Alessio Brugnoli's Blog, page 55

September 4, 2020

Le Terme di Baia (Parte I)

[image error]Terme di Baia



Molto lo ignorano, ma Baia, ai tempi dei romani era una località di villeggiatura molto più rinomata e lussuosa della nostre Costa Azzurra e Costa Smeralda. Ai tempi della Magna Grecia, questa era il porto della potente Cuma, che, ricordiamolo, svolse un ruolo fondamentale nella storia di Roma, provocando la caduta della monarchia etrusca.





All’epoca, l’aspetto della costa era profondamente diverso dall’attuale: l’attuale porto era in larga parte occupato dalla terraferma ed ai suoi lati, i promontori di Punta dell’Epitaffio e di Punta del Castello, si chiudevano in un abbraccio formando un bacino, il lacus baianum. Successivamente su questo istmo fu praticata un’apertura al centro costruendo un canale largo 32 metri e lungo più di 200 che dava sull’attuale golfo di Pozzuoli. Da questa conformazione geografica, nacque proprio il nome di Baia, anche se Strabone si ostini ad affermare come questo derivi dal fatto che Ulisse vi abbia seppellito il suo timoniere Bajos.





Le cose cambiarono dopo l’integrazione della Campania nella Repubblica Romana, quando i ricchi romani coninciarono a costruirvi le loro villae. Il boom, racconta Tito Livio, si ebbe grazie al console Cornelio, che, caduto da cavallo, alleviò i lividi e i dolori delle ossa grazie alle acque termali della zona: tanto ne decantò le virtù terapeutiche e la bellezza del panorama, che i principali senatori vi si trasferirono in masso, tanto che nel I sec. a.C., non si riuscivano più a distinguere i confini di Baia da quelli di Bauli (l’antica Bacoli) e di Puteoli (Pozzuoli). Le villae, rispecchiando la ricchezza ed il grado sociale dei rispettivi proprietari, avevano un aspetto maestoso, finemente rifinite e dotate quasi tutte di peschiere o piscine per l’allevamento delle murene: vera prelibatezza culinaria a quell’epoca.





Il buon Orazio ne celebrava la bellezza con il verso





Nullus in orbe sinus Baiis praelucet amoenis





ossia





nulla al mondo splende più dell’ameno golfo di Baia





Probabilmente, conoscendo il pessimo rapporto che i romani dell’epoca avevano con i piani regolatori e i regolamenti edilizi, la realtà doveva essere ben peggiore, con un accalcarsi disordinato di edifici. Per darvi una parvenza d’ordine, analogamente a quanto stava facendo a Roma sul Palatino, Ottaviano incaricò l’architetto Sergio Orata di regolarizzare il tessuto urbano, allargando e raddrizzando le strade, di dare un’aspetto omogeneo alle varie ville e di convogliare le sorgenti naturali d’acqua calda presenti nell’area, in numerose canalizzazioni che alimentavano le famose terme.





Architetto che prese il nome da una sua iniziativa imprenditoriale: nel lago Lucrino, dal latino lucrum, guadagno economico, all’epoca assai diverso dell’attuale, lago Lucrino, dato che il suo aspetto fu radicalmente mutato rispetto dalla violenta eruzione che si ebbe nel 1538 proprio sulla sua costa, che provocò in una sola notte (tra il 28 e il 29 settembre) la nascita di Monte Nuovo, impiantò un grande allevamento di pesci (soprattutto orate, alle quali deve il suo appellativo), ostriche e delle famose cozze locali.





Dopo questo intervento urbanistico, Baia divenne la “seconda casa” degli imperatori romani e divenne lo scenario di vicende romanzesche: ad esempio nel 37, Tiberio, prossimo alla morte lasciò Capri, per tornare a Roma e morire sul Palatino. La notizia provocò la rivolta generale nella plebe di Roma, tanto che l’imperatore si fermò a sole sette miglia dall’Urbe, e decise di tornare indietro verso la Campania.





Qui fu colto da malore, e trasportato nella villa di Lucullo a Miseno; dopo un iniziale miglioramento, il 16 marzo cadde in uno stato di delirio e fu creduto morto. Mentre molti già si apprestavano a festeggiare l’ascesa di Caligola, Tiberio si riprese ancora una volta, suscitando scompiglio tra coloro che avevano già acclamato il nuovo imperatore; il prefetto Macrone, tuttavia, mantenendo la lucidità, ordinò che Tiberio fosse soffocato tra le coperte. Il vecchio imperatore, debole e incapace di reagire, spirò all’età di settantasette anni.





Sempre Caligola, ne combinò una delle sue: così racconta Svetonio, padre di tutti i pettegoli





Novum praeterea atque inauditum genus spectaculi excogitavit. Nam Baiarum medium intervallum Puteolanas ad moles, trium milium et sescentorum fere passuum spatium, ponte coniunxit contractis undique onerariis navibus et ordine duplici ad ancoras conlocatis superiectoque terreno ac derecto in Appiae viae formam. Per hunc pontem ultro citro commeavit biduo continenti, primo die falerato equo insignisque quercea corona et caetra et gladio aureaque chlamyde, postridie quadrigario habitu curriculoque biiugi famosorum equorum, prae se ferens Dareum puerum ex Parthorum obsidibus, comitante praetorianorum agmine et in essedis cohorte amicorum. Scio plerosque existimasse talem a Gaio pontem excogitatum aemulatione Xerxis, qui non sine admiratione aliquanto angustiorem Hellespontum contabulaverit; alios, ut Germaniam et Britanniam, quibus imminebat, alicuius inmensi operis fama territaret. Sed avum meum narrantem puer audiebam causam operis ab interioribus aulicis proditam, quod Thrasyllus mathematica anxio de successore Tiberio et in verum nepotem proniori affirmasset «non magis Gaium imperaturum quam per Baianum sinum equis discursurum».





ossia, tradotto in italiano





Inventò anche un genere di spettacolo nuovo e mai visto prima. Infatti, formò un ponte nel tratto di mare tra Baia e il porto di Pozzuoli, con navi da carico raccolte d’ogni parte e ancorate in doppia fila, ordinò poi di fare una gettata di terra sulle navi, in linea dritta, come un proseguimento della via Appia, e per due giorni andò avanti e indietro su questo ponte di navi, il primo giorno cavalcando un cavallo bardato di fàlere con una corona di foglie di quercia in capo, uno scudo e una spada nelle mani e indosso una clàmide d’oro, il giorno dopo vestito da auriga, su una biga tirata da due cavalli famosi, accompagnato da una schiera di pretoriani e da una folla di amici montati su carri. So che molti hanno ritenuto che Gaio avesse ideato un ponte di tal genere per emulare Serse che, suscitando ammirazione, aveva gettato un ponte di navi sull’Ellesponto che era un po’ più stretto; altri ritenevano che volesse incutere timore, con la fama di un’opera eccezionale, ai Germani e ai Britanni che si preparava ad attaccare. Ma io da piccolo ho sentito mio nonno narrare quale sarebbe stata la causa di tale opera, in base a quanto gli avevano detto in segreto i cortigiani più vicini all’imperatore, secondo i quali il matematico Trasillo aveva detto a Tiberio, quando era in ansia riguardo alla designazione del suo successore e propendeva verso il suo vero nipote, che sarebbe stato più difficile per Gaio divenire imperatore che attraversare a cavallo il golfo di Baia.





A Baia soggiornò Claudio con la moglie Messalina, la quale tentò di sedurre Valerio Asiatico con l’obiettivo di rubarne non il cuore o il corpo bensì la bella villa che era gia appartenuta a Lucullo. L’ operazione non riuscì e la vendetta di Messalina fu, com’è noto, terribile: convinse il marito che Valerio era un traditore, l’uomo fu arrestato e condotto a Roma, dove scelse di uccidersi insieme all’amata Poppea.





Qui Nerone, desideroso di uccidere la madre Agrippina, dopo molti tentativi falliti, accettò con entusiasmo la proposta di Aniceto, il liberto capo della flotta di stanza a Miseno e suo vecchio precettore : bastava costruire una nave che si aprisse in parte, con un congegno, una volta in alto mare, per fare annegare la donna simulando un naufragio. Nerone fece dunque arrivare la madre da Anzio a Baia, la accolse con ogni onore e la porto poi Bauli. Da qui Agrippina volle tornare a Baia in lettiga, forse perché informata dell’intrigo ; ma a Baia Nerone tanto fece che la madre si convinse a ripartire con la nave messa a disposizione dal figlio, in una notte limpida e stellata.





Fu cosi che, all’improvviso, nella cabina in cui era alloggiata Agrippina precipitò parte del soffitto ; ma l’imperatrice e la sua schiava personale,Acerronia Pollia, furono salvate dalle spalliere del letto. Nello scompiglio generale, anche perché non tutto l’equipaggio era stato informato del complotto, non si azionò l’apertura delloscafo e nemmeno riuscirono, i complici, a inclinare tutta la nave per portare il piano a compimento. Le due donne caddero comunque in mare





Acerronia Pollia, precipitata in mare insieme all’Augusta, cominciò a gridare ai marinai che giungevano, complici di Nerone, di essere Agrippina e di trarla in salvo, ma quelli la uccisero colpendola alla testa con i remi; Agrippina, assistendo alla scena nel buio, benché ferita, si allontanò silenziosamente a nuoto e venne tratta in salvo da alcuni pescatori, che la condussero ad una villa nei pressi del lago Lucrino. Da qui ella fece avvisare Nerone che era sana e salva, ma questi perseverò nel delitto ed inviò alcuni sicari alla villa della madre.





Il culmine della tragedia è così raccontato da Tacito





Interim, vulgato Agrippinae pericolo, quasi casu evenisset, ut quisque acceperat, decurrere ad litus. Hi molium obiectus, hi proximas scaphas scandere; alii, quantum corpus sinebat, vadere in mare; quidam manus protendere; questibus, votis, clamore diversa rogitantium aut incerta respondentium omnis ora compleri; adfluere ingens multitudo cum luminibus, atque, ubi incolumem esse pernotuit, ut ad gratandum sese expedire, donec aspectu armati et minitantis agminis deiecti sunt. 2. Anicetus villam statione circumdat, refractaque ianua, obvios servorum abripit, donec ad fores cubicoli veniret; cui pauci adstabant, ceteris terrore inrumpentium exterritis. 3. Cubicolo modicum lumen inerat et ancillarum una, magis ac magis anxia Agrippina, quod nemo a filio ac ne Agermus quidam: aliam fore laetae rei faciem; nunc solitudinem ac repentinos strepitus et extremi mali indicia. 4. Abeunte dehinc ancilla, «Tu quoque me deseris» prolocuta, respicit Anicetum, trierarcho Herculeio et Obarito, centurione classiario, comitatum; ac, si ad visendum venisset, refotam nuntiaret, sin facinus patraturus, nihil se de filio credere: non imperatum parricidium. 5. Circumsistunt lectum percussores, et prior trierarchus fusti caput eius adflixit; iam in mortem centurioni ferrum destringenti protendens uterum, «Ventrem feri» exclamavit, multisque vulneribus confecta est.





Ossia tradotto in italiano





Frattanto si era sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina, che si credeva del tutto accidentale, e ognuno si precipitava alla spiaggia a mano a mano che apprendeva la notizia; alcuni salivano sui moli, altri sulle barche che si trovavano a portata di mano; chi si inoltrava nel mare fin dove per la sua statura riusciva a toccare il fondo, chi tendeva le braccia; tutta la spiaggia era piena di lamenti, di invocazioni, di un vocio confuso in cui si intrecciavano domande contrastanti e risposte incerte: si andava radunando una folla immensa con le torce accese, quando giunse la notizia che Agrippina era salva, e tutti allora si avviarono per andare a congratularsi con lei, ma la vista di una minacciosa schiera di armati li costrinse a disperdersi. 2. Aniceto circondò la villa con un cordone di uomini, quindi, sfondata la porta, fece trascinare via tutti i servi che gli si facevano incontro finché giunse davanti alla porta della stanza da letto: qui stava di guardia uno sparuto gruppo di domestici, perché tutti gli altri si erano dileguati atterriti dall’irruzione dei soldati. 3. Nella camera, illuminata da una luce fioca, si trovava una sola ancella, mentre Agrippina era sempre più in ansia perché non arrivava nessun messo da parte del figlio e non ritornava neppure Agermo: le cose sarebbero state ben diverse, all’intorno, se gli eventi avessero preso una piega favorevole; ora invece non vi era che solitudine, un silenzio rotto da grida improvvise e tutti gli indizi di una irrimediabile sciagura. 4. Poiché l’ancella stava per andarsene, Agrippina si volse verso di lei per dirle: «Anche tu mi abbandoni?», e allora vide Aniceto accompagnato dal trierarco Erculeio e dal centurione navale Obarito. E subito gli disse che, se era venuto per farle visita, poteva riferire a Nerone che si era ristabilita; se invece era lì per compiere un delitto, ella non poteva credere che ubbidisse a un ordine del figlio: era certa che egli non aveva comandato il matricidio. 5. I sicari circondarono il letto e il trierarca per primo colpì al capo con un bastone; quindi il centurione impugnò la spada per finirla, e allora Agrippina, protendendo il ventre, esclamò: «Colpisci qui», e spirò trafitta da più colpi.





In seguito, la vita a Baia tornò a essere più tranquilla, dai tempi di Alessandro Severo in poi, la zona cominciò a essere flagellata dal bradisismo discendente e le ville cominciarono a sprofondare in mare: anche se parzialmente abbandonata, le sue terme continuavano a funzionare a pieno regime, tanto che Cassiodoro, ai tempi di Teodorico, così scrive





Le terme, alimentate da vapori caldi, sono più salubri di qualsiasi bagno riscaldato artificialmente poiché la Natura eccelle di gran lunga l’umano ingegno. Nulla è più eccelso dei Lidi Baiani, dove si unisce la possibilità di avere delizie dolcissime e di appagarsi dell’impareggiabile dono della salute





Il colpo di grazia arrivò però nell’Ottavo secolo, quando il bradisismo discendente raggiunse una fase parassosistica e gran parte di Baia finì sott’acqua. Sappiamo come tutto avvenne in tempi rapidissimi, grazie a un mercante arabo che giunto in Campania per commerciare con gli amalfitani e i napoletani, che chiama al-rūm al-malāfiṭa e al-rūm al-nabulita, dove al-rūm, romani, indica il loro essere sudditi di Costantinopoli, la nuova Roma, che, nel suo diario di viaggio, racconta il suo terrore e il suo raccomandarsi all’Altissimo nel vedere la terra scomparire tra le acque, per poi paragonare il tutto ai versetti della Sura XXVI del Corano, in cui si cita il passaggio degli Ebrei nel Mar Rosso





Rivelammo a Mosè: «Colpisci il mare con il tuo bastone».
Subito si aprì e ogni parte [dell’acqua] fu come una montagna enorme.
Facemmo avvicinare gli altri,
e salvammo Mosè e tutti coloro che erano con lui,
mentre annegammo gli altri.
In verità in ciò vi è un segno! Ma la maggior parte di loro non crede.

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Published on September 04, 2020 13:34

September 3, 2020

San Calimero a Milano

[image error]San Calimero



In verità, sappiamo assai poco di Calimero: alcune leggende lo ritengono un romano di famiglia nobile che, dopo una carriera militare col grado di ufficiale, fu prima convertito e battezzato dai santi Faustino e Giovita e, dopo una vita al servizio della sua fede, ordinato vescovo di Milano; altre versioni lo indicano come greco, cresciuto a Roma e educato alla fede cristiana dal papa Telesforo: fuggito a Milano dopo che quest’ultimo fu ucciso dai suoi persecutori, venne accolto dal Vescovo Castriziano tra i membri del clero meneghino e destinato alla basilica “fausta”. Alla morte di quest’ultimo furono gli stessi milanesi ad acclamarlo vescovo e, al suo rifiuto di sottostare alla loro volontà, ad incatenarlo fino al momento della consacrazione episcopale.





In realtà, entrambe le versioni pongono uno sproposito di problemi cronologici: a complicare il tutto un’epigrafe posta nel duomo contenente la cronologia dei vescovi milanesi, che porrebbe Calimero ai tempi di Adriano; tuttavia, il valore storico è assai dubbio, dato che risale al XIX secolo e non fa altro che raccogliere una tradizione medievale.





Per di più, nell’XI secolo, i milanesi, in faida con il Papato al tempo della lotta per le investiture, retrodatarono la storia della loro diocesi per dimostrare una “pari anzianità” con quella di Roma. In tal modo le vite di molti santi vescovi (come Anatalone, Caio e lo stesso Calimero) furono collocate antecedentemente alla loro reale esistenza e ampliate notevolmente.





Secondo la tradizione, Calimero era un acerrimo persecutore della religione pagana, fautore del battesimo coatto dei non cristiani; insomma, era talmente rompiscatole, che finì trafitto con una lancia da un gruppo di pagani mentre si trovava in un cimitero di Milano e, come contrappasso per il suo battezzare non richiesto e voluto, sia stato gettato in un pozzo situato nell’area sacra del dio celtico Belenos.





Tuttavia anche il suo martirio non è affatto certo, essendo stato riportato per la prima volta solo nell’VIII secolo e non facendone sant’Ambrogio, noto per il suo complesso di inferiorità per le scarse vittime delle persecuzioni a Milano, alcuna menzione nei suoi scritti.





La prima menzione della chiesa si trova in un epigramma di Ennodio (474-521 ca.) che ne ricorda il restauro ad opera del vescovo Lorenzo (490-512) e descrive la chiesa come «priscam figuram» definendo Lorenzo «novorum conditor». Se dunque la chiesa poteva essere menzionata come antica già fra il V e il VI secolo, se ne deduce che la sua fondazione doveva risalire al secolo precedente. Probabilmente si trattava in origine di una «aedes memoriae» o basilica cimiteriale sulla quale intervenne il restauro di Lorenzo. Oltre a questa semplice deduzione pare doveroso far riferimento ad alcune scoperte archeologiche che ne attestano l’antichità.





In primo luogo possiamo far riferimento ad una campagna di scavi condotta nel 1905 ad opera del prevosto Pellegrini grazie alla quale furono rinvenuti otto mattoni appoggiati a tronchi di larice e utilizzati come gradini per scendere alla sorgente che scaturiva nella cripta. Su questi mattoni era chiaramente visibile una marca di fabbrica risalente a Teodorico (493-526).





In secondo luogo possiamo fare riferimento allo studio dell’Arslan che nel 1954 riconosceva l’origine palocristiana dell’arco scoperto dal De Capitani ed oggi ancora visibile nel sottotetto; dato che ci fa ipotizzare come le dimensioni della chiesa paleocristiana fossero analoghe a quelle attuali e che fosse a navata unica.





In terzo luogo è possibile far riferimento ad una lapide che, risalente al vescovo Tommaso ossia alla fine del secolo VIII, attesta i lavori di restauro compiuti nella chiesa e la sistemazione del corpo del Santo titolare sotto l’altare della cripta. Tommaso trovò trovò lo scheletro di Calimero immerso nell’acqua: nella cripta fu quindi scavato un pozzo per farla defluire e in breve tempo, si diffuse la credenza che le sue acque fossero miracolose. In passato, in occasione della festività di san Calimero, che si svolgeva il 31 luglio, queste venivano distribuite ai malati e, durante i periodi di siccità, una bottiglia di acqua del pozzo veniva consacrata durante la messa e in seguito rovesciata sul sagrato, per propiziare l’avvento del maltempo.





Si narra che il vescovo Tommaso avesse dotato la basilica di un altare d’oro simile a quello presente ancora oggi nella Basilica di Sant’Ambrogio. Esso divenne purtroppo però preda dei soldati di Federico Barbarossa.





Una radicale trasformazione della chiesa avvenne in età romanica, in un tempo che i pochi resti sopravvissuti ai rimaneggiamenti ottocenteschi consentono di fissare attorno all’XI secolo. Si tratta dell’abside, e dei fianchi esterni. Il piccolo campanile risulta essere un’ingegnosa soluzione dato che si innesta obliquamente sul corpo sottostante tramite raccordi a tromba d’angolo. Delle chiesa romanica, rimangono pochi frammenti: l’abside, ritmata da arcatelle a bocca di forno, è suddivisa in parti da sei lesene e aperta da tre ampie finestre ad arco, temi visibili anche in Sant’Eustorgio; il fianco destro presenta un paramento di mattoni a vista inframmezzati da corsi disposti a spina di pesce.





Ma le successive vicende risultano oscure tanto che il Giulini, citando un atto del 1119 risalente all’arcivescovo Giordano, ne parla nei termini di chiesa decumana o non parrocchiale. Tuttavia nel 1398 risulta che presso la chiesa di San Calimero risiedevano tre sacerdoti addetti alla cura d’anime e che il loro numero rimase invariato sino al 1466 quando però la chiesa doveva aver assunto il ruolo di parrocchia.





Il 18 luglio 1567 la chiesa fu visitata da San Carlo Borromeo, che si mise le mani tra i capelli: dalla sua relazione sappiamo come la chiesa fosse vecchia e malridotta, con il pavimento sconnesso e disseminato di numerosi sepolcri, con una volta in laterizio che copre la navata solo nella metà prospiciente il presbiterio, mentre l’altra metà è «sine coelo», cioè con le travi a vista, le pitture in cattivo stato. Essendo però la chiesa in estrema periferia, gli interventi furono solo di ordinaria manutenzione:si completò il rifacimento della volta, si aprirono un oculo sulla facciata e uno nella cappella maggiore e venne rifatta la cappella del battistero; nel 1604 i lavori erano terminati.





Anche la cripta fu rifatta e pochi anni dopo affrescata dai Fiamminghini, i fratelli Giovanni Battista e Giovanni Mauro Della Rovere, soprannominati così perché erano figli di un abitante di Anversa trasferitosi nel capoluogo lombardo. Il cognome originariamente è con molta probabilità “Roux d’Emes”, italianizzato in della Rovere. Entrambi sono pittori che coniugano l’esperienza del manierismo romano, con la sua grandiosità e il suo dinamismo, la sicurezza compositiva ed il cromatismo raffinato e ricco di cangiantismi, con la narrazione della complessità umana di Gaudenzio Ferrari. I due decorarono la cripta con un ciclo di pitture che rappresentano i Vescovi di Milano santificati con busti e ghirlande di fiori e frutti.





Anche se nel 1609 l’arcivescovo Federico Borromeo decise di traslare in Duomo le reliquie di San Calimero si dovette attendere il lascito testamentario del canonico Barbieri, del 1654 per raccogliere la somma necessaria ad effettuare i radicali lavori di restauro affidati al grande architetto barocco Richini, il quale, oltre a rafforzare la strutture, progettò una splendida facciata con portico sostenuto da colonne che dava accesso a tre portali d’ingresso.





Il Settecento lasciò il suo segno nei ricchi rivestimenti marmorei offerti dalla Confraternita del Sacramento, e nel primo Ottocento venne rifatto, in eleganti e discrete forme neoclassiche, l’altare maggiore, che resistette anche all’ultimo, totale sovvertimento subito dalla chiesa alla fine del secolo XIX ad opera dell’architetto Angelo Colla, che pretese di riportare l’edificio alla sua purezza romanica ma in realtà finì col disperdere gli interventi richiniani e i successivi citati abbellimenti.





La basilica appare oggi come un edificio in stile neoromanico, con una facciata in cotto, a capanna e sormontata da tre guglie poligonali coronate ognuna da una croce in ferro battuto. Sotto le tre grandi finestre monofore ci sono i tre portali con lunette musive. Precede il portale centrale un protiro ottocentesco poggiante su colonnine, la cui volta è decorata con un mosaico raffigurante un cielo stellato. La lunetta del portale maggiore raffigura proprio Calimero.





Nell’interno, molto semplice, sono presenti un piccolo affresco (Madonna fra due sante, XV secolo, attribuita a Cristoforo Moretti) sul lato destro del catino dell’abside, una Crocifissione del Cerano, e una Natività di Marco d’Oggiono che è però alterata da ridipinture recenti che la rendono illeggibile in più punti. Altri affreschi medievali si trovano nell’attigua sacrestia.





Usciti dalla chiesa, un portale romanico fa accedere in un lungo cortiletto, in cui si possono ammirare sul fianco della chiesa alcune lapidi sepolcrali di varie epoche. Tra tutte spicca quella del Cavalier Tempesta, al secolo Pieter Mulier, un pittore fiammingo del 1600, chiamato così perchè dipingeva soprattutto mari in tempesta e navi in balia delle onde, forse a riprova della sua inquietudine.





Nel 1666 si era trasferito a Roma con la moglie per decorare Palazzo Colonna; in quel periodo però, perse la testa per una bella ligure. Di conseguenza, non solo scappò a Genova con l’amante, ma un sicario per uccidere la moglie rimasta a Roma, ma, trapelata la cosa, fu condannato a morte, e, graziato, venne tenuto in prigione per cinque anni.





[image error]Murales in Piazza Cardinal Ferrari



Li accanto, Piazza Cardinal Ferrari è una sorta di museo della street art milanese dal 2014, grazie al progetto artistico che si chiama WallArt finaziato dall’istituto Ortopedico Gaetano Pini per festeggiare i 140 anni della sua nascita, a decidere di celebrare regalando alla città un piccolo museo a cielo aperto. Progetto che prevedva tre murales per il muro del Convento della Visitazione e i muri dell’Istituto Gaetano Pini e dell’Archivio Diocesano. A realizzare l’opera sono stati chiamati tre nomi celebri della street art milanese: Pao (Paolo Bordino), Ivan (Tresoldi) autore appunto del murale sulla facciata dell’Archivio Diocesano, un’esplosione di colori e di poesia, e il duo Orticanoodles (Walter Contipelli e Alessandra Montanari). E sono stati proprio loro a creare il murale che raffigura i volti celebri della cultura milanese. Da Alda Merini a Franca Rame, da Enzo Jannacci a Giorgio Gaber passando per Claudio Abbado, Carlo Emilio Gadda, Gian Maria Volontè.





Sono dodici, e ognuno racconta un pezzo di storia milanese. E sono accompagnati da citazioni e aforismi. Come quella di Charles Bukowsky, “Scrivere poesie non è difficile, il difficile è viverle”, oppure Friedrich Nietzsche che ci spiega come “Senza musica, la vita sarebbe un errore”. Se i personaggi milanesi sembrano quasi sobri nei loro colori della terra, i colori si sono riappropriati del muro esterno dell’ospedale Pini: qui la mano è quella di Pao, alias Paolo Bordino, celebre per i suoi “pinguini”.

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Published on September 03, 2020 12:07

September 2, 2020

I Colombari di Livia e di Augusto

[image error]Il Colombario di Livia



Pochi lo sanno, ma il termine colombario, che identifica una particolare tipologia di tomba collettiva in uso nell’antica Roma, caratterizzata da file di piccoli loculi disposte lungo le pareti destinati a contenere le urne cinerarie, fu utilizzato proprio per identificare un monumento funebre scoperto lungo l’Appia Antica: la sua prima attestazione risale infatti al 1727, quando Francesco Gori pubblicò una sua opera intitolata “Monumentum sive Columbarium Libertorum et Servorum Liviae Augustae” in seguito alla scoperta, avvenuta l’anno precedente, del colombario dei servi e liberti di Livia Drusilla, seguito, poco tempo dopo, da quello dei liberti del marito, l’imperatore Augusto. Di fatto, in tutte le iscrizioni latine, questa tipologia di sepolcro è chiamata ossarium, ossuarium, monumentum o sepulchrum, ma mai colombario.





Purtroppo, non sono rimaste tracce del Colombario di Livia: che sia stato distrutto o che, reinterrato, si sia persa memoria della sua ubicazione, come unica testimonianza della sua esistenza rimangono solo le incisioni di Pier Leone Ghezzi e Giovanni Battista Piranesi, che evidenziano un edificio quadrangolare contenente circa 500 loculi.





[image error]Colombario di Augusto



Destino migliore ha avuto il Colombario dei Liberti di Augusto, tra i più grandi di Roma e uno dei pochi a essere collocato in superficie. Questa monumento funebre si trova al numero civico ottantasette dell’Appia Antica, sul terreno dell’ex vigna Vignolini, poco oltre la Cappella di Reginald Pole, tra la chiesa del Quo Vadis e le Catacombe di San Sebastiano. La costruzione, in laterizio, era composta da tre grandi ambienti affiancati, è stato appurato che le pareti di queste tre stanze contenevano tremila nicchie, ognuna delle quali custodiva un’urna funeraria.





Sopra l’ambiente centrale vi era un quarto locale che era utilizzato per i riti funebri, a volte accompagnati da libagioni. Tutti gli ambienti, in origine, erano coperti a volte, in seguito, circa a metà dell’ambiente centrale, furono innalzati dei pilastri, paralleli all’attuale parete di fondo e terminati con archi, per sorreggere una nuova copertura, ciò avvenne in tempi più vicini a noi, ma anche questo tetto ormai non è più presente e oggi le pareti non hanno più difesa contro i fenomeni atmosferici.





Le pareti erano colme d’iscrizioni funerarie, che furono tutte rimosse, molti testi riportano come esempio quella di un certo Caesaris Lusor descritto come “Mutus argutus imitator”, in altre parole un mimo. Poco tempo dopo la sua scoperta questo Colombario fu utilizzato come cantina, si può ancora vedere un artico torchio per l’uva poggiato a una parete, in seguito la struttura divenne parte integrante di un’osteria.





Il sito nel 1796 era già censito, dallo Stato Pontificio, come Hostaria del Colombario, alla fine del XIX secolo l’osteria fu menzionata su un interessante e particolare libro: “Guida sentimentale alle Osterie d’Italia”, dove si può leggere che questa trattoria è un luogo romantico. Quest’osteria compare anche in una poesia di Gabriele D’Annunzio. I primi disegni del colombario furono eseguiti da Giovanni Battista Piranesi, ma anche Montano e luigi Canina disegnarono accuratamente questo edificio, è grazie a loro che oggi si ha un’idea abbastanza precisa del suo aspetto originario.





Nel 1982 il Colombario, abbandonato a se stesso fu comprato da Massimo Magnanimi, che lo trasformò nella trattoria “Hostaria Antica Roma”, in cui si servivano piatti cucinati secondo le ricette di Apicio, ovviamente riadattate al palato moderno.





Nel 2017, il ristorante si trasferì nei pressi del Mausoleo di Cecilia Metella; all’epoca il ministero dei Beni culturali avrebbe potuto esercitare il diritto di prelazione e acquistarlo per 240 mila euro, ma il buon Franceschini, in tutt’altre faccende affaccendato, non trovò i soldi…





[image error]Iscrizione Liberti



Poco più avanti sul lato sinistro dell’Appia Antica, si trova il nucleo di un sepolcro a torre. Di fronte ad esso, appoggiata a terra, un’iscrizione ricorda L. Valerius Baricha, L. Valerius Zabda e L. Valerius Achiba, liberti di origine ebraica della gens Valeria, probabilmente capitati a Roma a seguito delle vicende della Guerra Giudaica.





Tra l’altro, da un’altra iscrizione, trovata per caso e che ne cita le benemerenze appare come questi tre liberti non avessero nulla da invidiare, come ricchezza, al Trimalcione di Petronio; la fonte dei loro guadagni fu proprio il commercio degli schiavi…

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Published on September 02, 2020 11:34

September 1, 2020

Michelangelo contro tutti !

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Dinanzi alle pretese di Michelangelo, tutte le maestranze che lavoravano a San Pietro, invece che linciarlo, decisero di ricorrere alla resistenza passiva: semplicemente ignorarono tutte le sue richieste e proseguirono la costruzione secondo il progetto di Sangallo. Ovviamente, questo provocò una sconsiderata scenata da prima donna da parte dell’artista.


Secondo quanto racconta l’Arberino in una lettera del del 2 dicembre 1546, Michelangelo il 30 novembre si fiondò come una furia nel cantiere, interruppe i lavori in corso “verso le stale”, ossia quelli in corso nel deambulatorio settentrionale e dopo aver insultato il fiorentino Nanni di Baccio Bigio e Antonio Labacco, che dirigevano la costruzione e le loro madri in modo assai colorito e ahimè non citabile, li licenziò in tronco, allo scopo mettere “homini soi” ai quali poter ordinare volta per volta ciò che deve essere fatto.


L’obiettivo di Michelangelo era alquanto evidente: escludere ogni contrasto e opposizione al suo operato e avere mano libera nella conduzione del cantiere, gestendo così i contratti e la spartizione delle relative tangenti. Sempre per togliere un argomento ai suoi contestatori, l’artista ordinò di allontanare il modello sangallesco dalla “tribuna grande”. Toccò agli stessi falegnami che l’hanno costruito smembrarlo e trasportarlo in una delle sale ottagonali . L’ottagono in cui fu ricomposto il modello, quello di San Basilio sopra la volta a rosoni verso Palazzo, doveva essere un ambiente molto umido poiché la copertura non era stata ancora realizzata e mancavano le strutture che lo contornano per cinque degli otto lati. Ora il fatto che tale modello ligneo, nonostante questo, sia giunto sino ad oggi, testimonia sia l’ottimo lavoro compiuto da Labacco, sia come i tanti criticati 5000 scudi, furono ben spesi.


Ovviamente, il comportamento di Michelangelo, oltre che uno sciopero generale da parte delle maestranze, provocò una levata di scudi da parte dei membri della Fabbrica di San Pietro, che lo convocarono per un liscio e busso L’1 dicembre 1546; l’artista però se ne fotté altamente, dichiarando di non voler discutere di San Pietro con nessun altro che con il papa.


Così, i rappresentanti sindacali e quelli della Fabbrica si presentarono in massa a protestare da Paolo III, che per mettere pace, ordinò a Michelangelo di interrompere le epurazioni e di presentare un nuovo modello ligneo, per dare evidenza delle sue idee e trovare un compromesso con le controparti.


Modello ligneo che ahimè non ci è giunto: una vaga idea l’abbiamo dall’affresco che Domenico Cresti da Passignano dipinse per decorare la galleria della Casa Buonarroti a Firenze, commissionato da Michelangelo Buonarroti il Giovane, pronipote dall’artista e commediografo. Il modello ligneo rappresentato non è certo l’originale, dato che appaiono tutte le integrazione e modifiche volute da Della Porta.


Compromesso che si raggiunse a fatica il 25 dicembre 1546, dove per ordine del Papa, fu nominato come Primo Architetto il Meleghino, ex collaboratore di Sangallo e come Secondo Architetto lo spagnolo Giovan Battista de Alfonsiis da Toledo, grande amico di Michelangelo. Anche se sappiamo poco della formazione di Giovanni Battista, sappiamo come fosse incorruttibile, per quanto possibile mise un freno alle ruberie di Buonarroti, un ottimo organizzatore, riuscì a farsi apprezzare anche dalle litigiose manovalanze del cantiere vaticano, un ottimo tecnico, dato che parte della basilica si regge in piedi per merito suo, e uomo dalla grande pazienza e capacità diplomatiche.


Dopo essere sopravvissuto al caratteraccio e alle follie di Michelangelo, Giovanni Battista dovette sopportare quell’altro psicopatico di Filippo II, che lo incaricò del progetto del Prado e dell’Escorial.


Questo compromesso, nato per non scaldare ulteriormente gli animi, però ha un ruolo fondamentale nella Storia dell’Architettura, imponendo la separazione tra ruolo progettuale e quello esecutivo. Michelangelo è il creatore, esterno ai quadri operativi della Fabbrica e incontestabile. Il Primo e il Secondo Architetto non hanno più voce in capitolo sul progetto e fungono da Direttori dei Lavori. I Soprastanti coordinano le manovalanze e la loro attività quotidiana. Il depositario gestisce le cassa, la fatturazione attiva e quella passiva.


Il 25 febbraio 1547 Michelangelo, intervenuto su ordine di Paolo III alla riunione della Fabbrica di San Pietro, riversò i deputati la sua collera:


“non voglio che si gli habbino da fare nella fabrica tanti inganni et robbarie, che intendo che il medesmo che è venditore di tevertine, è quello che fa il patto”


che tolto il velo di ipocrisia, significava imporre nel cantiere i fornitori che lo avevano a libro paga. I deputati, ovviamente, risposero per le rime, ribaltando l’accusa di ruberia allo stesso Michelangelo. Qualcuno tentò addirittura di alzare le mani sull’artista. Così, sempre per calmare la acque, Paolo III sospese il licenziamento Nanni di Baccio Bigio, ordinando però di


“secondare [Michelangelo] et andargli con qualche morbidezza per la sua virtù rara”.


Decisiva per la vittoria di Michelangelo sulla Fabbrica di San Pietro fu l’udienza dell’11 marzo 1547, descritta nella lettera scritta il 27 marzo 1547 da Arborino e Massimi ad Archinto, allora a Bologna sempre per i lavori del Concilio di Trento. Dopo un’attesa di tre ore, Paolo III ricette a Castel Sant’Angelo i rappresentanti della Fabbrica, Michelangelo, Meleghino, Giovan Battista de Alfonsiis e Pier Vincenzo Casellio, che portava con sé il progetto di Sangallo.


Il Papa, stanco di tutte queste dispute, che stavano rallentando la costruzione, decise di schierarsi senza se e senza ma con Michelangelo: cominciò l’udienza lodando le sue “rare virtù” artistiche e ribadì il fatto che in San Pietro non si dovesse fare nulla, se non dietro esplicito ordine dell’artista. Alla protesta dei rappresentanti della Fabbrica, che ribadirono come sino ad allora si fosse capito ben poco di cosa Michelangelo avesse in testa, Paolo III rispose che lui lo aveva invece ben chiaro, avendogli in fiorentino mostrato il progetto e di questo


“noi ce satisfaciamo et ce contentiamo”


Per cui, i rappresentanti della Fabbrica si sarebbero dovuti fare gli affaracci loro; questi però, sempre più irritati, accusarono Michelangelo di voler variare il progetto di Sangallo, denunciando che i


“vole disfare in parte quello che è fatto in San Pietro”


nonostante la precedente decisione del papa di non


“alterare né disfare il fatto”


in alcun modo. Così tirarono fuori il loro asso nella manica: in qualche modo, anche loro tirano fuori una copia del famigerato progetto michelangiolesco, rimediato chissà come. Confrontandolo con quello del Sangallo, evidenziarono come Michelangelo volesse demolire due terzi di quanto previsto anche da Bramante, l’avancorpo e tutti i deambulatori, e già in parte costruito, cosicché oltre alla “diminutione” di San Pietro, ridotto a un “piccolo tempio”, si butterebbero via più di centomila scudi di opere già fatte.


Diciamola tutta: non è che i deputati avessero tutto questo torto: ai tempi di Maderno, anche se in forme differenti, fu di nuovo ricostruito quanto previsto da Sangallo. Ma dato che del senno di poi son piene le fosse, Paolo III ribatté che sarebbe valso pena buttare centomila scudi per risparmiarne trecentomila e vedere la chiesa finita in tempi plausibili.


Dato il pubblico appoggio del Papa, Michelangelo, dopo avere minacciato di cacciare tutti, prese così possesso del cantiere. Il suo obiettivo successivo fu fare licenziare Nanni di Baccio, il quale controllando i conti del cantiere, avrebbe potuto obiettare alle eventuali ruberie michelangiolesche; tanto fece l’artista, che l’8 giugno 1547, Nanni fu cacciato a pedate.


Tuttavia, questo non bloccò l’atteggiamento ostile della Fabbrica di San Pietro, i cui deputati lo boicottarono in ogni modo, e delle manovalanza, sempre pronta a scioperare. Come racconta Vasari


“Era stato Michelagnolo anni 17 nella fabbrica di San Pietro, e più volte i deputati l’avevon voluto levare da quel governo”


L’11 ottobre 1549 Paolo III emanò un motu proprio dove approvava a prescindere tutte le scelte di Michelangelo, ordinando di attenersi rigidamente a questo; nominò l’artista


“capo di quella fabbrica con ogni autorità, e che è potessi fare e disfare quel che v’era, crescere e scemare e variare a suo piacimento ogni cosa; e volse che il governo de’ ministri tutti dipendessino dalla volontà sua”


Michelangelo ottenne, per farsi buona pubblicità, che nel motu proprio fosse dichiarato che servisse il cantiere di San Pietro “per l’amor de Dio” e senza ricevere alcun compenso: il che, in fondo, era vero, visto che il denaro lo otteneva dalle tangenti.


Per bloccare le manovre della Fabbrica, Michelangelo adottò una triplice strategia: per prima cosa, non redasse mai un progetto definito in ogni dettaglio, come Sangallo, ma presentò modelli incompleti e disegni sommari, che furono precisati con il progredire dei lavori. In tal modo l’artista si rese indispensabile al cantiere ed ebbe la possibilità di modificare sino all’ultimo le proprie idee


Poi, fece avanzare i lavori a tal punto e in tali parti della basilica da renderne impossibile la modifica da parte dei suoi successori Infine, si avvalse di uomini di sua fiducia a cui poté dare istruzioni volta per volta, così da non dover informare i deputati delle proprie scelte e essere l’unico responsabile dei lavori.

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Published on September 01, 2020 12:04

August 31, 2020

Pirro (Parte IX)

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Per sua fortuna, Pirro, con la vittoria di Eraclea, ottenne in parte l’obiettivo politico che si era proposto, ossia la creazione di un comune fronte anti romano in Sud Italia, che gli facilitasse sia l’approvvigionamento, sia l’arruolamento di nuovi mercenari, da impiegare nella futura campagna siciliana.


Rinforzi lucani e sannitici si unirono all’esercito di Pirro, i Bruzi si ribellarono all’Urbe e buona parte delle città della Magna Grecia si allearono con il sovrano epirota: Locri scacciò la guarnigione romana, imitata poco dopo da Crotone.


L’unica eccezione fu Rhegion, filo romana, dove però ne successero di tutti i colori: il pretore campano Decio Vibellio, che comandava la guarnigione cittadina, massacrò una parte degli abitanti, cacciò i restanti e si proclamò amministratore della città, creandosi di fatto un regno autonomo. Subito dopo, Decio si alleò con i Mamertini di Messana ed ai Tauriani di Mamertion, creando una sorta di “Stato mercenario osco dello Stretto”.


Poi, con il massimo della faccia tosta, Decio cominciò a mercanteggiare tra Roma e Pirro, promettendo di schierarsi con gli avesse offerto di più: ovviamente, l’Epirota, che aveva necessità di controllare Rhegion per passare in Sicilia, fu assai più parco in promesse del Senato. Per cui, nonostante quanto avesse combinato, Decio fu riconosciuto come alleato dai Romani, incominciando a combattere una sorta di guerra parallela contro gli epiroti, allo scopo di tutelare i suoi interessi e arraffare più territori possibili in Calabria.


Decio e i suoi soldati campani respinsero persino un attacco alle mura di Rhegion sferrato da parte dell’esercito di Pirro, conclusosi solo con l’incendio del legname per costruzione navali ammucchiato fuori dalle porte. Poi conquistarono Kaulonia, governandola sotto il presunto nome di Roma. Infine, forse una strana emissione calabrese (con testa di Apollo/tripode e leggenda che rimanda a Mystia ed a Hyporon) si deve leggere nel quadro della guerra contro Pirro, nel senso della temporanea occupazione di Decio dei centri di Mystia, presso Kaulonia, e Hyporon, presso Capo Spartivento.


L’avventuriero campano,però, fece una pessima fine: colpito da una malattia agli occhi, e temendo di essere curato da un medico di Rhegion, Decio si rivolse ad un luminare di Messana, senza sapere che si trattava di un reggino emigrato, che, ricordandosi la sua origine ed i torti patiti dai concittadini, lo uccise a tradimento.


Per sfruttare al meglio il momento favorevole, Pirro decise di trovare un accordo con Roma, al fine di delimitare le sfere d’influenza in Magna Grecia: per questo spedì un’ambasciata, guidata da Cinea, per dettare le condizioni di pace e restituire i prigionieri catturati al termine della battaglia. Il povero Cinea, invece di trovarsi davanti un interlocutore unico, con cui trovare un compromesso, dovette invece confrontarsi con una litigiosa assemblea, suddivisa in tre grossi partiti: gli anticeltici, convinti che la vocazione di Roma fosse espandersi e colonizzare la Gallia Cisalpina e che quindi, la guerra con Pirro non fosse che un inutile spreco di tempo e di risorse, i centristi, favorevoli a un compromesso, che però tutelasse gli interessi, soprattutto economici, romani in Magna Grecia e i filo campani, che anche per loro interessi personali, non avrebbero ceduto un’unghia dell’espansione romana verso Sud.


I filo campani avevano poi, a differenza degli altri partiti, un leader carismatico, Appio Claudio Cieco, che con la sua retorica, riuscì a condizionare il voto del Senato: la sua orazione terminò con


Se Pirro vuole la pace e l’amicizia dei Romani, prima si ritiri dall’Italia e poi mandi i suoi ambasciatori. Fintanto che rimarrà non sarà considerato né amico né alleato, né giudice o arbitro dei Romani.


Avendo il Senato consapevolezza delle perdite subite da Pirro e delle sue difficoltà a ripianarle, diede ordine, per impressionarlo, di arruolare alla presenza dello stesso Cinea, l’arruolamento di due nuove legioni, affidate ancora a Levino, al fine di rimpiazzare i caduti in battaglia. L’obiettivo era o di costringere il re epirota a ritirarsi oppure a concedere condizioni più favorevoli ai romani. L’ambasciatore, sconvolto nel vedere quanti fossero i volontari per questa nuova chiamata alle armi, tornato da Pirro esclamò:


Stiamo combattendo una guerra contro un’Idra


Poi, evidentemente, raccontò delle divisioni politiche romane: Pirro quindi si pose l’obiettivo di screditare partito filo campano e costringere, con la paura, le altre fazioni a imporgli un compromesso. Per questo, concepì un piano audace, un’azione Shock and Awe, con l’intento i applicare una precisa, chirurgica quantità di potenza strettamente focalizzato per raggiungere la massima influenza con il minimo costo.


Sfruttando al meglio la finestra di opportunità, con Levino sostava a Venosa, impegnato ad assicurare le cure ai feriti e a riorganizzare l’esercito in attesa di rinforzi e Coruncanio impegnato a guerreggiare in Etruria, Pirro organizzò la sua marcia su Roma, allo scopo di terrorizzare gli avversari, spingendoli alla pace. A questa azione militare, associò la richiesta di restituzione ai Sanniti e agli Etruschi dei territori perduti in guerra, in modo da convincerli a schierarsi al loro fianco.


Durante l’avanzata deviò su Napoli, in cui erano concentrati gli interessi economici del partito filo campano, in modo da spaventare la cricca di Appio Claudio Cieco: ciò diede tempo a Levino di schierarsi a Capua, pronto a dare battaglia. Pirro, invece di accettare la sfida, continuò imperterrito ad avanzare verso Roma, devastando la zona del Liri e di Fregellae, giungendo sino a Preneste.


Qui sorsero due grossi problemi: il primo, la mancanza di adeguate artiglierie di assedio, che avrebbe reso vana la sua minaccia. Il secondo, che gli Etruschi, dopo un mercanteggiare indegno, avevano ottenuto favorevoli condizioni di pace da parte di Roma; per cui Coruncanio potette marciare verso sud.


Consapevole di non disporre di forze sufficienti per affrontare le armate riunite di Coruncanio, Levino e Barbula, che comandava le legioni appena arruolate, Pirro decise di ritirarsi e far ritorno in Campania, dove ripartì le forze nelle varie città in attesa dell’inverno; in questo modo sottolineò anche i limiti territoriali che egli stesso aveva fissato per la sua azione, confinandola alla sola Italia meridionale.


Però, nonostante la successiva propaganda romana, l’azione epirota aveva raggiunto il suo obiettivo: i filo campani erano stati isolati e le fazioni favorevoli all’accordo avevano prevalso, spedendo come ambasciatore presso Pirro Gaio Fabricio Luscino.


Un accordo, sulla spartizione delle sfere d’influenza, restituzione dei prigionieri e difesa degli interessi economici romani dovette essere abbozzato: ma i filo campani ebbero un’inaspettato aiuto da parte dei cartaginesi. Più a lungo Pirro fosse stato trattenuto dai romani in Italia, più tempo avrebbero avuto per prepararsi a fronteggiarlo in Sicilia.


Così i cartaginesi inondarono i filo campani d’oro: una buona parte finì nelle loro tasche, la rimanente servì a corrompere i senatori, per renderli favorevoli al continuare la guerra. Il solito Cinea, che era stato spedito per chiudere le trattative, accompagnato, a dimostrazione della buona volontà epirota, da soldati romani fatti prigionieri nella battaglia di Eraclea, che sarebbero stati restituiti senza riscatto, si vide rispondere picche.


In più, su proposta di Appio Claudio Cieco, il Senato considerò i prigionieri romani “infami”, poiché erano stati catturati con le armi in pugno, e perciò allontanati. Questi ultimi avrebbero potuto essere reintegrati nello Stato romano solo nel caso in cui ciascuno di loro avesse consegnato le spoglie di due nemici uccisi.


Pirro, a questo punto, si trovava in seria difficoltà per gli approvvigionamenti: riceverli via mare dall’Epiro era troppo dispendioso. Prelevarli in loco dagli alleati italici gli avrebbe alienato la loro benevolenza e fatti tornare nel campo romano. Per cui, il re epirota decise di passare dalla carota al bastone. Roma venne minacciata di occupazione se non avesse ritirato il suo esercito al di qua del fiume Garigliano e non avesse smesso di compiere azioni belliche e messo un freno ai campani di Reggio. Appio Claudio, però, convinto che l’azione precedente di Pirro fosse poco più di un bluff, chiuse ogni rimanente possibilità di trattativa.


A Pirro, così, non rimaneva che cercare uno scontro decisivo che obbligasse Roma a piegarsi.

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Published on August 31, 2020 11:43

August 30, 2020

Il Coro dei Canonici di Atri

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La cattedrale di Atri, nel coro dei Canonici dipinto da Andrea de Litio, custodisce uno dei gioelli di quello che Longhi chiamava “Rinascimento umbratile”: una serie sperimentazioni e dialoghi tra diverse culture figurative, che, trovandosi in aree marginali in un’ottica toscano centrica, sono state per lungo tempo sottovalutate.


Andrea, pur lavorando essenzialmente in Abruzzo, tra l’Aquila che, all’epoca, per il ruolo fondamentale nel commercio dello zafferano, era tutt’altro che periferia economica e sociale, e la corte degli Acquaviva, tra le ricche e potenti del Regno di Napoli. La sua stessa formazione, diciamola tutta, avrebbe fatto invidia a tanti suoi colleghi fiorentini dell’epoca: a bottega del maestro gotico del trittico di Beffi, legato alla cerchia di Gentile da Fabriano, adolescente, se ne partì per Firenze, dove entrò per un breve periodo nella bottega di Masolino da Panicale.


Intorno al 1440 andò a lavorare come miniatore alla corte di Mantova, dove conobbe Pisanello e Jacopo Bellini, per poi a Ferrara, dove, se l’attribuzione dell’Adorazione dei Magi di Rotterdam fosse confermata, lavorò con Galasso Galassi, il maestro di Cosmé Tura, per poi andare a Venezia, dove vi abitavano alcuni parenti e lavorava il suo vecchio maestro Masolino; in quell’occasione approfondì lo studio dell’arte locale.


Nel 1443 è nella Roma di Martino V, mentre nel 1452 si trasferisce a Firenze, per una sorta di aggiornamento sulle novità toscane presso la bottega di Beato Angelico: tornato ad Atri un anno dopo, alternerà la sua permanenza in Abruzzo con soggiorni a Napoli, per collaborare al cantiere dell’Arco Trionfale di Castel Nuovo e approfondire le novità della pittura fiamminga.


Andrea lavorerà a più riprese al ciclo della Cattedrale d’Atri, costituito da 101 pannelli, cosa che lo rende tra i cicli di affreschi più grandi dell’Abruzzo. Dopo aver conosciuto il loro momento di gloria, gli affreschi del coro caddero nell’oblio e di essi non si conoscevano più l’autore e la datazione. Questa situazione durò fino a quando, nel 1897, lo storico atriano Luigi Sorricchio attribuì per la prima volta questa grande opera ad Andrea De Litio, facendo tornare l’interesse su questi affreschi, peraltro già restaurati nel 1824 ad opera del vescovo Ricciardone che lisalvò dalle infiltrazioni d’acqua. L’attribuzione del Sorricchio fu confermata negli anni quaranta-cinquanta da storici quali Federico Zeri e Ferdinando Bologna.


Gli affreschi si articolano in più parti: sulle tre pareti del coro (di cui quella di fondo la più grande) vi sono le scene della Vita di Maria, che racconta la vita della Madonna; sulle colonne alcune raffigurazioni di santi; sull’arco trionfale e su quelli piccoli laterali altre raffigurazioni di santi; sulla volta gli Evangelisti, i Dottori della Chiesa e le Virtù Cardinali e Teologali Furono realizzati in due fasi: tra il 1460 e il 1470 furono eseguite la Vita di Maria, i santi sulle colonne (anche se questi forse di qualche anno più tardi, intorno al 1475) e quelli sugli archi, mentre tra il 1480 e il 1481 fu eseguita la decorazione della volta.


Ovviamente, ciò è visibile a livello di evoluzione dello stile, con una sempre maggiore padronanza della prospettiva e un’attenzione fiamminga ai dettagli della vita quotidiana: ma tutti gli affreschi sono caratterizzati da un gusto narrativo ricco di estro, attento alle realtà della vita quotidiana e alla resa dei più immediati sentimenti umani.


La stessa prospettiva non serve per costruire una gabbia spaziale, posta al di là del Tempo, ma supporta e rende più serrato il racconto, costruendo il montaggio di scene differenti: se dovessimo paragonare il ciclo di Atri a un film contemporaneo, questo sarebbe il Vangelo secondo Matteo di Pasolini. I paesaggio sono quelli aspri dei calanchi appenninici e le scene urbane sono ambientate in un Atri più o meno trasfigurata dal pittore, immersa nelle attività del tempo. Ad esempio, nella Natività appare come il centro fortificato sullo sfondo, fronteggiato dall’altura dove si trovano due impiccati, il Colle della Giustizia perché luogo delle esecuzioni capitali; nell’Incontro di Anna e Gioacchino alla Porta Aurea il pittore sembra aver voluto rappresentare uno degli accessi urbani con accanto gli archi di una fontana, come era tipico di tutte le porte della cittadina.


In più, ogni scena fa riferimento, come usi e costumi alla quotidianità del suo tempo, alle abitudini e alle superstizioni: ad esempio, nella scena della nascita della Vergine, dominata da un ampio camino, è presente una strega, fantomatica figura della tradizione abruzzese, qui rappresentata come una vecchietta che sta lisciando un gatto: la strega pronuncia il suo “malaugurio”, ma nessuno ci fa troppo casa e anzi una ragazza dall’altra parte del letto ride a sentire quelle parole.


E soprattutto, ciò che rende ancora più vive quelle storie è la grande diversità di tipi umani presenti, un intero ritratto collettivo degli abitanti di Atri dell’epoca. Il messaggio di Andrea, condiviso anche dai committenti, il vescovo e il duca, che si fanno ritrarre senza problemi: il messaggio evangelico non era qualcosa di remoto e lontano, ma un’esperienza concreta, da vivere assieme ogni giorno.

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Published on August 30, 2020 08:18

August 29, 2020

La cappella di Nostra Signora della Soledad

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Sull’originaria chiesa di San Demetrio in Piazza della Vittoria o come si diceva prima, Piano del Regio Palazzo, adiacente al trecentesco palazzo Sclafani, si sa purtroppo poco. Dal Mongitore e dal Cannizzaro si sa che “appartenne ai Greci e non senza fondamento, poiché il santo a cui fin dal principio fu dedicata la Chiesa è greco e dai Greci tenuto in somma venerazione, proprio del ceto dei sellai e facitori dei finimenti di cavalli“.


Il che è abbastanza ovvio: Demetrio di Tessalonica, sulla cui vita si alquanto poco, è considerato dalla chiesa ortodossa un megalomartire, come San Giorgio, ed è considerato un ed è considerato un santo miroblita, ossia uno le cui reliquie emettono un profumo di fiori e un olio miracoloso; benché dalla tarda “passio” risulti essere un diacono, l’averlo messo in coppia con Giorgio, lo fece rappresentare sempre nell’iconografia come un soldato.


Il fatto poi che Gaspare Palermo ne documenti il primitivo impianto basilicale a tre navate, diviso da sei colonne e caratterizzato da otto archi, fa pensare a una fondazione di epoca normanna: per cui, probabilmente affidata ai monaci basiliani, fungeva da parrocchia per i dignitari di lingua greca della corte degli Altavilla.


La vicinanza a Palazzo Sclifani, che nel 1430 divenne l’ospedale centrale di Palermo, salvò la chiesa dal relativo abbandono: sappiamo come nel 1439, la manutenzione della chiesa fosse finanziata della corporazione dei pescatori dediti alla pesca e alla trasformazione dei tonni.


Il 27 Maggio 1580 arrivano a Palermo “I Padri dell’Ordine della Trinità” al fine di fondare un convento. L’Arcivescovo di Palermo Cesare Marullo accorda loro la licenza di fondarlo nella Chiesa di Santa Lucia al Borgo. Chiesa, quella di Santa Lucia, distrutta a seguito dei bombardamenti anglo americani della Seconda Guerra Mondiale, che era ubicata sul confluire dell’attuale Corso Scinà nel Piano dell’Ucciardone e risultavano ai margini della zona popolata appena fuori Porta San Giorgio, che all’epoca era l’estrema periferia cittadina. La costruzione di Borgo Vecchio, infatti, voluta da Carlo d’Aragona Tagliavia, Principe di Castelvetrano, presidente del Regno, Viceré di Sicilia, era appena iniziata, tanto che i primi edifici, ancora incompleti, furono usati come lazzaretti per le grande peste del 1575.


I Trinitari, ovviamente, non tanto contenti della sistemazione, tanto che ruppero così le scatole al viceré e all’arcivescovo, che ottennero nel 1589 di trasferirsi a San Demetrio. All’epoca, come raccontato in un altro posto, l’area era sede dei quartieri militari spagnoli preposti alla difesa del Palazzo Reale: i frati, da buoni politici, per arruffianarsi i vicini, convincerli ad andare a messa da loro e offrire abbondanti elemosine, posero sul muro meridionale della chiesa bassorilievo marmoreo raffigurante la Madonna genuflessa in atto d’adorazione ai piedi della Santa Croce denominata Madonna della Soledad, di cui vi era enorme devozione nella Penisola Iberica.


Sempre in quest’ottica, nel 1590 fecero costruire all’interno della chiesa la Real Cappella della Soledad, patrocinata dai dignitari al servizio della corte spagnola del viceré di Sicilia Diego Enriquez Guzman, conte di Alba de Lista. L’anno seguente è documentata la presenza di dodici fosse davanti al prospetto dell’edificio, manufatti sotterranei destinati all’immagazzinamento del grano.


Nello stesso anno il Venerdì Santo, i frati organizzavano una processione dei Misteri della Passione di Gesù Cristo, durante la quale molti si flagellavano a sangue, come succede ancora oggi in diverse località spagnole.


Tutto questo, che doveva essere a uso e consumo dei soldati spagnoli, ottenne un inaspettato successo anche tra i palermitani: l’anno seguente in tanti accompagnarono con torce accese i “Disciplinantes”, così chiamati perchè camminavano con abiti bianchi e visiere calate per non essere riconosciuti “para ganar las gracias solamente con Dios y su bendita Madre N.S. de la Soledad”.


Così cominciò a diffondersi l’uso, tra le varie confraternite palermitane, delle straordinarie processione del Venerdì Santo, tanto spettacolari, quanto poco valorizzate a livello turistico: a titolo di curiosità, l’arcivescovo Giannettino Doria, l’inventore del culto di Santa Rosalia, nel 1610 proclamò che per i giorni di Giovedì e Venerdì santo quando Gesù Cristo riposava sottoterra nessuno a Palermo dovesse circolare con ruote, ovvero con carrozze e carrozzelle e doveva esserci il massimo silenzio. Questo proclama durò fino al 1892 e nei giornali di allora, quando iniziarono a circolare i primi tram e per la città facevano un particolare rumore, appaiono numerosi articoli di protesta sulla violazione di tale bando. A quei tempi chi assisteva ad una processione molto spesso andava con abito nero fregiato a lutto, in alcune case si coprivano addirittura gli specchi perchè sembrava oltraggioso guardarsi e infine non si gettava acqua nei pavimenti.


Proprio per essere una sorta di “chiesa nazionale”, la cappella della Soledad ottenne molte più attenzioni della chiesa di San Demetrio che la custodiva: nel 1679 la cappella fu interessata da lavori di abbellimento intrapresi sotto la guida del celebre architetto gesuita Paolo Amato che aggiunse tre scenografiche arcate separate da due colonne nella zona presbiterale.


Lo stesso Amato fornì i disegni per la decorazione a stucco che fu realizzata da Andrea Surfarello, uno dei più capaci assistenti del Serpotta. Nel secolo successivo è stata ulteriormente abbellita e rifinita e il seicentesco rivestimento marmoreo parietale fu in parte sostituito da marmi mischi disegnati dal buon Giuseppe Venanzio Marvuglia a cui si deve anche la riconfigurazione planimetrica della cappella. Per nostra fortuna, il buon Giuseppe, evitò per una volta di prendere qualcuna delle sue strambe iniziative, rispettando la struttura originale della cappella.


Il tre maggio 1732 Carlo VI la pose sotto la propria reale protezione e dichiarata Imperiale, nel tentativo di guadagnare alla causa austriaca i sudditi filospagnoli.


Non solo la casa Reale Spagnola, ma anche quella Italiana patrocinò tale cappella: in particolare, le regine di casa Savoia donarono i manti che vestono la statua dell’Addolorata che viene portata in processione di Venerdì Santo: quello di Maria Cristina di Savoia rubato nel 1866, fu sostituito nel 1895 da quello di Margherita di Savoia.


Purtroppo, la chiesa di San Demetrio, fu bombardata nel 1943 e poi demolita anche se le foto d’epoca dimostrano che si sarebbe potuta salvare, essendo ridotta meno peggio di tante alte chiese palermitane dell’epoca. Anche la cappella della Soledad che si trovava all’inizio della navata di destra subì alcuni danni ma per fortuna venne risparmiata dalla demolizione. Oggi al posto della chiesa di S. Demetrio è stato realizzato un salone ad uso della Cattedrale, si osservano ancora alcune colonne dell’edificio riutilizzate. La cappella venne restaurata dai danni subiti dai bombardamenti a spese della nazione spagnola e il restauro venne completato nel 1957 anno in cui venne inaugurata dal Cardinale Ernesto Ruffini; oggi è affidata alla cura delle suore Teresiane. Successivamente, nel 2007, è stata restaurata la facciata: tutto, come i restauri precedenti, a totale carico dell’Ambasciata di Spagna in Italia che tutt’oggi ne conserva il patronato.


Cosa ammirare della Soledad, le rare volte che è visitabile? Si accede alla cappella attraversando un piccolo cortile-sagrato dove si trova un elegante portale in marmo dove campeggia lo stemma reale, con un cancello in ferro battuto elegantemente lavorato che un tempo la separava dalla navata della chiesa di San Demetrio.


Entrando vi si trovano lateralmente i busti con le rispettive iscrizioni di Don Martino de Pinedo e di Andrea de Salazar. L’”anticappella” progettata dal Marvuglia in stile neoclassico, precede la cappella vera e propria, un’autentica macchina scenica barocca, piena di simboli, riccamente decorata a marmi mischi di squisita fattura dove trovano posto una serie di pitture situati entro raffinate cornici in stucco che propongono scene ispirate alla passione di Cristo del pittore catanese Olivio Sozzi: nella parete di destra troviamo ”l’Agonia di Gesù nell’orto degli ulivi” mentre nella parete si sinistra si trova la “Crocifissione”, ai lati dell’altare troviamo la “Lavanda dei piedi” a sinistra e “l’Ultima cena” a destra.


L’altare, tutto in marmo con bassorilievi dorati, ospita, dentro una nicchia realizzata in raffinati marmi mischi, la veneratissima cinquecentesca statua lignea di provenienza iberica della Madonna della Soledad. Il pavimento è interamente occupato da lapidi sepolcrali di nobili famiglie spagnole.


Oltre alla straordinaria processione del Venerdì Santo, il periodo antecedente la Settimana Santa è preceduto da A Scinnuta rAddulurata, un rito risalente al 1600. Nel sesto venerdì di Quaresima, la veneratissima Sacra Immagine della Vergine SS. Addolorata de la Soledad, accompagnata dalla banda musicale, era spostata dalla sua Cappella al centro della chiesa, (A Scinnuta – discesa), dove veniva celebrato la Santa Messa, mentre prima e dopo la funzione religiosa la banda musicale intonava all’esterno della chiesa alcune tipiche marce, offrendo un gustoso anticipo dei Sacri riti della Settimana Santa Palermitana. Dalla Relazione del Governatore della Compagnia del Preziosissimo Sangue e Misteri della Passione di Christo Signor Nostro del 1653 si evince che sicuramente in quell’anno avevano luoghi tali riti.


In occasione della scinnuta, la piazza antistante la Real Cappella de la Soledad, all’interno della Chiesa di San Demetrio della SS. Trinità, era stracolma di gente che impaziente attendeva il riecheggiare delle note musicali eseguite dalla banda, che intona le tipiche marce della Settimana Santa, le prime notizie di questa celebrazioni risalgono al 1653. Interrotta, a causa del secondo conflitto mondiale, a scinnuta rAddulurata non fu più ripristinata, per i gravi danni subiti alla Chiesa e alla cappella, e per il trasferimento della Confraternita in via Formaggi finendo così l’antica tradizione ru venniri ra scinnuta (venerdì di discesa). Rito che però è stato ripristinato in occasione del Giubileo del 2000.

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Published on August 29, 2020 06:07

August 28, 2020

Le cave di Cusa

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La visita a Selinunte non può considerarsi conclusa senza una visita alle Cave di Cusa, il cui parco è intitolato all’archeologo Vincenzo Tusa, che si raggiungono percorrendo la SS 115 in direzione sud, superata la zona vinicola, verso Campobello di Mazara.


Cave, il cui nome fa riferimento ad un vecchio proprietario dell’area, il barone Cusa e che nell’antichità erano note come come Ramuxara o Damus-ara (cava calda), che si presentano ancora oggi come delle cave a cielo aperto, totalmente immerse nel verde di colture intensive e che furono utilizzate per la costruzione dei templi di quell’antica colonia greca.


Le cave sono costituite da un grosso banco di calcarenite (un tufo compatto e resistente, particolarmente adatto alla costruzione) che si estende per circa due chilometri, da est a ovest, lungo un pianoro vicino la costa e che distano da Selinunte tredici chilometri, una distanza irrisoria oggi che disponiamo di moderni mezzi di locomozione veloci e robusti, ma non ai tempi quando si usavano carri, buoi e schiavi.


Eppure gli ingegneri e architetti della città greca le scelsero perché erano il punto più vicino dove il banco di calcarenite si mostrava compatto e massiccio a tal punto da poter staccare elementi di grosse dimensioni, come quelli utilizzati per il tempio G.


I blocchi più piccoli invece, venivano estratti da cave molto più vicine alla cittadella, come quelle sui pendii di Manuzza e, appena quattro chilometri più a nord, presso il vecchio e disabitato podere Baglio Cusa, le ‘Cave di Barone’.Da più lontano invece, dalle cave Misilbesi a Menfi, arrivavano i blocchi per la realizzazione delle sculture e gli ornamenti dei templi. Per fare un confronto, complessivamente furono estratti circa 150.000 metri cubi di pietra dalle cave di Cusa e 54.000 dalle Cave di Barone.


La calcarenite venne estratta per più di 150 anni, a partire dalla prima metà del VI sec. a.C. fino alla sconfitta dei greci da parte dei cartaginesi nel 409 a.C. In quell’occasione la cava fu abbandonata in fretta e furia dagli scalpellini e dagli operai addetti e così anche le abitazioni di questi ultimi, che temevano qualche rappresaglia dei cartaginesi. L’interruzione improvvisa dei lavori ci permette oggi di ricostruire tutte le fasi di lavorazione con estrema precisione.


L’interno dell’area archeologica è costellata da grandi massi cilindrici sparsi sul terreno o ancora da estrarre. Alcuni rocchi sono completamente scavati, pronti per essere trasportati, altri appena accennati, altri in viaggio per Selinunte furono abbandonati per strada.I Cartaginesi non ne ebbero più bisogno data la modestia delle loro realizzazioni architettoniche, utilizzando invece, la stessa Selinunte per prelevare materiale da costruzione. Il considerevole numero dei blocchi permette di stabilire che le persone impegnate nelle cave erano circa 150.


E’ possibile riconoscere anche qualche capitello, massi cilindrici con la base quadrata, che nella parte superiore presenta dodici cunei che servivano per ricavare l’echino (utilizzato nel capitello, costituisce una sorta di cuscino sotto l’abaco). Qua e la si possono ammirare anche abbozzi di colonne gigantesche che sicuramente erano destinate al Tempio G.


L’estrazione dei blocchi veniva praticata da schiavi che ricevevano in cambio solo cibo e vestiti. I gruppi di lavoro erano due: i Leukorgol (scalpellini occupati nel cantiere di costruzione) ed i Latomoi (scalpellini che lavoravano nelle cave).


La tecnica di estrazione era lunga e complessa. Per iniziare si tracciava la circonferenza o il perimetro del pezzo da estrarre, poi si tracciava un secondo solco più esterno profondo circa mezzo metro chiamato canale di frantumazione. Il cordolo di pietra rimasto tra i due canali doveva poi essere eliminato.L’operazione proseguiva fino a quando il tamburo non aveva raggiunto l’altezza desiderata, dopo di che si procedeva alla sua estrazione, distaccandolo dal fondo roccioso con l’aiuto di cunei di legno che si facevano rigonfiare con l’acqua. L’estrazione avveniva mediante argani o facendo scivolare il blocco su piani inclinati, eliminando prima la parte anteriore dello scavo.Ancora oggi è possibile notare alcuni solchi a forma di U nei blocchi, dovuti alle corde che servivano per sollevarli, oppure buchi quadrati alle due estremità dove venivano fissati i perni per facilitare lo spostamento e la messa in posa.


Il metodo di trasporto fu elaborato da Chersifone, architetto di Cnosso (Creta) e successivamente perfezionato da suo figlio Metagene. I rocchi di forma circolare venivano trasportati per rotolamento, quelli squadrati, invece, venivano rivestiti con un’intelaiatura di legno per agevolarne il trasporto ed evitarne il danneggiamento. Al centro delle due superfici di appoggio del blocco, si scavava un foro quadrato che consentiva il montaggio di un’armatura circolare di legno, sostituita da due ruote e arrotolata da una fune. I blocchi venivano così trainati faticosamente da buoi o schiavi che per raggiungere Selinunte impiegavano almeno due giorni.

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Published on August 28, 2020 11:57

August 27, 2020

Tornando a Plinio

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Un paio di giorni fa, in un post ho chiacchierato su un brano di Plinio il Vecchio che era stato citato in pagina Facebook: però, debbo confessare che mi era rimasto un dubbio nel retro cranio. Ora dalle mie vaghe reminiscenze scolastiche, ricordava Plinio il Vecchio come un autore alquanto verboso: insomma, una battuta così laconica, non era certo da lui.


Per cui, con un poco di fatica, mi sono messo a ricercare il brano originale, che rispetto a quello citato su Facebook, è di gran lunga differente.


Anche questa innovazione giunse con ritardo in Roma. Nelle leggi delle dodici tavole si parla solo di alba e di tramonto; alcuni anni dopo fu aggiunto il mezzogiorno, che era annunciato dal messo dei consoli quando scorgeva il sole fra i Rostri e la Grecostasi. Quando poi il sole si era inclinato dalla colonna Menia verso il carcere, il messo annunziava l’ultima ora del giorno; ma questo soltanto nei giorni sereni. Tale uso durò fino alla prima guerra punica. Fabio Vestale racconta che, undici anni prima della guerra contro Pirro , Lucio Papirio Cursore collocò il primo orologio solare presso il tempio di Quirino, nel momento in cui consacrava tale tempio sciogliendo il voto fatto da suo padre. Ma Fabio Vestale non descrive il funzionamento di questo orologio, non dice il nome del suo costruttore, né il luogo dove fu costruito; e tace anche il nome della fonte da lui tenuta presente.


Marco Varrone afferma che il primo orologio collocato in un luogo pubblico fu quello fatto sistemare su una colonna presso i Rostri durante la prima guerra punica dal console Mario Valerio Messalla dopo la presa di Catania in Sicilia; questo orologio fu trasportato da Catania 30 anni dopo la data a cui la tradizione attribuiscel’orologio di Papirio, cioè nell’anno 491 di Roma. Le linee di questo orologio non corrispondevano con precisione alle ore; tuttavia esso rimase la massima autorità per novantanove anni, finchè Quinto Marcio Filippo, che fu censore insieme a Lucio Paolo, fece installare accanto a quello antico un nuovo orologio diviso con maggiore precisione; e questo dono risultò fra gli atti più graditi della sua censura.


Ad esso, nell’anno 497 di Roma, i censori P. Cornelio Scipione Nasica e M. Popilio Lenate affiancarono l’orologio ad acqua, utilizzato già dagli alessandrini da più di cento anni, proprio per compensare le deficienze del quadrante solare nei giorni di nebbia.


Cosa ne possiamo trarre da questo brano ? La prima considerazione è abbastanza banale: sino a poco prima delle Guerra Pirrica, il rapporto tra Romani e Tempo era alquanto rilassato, non basandosi sulla rigida scansione che caratterizza le nostre giornate, ma sulla sulla disponibilità della luce a seconda delle stagioni.


La stessa meridiano non è vista come un oggetto appartenente alla dimensione civile, ma alla sfera del Sacro, tanto da essere offerta come voto alla divinità che supervisiona la vita comunitaria, il cui tempio, posto nel Quirinale, non era certo al centro dell’attività quotidiana del romano dell’epoca.


Le cose cambiano a seguito della penetrazione romana in Magna Grecia e in Sicilia, che trasforma l’economia arcaica, incentrata sulla produzione agricola destinata all’autoconsumo, a una di tipo commerciale: lo stesso processo che porta alla nascita delle monete romano-campane, fa ripensare il rapporto con il Tempo.


Però, per il contesto tecnologico e scientifico dell’epoca della Prima Guerra Punica, la Meridiana è un oggetto raro e prezioso, tanto da essere considerata una preda di guerra, e, come una statue per essere posta su una colonna nel luogo in cui la Repubblica mostrava ai cittadini e agli ambasciatori l’essenza del suo potere, i Rostra, le tribune in cui i Magistrati pronunciavano le loro orazioni


Tra l’altro, Plinio ci da due indicazioni sulla tipologia di meridiana: era abbastanza compatta da stare su una colonna e nonostante questo, il suo quadrante era tranquillamente visibile da un passante. In più, il problema della determinazione dell’ora esatta non dipendeva solo dalla lunghezza delle ombre e quindi l’inclinazione dello gnomone (latitudine), ma anche dalla disposizione delle linee orarie (longitudine). Probabilmente, si trattava di una meridiana a emiciclo.


Realizzare empiricamente una meridiana, con approssimazioni successive, implicava una rara competenza: l’artigiano, dopo anni d’esperienza, disegnavano le linee sul marmo, basandosi su riferimenti locali, che venivano poi scolpite da uno scalpellino. Poi, con parecchia pazienza, dopo numerosi tentativi, si sistemava lo gnomone.


Il regolare la meridiana su un nuovo luogo, significava abradere le precedenti linee dal quadrante semisferico e rifare da capo tutto il lavoro precedente. Questo significa trovare un romano con analoghe competenze empiriche, cosa tutt’altro che semplice, rischiando di mettere a rischio un oggetto di valore, il tutto con un margine di errore che difficilmente compensato i dieci minuti di differenza tra l’ora locale di Catania e Roma.


Con l’evoluzione dei rapporti sociali ed economici, evidentemente sia questi dieci minuti di differenza, sia l’informazione sull’ora esatta di notte e nei giorni di maltempo, dopo la Seconda Guerra Punica, quando l’economia romana si globalizzano, si trasformano da lusso superfluo a necessità.


Per cui l’arrivo della nuova meridiana, precisa, viene accolto con gioia, come quello dell’orologio ad acqua: l’orologio solare si è trasformato da unicum a oggetto di arredo urbano, replicabile e di facile reperibilità. Questo, come detto nell’altro post, è merito dell’evoluzione della scienza greca e della nascita della trigonometria.

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Published on August 27, 2020 12:05

August 26, 2020

Domine quo vadis

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La nostra nuova passeggiata sull’Appia Antica comincia da un monumento purtroppo difficilmente visitabile, dato che si trova in una proprietà privata: si tratta del cosiddetto Sepolcro di Geta, posto all’altezza dell’attraversamento del fiume Almone.


In origine, questo era un tipico “sepolcro a torre”, ossia un monumento funebre a gradoni, costituito da sette corpi volumetrici sovrapposti in più livelli, in ordine decrescente. Oggi è visibile solo la parte inferiore in calcestruzzo del nucleo della struttura, sormontata da una piccola costruzione risalente al tardo medioevo, che ancora nei primi anni del Novecento era chiamata Osteria dei Carrettieri. Sulla superficie dei resti sono ancora riconoscibili i segni degli alloggi funzionali al sostengo delle lastre marmoree che rivestivano il monumento.


L’identificazione del sepolcro è legata a un passo della solita Historia Augusta, in cui il fantomatico scrittore Elio Sparziano, che collocava la tomba di Geta in quel luogo, descrivendola come una struttura simile al Settizonio collocato presso il Palatino.


Non tutti gli studiosi concordano nel riconoscere in questa struttura il monumento descritto da Spaziano; stando a quanto afferma Ashby Geta, infatti, sarebbe stato sepolto nel Mausoleo di Adriano insieme a Settimio Severo e Caracalla.


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La tappa successiva è assai più nota: si tratta della chiesa di Domine Quo Vadis. Secondo la leggenda, citata in età paleocristiana dagli apocrifi Acta Sancti Petri, da Ambrogio e da Origine, l’apostolo Pietro, che fuggiva da Roma per sottrarsi alle persecuzioni di Nerone, avrebbe incontrato in visione Gesù. Secondo questo racconto, Pietro pose a Gesù la domanda


Domine, quo vadis?


ovvero


Signore, dove vai?


e alla risposta di Gesù,


Eo Romam iterum crucifigi


ossia


Vado a Roma a farmi crocifiggere di nuovo


Pietro capì che doveva tornare indietro per affrontare il martirio. A riprova di tale evento, Gesù lasciò l’impronta dei suoi piedi su una lastra di marmo. Intorno al IX secolo, per costruire tale presunta reliquia fu costruito il primo edificio, una sorta di edicola a pianta quadrata, grande più o meno come l’attuale, con ampie aperture che consentivano al viandante di vederne l’interno, dove presumibilmente erano collocate le impronte.


Il primo documento in proposito è una bolla di Gregorio VII del 1° marzo 1081, che rendiconta i beni donati alla cura dei monaci del monastero di San Paolo fuori le Mura. Tra tali beni anche la chiesa di Sancta Maria quae cognominatur Domine quo vadis.


Un’indicazione confermata in seguito da altri documenti risalenti al XII secolo, i quali citano appunto la chiesa di Santa Maria ubi Dominus apparuit. Altri nomi con cui fu conosciuta la chiesetta furono “S.Maria delle Palme”, “S.Maria in palmis”, “S.Maria de palma”, “S.Maria ad passus”, “S.Maria ad transitum”, “S.Maria del passo”, nomi che conservò fino al XVII secolo quando assunse il nome attuale.


Una testimonianza d’eccezione della devozione che attirava delle presunte impronte di Gesù ci è stata lasciata da Francesco Petrarca il quale, nel 1336, in una lettera al suo amico vescovo Giacomo Colonna descrive l’emozione che prova alla sola idea di poter vedere quella singolare reliquia nel suo imminente viaggio a Roma.


In realtà, queste impronte, nella chiesa di Domine quo vadis vi è una copia, l’originale è conservata nella Basilica di San Sebastiano, sono un ex voto pagano per il dio Redicolo, offerte da un viaggiatore prima di partire per garantirsi il buon esito di un viaggio (o al ritorno, in ringraziamento). Un esempio di analogo è visibile ai Musei capitolini. La lunghezza delle impronte è di 27,5 cm che corrisponde a un numero di calzatura pari a 44/45, già notevole oggi, ma che all’epoca doveva essere qualcosa di straordinario.


Nel 1628 la chiesa fu devastata da un violento temporale: così, nel 1637 il cardinale Francesco Barberini, ne finanziò la ricostruzione. Attualmente, la sua facciata è scandita da due lesene laterali; sulla sommità un timpano e lo stemma dei Barberini. Un timpano ridotto è collocato sopra la porta d’ingresso, sormontato a sua volta da una grande finestra.


L’interno è ad un’unica navata; sull’altare è collocata l’immagine della Madonna del transito, e ai lati due affreschi con la Crocifissione di Gesù e la Crocifissione di Pietro. Sopra l’altare, in una lunetta, un affresco con l’Incontro di Gesù con Pietro. Nelle pareti laterali altri due affreschi con gli stessi soggetti. Nell’unica cappella laterale vi è un affresco con San Francesco e il panorama di Roma con le sue chiese. Infine, nella chiesa vi è un busto di bronzo di Henryk Sienkiewicz, lo scrittore polacco autore del famoso romanzo storico Quo vadis?.


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L’ultima tappa è invece la Cappella di Reginald Pole, personaggio da romanzo: discendeva dai Plantageneti perchè sua madre era nipote di due Re, Edoardo IV e Riccardo III e questo ne faceva uno dei parenti più prossimo di Enrico VIII che lo protesse e volle pagare la sua educazione.


Si formò in Italia, in particolare a Padova, presso San Giovanni di Verdara, dove soggiornò fino al 1526 ed ebbe modo di frequentare personaggi della levatura di Pietro Bembo e Gasparo Contarini, ma anche l’agostiniano Pier Martire Vermigli, protagonista italiano della corrente riformista cattolica (poi passato alla riforma).


Nel 1527 tornò in Inghilterra, dove si ritirò nella Certosa di Sheen per completare gli studi. Fu coinvolto contro la sua volontà nella vicenda del divorzio di Enrico VIII da Caterina di Aragona: benché personalmente contrario, ottenne dai teologi e canonisti dell’Università della Sorbona di Parigi il parere favorevole allo scioglimento dell’unione


Perse comunque il favore del re e nel 1532 si trasferì a Padova, dove conobbe, tra gli altri, Gian Pietro Carafa, Benedetto Fontanini, Jacopo Sadoleto e Alvise Priuli, che da allora fu il suo principale collaboratore. A Venezia si dedicò allo studio filologico della Bibbia sotto la guida dell’ebreo fiammingo Giovanni di Kampen. Dopo la rottura di Enrico VIII con la Chiesa di Roma (1534), inviò al re il trattato Pro ecclesiasticæ Unitatis defensione, per convincerlo a tornare sui suoi passi.


Nel frattempo, ordinato diacono, nel 1535 in Inghilterra si pensò a lui come al possibile marito di Maria Tudor, figlia di Enrico e di Caterina, ma Reginald venne innalzato alla dignità cardinalizia da papa Paolo III nel concistoro del 22 dicembre 1536, ottenendo la diaconia dei Santi Nereo e Achilleo (optò successivamente, nel 1540, per il titolo dei Santi Vito e Modesto e poi per quello di Santa Maria in Cosmedin): il papa lo scelse anche quale membro della commissione, presieduta da Contarini, incaricata di tracciare le linee di una riforma della Chiesa, la quale consegnò al pontefice il documento Consilium de emendanda Ecclesia. Fu poi membro della commissione incaricata di preparare il Concilio ecumenico; incontrò a Nizza anche Francesco I di Francia e l’imperatore Carlo V.


La sua opposizione allo scisma anglicano, portò sua madre e suo fratello a essere giustiziati per alto tradimento;anche il Cardinale rischiò di essere ucciso dai sicari e cercò rifugio a Toledo dove Carlo V si rifiutò di consegnarlo all’ambasciatore inglese.


Pole, nominato Amministratore del Patrimonio di San Pietro, si trasferì a Viterbo, dove raccolse attorno a sé gli Spirituali reduci del circolo napoletano di Juan de Valdés, per lo più ecclesiastici di rango che, accogliendo alcune delle idee luterane ma senza voler staccarsi da Roma, premevano per una radicale riforma della Chiesa, improntata sul piano teologico su pochi fundamentalia fidei e, sul piano pratico, sulla svalutazione di riti e opere esteriori. Del circolo facevano parte, tra gli altri, il cardinale Giovanni Morone, il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, le gentildonne Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga, il grande artista Michelangelo Buonarroti, mentre il principale animatore era il mistico spagnolo Juan de Valdés, vicino alle dottrine luterane.


Tra il 1545 e il 1546 Pole fu legato pontificio al Concilio di Trento, ma abbandonò l’assemblea alla vigilia del voto sul decreto de iustificatione, adducendo motivi di salute. Intanto la Congregazione dell’Inquisizione accumulò una ricca documentazione a carico dei membri dell’Ecclesia, della quale si servì per controllare lo svolgimento dei successivi conclavi.


Dopo la morte di Paolo III, nel conclave del 1549 fu il candidato principale e gli mancava un solo voto e se fosse stato più ambizioso avrebbe potuto accettare di divenire Papa per adorationem. Preferì non scontrarsi con i cardinali francesi ed alla fine fu eletto Giulio III; in quello successivo, nel 1555, fu invece fatto fuori dalle accuse di eresia formulate da cardinale Giovanni Pietro Carafa (prefetto dell’Inquisizione, e in seguito eletto papa Paolo IV).


Ritiratosi nel monastero benedettino di Maguzzano, Pole fu inviato nel 1554 da papa Giulio III quale suo legato in Inghilterra per aiutare Maria I nel suo tentativo di riportare il regno all’obbedienza romana. Deposto l’arcivescovo scismatico Thomas Cranmer, Pole l’11 dicembre 1555 fu eletto amministratore apostolico di Canterbury; il 20 marzo 1556 ricevette l’ordinazione presbiterale e il 22 quella episcopale.


Nel 1557 Paolo IV gli revocò la legazione inglese e lo richiamò a Roma, con l’intenzione di arrostirlo a fuoco lento sul rogo: ma Pole rimase in patria, protetto dalla regina Maria e da Filippo II di Spagna. Morì nel palazzo di Lambeth (residenza degli arcivescovi di Canterbury), a Londra, il 17 novembre 1558, all’età di 58 anni (la regina Maria era morta dodici ore prima): fu l’ultimo arcivescovo cattolico di Canterbury.


Ora, come gli antichi romani, Reginald Pole volle innalzare nel 1539 una cappella per ringraziare Dio di averlo fatto sfuggire ai sicari di Enrico VIII proprio nel punto in cui gli era stato teso l’agguato. Il Cardinale fece costruire la cappella lungo la Via Appia all’incrocio con il Vicolo della Caffarelletta.


L’edificio richiama l’architettura dei sepolcri romani a tempietto: presenta due porte, oggi murate con blocchi di tufo, con stipiti ed architravi in travertino, laterizio giallo utilizzato per i 4 occhi circolari e per le 8 finte colonne con basamenti e capitelli corinzi in peperino, un gradino di basamento (crepidine) sempre in peperino e volta a cupola cuspidata coperta da tegole e coppi.


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Published on August 26, 2020 11:36

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Alessio Brugnoli
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