lo stemma del giovane cardinale. I due cassettoni più grandi riprendono il tema della nave (o Arca) riferito sia alla Beata Vergine Maria (“Arca dell’Alleanza”) che alla Chiesa, che naviga nel mare tempestoso delle vicende storiche compiendo la sua opera di salvezza universale. Su entrambi i lati, ad intervalli regolari, sono rappresentati, con i segni dell’iconografia tradizionale, i quattro evangelisti (san Luca, toro; san Matteo, uomo; san Giovanni, aquila; san Marco, leone). I cassettoni rimanenti riprendono invece le litanie e i titoli della Vergine Maria.
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July 21, 2020
San Pietro ai tempi di Clemente VII
Nonostante la pessima fama avuta tra gli umanisti, sotto Adriano VI, grazie ai risparmi sulle spese correnti della corte pontificia, i lavori della Fabbrica di San Pietro riprendono di gran lena, in particolar modo nel braccio meridionale della Basilica. Lo stesso avviene nei primi anni di Clemente VII.
Questo papa, al fine di ottenere un più severo controllo tecnico ed amministrativo e di eleminare le ruberie degli appaltatori, con la Costituzione Admonet Nos suscepti del 12 dicembre 1523 nomina una commissione stabile di sessanta membri (Collegium LX virorum) scelti tra i funzionari stessi della Curia romana, appartenenti ad ogni nazionalità e forniti di particolare perizia tanto nella parte architettonica, quanto in quella economica, come in quella legale.
Il Collegio gode di piena autonomia decisionale ed è posto alle immediate dipendenze della Santa Sede, restando investito delle più ampie facoltà, sia di ordine amministrativo che giudiziario. Infatti disponeva di un proprio Tribunale e di rappresentanti nelle ventiquattro “commissarie” dello Stato Pontificio.
Clemente VII, revocando la nomina del Commissario delle Indulgenze, rende poi irrevocabili i diritti del Collegio, al quale volle accordare altre vaste facoltà con la Costituzione Dudum admonente del 1 giugno 1525.
Nel 1524, sotto la supervisione del Sangallo, Giuliano Leni, nobile romano con la passione per l’ingeneria, realizza volta a rosoni di sud-est sull’esempio di quella di sud-ovest, realizzata negli anni 1522-23, e sono innalzate le pareti laterali del braccio meridionale fino alla trabeazione dell’ordine maggiore interno.
Nel luglio 1525 Giuliano Leni alza un castello per erigere le colonne del deambulatorio; nel maggio 1526 gli vengono pagati 6 capitelli grandi di travertino a 150 ducati d’oro l’uno, che probabilmente sono quelli delle paraste dell’ordine maggiore interno; nell’aprile 1527 vengono registrati pagamenti di architravi per la cappella del Re, che probabilmente sono quelli sopra le nicchie rettangolari
della parete esterna del deambulatorio.
I lavori subiscono un notevole rallentamento a causa del Sacco di Roma nel 1527 e dell’interruzione dei finanziamenti alla Fabbrica. Le vedute disegnate da Maerten van Heemskerck o derivate dai suoi disegni sono la fonte più attendibile per conoscere la situazione del costruito raggiunta nel 1535 circa, prima della ripresa dell’attività edilizia sotto Paolo III (1534-49).
In queste vedute sono visibili i pilastri della crociera con gli arconi di collegamento provvisoriamente protetti da tetti a falde e i pennacchi appena iniziati. Nel braccio meridionale i pilastri di crociera sono collegati con i contropilastri per mezzo delle 2 volte a rosoni; le pareti laterali del braccio appaiono completate fino alla trabeazione d’imposta della grande volta, e l’emiciclo terminale è costruito, all’incirca come è previsto nel progetto di Raffaello, fino all’altezza di un piano. Nel braccio nord i contropilastri sono innalzati fino al livello del primo ordine, ma mancano le pareti e l’emiciclo terminale. La costruzione del braccio orientale, verso la facciata, non sembra progredita di molto e intorno alla crociera sono visibili ancora i ruderi del transetto dell’antica basilica.
Nella veduta da sud-ovest di Maerten van Heemskerck è rappresentata in primo piano la parete esterna del deambulatorio meridionale raffaellesco. Appaiono lo stilobate circolare con i suoi profili semplici, le semicolonne dell’ordine di 9 palmi con base attica, le paraste dell’ordine di 3 palmi e mezzo (0.78 m) che fanno da congiunzione con le edicole e le paraste delle edicole prive ancora delle colonne.
Attraverso il portale al centro, ancora senza cornice, si scorge la parasta con capitello dorico e la volta di una nicchia della parete interna del deambulatorio. Sulla parete interna del contropilastro di sud-est viene rappresentata in modo dettagliato la parasta terminale scanalata con il capitello e il risalto di trabeazione, ma non è stata ancora eseguita una parte della parete orientale del braccio con la relativa trabeazione. Nella parete meridionale di entrambi i contropilastri si notano delle aperture ad arco sfalsate, forse per illuminare le scale a chiocciola interne.
Nel braccio meridionale è ancora presente il muro del transetto della vecchia basilica; dietro a questo è raffigurato l’arcone di collegamento dei 2 piloni meridionali della cupola, provvisti qui di copertura. Dai cumuli di terra in primo piano spuntano blocchi di pietra lavorata e un capitello corinzio, materiale forse approntato per il deambulatorio e abbandonato dal 1527. A destra si scorgono il corpo longitudinale della basilica costantiniana, la rotonda di Santa Maria della Febbre, l’obelisco e la cuspide della vecchia torre campanaria.
Per una teoria universale dell’utopia e delle sue contraddizioni
Nel post della scorsa settimana, proponevo en passant un quadrato semiotico costruito a partire dal concetto di utopia, su cui probabilmente vale la pena soffermarsi, anche perché faceva la sua comparsa un quarto vertice che forse avrà suscitato qualche curiosità (se non qualche perplessità) nei lettori.
La Città Ideale del Rinascimento, dipinto anonimo, probabile omaggio a Leon Battista Alberti, databile tra il 1470 e il 1490, conservato presso la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino.
Innanzitutto, un passo alla volta.
1. Utopie: il punto zero da cui tutto ha inizio
L’utopia, come bene o male sappiamo tutti, sta a indicare una situazione, un assetto politico o sociale o economico, un modello, che rappresenta un ideale con cui confrontare il nostro mondo. Dalla Repubblica di Platone (390-360 a.C), che tocca vari temi del pensiero cari al filosofo greco, all’Utopia di Thomas Moore (1516), a cui si…
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July 20, 2020
Pirro (Parte III)
Pirro, dalle complesse vicende macedoni aveva imparato una dura lezione: l’Epiro non aveva né le risorse umane, né economiche per potere svolgere una politica di potenza. In più, non poteva contare sull’appoggio deciso dei suoi alleati tra i diadochi, sospettosi delle sue ambizioni. Per trovare uomini e denaro, decise di guardare in quella zona, tanto ricca, quanto a prima vista, facile a conquistarsi: le colonie greche in Sud Italia e in Sicilia.
Dal 350 a.C. in poi entrambe le zone erano in forte crisi geopolitica: se la Sicilia subiva la pressione cartaginese, sempre sul punto di essere annessa nell’epicrazia, la Magna Grecia era vittima dell’espansionismo delle popolazioni di lingua e cultura sannita, come i Lucani. Per contenerla, Taranto aveva chiesto spesso e volentieri aiuto ad avventurieri e capitani di ventura provenienti dalla Grecia. Nel 342 a.C. Taranto, per risolvere il problema, chiese aiuto alla sua antica madrepatria, Sparta, che inviò in aiuto ai suoi coloni uno dei suoi re: Archidamo III.
Figlio e successore di Agesilao, nato intorno al 400, Archidamo salì al trono all’età di circa 40 anni, poiché Agesilao morì nel 361. Ma la sua attività fu considerevole anche come principe reale. Lo si trova la prima volta quando, insieme col re Cleombroto, intercedette per l’assoluzione di Sfodria, che aveva tentato un colpo di mano sul Pireo mettendo Atene nella necessità di fare la guerra. Nella battaglia di Leuttra, al posto del padre vecchio e malato, riordinò come poté l’esercito sgominato e operò come meglio era possibile la ritirata. Anche dopo l’invasione di Epaminonda nel Peloponneso, diede prova di talento militare e coraggio, assalendo insieme col corpo di truppa mandato da Dionisio di Siracusa e devastando la parte orientale dell’Arcadia, nella quale circostanza sottomise Carie e devastò la Parrasia. Quando Arcadi, Argivi e Messeni tentarono, in seguito al ritiro del contingente siciliano, richiamato da Dionisio, di tagliare all’esercito spartano la ritirata, Archidamo inflisse loro nel 368 una notevole disfatta, in cui non morì neanche uno Spartano: onde lo scontro fu chiamato battaglia senza lacrime. Nell’anno 364 assalì, a richiesta degli alleati Elei, l’Arcadia sud-occidentale, e lasciò nella fortezza di Crommio un presidio, il quale fu assediato dagli Arcadi. Archidamo, nel suo tentativo di rompere l’assedio, ebbe un insuccesso, e fu anche ferito. Poco prima della battaglia di Mantinea si adoperò con ardore a difendere Sparta. Agesilao morì nel 361-60, e, come si è detto, Archidamo III gli successe sul trono.
Nei primi anni del suo regno scoppiò la guerra sacra, ed egli fu alleato di Filomelo, secondo una tradizione poco credibile, per essere stato da questo corrotto, insieme con la moglie Dinica. Spesso guidò gli eserciti in tale periodo, ma nell’ultimo anno di guerra, ripudiato da Faleco, l’ultimo duce focese, raccolse i mercenarî focesi, mentre gli veniva domandato aiuto dai Tarantini minacciati e assaliti dai limitrofi popoli barbari, Messapi e Lucani. Non si diresse immediatamente verso l’Italia, ma si recò a Creta, dove rifondò la città di Litto distrutta da Faleco.
Purtroppo le fonti storiche sono molto scarne sulla spedizione di Archidamo: si ha notizia che perse la vita nel tentativo di espugnare la città di Manduria, a causa di una freccia lucana. Plutarco, che si vantava di essere “esperto di giorni”, ferma la scomparsa del prode spartano al 7 di metagitnione, nome del secondo mese del calendario attico e ionico e corrispondente all’ultima parte dell’estate (per cui è ragionevole stimare un 3 agosto). Data affatto fausta per la causa greca poiché nello stesso giorno, a Cheronea, in Beozia, la Lega Achea, composta da forze tebane e ateniesi, veniva sconfitta dall’esercito di Filippo II di Macedonia. Sulla condotta dei tarantini nella guerra non si sa nulla, ma di sicuro l’alleanza con Archidamo si mantenne solida; tanto che, dopo la morte del condottiero, Taranto fece di tutto per riavere le spoglie del re.
Morto Archidamo, Lucani e Messapi rialzarono la testa: per tenerle a bada, allora i tarantini si rivolsero a un antenato di Pirro, Alessandro I, detto il Molosso. Alessandro era il sovrano dell’Epiro, fratello di Olimpiade e marito di Cleopatra, rispettivamente madre e sorella del suo più famoso nipote Alessandro Magno.Nel 334/333 a.C., mentre l’Alessandro macedone dichiarava guerra alla Persia, il Molosso sbarcò con un esercito numeroso sulle coste italiche.
Gli attacchi del Molosso si concentrarono dapprima su Eraclea (strappata ai Greci nel 338, ora riconquistata a danno dei Lucani), poi sull’area tirrenica con l’occupazione della capitale dei Bretti, Cosenza. Avanzò poi in Apulia fin presso Arpi, riuscendo ad occupare il suo porto di Siponto. Dopo essersi alleato con i Iapigi contro i Sanniti che li minacciavano da nord-ovest, sperando di recuperare Posidonia, già caduta nelle mani dei Lucani, avanzò fino al Silaro (Sele) e li vinse in battaglia. Il susseguirsi dei successi, seppur effimeri, che avevano garantito una certa sicurezza alle poleis magno-greche, non ebbe però lunga durata.
Nonostante i successi bellici, le azioni di Alessandro iniziarono ad irritare Taranto. Il re epirota spostò la sede della Lega Italiota da Eraclea a Turi, e questo provocò agitazione nel governo tarantino, in quanto delegittimava la leadership della città ionica sulla Lega stessa. Il controllo di quest’ultima passava direttamente nelle mani del Molosso, che perseguiva propri fini di conquista, puntando a formare un proprio “impero” nel territorio italico, cosa che i tarantini non volevano.
A peggiorare il tutto, furono i rapporti tra Alessandro il Molosso e i Romani: dato il comune nemico sannita, stabilirono un’alleanza tra loro, per spartirsi il sud Italia. Taranto, invece, temeva, a ragione come la sconfitta sannita, portando i romani a contatto con territori dell’orbita tarantina, avrebbe sostituito un cattivo problema con uno pessimo. Per evitare tale scenario, Taranto ruppe con Alessandro il Molosso uscendo dall’alleanza e quindi sottraendogli un appoggio essenziale.
Dinanzi alla defezione delle poleis della Magna Grecia, Alessandro il Molosso si ritrvò ben presto isolato e senza appoggi. Così nel 330 fu ucciso a tradimento da un esule lucano mentre cercava di ritirarsi attraversando un fiume, mentre il suo esercito veniva sconfitto da Lucani e Bretti (con cui la stessa Taranto aveva stretto alleanza) a Pandosia sul Crati.
Così racconta la sua morte Tito Livio
Egli (Il Molosso) aveva attorno di sé duecento esiliati Lucani, ai quali accordava la sua confidenza; senza pensare che una simil sorta di gente ha sempre la fede mutabile secondo la fortuna. Intanto per le piogge continue, le quali giunsero ad inondare le vallate, e a separare le altezze (colline) ne avvenne che l’esercito restò assolutamente diviso in tre bande; in guisa che l’una non poteva porgere aiuto all’altra.
Due di queste bande poste sopra i due colli, nei quali non stava la persona del Re, furono all’improvviso oppresse e rotte dalla subitanea venuta ed assalto dei nemici i quali tutti poi si volsero ad assediare il Re medesimo, sul terzo colle. Ciò vedendo quei duecento esuli Lucani si affrettarono a mandare messaggi ai compatrioti per trattare della loro restituzione in patria; e, avendone ottenuto il consenso, promisero di dare nelle loro mani il re, o vivo o morto. Ma Alessandro, allora, con una sola compagnia di uomini scelti eseguì un’ardita impresa. Attaccò, corpo a corpo, il capitano dè Lucani e l’uccise; dopo di che, avendo raccolto i suoi che fuggivano dispersi, giunse ad un fiume, in cui le recenti ruine di un ponte indicavano il passaggio. Nel mentre che l’armata traversava questo guado difficile, un soldato stanco ed affamato dalla fatica, maledicendo al fiume e rimproverandogli quasi il suo nome abominando, esclamò:
” Giustamente sei chiamato Acheronte!”.
A questa esclamazione il Re si arrestò turbato; si ricordò del destino che gli era stato predetto; e, rimasto alquanto sospeso, ondeggiava incerto se doveva, o no, passare alla opposta riva del fiume. Allora Solimo, uno dei suoi ministri, vedendolo esitare in un pericolo così presente, gli dimadò che intendeva fare, e così dicendo, gli indicò i Lucani, che cercavano di sorprenderlo. Infatti, Alessandro vedendoseli veramente arrivare in folla, non tardò ad imbrandire la spada, e a spingere il suo cavallo per passare il fiume e già, uscito dalla profondità delle acque, era giunto nel guado sicuro, quando uno di quegli sbanditi Lucani con un dardo lo passò da un canto all’altro.
Cadde da cavallo il misero col dardo infisso nella ferita, ed il fiume lo trasportò sino alle poste dè nemici. Colà il cadavere fu preso, e lacerato in una orribile maniera. Lo divisero in due parti; l’una mandarono a Cosenza, e l’altra serbarono con loro a straziarla. Frattanto che si divertivano a maltrattarlo, facendolo bersaglio a colpi di pietre e di giavellotti tirati da lontano, una donna, mescolandosi alla turba, che fuori ogni modo dalla umana rabbia incrudeliva, pregò che si facesse sosta alquanto; e, ciò fattosi, disse loro lacrimando che d’essa aveva il marito ed i figlioli prigionieri in Epiro, e com’essa sperava poterli riscattare col corpo del Re, quantunque straziato e mutilo si fosse.
Così finì quel giuoco crudele. Quello che avanzò delle membra fu sepolto a Cosenza per cura di una sola donna: le ossa furono mandate ai nemici a Metaponto: indi trasportate in Epiro alla moglie Cleopatra, ed alla sorella Olimpiade, delle quali una fu madre di Alessandro Magno e l’altra sorella.
Dopo la morte del condottiero epirota, la situazione per Taranto non migliorò. Il problema messapico rimaneva invariato, ma ancor più preoccupante era l’avanzata romana verso sud. Nel 327 a.C. Neapolis cadde per mano di Roma e Taranto non riuscì ad impedirne la sconfitta. La vicinanza romana esortò gli Apuli a stipulare un’alleanza con la nuova potenza egemone; i Lucani stessi si avvicinarono ai latini, che progettavano il colpo finale ai Sanniti. Il governo tarantino, per rallentare la marcia romana, con una certa furbizia diplomatica che l’aveva sempre contraddistinto nella sua lunga storia, riuscì a scatenare contro Roma i Sanniti e gli stessi Lucani, richiamando le stesse origini doriche che univano come fratelli i tarantini con gli italici. Questi ultimi, convinti dalle parole della polis greca, si scagliarono contro i Romani, i quali tennero testa ai loro nemici avanzando in territorio lucano ma soprattutto in quello apulo, avvicinandosi pericolosamente alla città ionica.
Nel 304 a.C. i Lucani si allearono ai romani; da parte loro, i tarantini, intuendo il pericolo, richiesero ancora una volta aiuto alla madrepatria Sparta, la quale ne approfittò per appioppare alla sua vecchia colonia una sorta di pericolo pubblico, Cleonimo, figlio di Cleomene II, escluso per il suo carattere violento dalla successione al trono in favore di Areo I.
Cleonimo, Sbarcato a Taranto con 5000 mercenari laconi, organizzò in fretta e furia un esercito di più di 20.000 fanti e 2000 cavalli, cosa che riportò a miti consigli Romani e Lucani. Dopo aver scacciato i Lucani da Metaponto, lo spartano entrò in città da conquistatore, perseguendo ogni sorta di abusi sulla cittadinanza. I greci, irritati dal suo comportamento, lo costrinsero ad abbandonare la penisola italica, rifugiandosi nell’isola di Corfù. Cleonimo voleva vendicarsi dell’affronto subito: sbarcò allora sulla costa salentina e marciò verso Taranto che, incredibilmente, per fermare l’invasione, riuscì a stipulare un accordo con i suoi nemici: i Messapi e i Romani. I vecchi avversari si incontrarono sotto le mura di Thuriae, ed insieme ricacciarono Cleonimo e i suoi mercenari in mare.
Dopo questo insuccesso, tra l’altro Cleonimo ne combinò un’altra delle sue into dai venti dell’Adriatico, approdò con la sua flotta ai lidi veneti. Gli esploratori inviati per verificare la situazione del territorio, lo informarono che vi era un sottile cordone litoraneo, poiché oltrepassati gli sbocchi marittimi, vi erano i bacini lagunari e che si potevano vedere, piuttosto vicine, campagne coltivate e, più in fondo, delle alture, i Colli Euganei. Appena fu informato che vi era anche la foce di un fiume profondo, era il Brenta, dove le navi potevano essere messe al sicuro, ordinò che la flotta risalisse il corso d’acqua. Tuttavia, le navi più grandi non riuscirono a risalire il fiume; allora, fatto passare un considerevole numero di soldati sulle navi più leggere, egli raggiunse tre villaggi popolati. I soldati spartani devastarono e saccheggiarono la zona al margine della laguna veneta, fecero razzia di uomini e di greggi, incendiarono le abitazioni e si diressero verso altri villaggio. Giunta notizia a Padova, scrive lo storico Livio, subito i patavini decisero di muovere contro il nemico. Divisi in due schiere, si portarono rapidi nei luoghi assaliti e dove avevano preso ormeggio le navi del nemico, sorpresero i soldati, li assalirono, li inseguirono e ne distrussero alcune imbarcazioni.
Cleonimo, vinto dai Patavini, fu costretto a ritirarsi precipitosamente verso il mare, con appena un quinto della sua flotta. Livio racconta, quindi, dei Patavini che combattono per difendere villaggi lontani una ventina di chilometri dalla loro sede e situati alla foce del Brenta, ma non specifica in quale ramo terminale del fiume. L’identificazione, o una precisa ubicazione di questi villaggio, sono tuttora discusse. Considerando che nel basso medioevo, lungo il corso finale del Medoacus Maior, sorsero villaggi di notevole importanza, la maggior parte degli studiosi ritiene che gli Spartani siano entrati nel territorio patavino per le foci del Maior, dopo essere approdati nel lido di Malamocco e presume che i villaggi in questione debbano ricercarsi nelle aree basse di Sambruson, Lugo e Lova (dove un ramo dell’antico Brenta sfociava in laguna) e in quelle più alte di Campagna Lupia.
Nel 301, disperati, i tarantini chiamarono il solito Agatocle di Siracusa, che portò di nuovo l’ordine nella regione con la sconfitta dei Bruzi, imponendo la sua autorità alle città magnogreche. Cosa testimoniata anche da Aristotele che narra come il re dei Sicelioti trovasse sulle terre apule una torque appartenente al cervo che Diomede consacrò ad Artemide ed egli a sua volta lo dedicò a Zeus.
Ma dopo la morte di Agatocle, la pressione degli italici fu sostituita da una assai più aggressiva, quella romana…
July 19, 2020
Il museo archeologico di Campi
Campi, in provincia di Teramo è abbastanza nota per essere dal 2018 inclusa nel club dei “Borghi più belli d’Italia”: oltre alle bellezze paesaggistiche e architettoniche, il paese merita una visita anche per uno dei principali musei archeologici d’Abruzzo, sito nel convento della chiesa di San Francesco, eretta, secondo la tradizione, subito dopo la morte del santo, in ricordo del suo passaggio in zona.
Si accede al museo attraverso un porticato dove è possibile ancora ammirare le pregevoli finestre bifore e il portale polilobato che introduceva alla Sala Capitolare. Avviato dal soprintendente Valerio Cianfarani per ospitare i prestigiosi reperti della necropoli di Campovalano, che si estende tra la chiesa di San Pietro e il paese di Campli, ai piedi dei monti Gemelli.
L’intero sito insiste sull’area di un terrazzo fluviale, di circa 50 ettari, compreso tra i corsi del torrente Misigliano (a nord) e Fiumicino (a sud), immerso nel verde, circondato da rilievi collinari e fossi. Si trova fra le quote di 426 e 455 metri sul livello del mare ed è solcato dalla “via sacra”, al tempo utilizzata come sede dei riti funebri La strada attraversa il terreno oggetto di scavo dall’anno 1967. Ha orientamento nord – sud ed ha avuto almeno 2 fasi di pavimentazione. Si mostra lastricata con grosse pietre di fiume, ciottoli, breccia, laterizi e delimitata da lastre calcaree infisse nel terreno.
Nel 290 a.C. questa porzione di territorio, secondo le fonti classiche, era indicata come «ager Praetutianus», ossia: agro abitato dal popolo dei Pretuzi
La notizia certa del primo reperto rinvenuto in questa area giunge nell’anno 1887 quando l’archeologo Felice Barnabei, in Notizie di scavi d’Antichità, riporta che Francesco Savini ha rinvenuto una oinochoe in bronzo in seguito aggiunto nelle raccolte del museo di Teramo.Qualche anno prima era stata recuperata a Campli una spada italica in bronzo, del tipo Cuma, con un frammento di fodero, oggi esposta presso il museo civico di Ascoli Piceno.
Da questi ritrovamenti era già possibile intuire che la zona custodisse materiale archeologico, ma solo nell’anno 1964 ne arrivò la conferma. Fu Luigi Cellini, un contadino, che arando il terreno di quest’area con mezzi agricoli meccanici, raggiunse i piani d’inumazione delle sepolture riportando alla luce numerosi reperti. In seguito il sito rivelò di contenere un notevole numero di tombe a tumulo appartenute ai popoli Italici dei Pretuzi e dei Piceni ancora oggi solo in parte esplorate. Attualmente, infatti ne sono state scavate 610, ma gli archeologi ne stimano la presenza di diverse migliaia.
Lo scrittore teramano, ispettore onorario della necropoli, Giammario Sgattoni, accompagnato da Italo Cicconetti, nell’autunno del 1964, si recò in visita all’agricoltore per convincerlo a rendere noti e pubblici gli oggetti trovati e metterli a disposizione della Soprintendenza delle Antichità dell’Abruzzo e del Molise. Così nel 1967 cominciarono gli scavi, che mostrarono come la necropoli fosse organizzata in modo da rispecchiare l’organizzazione sociale e politica delle città dei vivi, strutturata in classi a partire dal VII sec. a.C. Le classi sociali più abbienti dimostrano una vera e propria ostentazione del lusso nelle sepolture, dato che va letto come una vera e propria propaganda politica nei confronti delle classi subalterne.
Un esempio straordinario è dato dalla tomba n. 100 che per dimensioni (lung. m 4,70, prof. m 1,80 e largh. m 2,8) e per corredo funerario, presenta tutti gli elementi simbolici di uno status sociale elevato. Il defunto sembra appartenere ad un alto grado militare: accanto a lui è infatti sepolto il carro da combattimento. Tutto il corredo racconta una storia sociale precisa: vari sevizi da mensa testimoniano la consuetudine del banchetto riservata alla classe aristocratica; solo in questo corredo è documentata anche la scrittura, prerogativa del pater familias che costituisce, oltre che uno strumento di comunicazione, anche la testimonianza più alta del sapere del defunto. Il defunto era adagiato supino sul lato destro della fossa, in alto, le braccia distese lungo i fianchi, la testa appoggiata su un ciottolo piatto a mò di cuscino.
Mentre gli scavi i condotti da Valerio Cianfarani negli anni 60 e 70 portarono alla luce la maggior parte delle tombe dell’età orientalizzante e arcaica (VIII-VI sec. a.C.), nelle indagini condotte a tappeto da Vincenzo D’Ercole negli anni 80 e 90 si sono rinvenute tombe riferibili soprattutto alle fasi italico-ellenistiche (IV-II sec. a.C.). Con l’età orientalizzante e con quella arcaica (VIII-VI sec. a.C) la necropoli attraversa il suo momento di massimo fulgore. Si impiantano i grandi tumuli, circondati da pietre e del diametro che può variare dai 4 ai 25 metri, ai lati di una imponente strada. I tumuli meglio conservati sono quelli di minori dimensioni, relativi a sepolture infantili. Nel corso del primo millennio, l’organizzazione della necropoli ha subito una vera e propria trasformazione: dalla fase “monarchica” in cui i tumuli sono disposti per nuclei familiari, si passa alle sepolture senza corredo della prima fase repubblicana (metà V, metà IV a.C.) e quindi alle tombe di età ellenistica che sono a fossa.
Queste ultime sono tutte orientate verso sud e non verso occidente come accade nelle fasi più antiche. I corredi sono costituiti da vasi in ceramica lavorati al tornio, frequentemente verniciati in nero; nelle sepolture femminili si rinvengono numerosi strumenti per la cura del corpo come nettaunghie, nettaorecchie, ed anche nelle tombe maschili scompaiono le armi per lasciare il posto a strigli e vasi porta – sabbia, strumenti tipici dell’uomo atletico. La necropoli continua ad essere utilizzata fino agli inizi del II sec. a.C. quando la pianura torna ad essere utilizzata a scopi agricoli.
Fin da subito, sorse il problema di dove conservare i reperti ritrovati: dopo tanti discussioni, l’opportuno museo fu inaugurato ne 1989. Si tratta di una struttura di dimensioni abbastanza contenute, composta com’e’ da quattro sale.
Il percorso espositivo si articola in tre sale principali, che ospitano più di 30 teche e vetrine contenenti oggetti appartenuti ai corredi funerari delle sepolture. Per mezzo di ricostruzioni grafiche ed ambientali, un percorso didattico illustra l’evoluzione del rito funerario presso un’etnia Pretuzia, di ambito culturale Medio – Adriatico o Piceno, intorno all’antica Interamnia Urbs, ossia Teramo. Con la scomparsa di questa civiltà l’area divenne di nuovo territorio agricolo – pastorale e presso i sepolcri venne edificata la chiesa di San Pietro Apostolo in Campovalano.
Il corredo funebre della prima fase è molto semplice, poiché caratterizzato dalla presenza di un solo oggetto decorativo posto sul torace dell’inumato. I monumenti funerari più antichi sono costituiti da grandi tumuli con circoli di pietre.
Nelle sepolture del VII – VI secolo a.C., periodo aureo della civiltà pretuzia, si assiste ad un cambiamento del sistema di sepoltura, con corredi arricchiti da armi oltre che da una grande varietà di vasellame, realizzato con tecniche varie tra cui quella etrusca, a simboleggiare il banchetto funebre. Tra questi spicca il ricco corredo di una giovane aristocratica, composto da numerosi e raffinati gioielli, come la preziosa collana di grani in lamina d’oro e i bracciali d’argento di tradizione celtica. Emblematica inoltre è la tomba n. 100, che per la grandezza, la monumentalità e la ricchezza del corredo lascia immaginare fosse quella di un personaggio d’alto rango sociale: accanto al sepolcro, inoltre, sono stati rinvenuti i resti di un carro da guerra o da parata.
Dall’età Arcaica fino all’età della crisi, IV-III sec. a.C., si assiste gradualmente ad un generale impoverimento dei corredi e a tutte quelle trasformazioni culturali di transizione verso l’epoca classica – romana. Nella Sezione antropologica, i resti ossei analizzati offrono preziose informazioni sul sesso, le malattie, i traumi, le malformazioni e l’età della morte. Infine nello spazio dedicato alle “novità” è esposto il ricco corredo di una giovane aristocratica composto di numerosi e raffinati gioielli tra cui spiccano la preziosa collana di grani in lamina d’oro di cultura magno-greca e i bracciali d’argento di tradizione celtica.
July 18, 2020
L’ex carcere delle Benedettine
Da quanto sappiamo dai documenti storici, le prime famiglie rom giunsero via mare nel regno di Napoli a inizio Quattrocento, come profughi in fuga dai territori bizantini, a causa delle invasioni turche. I primi stanziamenti furono in Abruzzo: da lì, si spostarono progressivamente verso sud. Intorno al 1422, giungono in Grecanica e dopo una decina d’anni, traversano lo Stretto di Messina, dove sin da subito, sono integrati nelle società locale, ottenendo dalle autorità locale lo status di «nazione» riconosciuta, con autonomia giudiziaria, ossia il diritto di essere giudicati, in caso di controversie giudiziarie, secondo le proprie consuetudini.
Nel 1474 due capitribù si sposano con donne di Messina e diventano anche loro cittadini messinesi, assieme ai loro parenti ottengono il privilegio di «discorrere», cioè viaggiare per il Regno. Le cose cambiano nel 1492, a seguito della cacciata degli ebrei dalla Sicilia: i rom locali li sostituiscono in alcune attività economiche.
Di fatto, ottengono il monopolio delle attività di fabbro e calderario: il loro successo in tale campo è tale che le loro botteghe sono riconosciute e integrate nei regolamenti delle corporazione cittadine. Questo impatta notevolmente sulle abitudini dei rom siciliani. Da una parte, li costringe a una parziale sedentarizzazione: gran parte dell’anno la trascorrono lavorando in bottega, mentre l’estate si trasformano in fabbri itineranti per le varie fiere siciliane.
Dall’altra, il loro inurbamento a Palermo, dove addirittura fondano una loro contrada nell’Albergheria, coincidente l’area attualmente compresa tra vicolo Mercurio, vicolo degli Zingari, Largo Michele Gerbasi e via dei Benedettini
Sappiamo da Gioacchino Di Marzo, storico ottocentesco, avessero l’abitudine di lavorare per i vicoli di quell’area, posta dinanzi San Mercuzio, con un’incudine poco elevata da terra. Cosa che costrinse le autorità palermitane a emettere, nei secoli, una serie di leggi, che, con la sensibilità di oggi, chiameremmo antinfortunistiche.
L’ultimo di questi decreti fu emanato il 24 luglio 1849, specificando
i così dette (sic) zingari non possono situarsi a lavorare nelle strade e nei luoghi pubblici ma nei piani designati con licenza del Senatore, con dover apporre innanzi la forgia il parafuoco, onde non recar danno al Pubblico, ciò che deve espressarsi nella licenza
Essendo quindi una delle tante componenti della società, come abitudine locale, dovettero organizzarsi nella loro associazione di categoria, che svolgeva il ruolo sia di sindacato, sia di confraternita religiosa: per volontà del padre gesuita Luigi Lanuza che si prendeva cura di essi ed era divenuto il loro predicatore, nei primi anni del Seicento i rom palermitani costituiscono la “Congregazione di Gesù e Maria dè Cingari”.
A partire dal 7 aprile 1680, ottenuta la concessione di un terreno da Pietro Diez, costruirono poi la chiesa della “Madonna che va in Egitto”, come a rappresentare la loro situazione di immigrati. Alla posa della prima pietra presenziò lo stesso D. Pietro Diez al suono di tamburi e spari di mortaretti. Chiesa che esiste ancora oggi, dalla facciata molto semplice, al cui interno si conserva una tela settecentesca, raffigurante Gesù e Maria, copia dell’omonimo dipinto di Borremans nella chiesa di Sant’Isidoro, e un gruppo ligneo policromo con la Fuga in Egitto (secolo XVIII).
Grazie poi al solito Mongitore veniamo a sapere che in un angolo, a sinistra della spaziosa piazza della Cattedrale di Palermo si trova, dipinta sul muro, una immagine, opera del famoso pittore palermitano Giuseppe Albina detto il Sozzo, raffigurante la Vergine con il Bambino nell’atto di allattarlo. L’immagine, risalente al 1604 e restaurata rozzamente nel 1685, era molto venerata, oltre che dagli zingari, dai palermitani, che passando da lì le rivolgevano sempre qualche preghiera, incominciò a dispensare grazie nel 1697.
La prima che se ne sappia fu in beneficio d’una povera Zingana, che un giorno portatasi dinnanzi a questa Sacratissima Immagine, cominciò a dirottamente piangere; accompagnando le lagrime con lamenti, e singhiozzi; onde movea la compassione all’udirla: e stimavan tutti inconsolabile il suo dolore. Richiesta da colui, che costumava accendere la lampana [votiva] alla Vergine della cagione del suo largo pianto, con voce interrotta dalle lagrime ne rese la ragione con dire: Eh, come non volete ch’io pianga, e mi lamenti, se alcuni buoni Cristiani han condannato mio marito alla galea, ed io so di certo, che vi sta ingiustamente». […] Vi furono alcuni, che commossi alle lagrime dell’infelice Zingana tentaron l’impresa di far riveder la causa del misero marito già condennato […]. Ciò che non poteron però uomini di qualità, potè agevolmente la stessa Zingana, avvalorata dalla protezion di Maria […].
Andò dunque un giorno a gettarsi a’ piedi del Generale delle galee, a cui espose le ragioni del condennato marito: e tanto disse, e allegò con lagrime copiose a favor di esso, con le parole postele in bocca dalla Gran Madre, che il Generale, commosso al suo pianto, e intenerito a pietà per li stimoli interni, co’ quali punse il suo cuore la Vergine, le promise la grazia. […] Quindi amendue [la zingana con il marito, n.d.r.] riconoscendo dalla Vergine la liberazione, andarono a rendere le dovute grazie davanti alla Sacrosanta Immagine. Anzi il Zingano in testimonio dell’ottenuta libertà, lasciò ivi appesa una catena di ferro, insieme con un pajo di ceppi, somiglianti a quelli, che il tenean ristretto sulla galea.
Le voci di giubilo, che levaron alto i due Zingani in ringraziamento dell’ottenuto favore, e le lagrime, che per soprabbondare allegrezza versarono a’ piedi di Maria, tirarono un gran concorso di gente d’ogni condizione […]
Ora agli inizi del 1700 a Palermo, per la crisi economica, c’è una sorta di boom della prostituzione. Per contrastarlo, le autorità inizialmente decisero di emanare una serie di regolamenti repressivi: alle “malefemmine” era vietato circolare dopo il tramonto del sole. Non era permesso sedere davanti alle chiese o ripararsi sotto i tendoni dei mercati neppure per chiedere l’elemosina. In caso di violazione di tale regole, la punizione prevista era severissima: otto frustate e rasatura dei capelli alla prima trasgressione; venti frustate e rasatura delle ciglia alle recidive.
Questo norme, ovviamente, ebbero uno scarsissimo impatto: per cui, per risolvere il problema, si decise di ricorrere allo strumento del welfare. Intorno al 1749, Monsignor Isidoro del Castillo, un aristocratico che aveva preso i voti ed era parroco della chiesa san Nicolò all’Albergheria, decide di fondare un ospizio in cui le prostitute, potessero trovare ed un luogo dove potere redimersi imparando un mestiere, tra vicolo degli Zingari e Largo Gerbasi
Fallito il sodalizio con notabili ed ecclesiastici del tempo, Isidoro Castillo non si arrende, si spoglia di molti dei suoi beni e raccoglie elemosine al fine di costruire un Istituto che raccolga queste donne, chiamandolo: Casa di Maria Santissima delle Abbandonate o Casa di Istruzione ed Emenda, benché nel corso degli anni l’Istituto abbia cambiato più volte il nome, diventando ad esempio Casa di Nostra Signora Derelitta o Reclusorio di Cozzo, quest’ultimo dal nome di don Giuseppe Cozzo, canonico della Cattedrale che prendendo a cuore l’Istituto e contribuito al suo ampliamento ed alla fabbrica della nuova Chiesa, poi inglobata e destinata ad altri usi.
Tuttavia, per la contrada in cui era stato costruito, è noto soprattutto come Ritiro delle Zingare, anche se le donne rom, anche se non era destinato a loro. Nel 1774 il parroco Isidoro muore, ma l’Istituto aveva cominciato a funzionare così l’opera pia viene continuata dal Governo sotto la custodia di quattro deputati.
Il complesso è nel tempo ingrandito, a forma di trapezio irregolare, assumendo il suo aspetto massiccio a due elevazioni e nessun fregio o decoro architettonico. Tuttavia con i numerosi locali, il cortile interno ed un giardino nel retro, accoglie le donne che scegliendo di cambiare vita, erano occupate con lavori manuali di cucito, tessitura e ricamo.
Come ricorda Gaspare Palermo nella sua “Guida Istruttiva…”:
durante le feste solenni o durante la Settimana Santa, le derelitte prostitute si ritiravano in questo luogo a spese dei benefattori. Tempo di preghiera, esercizi spirituali e penitenza, dopo tre giorni erano libere di andarsene, benché molte, desiderose di ravvedersi, rimanevano nell’Istituto.
La Rivista Europea, nel dare notizia del decesso della nobildonna Eleonora Statella, duchessa di Sammartino, avvenuta, per colera, il 2 luglio 1837, informa i lettori che gran parte del suo patrimonio fu devoluto a
elemosine dei poveri ed al Reclusorio delle zingare, per soccorrere alcune ragazze da lei tolte dalla vita povera e vagante e raccolte a sue spese in quell’asilo
Il primo decreto, n° 9949 datato Napoli 29 gennaio 1846, autorizza:
il Ritiro di donne sotto il titolo degli zingari in Palermo ad accettare la donazione tra vivi disposta in suo favore da D. Gabriele Raibandi con atto de’ 28 di agosto 1845 pel notajo Giuseppe Maria Terranova; salvo i diritti de’ terzi e l’esecuzione de’ pesi imposti, che saranno notati nella platea del Ritiro
Il secondo, n. 3165 con data Gaeta 5 luglio 1852, recita:
Decreto che accorda il sovrano beneplacito al ritiro delle zingare in Palermo per accettare il
disposto in pro del medesimo da D. Giuseppe Carabotta con testamento de’ 28 di aprile 1851 presso il notajo Francesco Anelli, dovendosi adempiere agli obblighi impositivi, de’ quali sarà preso notamento nella chiesa del ritiro, e ciò salvo i diritti de’ terzi
Nel 1878 la gestione viene affidata alle suore del Buon Pastore che avevano il ministero di occuparsi di giovani donne in difficoltà, come recita una lapide di marmo posta all’ingresso:
“Casa di Istruzione ed Emenda diretta dalle Suore del Buon Pastore”
Successivamente e per alcuni anni, l’uso dei locali è condiviso ed un’ala è destinata a carcere minorile finché non divenne definitivamente penitenziario femminile col nome popolare di “Carcere delle Benedettine” come la maggior parte dei palermitani lo conosce, perché l’edificio insiste proprio sulla via dei Benedettini.
Nel 1982 il Carcere è chiuso per le precarie condizioni statiche e funzionali e le recluse sono trasferite a Termini Imerese; nel 1984 è aperto nel parlatorio un negozio di oggetti di artigianato siciliano, ma soltanto per due anni. Intorno al 2000 è occupato da militanti del PCL (Partito Comunista dei lavoratori) per trasformarlo in Centro Sociale, denominato “Ex Carcere“.
Nel frattempo Il 10 Ottobre 2008 l’IPAB Opera Pia Reclusori Femminili vende l’Immobile alla Fondazione CEUR, nata a Bologna nel 1990, finalizzata alla formazione e alla cultura. Dopo uno sgombero forzato l’ex carcere è riconsegnato all’ Opera Pia, per essere nuovamente occupato il 20 Febbraio del 2009.
Il 21 febbraio 2014 la fondazione CEUR comincia i lavori di ristrutturazione che terminano nel 2016, trasformando il tutto nel collegio universitario Camplus con aule di studio, sale multimediali, palestra e diversi spazi di socializzazione tra cui un auditorium, cucina, mensa e 110 posti letto situati nei due piani superiori.
July 17, 2020
Come sant’Alessio divenne famoso a Roma
Tempo fa, raccontai la strana vicenda per cui la biografia di un discepolo di Buddha si fosse, per una serie di traduzioni e adattamenti, trasformata in quella di un santo romano: traduzioni che progressivamente, avevano spostato ad Occidente lo scenario geografico delle vicende narrate.
Rimaneva però una questione in sospeso: perché Alessio avesse acquisito così popolarità presso il popolo romano. Il merito è della nobile famiglia dei Savelli, che vantò cinque papi, innumerevoli cardinali, vescovi, senatori e condottieri. Nel 1270 la famiglia ottenne la carica di Maresciallo di Santa Romana Chiesa (nella persona di Luca Savelli) e custode perpetuo del Conclave e nel 1375 ebbe persino la responsabilità di un tribunale, la Corte Savella competente a giudicare cause criminali per delitti comuni di varia natura, che estendeva la sua competenza su tutti i laici della famiglia pontificia, e che divideva la sua giurisdizione in Roma con quello di Tor di Nona, con diritto di infliggere la pena capitale che veniva eseguita o presso il carcere stesso, altrimenti a piazza Padella presso la chiesa di San Nicolò degli Incoronati detto anche de Furcis (presso l’attuale testata di ponte Giuseppe Mazzini) per la presenza stabile del patibolo, o a piazza di Ponte attuale piazza di ponte Sant’Angelo.
Il tribunale disponeva di un giudice, due notari, un bargello, un custode delle carceri e un esecutore delle condanne. Era situato in un immobile di proprietà della famiglia, sede dell’attuale Collegio Inglese; carcere dove fu imprigionata anche la povera Beatrice Cenci.
Ora, Cencio Savelli (noto anche come Cencio Camerario e per essere stato papa con il nome di Onorio III) ereditò la vecchia fortezza dei Crescenzi sull’Aventino e cominciò a ristrutturarla e ampliarla, tanto tanto da arrivare, con varie fortificazioni, fino alla Marmorata. Rocca che aveva uno straordinario valore strategico nella Roma dell’epoca, dato che controllava il passaggio attraverso il “ponte S.Maria” (oggi ponte Rotto) e la strada di accesso all’Aventino dal Tevere, oggi nota con il nome di Clivo di Rocca Savella ma in passato conosciuta con il nome di “vicolo di S.Sabina” (perchè conduce alla chiesa di Santa Sabina).
Del castello rimane solo la cinta muraria, costruita con piccoli tufelli e con torri squadrate disposte a distanze regolari,La rocca terminò il suo ruolo di fortificazione intorno al XVI secolo per divenire un ampio giardino racchiuso da mura, anche se la zona, a causa della sua posizione strategica, non perse mai completamente la sua vocazione bellica. Infatti la rocca fu utilizzata dai romani durante la difesa della Repubblica Romana del 1849 per cannoneggiare le milizie francesi posizionate a porta S.Pancrazio. Il parco, noto anche con il nome di “parco Savelli”, fu realizzato nel 1932 su disegno di Raffaele De Vico ed è denominato “Parco (o Giardino) degli Aranci” per la presenza di numerosi alberi di melangoli, ossia aranci amari, secondo la tradizione portati a Roma da San Domenico.
Ora, la Rocca Savella era assai vicina alla chiesa di San Bonifacio, dove, secondo la versione latina della biografia di Alessio, era sua volta accanto alla domus di suo padre Eufemiamo. Per cui fu assai facile, per i Savelli, associare i due edifici. In più, con una forzatura logica che appare parecchio strana a noi moderni, i Savelli, essendo proprietari della Rocca, dovevano esserlo stati anche della domus della famiglia di Alessio: di conseguenza, non potevano che essere suoi parenti.
Questa parentale immaginaria, che aumentava il prestigio famigliare, fu esaltata in ogni modo. Onorio III, il buon Cencio Savelli, nel 1218, a seguito del ritrovamento nel maggio dell’anno precedente del presunto corpo di Alessio, rilanciò il culto del Confessore romano associandolo definitivamente nel titolo della basilica, nuovamente consacrata, al nobile e martire romano Bonifacio. In più, scartabellando nelle cantine di Rocca Savella, trovò una vecchia scala, che ovviamente, identificò come quella in cui il santo faceva penitenze e chiedeva l’elemosina: scala che, promossa immediatamente da vecchia cianfrusaglia a importante reliquia, fu trasferita in pompa magna nella chiesa.
Papa Onorio IV, Giacomo Savelli, con l’aiuto del fratello Pandolfo, monumentalizzò il tutto: fece infatti costruire una cappella, in cui custodire la scala e dare opportuna solennità alla scala, poggiata su uno degli altari. Cappella in cui erano presenti un cenotafio di Onorio IV, un’edicola di gusto gotico contenente un’immagine dipinta su muro e raffigurante la Theótokos decorata da due cherubini e affiancata ai lati dalle immagini di Sant’ Alessio (a sinistra) e Sam Bonifacio (a destra) nell’atto di presentare, rispettivamente, Pandolfo, in abito da senatore e con il « berrettone all’antica alla Ducale di broccato d’oro », e la figlia Adrea, altrimenti identificata con la moglie del Savelli e un ciclo di affreschi ossia
sacris picturis representantibus vitam S. Alexii
Il culto di Sant’Alessio ebbe un nuovo fulgore a fine Cinquecento e nella prima metà del Seicento, quando i Savelli tornarono di nuovo alla ribalta, sia perchè imparentati con Sisto V, sia per la nomina a Principi di Albano, tanto che il santo divenne addirittura protagonista di un’opera teatrale, una sorta di colossal dell’epoca, rappresentata celebre teatro Barberini di Roma nel 1632 e replicata nel 1634. La memorabile rappresentazione, di grandioso impatto scenografico, stabilizzava una lunga tradizione agiografica, letteraria e figurativa, ponendo al centro Roma, scenario tragico ideale del melodramma cristiano.
Le presenze nel 1632 dell’emissario imperiale austriaco Hans Ulrich Furst von Eggenberg e nella replica del 1634 del principe Carlo Alessandro Vasa, fratello del re di Polonia, hanno indubbiamente caricato di una valenza politica la sacra tragedia, nella quale l’Urbe, eclissando l’immagine ingiuriosa di « prostituta di babilonia » propagandata dai protestanti , si presentava come la città santa dei santi, patria di Alessio, la cui mitica figura si prestava a incarnare l’exemplum virtuti : il nobile di antico lignaggio romano che si fa povero, il buono e caritatevole pellegrino, l’uomo che fugge ogni sensualità (anche se compresa nel sacro vincolo del matrimonio), l’alter Christus deriso ma vittorioso sul male e sulla morte, l’uomo la cui santità, rivelata miracolosamente all’interno di una chiesa di Roma, riconosciuta dal pontefice Innocenzo, dagli imperatori Onorio e Arcadio e dal numeroso concorso dei fedeli, compianta sino alla disperazione dai famigliari più stretti, ha il potere, infine, di convertire chi lo aveva disprezzato.
Con l’estinzione dei Savelli, dopo la morte del principe Giulio nel 1712, vennero meno le ragioni che saldavano il culto di Alessio all’antica famiglia romana. I rifacimenti settecenteschi previdero così un nuovo allestimento scenografico realizzato attorno al 1750 dallo scultore Andrea Bergondi, nel quale la reliquia venne definitivamente integrata nella raffigurazione artistica.
La « vera scala di Alessio » fu montata sopra la statua in stucco del santo, raffigurato disteso, reduce da un’agonia santa, con i classici attributi della croce e del bordone da pellegrino. Come nel sogno di Giacobbe, la scala è percorsa illusionisticamente dagli angeli i quali riempiono anche la parte inferiore e superiore della rappresentazione che, dai suoi molteplici punti di vista, ricrea l’impatto teatrale dell’ultimo atto del dramma de Il San Alessio.
Rappresentazione teatrale che colpì anche la fantasia del grande pittore Georges de La Tour: in un suo Alessio, disteso e con la bocca semiaperta, ha in mano la lettera che contiene la rivelazione. Il suo viso viene investito dalla luce intima e soffusa della torcia del giovane servo, creando tutt’attorno un’atmosfera di religioso silenzio. Probabilmente, anche l’originario discepolo di Buddha l’avrebbe apprezzato…
July 16, 2020
Jabouna Line
Devo essere sincero: alle Medie ero l’incubo del mio prof di Educazione Musicale: mi incartavo con gli esercizi di solfeggio, consideravo il flauto dolce una stupida tortura più che uno strumento musicale, mi annoiavo a morte, quando il prof cercava di farmi entrare in testa la data di nascita di Rossini o l’elenco completo delle opere di Bach. Se vi aggiungete anche il fatto che sono stonato come un campanaccio, all’epoca nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato su un’eventuale mia passione per la Musica.
Eppure, la vita ha deciso altrimenti, conducendomi a lidi inaspettati. Anche se continuo a sbagliare con rigore scientifico tutte le note, la Musica e la Danza mi hanno insegnato tanto, su me stesso e sugli altri. Mi ha reso più curioso e più tollerante; mi ha dato la forza per combattere e di conoscere tanti amici e splendide persone.
Uno di questi è Sherif Fares: approfittando del suo ultimo progetto musicale, mi sono fatto raccontare qualcosa di lui, della sua sensibilità e visione del Mondo, imparando sempre qualcosa di nuovo
Ciao Sherif come stai? Cominciamo dalla domanda più banale in assoluto? Chi sei? Se ti dovessi presentare a un estraneo, quale sono le prime parole che ti verrebbero in mente?
Ciao fratello mio, beh d’istinto mi verrebbe da dirti che sono una persona qualunque…con una spiccata dose di curiosità, ma sapendo dove vuoi parare, ti rispondo così: sono un italiano con origine egiziana, oppure… Un mediterraneo, un po’ percussionista 
July 15, 2020
L’Arco di Dolabella
Un piccolo mistero della toponomastica della Roma Antica riguarda la posizione delle antiche porte Caelimontana e Querquetulana delle mura serviane, poste sul Celio. Sino a pochi anni fa, gli studiosi erano convinti che Celimontana fosse la più orientale, mentre la Querquetulana quella posta più a ovest, coincidente con il nostro arco di Dolabella.
In mancanza di precisi indizi provenienti da fonti classiche (le cui citazioni in proposito sono pressoché inesistenti), i presupposti a sostegno dell’ipotesi si basavano sul fatto che entrambe le porte derivavano il loro nome da quello del colle su cui si trovavano. Querquetulum (coperto di boschi di querce) era infatti l’antica denominazione di quello che solo successivamente venne chiamato Caelius; si poteva pertanto supporre che le due porte potessero essere state aperte in tempi successivi, prima la Querquetulana e poi (forse su un ampliamento del tracciato serviano, quando ormai le querce non c’erano più) la Caelimontana.
Dato che nell’arco di Dolabella sono presenti blocchi risalenti all’inizio del IV secolo, epoca della costruzione delle prime mura repubblicane, era probabile quindi che questo dovesse coincidere con la Querquetulana. Una conferma indiretta a questa conclusione (sebbene la deduzione sia un po’ debole) la fornisce Livio, che cita per la prima volta la porta Caelimontana (XXXV, 9) per riferire di un fulmine che la colpì nel 193 a.C.
Ipotesi che però, negli ultimi anni, è stata rimessa in discussione. Secondo la nuova interpretazione, la porta Querquetulana risalirebbe non alla fase repubblicana, ma a quella del periodo regio, forse proprio ai tempi dello stesso Servio Tullio, l’etrusco Mastarna.
Il re etrusco, a quanto pare, fece costruire di una cinta muraria di almeno 7 km, in blocchi squadrati di tufo del Palatino, che fu poi utilizzato come appoggio per la fortificazione di un paio di secoli più tarda.
Su questa struttura si apriva, probabilmente, una porta per ogni altura: la Mugonia per il Palatino, la Saturnia (o Pandana) per il Campidoglio, la Viminalis, l’Oppia, la Cespia e la nostra Querquetulana per i colli di cui portano il nome (Querquetulum era l’antico nome del Celio) e la Collina (per il collis Quirinalis). Proprio il fatto che il loro nome derivi da quello dell’altura cui davano accesso, anziché essere l’aggettivazione di qualche monumentalizzazione (templi, altari, ecc.) lì presente, è una prova della loro antichità.
Molto si è discusso sul tracciato e la consistenza di questa cinta, arrivando a dubitare della sua reale esistenza, ma oggi si tende a riconoscere come molto probabile la storicità dell’evento, grazie anche ai reperti archeologici. Esistono infatti alcuni reperti collocabili nella fase originaria della fortificazione, come i tratti di mura a piccoli blocchi di tufo del Palatino sull’Aventino e sul Campidoglio. Sul Quirinale e sull’Aventino invece la fortificazione doveva essere costituita da un più semplice terrapieno, alto cinque metri, ovvero l’agger descritto minuziosamente dalle fonti antiche ed oggi scomparso.
La forma mista (mura-terrapieno) è d’altronde riscontrabile in altre città laziali e dell’Etruria meridionale, come Ardea, Lavinio o l’acropoli di Veio. Di conseguenza, la porta Celimontana doveva essere costruita successivamente alla Querquetulana e doveva coincidere con quella delle mura repubblicana.
Per cui, se la Celimontana si trova nel mezzo del Clivus Scauri, dove diavolo si trovava la Querquetulana ? Probabilmente, per la mancanza di testimonianza archeologiche e letterarie, doveva trovarsi all’interno del perimetro dell’attuale ospedale di San Giovanni, nella zona di confluenza tra via dei Santi Quattro e via di Santo Stefano Rotondo.
Augusto, intorno al 7 a.C., emise un senatoconsulto per provvedere al restauro delle mure repubblicane tra il Tevere e il Celio. Il 2 d.C. cominciarono i lavori, con il restauro della porta Porta Trigemina, posta presso la chiesa di Santa Maria in Cosmedin e distrutta nel XV secolo, finanziati dai consoli suffetti del 2 Publio Cornelio Lentulo Scipione e Tito Quinzio Crispino Valeriano.
Porta il cui nome ha causato, tra gli studiosi a una ridda di ipotesi sulla sua orgi: parrebbe da escludere quella derivata da porta a tre arcate in quanto, secondo il Säflund, uno dei massimi studiosi di topografia dell’antica Roma, quel tipo di porta non potrebbe risalire a periodi pre-sillani. Si è anche avanzata un’ipotesi secondo la quale poteva forse trattarsi di 3 porte, una dietro l’altra. Più plausibile, in quanto legata a considerazioni di carattere mitologico, la possibilità che sul portale fosse scolpita l’effigie delle tre teste del ladrone Caco, che abitava proprio in quella zona e che, oltre a terrorizzare il vicinato, aveva rubato la mandria di Ercole. Nel vicino Foro Boario, infatti, esisteva l’ara che secondo il mito Ercole stesso, ucciso Caco, avrebbe innalzato a Giove per ringraziarlo di avergli fatto ritrovare i suoi buoi; sempre nelle immediate vicinanze sembra esistesse anche un tempio dedicato, appunto, ad “Ercole vincitore”.
Oltre che “Trigemina”, la porta era anche chiamata “Minucia”, ed anche in questo caso si hanno due plausibili spiegazioni del nome. Secondo quella mitologica deriverebbe dalla vicinanza del tempio dedicato al dio Minucio (una diversa personificazione di Ercole), scopritore di ladri e briganti che infestavano la zona anticamente ricoperta da fitte boscaglie; questo Minucio era la contrapposizione della dea Laverna, la protettrice di quegli stessi ladri e briganti, che aveva il suo tempio poco distante, nei pressi della vicina Porta Lavernalis. L’altra spiegazione si riferisce alla presenza, vicino alla porta, del monumento innalzato al prefetto dell’annona Lucio Minucio Augurino, in carica nel 439-438 a.C.
Tornando alla nostra Porta Celimontana, questa fu invece restaurata nel 10 d.C. dai consoli Cornelio Dolabella e Gaio Giunio Silano, come si legge (a malapena) sull’attico della facciata esterna:
“P. CORNELIUS P. F. DOLABELLA / C. IUNIUS C. F. SILANUS FLAMEN MARTIAL(IS) / CO(N)S(ULES) / EX S(ENATUS) C(ONSULTO) / FACIUNDUM CURAVERUNT IDEMQUE PROBAVER(UNT)”,
ovvero
“P. Cornelio Dolabella, figlio di Publio, e Gaio Giunio Silano, figlio di Gaio, flamine di Marte, consoli, per decreto del Senato appaltarono (quest’opera) e ne fecero il collaudo”.
Da quel momento in poi, la Porta Celimontana divenne nota come l’Arco di Dolabella: questo, formato da blocchi di travertino, risulta attualmente interrato per circa 2 metri. È a un solo fornice e, in origine, era alto 6,56 metri; i piloni poggiavano su una base di calcestruzzo, e presentavano i primi filari di conci sporgenti verso l’interno allo scopo di proteggere gli angoli dall’usura provocata dalle ruote dei carri. Il fornice presenta lateralmente due cornici molto sporgenti su cui imposta
l’armilla.
Nel 211 d.C., durante i lavori di restauro realizzati per volere di Settimio Severo e di Caracalla all’Acquedotto Neroniano, un ramo secondario dell’Acquedotto Claudio, l’arco venne utilizzato per sostenerne le grandi arcate che tuttora lo sovrastano.
L’acquedotto Neroniano, per chi non lo sapesse è un ramo secondario dell’Acquedotto Claudio, realizzato da Nerone per alimentare il ninfeo ed il lago della sua grandiosa reggia, la “Domus Aurea”. Dalla piazza di Porta Maggiore l’acquedotto neroniano devia verso via Statilia con una serie di superbe arcate per dirigersi verso il Celio seguendo il percorso sotterraneo dell’Aqua Appia. Successivamente Domiziano realizzò un prolungamento dell’acquedotto per approvvigionare i palazzi imperiali del Palatino: esso, correndo inizialmente parallelo al clivo di Scauro, superava, con arcate alte quasi 40 metri, la valle tra il Celio ed il Palatino, oggi attraversata dalla via di S.Gregorio.
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