Alessio Brugnoli's Blog, page 53

September 27, 2020

Goethe a Palermo (Parte IV)

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Leggendo Goethe, è interessante notare come i gusti artistici di Goethe siano molto diversi da quelli di noi contemporanei: lo abbiamo visto con Villa Palagonia o con la sufficienza con cui tratta le splendida chiese barocche di Palermo, con i loro marmi mischi.





E questa differenza è accentuata nei non detti: Goethe non fa ad esempio un minimo accenno agli oratori del Serpotta, oppure ai monumenti arabo normanni…





Un turista d’oggi, andando a Monreale, si sarebbe concentrato sul Duomo normanno, non certo sull’abbazia benedettina San Martino delle Scale, luogo di certo bellissimo, ma assai meno noto al grande pubblico. Oppure, visitando il Palazzo dei Normanni, non avrebbe certo taciuto sulla Cappella Palatina o sui mosaici della sala di re Ruggero





Palermo, martedì 10 aprile 1787.





Oggi, salendo il monte, siamo stati a Monreale. La strada, costruita da un abate di quel monastero, ricchissimo un tempo, è stupenda, comodissima al salire, fiancheggiata qua e là da piante, e particolarmente da varie fonti, ornate nel gusto di quelle del principe di Palagonia, vale a dire quasi barocco ed a casaccio, ma che però porgono agio a rinfrescarsi agli uomini, ed agli animali.





Il monastero di S Martino, il quale sorge sur un altura, si è edificio di bello aspetto. E raro che un solo celibatario possa fare qualcosa di ragionevole, e ne porge un esempio il principe di Palagonia; molti celibatari invece, riuniti assieme, produssero spesse volte opere ragguardevoli, e ne fanno testimonianza i conventi e le chiese.





Le comunità religiose poi fecero più che tutte le altre, perché più di qualunque altro padre di famiglia, furono certe di avere posterità smisurata.





I monaci ci fecero vedere le loro collezioni.Posseggono oggetti pregevoli di antichità, e di storia naturale. Ci andò sopratutto a genio una medaglia, la quale rappresenta la figura di una giovane Divinità. I buoni padri non avrebbero frapposta difficoltà a che ne cavassimo un impronta, se non che difettava colassù tutto quanto sarebbe stato necessario, per potere precedere a quell’operazione.





Dopo averci fatto vedere ogni cosa, non senza lamentare la differenze fra le loro condizioni attuali e quelle dei tempi trascorsi, ci portarono in un grazioso salotto, dal cui balcone si godeva una vista magnifica; trovammo ivi apparecchiata la tavola per entrambi, e ci fu servito un ottimo pranzo Appena furono portate in tavola le frutta, entrò l’abate, accompagnato dal decano de’ suoi monaci, e si trattennero con noi una buona mezz’ora, indirizzandoci varie domande, alle quali procurammo dare risposta, nel modo che meglio valesse a soddisfarli. Ci separammo buonissimi amici. I monaci più giovani ci accompagnarono ancora una volta nella stanza dove stavano le collezioni, quindi alla carrozza, e tornammo a casa ben altrimenti soddisfatti che ieri. Oggi dovemmo lamentare bensì la decadenza di un istituto grandioso, mentre ieri dovemmo osservare in tutta la sua freschezza, il trionfo del gusto il più corrotto.





La strada da S. Martino scende fra monti di roccia calcare, la quale si fa cuocere, e la calce riesce bianchissima. Per alimentare le fornaci, si valgono di una specie di erba incolta, alta e dura, la quale si fa seccare, e si riduce a fascine. Fino sulle maggiori alture si scorge a fiore di terra argilla rossa, la quale forma il terriccio, e diventa tanto più rossa quanto più si sale in alto, e la vegetazione vi è più scarsa. Osservai in lontananza una caverna, rossa quasi, quanto cinabro. Il monastero poi sorge in mezzo a monti calcari, dove abbondano le sorgenti, ed i terreni attorno a quello, sono ben coltivati.





Palermo, mercoledì 11 aprile 1787.





Dopo avere ora visitati i due punti principali all’esterno della città, ci portammo al palazzo reale, dove uno staffiere affaccendato, ci fece vedere tutte le stanze, e quanto in esse si contiene. Con nostro grave dispiacere trovammo in gran disordine la sala dove si conservano gli oggetti antichi, imperocchè si stava lavorando a rinnovarne la decorazione architettonica. Le statue erano state tolte dai loro piedistalli; si trovavano coperte da tele, nascoste dai ponti, in guisa che,ad onta di tutto il buon volere della nostra guida, e degli sforzi degli operai, non ne abbiamo potuto prendere idea, se non molto imperfetta. Mi stavano a cuore più di ogni altra cosa i due arieti in bronzo, i quali, veduti anche in quelle sfavorevoli condizioni, valgono a soddisfare grandemente il senso artistico. Sono rappresentati coricati, con una zampa stesa in avanti, e con il capo rivolto in diversa direzione per dovere stare l’uno di fronte all’altro. Sono due figure possenti della famiglia mitologica, degne di portare Friso ed Elle. La lana non è punto corta e crespa, ma lunga, liscia, che ricade lungo il corpo; ed il tutto, eseguito con grande verità ed eleganza, appartiene fuor di dubbio ai tempi migliori dell’arte greca. Vuolsi che quei due animali si trovassero nel porto di Siracusa.





Di là ci portò la nostra guida a visitare le catacombe al di fuori della città, le quali sono disposte in ordine architettonico, e non sono già cave di pietre abbandonate, e ridotte ad uso di sepolture. Scorgonsi volte, aperte nelle pareti verticali di un tufo abbastanza compatto, ed in quello si praticarono nicchie per le sepolture, scavate tutte nel vivo, senz’opera alcuna di muratura. Le nicchie più in alto sono più ristrette, e negli spazi sopra i pilastri, si praticarono le tombe per i ragazzi.





Palermo, giovedi 12 aprile 1787.





Oggi ci portarono a vedere la raccolta di medaglie del principe di Torremuzza, e per dir vero vi andai poco volentieri. Io non m’intendo gran fatto di questo ramo, ed un viaggiatore mosso puramente dalla curiosità, non può a meno di riuscire molesto ad un raccoglitore colto ed appassionato. Ma dal momento che facciamo questa vita, mi convenne piegarmi a quanto essa oggi richiedeva, e ne ricavai non solo piacere, ma ancora qualche istruzione; imparando se non altro, come il mondo antico fosse popolato di città, fra le quali, anche le più piccole, lasciarono ricordo delle varie epoche della loro esistenza, se non in una serie di opere di arti, in monete preziose. Da quelle vetrine spira un’aura primaverile di fiori e di frutti dell’arte, la quale richiama al pensiero un’epoca splendida, scomparsa per sempre. La magnificenza, ora totalmente sparita, delle antiche città della Sicilia, risorge all’aspetto di quei dischi incisi di metallo, in tutta la sua freschezza primitiva.





Sgraziatamente nella nostra gioventù non abbiamo vi sto altro fuorché le monete delle famiglie regnanti, le quali non dicono nulla, non che quelle degli imperatori, le quali ripetono a sazietà lo stesso profilo, immagini di regnanti, le quali non si possono considerare altrimenti, fuorché quali tipi della razza umana. La Sicilia e la nuova Grecia, mi fanno sperare il risorgimento di tempi migliori.





Dal momento che io mi diffondo in considerazioni vaghe e generali su questo argomento, potrete dedurre, che finora io ne so propriamente poco; se non che, anche questo verrà, poco per volta, e con il tempo.

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Published on September 27, 2020 12:04

September 26, 2020

Goethe a Palermo (Parte III)

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Tornando a Goethe, posso applaudire il suo amore per Villa Giulia, apprezzare l’eleganza con cui gestisce una gaffe, ma certo non condivido il suo giudizio su quel viaggio onirico in pietra che è Villa Palagonia





Tra l’altro, il nostro eroe, in fondo, non riuscì a togliersela mai dalla mente, tanto ne La notte di Valpurga del Faust tracciò la descrizione inconfondibile di un gruppo di mostri presenti nella villa, trasformandoli, potenza dell’Arte, da metafora dell’Alchimia, la ripartizione dei cosiddetti mostri in due settori laterali della villa (musicanti da una parte e creature deformi dall’altra, con la costante presenza del dio Mercurio, fautore della trasmutazione della materia) significherebbe la ricerca dell’armonia partendo dalla musica (Nigredo) sino alla materia (Rubedo), a espressione del caos istintivo del Romanticismo.





Palermo, sabato 7 aprile 1787.





Ho passato oggi ore piacevolissime, e tranquillissime nel giardino pubblico, aderente propriamente alla rada.





La è località meravigliosa. Tuttochè di forme regolari, porge un aspetto magico, e tuttochè piantato di recente, vi trasporta nei tempi antichi. Vi si scorgono piante esotiche, circondate da siepi verdeggianti, viali di aranci, di agrumi ripiegati a foggia di volta, pareti di oleandri, tempestate dei fiori rossi di quelli. E un vero incanto per l’occhio.





Osservai rami di forma curiosa in piante che non conosco, e che sono tuttora spoglie da fronde, per essere probabilmente originarie di regioni più calde. Sedendo sopra un banco, in un punto elevato, si gode l’aspetto di tutta quella vegetazione nuova e curiosa, e lo sguardo finisce per cadere sopra un’ampia vasca, dove si agitano, si muovono pesci dalle squame d’oro e d’argento, ora nascondendosi sotto le canne ricoperte di muschio, ora venendo fuori a frotte, quando loro si caccia una briciola di pane. La tinta verde poi delle piante, è diversa di quella alla quale siamo avvezzi, volgendo qui talvolta al gialliccio, talvolta ancora all’azzurrino. La cosa poi la quale fa maggiormente spiccare il tutto,si è l’atmosfera trasparente dalla quale si trovano circondati tutti quegli oggetti, in guisa che quelli pure i quali si trovano a poca distanza gli uni dagli altri, facilmente si distinguono, immersi tutti in una tinta generale azzurrina, la quale in certo modo fa scomparire in parte il loro colore effettivo.





Non si può dire abbastanza, quale aspetto meraviglioso dia quell’atmosfera vaporosa agli oggetti più lontani, bastimenti, capi, promontori, di cui permette comprendere, misurare le distanze, in guisa che una passeggiata in queste alture deve riuscire piacevolissima. Non si direbbe di vedere più oggetti naturali, ma bensì un vero paesaggio, eseguito da un buon pittore.





L’impressione prodotta in me da quel giardino meraviglioso, fu profonda; le onde cupe del mare a settentrione, il loro frangersi sulle spiagge dei vari seni, l’odore stesso delle acque salse, tutto mi richiamava alla memoria l’isola felice dei Feaci. Mi affrettai di andare fare acquisto di un Omero, rileggendo con vera voluttà quel canto, facendone quindi, a libro aperto, una traduzione a Kniep, il quale, seduto presso un buon bicchiere di vino, aveva tutto il diritto di rifocillarsi dopo l’intenso suo lavoro della giornata.





Palermo, l’8 aprile 1787.





Giorno della Pasqua.





All’alba d’oggi cominciò il chiasso per festeggiare la risurrezione del Signore. Sparate, colpi di schioppo, mortaretti, rumori di ogni specie davanti alle chiese, alle cui porte aperte a due battenti, si affollavano i fedeli. Campane, suoni d’organo, canti dei devoti, salmodie del clero, vi era propriamente di che far perdere la testa, a chi non è assuefatto a culto divino cotanto chiassoso.





Non era quasi ancora ultimata la prima messa, quando capitarono alla nostra locanda due staffieri del viceré, nello scopo di augurare le buone feste a tutti i forestieri, e di ottenere una mancia, aggiungendovi nel mio parti colare un invito a pranzo per oggi stesso, motivo per il quale la mancia dovette essere più generosa.





Dopo avere impiegato tutte le ore del mattino nel visitare le chiese, e nell’osservare le fisionomie ed i costumi della popolazione, mi portai al palazzo del viceré, il quale sorge alla parte estrema della città, verso i monti. Essendo alquanto di buon ora, le ampie sale erano tuttora deserte, e non vi trovai che un omicino di aspetto allegro, e vivace, che non tardai ad accorgermi essere Maltese.





Allorquando egli seppe che io ero Tedesco, mi domandò se sarei stato in grado di dargli qualche notizia di Erfurth, dove disse essersi trattenuto alcun tempo molto piacevolmente. Potei rispondere alle domande che mi porse, intorno alla famiglia Dacherode, al coadiutore di Dalberg, del che si dimostrò tutto lieto, richiedendomi ancora altre notizie ed informazioni della Turingia. Ne domandò parimenti con viva premura di Weimar. «Che cosa vi fa, mi disse, un tale, che a’ miei tempi era giovane, pieno di brio, e che faceva colà il bel tempo e la pioggia? Non posso ricordare più ora il suo nome, ma egli era l’autore del Werther?»





Dopo essere stato alcuni pochi istanti silenzioso, quasi in atto di cercare a sovvenirmi gli risposi: «Quello ero io.» Ed egli, ritirandosi due passi indietro, colpito da profonda sorpresa, esclamò «Dovete pur essere cambiato molto!» «Certamente, risposi, fra Weimar e Palermo, sono stato pur sottoposto a molte mutazioni.»





In quel momento entrò il viceré con il suo seguito, facendomi il primo accoglienza con quei modi distinti che si convengono a persona rivestita di carica cotanto eminente. Non si poté però astenere dal sorridere del Maltese, il quale non levava gli occhi dalla mia persona, e non rinveniva dalla sua sorpresa. Sedetti a tavola a fianco del viceré, il quale mi tenne discorso intorno allo scopo de’ miei viaggi, assicurandomi avere impartito ordini, perché mi si facesse vedere ogni cosa a Palermo, e mi fosse agevolato in ogni possibile maniera, il mio viaggio nel l’interno dell’isola.





Palermo, lunedì 9 aprile 1787.





Oggi abbiamo spesa tutta quanta la giornata attorno alle stravaganze, per non dire peggio del principe di Palagonia; ed anche tutte quelle pazzie, viste da vicino, ci apparvero totalmente diverse dall’idea che ce n’eravamo formata dalle letture, e dai discorsi; imperocchè, chi vuol dar conto di cose assurde, mantenendosi fedele al culto della verità, si trova in imbarazzo; gli è forza, volendone dare un’idea, di fare qualcosa di quanto in sostanza è nulla, e pure vuole essere ritenuto per qualche cosa. Inoltre mi è d’uopo premettere ancora un altra osservazione generale; vale a dire che tanto il cattivo gusto, quanto quello squisito, non possono derivare totalmente, ed in modo immediato, da una persona ovvero da un epoca, e che piuttosto, considerati entrambi con attenzione, possono rivelare le tendenze dell’avvenire.





La fontana di Palermo, della quale vi ho fatta parola, può essere ritenuta quale antesignana delle pazzie del principe di Palagonia, se non chè acquistarono queste maggiore sviluppo, per avere avuto campo totalmente libero. Voglio tentare dimostrare in qual modo sia ciò avvenuto.





Le ville trovandosi in queste contrade per lo più nel centro di vasti latifondi, è d’uopo per arrivare all’abitazione signorile attraversare campi coltivati, orti, ed altri terreni produttivi; ed in questo particolare sono qui i ricchi più curiosi di quelli delle regioni settentrionali, dove spesse volte si riducono vaste estensioni di terre a parchi piantati di alberi infruttiferi, unicamente per ricreare la vista. Qui invece, nel mezzogiorno, s’innalzano due muri, fra quali si deve passare per arrivare al palazzo od alla villa che si voglia dire, senza potere scorgere che cosa vi sia a destra ed a sinistra al di là di quelle mura. Questa strada ha generalmente principio con una porta grandiosa, talvolta pure con un portico coperto a volta, e termina poi nella corte della villa o palazzo. Per evitare però che quella continuazione di muri colla sua uniformità rechi fastidio, sono quelli terminati ad archi nella parte superiore, col vortice verso terra, ornando i punti da dove partono gli archi di cartocci, di piedistalli, o quanto meno, quà e là, di vasi. I muri sono imbiancati, levigati, e ripartiti in vari campi. La corte del castello è per lo più di forma circolare, attorniata da case ad un piano solo, dove abitano i contadini, i giornalieri, e sovra le quali torreggia il castello, per lo più di forma quadrata.





A questo modo, in uso già da gran tempo, il padre del principe attuale aveva costrutto in villa il suo palazzo, non di buon gusto per certo, ma però ancora tollerabile. Ora l’attuale possessore, senza punto alterarne le disposizioni principali, diede libero campo alla sfrenatezza del suo pessimo gusto, e sarebbe fargli troppo onore, lo ammettere che possegga una scintilla sola, di vera immaginazione.





Varcato pertanto il portico grandioso che sorge ai confini appunto della proprietà, ci trovammo in un ampio ottagono. Quattro giganti enormi con uose abbottonate, di forma moderna, sorreggono la cornice, sulla quale, di fronte propriamente all’ingresso, si scorge l’immagine della santissima Trinità.





La strada che porta al castello è più ampia di quanto siano generalmente, ed i due muri laterali terminano in un alto zoccolo, su cui stanno piedistalli, guarniti di gruppi stranissimi, mentre l’interstizio fra un piedistallo e l’altro, trovasi ornato di parecchi vasi. L’aspetto orribile di tutte quelle figure strane, scolpite da artisti i più volgari, è reso più brutto ancora dalla qualità della pietra porosa, leggera, specie di tufo, in cui sono eseguite; però si può dire che un materiale più fino, avrebbe fatta risultare più ancora, la bruttezza della forma. Ho parlato di gruppi; ma mi accorgo essermi sfuggita espressione impropria, la quale punto non corrisponde in questo caso alla realtà, imperocchè tutte queste figure non hanno veruna connessione fra loro; furono cacciate colassù senz’arte, senza riflessione, a mero capriccio. Ogni piedistallo sopporta tre figure, disposte in varie attitudini, ed in modo da occupare tutta quanta l’area quadrata, sulla quale sorgono. Per lo più due figure principali occupano la parte anteriore del piedistallo, e rappresentano per lo più mostri, sotto figura di uomini, o di animali. Per guarnire parte posteriore dei piedistalli, occorrevano ancora due altre figure, e queste rappresentano per lo più un pastore, ed una pastorella; un cavaliere ed una dama; una scimmia ed un cane che ballano. Rimaneva nei piedistalli spazio ancora libero, e questo trovasi occupato per lo più dalla figura di un nano, stirpe infelice, alla quale si ricorre spesso in quegli aborti, dovuti a sfrenatezza ed a corruzione immaginazione.





Varrà poi l’elenco seguente a dare un’idea completa della pazzia, che propriamente le si addice questa qualificazione, del principe di Palagonia. Fra le figure umane pezzenti uomini e donne, Spagnuole e Spagnuoli, Mori, Turchi, gobbi, storpi di ogni specie, nani, musicanti, pulcinella, soldati vestiti all’antica, immagini di divinità pagane, uomini vestiti alla foggia antica di Francia, soldati con uose e giberna, soggetti mitologici travestiti, Achilie e Chirone, con pulcinella. Fra gli animali cavalli con mani d’uomini, corpi umani con teste di cavallo, scimmie in piedi, dragoni, serpenti, zampe di ogni specie fuor di luogo, figure mostruose accoppiate, teste trasportate da un corpo all’altro. Tra i vasi ogni specie di mostri, di cartocci, ridotti a formare il corpo dei vasi, ovvero la base di questi.





Immaginatevi ora tutte queste figure, scolpite in modo grossolano, senz’arte, senz’intelligenza, cacciate colà alla rinfusa, senz’un pensiero, senz’un idea; immaginatevi quella lunga serie di figuracce, collocate sovra quei piedistalli, e vi sarà facile persuadervi della sensazione spiacevole, che non può a meno di provare chiunque, all’aspetto di quelle testimonianze di una vera pazzia.





Ci avvicinammo al castello, ed incontrammo una specie di cortile di forma semicircolare; il muro di fronte, in cui si apre la porta, presenta l’aspetto di fortificazione, ed ivi trovammo murata una figura egiziana, una fontana senza acqua, un monumento distrutto, e vasi e statue cacciate a terra. Entrammo nella corte del castello, che trovammo secondo il solito di forma semicircolare, attorniata di case basse, di vario aspetto.





Nella corte cresceva l’erba; ed ivi, quasi in un campo santo abbandonato, giacevano a terra basi in marmo di stile barocco, le quali risalivano ancora al tempo del padre del principe, statue di nani, ed altre figure di epoca più recente, le quali non avevano ancora potuto trovar posto dove essere collocate; quindi si passa davanti un pergolato, ornato di vasi antichi, e di sculture sempre di stile barocco.





L’apice però del cattivo gusto, si rivela nei cornicioni delle piccole case, i quali sono obliqui in un senso o nell’altro, confondendo ogni idea dello scolo delle acque, della linea perpendicolare, base della solidità e dell’euritmia. Ed anche quei cornicioni sono ornati d’idre, di teste di draghi, di piccoli busti, di figure di scimmie le quali suonano strumenti musicali, e di altre stramberie.





Tra le teste dei dragoni stanno pure figure di divinità, e fra le altre quella di un Atlante, il quale, a vece del globo, sorregge un barile.





E quando per uscire fuori di tutte queste stramberie, si cerca rifugio nel palazzo, il quale edificato dal padre del principe, presenta un aspetto alcun chè più ragionevole, s’incontra a poca distanza dalla porta la testa coronata d’alloro di un imperatore romano, la quale sorge sul corpo di un nano, seduto sopra un delfino.





All’interno del castello poi, il quale dall’aspetto esteriore dava a sperare qualcosa di meno corrotto per gusto, tornò prendersi libero campo la fantasia sregolata e guasta del principe. Le sedie sono fatte in modo, da non permettere a veruno di adagiarvisi, ed il custode vi avverte di non lasciarvi sedurre dai cuscini di velluto, entro i quali stanno nascoste spille. Negli angoli si scorgono candelabri di porcellana cinese, i quali, considerati da vicino, si scorgono formati con tazze e sottocoppe. Non havvi il minimo spazio, dove non si abbia ad osservare una qualche stramberia. La stessa vista stupenda del capo vicino che s’inoltra nel mare, è adulterata da invetriate a colori,le quali danno al paesaggio tinte le più ingrate, ed impossibili. Si vedono poi ornati, le une accanto alle altre, dorature di ogni epoca, di ogni gusto, le quali danno propriamente alle pareti l’aspetto di una bottega da rigattiere.





Per dare poi una descrizione della cappella, converrebbe riempire un intero quaderno. Si osserva in quella il parossismo della pazzia di un cervello di pinzocchero. Potete da ciò comprendere, come si debbano trovare colà tutte quante le immagini mostruose, che sono il parto di una devozione inintelligente; però non voglio omettere di farvi parola del meglio, cioè, che aderente alla volta della cappella, si scorge immagine scolpita di un Cristo sulla Croce, di discreta dimensione, dipinta a vivaci colori, alternati con dorature. Dall’ombelico poi del Salvatore in Croce, pende un intestino il quale termina in una catena infissa, questa all’altra estremità nel capo di una figura umana, la quale oscilla e si dondola nello spazio, e che, verniciata e dipinta al pari di tutte le altre immagini della cappella, aspira niente meno che ad essere il simbolo visibile della devozione costante del proprietario!





Del resto il palazzo non è ultimato; una vasta sala che il padre del principe attuale aveva cominciato ornare riccamente, ed abbastanza di buon gusto, è rimasta incompleta, ed in molte altre parti non ha potuto ancora trovare modo il figlio, di dare sfogo alle sue pazze invenzioni.





Kniep, indignato da tutte quelle stramberie, le quali urtavano il suo senso artistico, si abbandonò, per la prima volta dacchè io lo conosco, ad atti d’impazienza; egli mi trasse via di là, mentre stavo esaminando nei loro particolari quei prodotti di una fantasia sregolata e corrotta, cercando di rendermene in qualche maniera conto. Egli si decise finalmente però a disegnare una di quelle tante figure, l’unica forse la quale potesse presentare un certo senso. Era la figura di una donna colla testa di cavallo, la quale stava seduta, giocando alle carte, con un vecchio cavaliere, vestito all’antica, il quale portava una corona in cima ad una voluminosa parrucca, gruppo allusivo probabilmente allo stemma,stranissimo esso pure, del principe, il quale rappresenta un satiro, che tiene uno specchio davanti una donna, la quale ha testa di cavallo.

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Published on September 26, 2020 09:54

September 25, 2020

Goethe a Palermo (Parte II)

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Torno a lasciare parlare Goethe del suo viaggio a Palermo, con i suoi interessi naturalistici e geologici, le sue riflessioni sulla devozione a Santa Rosalia, che condivido in pieno e il fatto che passano i secoli, ma il rapporto tra palermitani e amministrazione locale, in fondo, non cambia mai…





Palermo, mercoledì 4 aprile 1787.





Nelle ore del pomeriggio abbiamo visitata la valle fertile ed amena, la quale scende a Palermo dai monti che sorgono a mezzodì della città, e lungo la quale corre il fiume Oreto; ed anche ivi, un occhio pittorico ed una mano abile, può trovare il soggetto di un bel paesaggio, e Kniep scelse un punto, in cui l’acqua, è trattenuta da una steccaia a metà rovinata, ombreggiata da un gruppo di piante, al di là delle quali la vista si stende sulla parte superiore della valle, e sovra alcune case campestri.





La giornata stupenda di primavera, la fertilità di quelle campagne, dava a tutta quella contrada un aspetto di quiete e di tranquillità, che mi veniva alterato dalla erudizione di un malaugurato cicerone, il quale mi narrava i particolari di una battaglia data di Annibale, e di altri fatti da anni succeduti in quella località. Mandai al dia volo la sua evocazione di tutti quegli spettri del passato. E già troppo, che i campi e le messi debbano essere da quando a quando calpestate, rovinate, dagli uomini e dai cavalli, senza che sia d’uopo farvi intervenire ancora gli elefanti; ed è un vero delitto il turbare i piaceri tranquilli dell’ immaginazione, con quei ricordi orribili.





Il mio cicerone stupiva che io non tenessi conto delle sue cognizioni classiche, ma io non gli potei nascondere, come non mi andasse per nulla a sangue quella mescolanza del passato e del presente. Ma fu ben maggiore la sorpresa della nostra molesta guida, allorquando mi vide intento a far ricerca ed a raccogliere sassolini di tutte le varie specie che potei trovare sugli spazi lasciati asciutti dalle acque, nel letto del fiume. Però io non gli potevo spiegar come non vi sia metodo più sicuro di formarsi prontamente un idea precisa della natura di una contrada montuosa, che quello di osservare i sassi e le pietre che si rinvengono nei corsi d’acqua i quali scendono dalle alture, e come anche in questa occasione, si cerchi rappresentarsi per mezzo di quelle reliquie, l’età classica del nostro globo.





La mia raccolta di sassi nel letto dell’Oreto fu abbastanza copiosa; radunai all’incirca un quaranta campioni, i quali però, per dir vero, si possono classificare in poche categorie. La maggior parte erano diaspri, pietre cornee, e schisti argillosi di forme rotonde, altre – di forme irregolari, ovvero anche romboidali, con grande varietà di colori. Trovai pure varie specie di antiche pietre calcari, non poche brecce collegate con calce, e formate di diaspri, ovvero di pietre calcari. Non mancavano neppure formazioni di conchiglie, collegate con calce.





I cavalli sono qui nutriti con orzo, paglia tagliata, e trifoglio; nella primavera loro si dà orzo fresco per rinfrescarli, come sogliono qui dire. Non essendovi praterie, non si falciano fieni. Sui monti vi sono alcuni pascoli, anche nei campi, i quali si lasciano riposare ogni tre anni. Mantengono poche pecore, di razze queste, originarie della Barberia, e mantengono parimenti più muli che cavalli, ai quali meno si confanno i prodotti di questo suolo caldo, ed asciutto.





La pianura dove giace Palermo, come pure i dintorni della città, che portano il nome collettivo ai Colli, e così pure parte della Bagheria, sono di natura rocciosa calcare e di là vennero estratti i materiali impiegati nella costruzione delle case; difatti scorgonsi tuttora aperte ed in attività, parecchie cave di quei sassi.





Nelle vicinanze del monte Pellegrino si coltivano queste in certi punti alla profondità di ben cinquanta piedi, egli strati inferiori, sono di tinta affatto bianca. Si trovano talvolta in quei sassi coralli, spoglie di animali, sopratutto poi conchiglie pietrificate. Per contro negli strati superiori, trovansi argille di tinta rossa, e difettano del tutto, o quanto meno scarseggiano, le conchiglie. Lo strato superficiale poi, è sempre di argilla rossiccia, di poca consistenza.





Il monte Pellegrino sorge in mezzo a quei terreni, costituito di rocce calcari di antica formazione, porose ed abbondanti di screpolature, le quali, tuttochè a primo aspetto appaiono irregolari, esaminate attentamente, si si scorgono seguire la direzione, e l’ordine dei vari strati. Quelle rocce poi sono dure, e percosse, rendono un suono metallico.





Palermo, giovedì 5 aprile 1787.





Oggi impiegammo la giornata specialmente a girare la città. Lo stile architettonico delle costruzioni, ricorda per lo più quello di Napoli; però vi sono alcuni monumenti pubblici, per esempio fontane, i quali si potrebbero quasi dire di gusto puro. Non havvi qui, come a Roma, uno spirito artistico il quale dia norma ai lavori; gli edifici sorgono a caso, ed a capriccio. E difatti sarebbe stato difficile il costruire una fontana la quale forma l’ammirazione delle popolazioni di tutta l’isola,se la Sicilia non fosse stata ricca di marmi bellissimi, di vari colori, e se non fosse stata a quell’epoca in favore uno scultore, abile sopratutto nel riprodurre le forme, e l’aspetto degli animali. Sarebbe difficile dare una descrizione di questa fontana. Sovra una piazza di mediocre ampiezza, sorge a poca altezza un edificio architettonico di forma circolare; il zoccolo, il basamento, e le cornici sono di marmo a colori; nel basamento trovasi praticata una serie di nicchie, dalle quali escono, tendendo il collo, figure di ogni specie di animali, in marmo bianco; vi si scorgono cavalli, leoni, cammelli, elefanti, e non si riterrebbe trovare nel centro di questo serraglio una fonte, alla quale si sale passando per vani, od interstizi lasciati nella serie circolare degli animali, salendo quattro gradini in marmo, per attingere l’acqua che cade in abbondanza nella vasca.





Si potrebbe dire ad un dipresso la stessa cosa delle chiese, dove la profusione degli ornamenti supera quella ancora dei gesuiti, ma non già a norma di un disegno prestabilito, bensì a caso, secondo il capriccio degli artisti, i quali vi vollero accumulare senz’ordine, senza gusto, tutto quanto si offriva alla loro fantasia, figure, ornati, marmi, pitture.





Non si può contrastare però una certa abilità nel riprodurre le cose naturali, ed a cagion d’esempio le teste degli animali nella fontana sono lavorate stupendamente; e si comprende come ciò basti ad eccitare l’ammirazione della folla, la quale non bada guari più in là della fedeltà delle copie, nel riprodurre gli originali.





Verso sera feci una conoscenza piacevole, mentre ero entrato nella bottega di un piccolo merciaiuolo su quella via lunga e diritta, per farvi acquisto di varie cosucce. Mentre stavo sulla porta della bottega esaminando alcuni oggetti, si levò un colpo di vento, il quale, scendendo con impeto per la strada, sollevò un nembo di polvere che non tardò ad invadere le botteghe, a penetrare per tutte le aperture. «Santi del cielo, esclamai, ditemi perché la città vostra è tenuta così sucida, e perché non vi date pensiero di sorta di pulirla? Questa strada gareggia per lunghezza e per bellezza con il corso di Roma. Tutti i proprietari di botteghe e di magazzini, tengono puliti i tratti dei marciapiedi che corrono ai due lati, e che fronteggiano i siti da essi occupati, ma si ristringono a cacciare il fango e le immondizie nel mezzo della strada, la quale diventa ogni giorno più sudicia, e quando soffia il vento, vi ricaccia questo in casa tutte le sozzure, che avete accumulate colà. A Napoli si vedono ogni giorno asinelli, destinati a trasportare il fango e le spazzature negli orti, nei campi; non potreste voi pure, alla vostra volta, farne altrettanto?»





«Abbiamo sempre fatto così, mi rispose il merciaiuolo; intanto quello che cacciamo via di casa, si accumula davanti alla porta, e v’imputridisce. Osservate; potete vedere strati di paglia, di canne, di rimasugli di cucina di ogni specie, di sporcizie, tutto ciò secca, diventa arido, e ci si torna sotto forma di polvere. Dobbiamo vegliare tutto il giorno a difendercene. Guardate le nostre molteplici scope, belle e graziose, occupate ed intente a torre via la lordura, soltanto davanti alle nostre case.»





Difatti non diceva male. Posseggono scope graziose, formate di rami di palma, le quali con poche modificazioni potrebbero essere ridotte a prestare migliore servizio; ma quali sono, spazzano superficialmente, si logorano presto, e quelle logore vengono cacciate senz’altro in mezzo alla strada, dove si vedono a centinaia. Ed alla mia ripetuta domanda, se non vi fosse modo di portare riparo a quest’inconveniente, rispose il merciaiuolo che se ne parlava bensì, ma che coloro ai quali spetta provvedere alla pulizia della città, non si possono ridurre, per la grande influenza di cui godono, a far retto impiego del denaro pubblico; e che temevano che qualora si sgombrasse il suolo di tutta quella lordura, venisse a comparire lo stato miserando in cui si trovava il selciato, ed a risultare le malversazioni della loro disonesta amministrazione. Soggiunse ancora, scherzando, essere le male lingue, quelle che ciò dicevano; ed accostarsi egli per contro all’opinione di coloro, i quali sostenevano essere la nobiltà, quella che favoriva un tale stato di cose, perché le carrozze, quando si portavano alla passeggiata alla sera, potessero camminare senza scosse, sopra un suolo ben soffice; ed il brav’uomo trovandosi oramai in vena, continuò a scherzare, intorno a vari altri abusi e difetti della pulizia edilizia, provandomi una volta di più, come gli uomini, siano sempre disposti più o meno, a porre in ridicolo i mali, ai quali non sanno, o non possono portare rimedio.





Palermo, il 6 aprile 1787.





Santa Rosalia, patrona di Palermo, è tanto generalmente conosciuta per la descrizione che Brydone ha data delle sue feste, che io penso non saranno discari a’ miei amici alcuni cenni od alcune informazioni, intorno alla località nella quale è particolarmente venerata quella santa. Il monte Pellegrino, rupe grandiosa, più ampia di base che elevata, sorge all’estremità fra settentrione e ponente, del golfo di Palermo. Non è possibile dare colla parola un’idea della bellezza delle sue forme, le quali sono riprodotte con esattezza in una incisione del Voyage pittoresque de la Sicile. Quel monte è formato di pietra calcare grigia, di epoca remotissima. Le sue rocce sono totalmente nude; non vi si scorgono né piante, né cespugli, e soltanto i tratti piani sono rivestiti in parte di erba, e di muschio.





Furono scoperte in una caverna di quel monte, in principio del secolo scorso le ossa della santa, le quali vennero portate in città, dove valsero a liberare questa dalla peste, e da quel momento Santa Rosalia diventò la protettrice del popolo; le si dedicarono cappelle, e vennero instituite in suo onore feste solenni.





I divoti si portavano con frequenza in pellegrinaggio sul monte, e venne costrutta con ingente spesa una strada, sostenuta a guisa di acquedotto, da pilastri, da archi, la quale si sviluppa, e sale a forma di zig-zag, fra due rupi.





Il santuario corrisponde meglio all’umiltà della santa vergine, la quale colassù si ritirava, che non le splendide feste, e le pompe, colle quali si vollero onorare la sua santità, e la sua rinuncia al mondo. E forse il culto cristiano, il quale da diciotto secoli ha tolto a base del suo dominio, delle sue pompe, della splendidezza delle sue feste la condizione meschina e povera de’ suoi fondatori, e dei più zelanti fra suoi confessori, non possiede altro santuario, il quale sia stato ornato con tanta semplicità, ed in modo cotanto innocente.





Quando si è saliti in cima al monte, si trova l’angolo di una rupe, di fronte alla quale sorge a picco la parete di un altra rupe, ed ivi furono costrutte la chiesa, ed il convento o monastero, aderente a quella.





L’esteriore della chiesa promette poco, ma non appena si apre la porta, vi si presenta uno spettacolo inaspettato, e si prova una profonda sorpresa. Si trova un portico, ovvero un volto, il quale si apre nel senso della larghezza della chiesa, e che dà accesso alla navata di questa. Nel portico stanno i soliti acquasantini, non chè alcuni confessionali. La navata della chiesa trovasi scoperta, ed è formata alla parte diritta dalla parete grezza e rozza di uno scoglio, ed alla sinistra da muro, in continuazione di quello del portico d’ingresso. Il pavimento, formato di ampie lastre di pietra, trovasi alquanto in pendenza, per potere dare corso alle acque piovane, e quasi nel centro di quello, sta una piccola fontana.





La caverna poi, fu ridotta a coro, senza modificarla per nulla dalla sua rozza forma primitiva. Vi si accede salendo alcuni gradini, e vi si scorgono il leggio colossale destinato a sostenere i libri corali, e da ambi i lati, gli stalli dei monaci. Il tutto trovasi illuminato dalla luce che scende dall’alto della navata, e che entra dal portico; ed al centro del coro, al fondo, immerso quasi nell’oscurità, sorge l’altare maggiore.





Nessuna variazione, siccome abbiamo notato di già, fu introdotta nella caverna, se non chè, gocciolando l’acqua da ogni parte lungo le pareti, convenne provvedere a raccoglierle e radunarle, per tenere il luogo asciutto; e ciò si fece, per mezzo di canaletti di piombo, incastrati nei vani dello scoglio, e collegati fra di loro. E questi, essendo più larghi alla sommità, più ristretti alla base, e colorati di una tinta verdastra oscura, danno aspetto alla grotta di scogli, addossati ai quali fossero cresciute piante di cactus. Tutta l’acqua che si raccoglie è portata in una vasca, dove la vanno attingere i fedeli, i quali le attribuiscono virtù miracolose.





Mentre stavo esaminando tutti quei particolari, entrò un sacerdote, il quale mi domandò se per avventura io fossi Genovese, e se non volessi far celebrare qualche messa? Risposi, essere io venuto a Palermo con un genovese appunto, il quale intendeva salire all’indomani,giorno di festa sul monte, e che dovendo uno di noi due rimanere sempre a casa, io ero venuto su oggi. Mi rispose che potevo visitare, contemplare ogni cosa a mio piacere, e compiere le mie devozioni. Mi additò quale degno di di maggiore venerazione un altare nella grotta, a sinistra, e mi lasciò solo.





Guardai per le aperture di una graticella in ottone, istoriata a fogliami; vidi lampade accese davanti all’altare, m’inginocchiai, avvicinandomi meglio inferriata, e guardando fra i vani della stessa. Internamente vi era un altra graticella più leggera, formata di fili di ottone, in guisa che a traverso le maglie di quella si potevano discernere gli oggetti che stavano al di là della graticola, e vidi, alla luce pacata e tranquilla di alcune lampade, una figura bellissima di giovin donna.





Aveva aspetto quasi di essere rapita in estasi; gli occhi semichiusi; il capo alquanto inclinato; e la mano diritta che sporgeva in avanti, ornata di ben molte anelli alle dita. Non mi potevo saziare di contemplare quella dolce figura, la quale mi pareva porgere un attrattiva tutta speciale. Era vestita con un abito in lamina di piombo indorato, il quale imitava stupendamente un ricco broccato in oro. Il capo e le mani erano in marmo bianco; non oserei, per dir vero, accertare fossero di stile il più puro, ma però erano eseguite quelle, ed il tutto con tanta naturalezza, che si sarebbe detto vedere respirare, e muoversi quella figura.





Sorgeva a fianco di quella un piccolo angiolo, il quale sembrava volerle fare aria e fresco, con un ramo di una pianta di giglio.





Intanto i sacerdoti erano venuti nella grotta, avevano preso posto sugli stalli, ed avevano cominciato a cantare i vespri.





Presi a mia volta posto sur un banco, di fronte all’altare, e stetti alcun poco seduto ad ascoltare le salmodie; quindi, alzandomi, m’inginocchiai davanti all’altare, per potere contemplare ancora a mio bell’agio la santa graziosissima, abbandonandomi a tutta quanta l’illusione della figura, e del luogo.





Il canto dei sacerdoti echeggiava nella grotta; le acque, mormorando, sgorgavano nel serbatorio vicinissimo all’altare, e le rupi del portico e della navata, formavano per così dire la cornice del quadro. Regnava un profondo silenzio in quel luogo solitario e deserto; e quella rozza grotta, splendeva di lindezza; a vece dello splendore della pompa del culto cattolico, in Sicilia specialmente, si accostava quivi alla semplicità dei tempi primitivi; l’illusione prodotta da quella figura di giovane seducente per un occhio pure esperto nell’arte, tutto contribuiva a trattenermi in quel luogo. Ebbi difficoltà a strapparmene, e e non tornai a Palermo, che a notte inoltrata.

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Published on September 25, 2020 11:00

September 24, 2020

Santa Maria la Nova

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A metà strada tra la Vucciria e la Cala, nell’antica contrada della “Tavola Tonda al Castellamare” (così chiamata per la presenza, un tempo, di numerosi fondaci e locande), si trova Santa Maria la Nova, unica sopravvissuta di un gruppo di chiese presenti in quell’area. Oltre a Santa Maria la Nova, vi erano infatti San Giacomo la Marina, che dalle testimonianze antiche sembrerebbe essere stata una moschea araba cristianizzata in epoca normanna, la quale venne demolita nel 1860 al seguito dei danni provocati dai combattimenti tra garibaldini e borbonici, di cui è rimasta una finestra, conservata nel primo cortile del Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas», la chiesa del Crocifissello di Tavola Tonda, costruita nel XVI secolo e adibita a magazzino gia’ a partire dal 1777.





Santa Maria la Nova fu fondata nel 1339, a spese della nobile e ricca famiglia De Cesario – Pagano, che volle realizzare un piccolo ospedale, assieme a un oratorio, per soddisfare le esigenze spirituali dei mercanti. La struttura fu data in gestione a un gruppo di mercanti catalani: nel 1424, quando tutti i nosocomi furono accentrati nell’Ospedale grande di Palermo a Palazzo Sclafani, il papa permise la sopravvivenza di tale confraternita e i cespiti e le offerte dei fedeli, prima destinati alla gestione sanitaria, furono dirottate sull’ornamento della chiesa. Per cui, i confrati decisero nel 1520, dopo molte discussioni, di trasformare l’oratorio in una chiesa vera e propria: l’incarico fu affidato a Giuseppe Spatafora e Giuseppe Giacalone.





Entrambi i magistri, che collaborarono spesso assieme, il che potrebbe lasciare ipotizzare che fossero soci, nascono come scultori, nell’immensa bottega del Gagini: dato che probabilmente, proprio per lo spropositato numero di allievi di tale artista, il mercato delle statue a Palermo era pressoché saturo, si avvicinano all’architettura, ponendosi in linea con la ricerca stilistica di Antonio Belguardo e di Matteo Carnilivari, ossia reinterpretare la tradizione arabo normanna locale, di cui spesso riprendono piante ed elementi decorativi, con le novità del gotico catalano e quelle del Rinascimento Continentale.





Le chiesa, a differenza di tante altre, non cominciò a essere costruita dall’abside, ma dalla loggia, nell’ottica di creare uno spazio di riunione per i mercanti che costituivano la confraternita: tra l’altro il nome di Nova, non deriva, come spesso citato dalle guide, dal fatto che fosse “nuova” rispetto al precedente oratorio, ma da “novella”, intesa come buona notizia. Nella loggia in costruzione, il viceré Pignatelli ricevette infatti la notizia di una vittoria contro i pirati barbareschi.





Intorno al 1569, l’incarico di completare la chiesa, come a San Giorgio dei Genovesi, è affidato a Giorgio Di Faccio, cuneese, che si era trasferito a Palermo al seguito della numerosa comunità di mercanti piemontesi che all’epoca frequentavano la città: Giorgio introduce, nell’ambiente artistico palermitano le novità del Manierismo Romano, facendo in modo che però non costituiscano una rottura, ma si armonizzino con la tradizione locale.





Per completare la chiesa, Giorgio progettò la tribuna ottagonale, sovrastata dalla cupola e l’oratorio posto sopra al loggiato, la cui facciata fu nell’Ottocento decorata in stile neogotico da Francesco Paolo Palazzotto, tra i principali architetti liberty dell’epoca. Oratorio che divenne nel 1585 sede della Deputazione per la redenzione dei Cattivi», associazione di confrati incaricata di raccogliere elemosine e donazioni dei fedeli per riscattare gli schiavi cristiani presi prigionieri (in latino captivi) dai Turchi.





Nel Settecento, l’interno fu decorato dagli stucchi di Procopio Serpotta, in parte eliminati nel XX secolo, nel tentativo discutibile, di recuperare la presunta architettura originale: come tante chiese di Palermo, l’edificio fu colpito dalle bombe angloamericane dell’incursione aerea avvenuta nella notte tra il 28 febbraio e il primo marzo 1943. Le esplosioni provocarono il crollo del tetto del tiburio, e alcuni danni, per fortuna di poca entità, all’interno e agli infissi.





Se l’esterno, come detto, è dominato dal Loggiato, l’interno è caratterizzato dalla fusione di due componenti diverse: la grande aula s triplice navata senza transetto, caratterizzata da archi a pieno sesto che poggiano su colonne monolite con eleganti capitelli corinzi, dalla pianta ispirata alle chiese normanne e la tribuna manierista





Nelle navate e nell’abside sono ben visibili decorazioni a stucco attribuite a Procopio Serpotta e databili alla seconda metà del ‘700. Interessanti opere sono conservate nella chiesa: nella navata di sinistra troviamo presso l’ingresso una tavola in ardesia dipinta con Cristo e la Vergine, ascrivibile al tardo Cinquecento. Nella prima cappella è la tela della Vergine e S. Rosalia, attribuita ad Antonio Manno. Seguono un crocifisso ligneo del XVIII secolo e la Madonna di Monserrato con i SS. Ninfa, Antonio Abate, Nicola di Bari e Sebastiano (1774) di Antonio Manno. Sull’altare maggiore si trova l’Immacolata di Pietro Albina (1623) e infine il Ritrovamento della Croce (1592-95) di Giulio Musca. Nella navata destra, nella terza cappella, è il Transito della Vergine, tela del Manno del 1774. La successiva cappella conserva tre monumenti funebri manieristici di esponenti della famiglia Giancardo





In particolare, Nella Cappella del Crocifisso (seconda della navata sinistra), a fianco del crocifisso ligneo settecentesco, si trova la statua della Madonna Addolorata dello scultore Girolamo Bagnasco, il cui fercolo, il Venerdì Santo, viene portato in processione dai Cassari, una delle confraternita più antiche di Palermo.

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Published on September 24, 2020 03:15

September 23, 2020

Goethe a Palermo (Parte I)

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Dato che oggi sono stato a bisbocciare tutto il giorno, lascio la parola a un viaggiatore di gran lunga migliore di me… Il buon Goethe, che descrive così il suo arrivo a Palermo nel suo Viaggio in Italia





Lunedì 2 aprile alle 8 del mattino.





Siamo in vista di Palermo. Ho cominciata bene la giornata. Lasciai il mio dramma riposare al basso, nel ventre della balena, e trovandomi abbastanza bene potei sa lire sul pone, per osservare attentamente le coste della Sicilia. Kniep continuò a disegnare, e colla sua abilità riuscì a fissare in parecchi fogli, i ricordi di questa remota contrada.





Palermo, lunedì 2 aprile 1787.





Finalmente dopo molti sforzi, siamo arrivati circa le tre del pomeriggio nel porto, dove ci si offrì una vista piacevolissima, e trovandomi pienamente ristabilito, ho potuto goderla a mio bello agio. La città giace in pianura, ai piedi di un monte, volta verso il mare a tramontana, ed era oggi illuminata da un sole limpidissimo; scorgevamo il profilo di tutti gli edifici, illuminati dal riflesso di quello. Sorgeva a destra il monte Pellegrino, di forma bellissima, ed a sinistra si stende in lontananza la spiaggia, con seni, capi, e promontori. Contribuivano poi molto ad abbellire il colpo d’occhio, le frondi verdeggianti di alberi graziosissimi, le cui cime illuminate da tergo, brillavano per le tinte cupe degli edifici, quasi a foggia di lucciole vegetali. La limpidezza dell’atmosfera, dava tinta azzurrina a tutte le ombre.





A vece di provare impazienza di scendere a terra ci fermammo sul ponte in fino a tanto vennero cacciarci di là; dove mai avessimo potuto trovare punto di vista più favorevole?





Entrammo nella città per la porta meravigliosa formata da due immensi pilieri, i quali non sono chiusi in alto da arco, acciò vi possa passare senza incontrare ostacolo, il carro colossale, nell’occasione delle famose feste di S. Rosalia; e girando a sinistra, appena entrati, trovammo una locanda. L’albergatore, vecchietto di modi piacevoli, assuefatto ad accogliere forestieri di tutte le nazioni, ci portò in una vasta camera, dalla cui finestra si scorgevano il mare, la strada ed il monte di S. Rosalia, la spiaggia, e dalla quale potemmo vedere pure il legno, da cui eravamo scesi poco prima. Soddisfatti della bella vista che si godeva dalla nostra stanza, non osservammo neppure dapprima, che in fondo a quella si apriva un’alcova chiusa da cortine, dove stava un letto immenso, con un padiglione in seta, il quale corrispondeva pienamente al resto del mobilio, ricco, e di forme antiche. Tutta quella splendidezza ci pose in un certo imbarazzo, e domandammo fare i nostri patti per il prezzo; ma il vecchietto ci rispose non esservi d’uopo di patti, o di condizioni; bastargli solo che il tutto fosse di nostra convenienza. Pose parimenti a nostra disposizione l’anticamera aderente alla nostra stanza, la quale era fresca, ariosa, con vari balconi.





Ci godemmo per tanto la vista bella e variata, cercando formarcene idea precisa dal lato pittorico, imperocché poteva porgere argomento al pennello, ed alla matita di un artista.





La luna, la quale splendeva limpida, c’invitò a girare ancora alla sera per istrada, e tornati a casa, ci trattenne buona pezza sul balcone. La luce era meravigliosa; regnavano un silenzio, ed una quiete piacevolissimi





Palermo, martedì 3 aprile 1787.





I nostri primi passi furono diretti a formarci un’idea generale della pianta della città, la quale è cosa facile, e malagevole ad un tempo; facile, in quantochè una strada lunghissima la percorrete tutta quanta dall’alto al basso, dal mare per la porta dove eravamo entrati verso i monti, ed inquantochè, verso la metà, questa strada è tagliata ad angolo retto da un altra via, e su queste linee è facile lo orizzontarsi; ma fuori di queste, la città porge un vero labirinto intricato di strade, e stradicciole, per entro al quale un forestiero non si può raccapezzare, senza il soccorso di una guida.





Verso sera fissò la nostra attenzione il corso delle carrozze, ossia la solita passeggiata delle persone distinte, le quali escono di città in carrozza, per godersi il fresco, trattenersi all’aperto, ed all’occorrenza corteggiarsi a vicenda.





Due ore prima che sottentrasse la notte, la luna splendeva nel suo pieno, e la sera era propriamente stupenda.





La posizione di Palermo, che guarda settentrione, fa si, che la città e la spiaggia non sono mai rischiarate da luce soverchia, e che non si scorge nell’onde il riflesso di quella del cielo; ed oggi difatti, tuttochè la giornata fosse chiarissima, il mare presentava una tinta azzurrina scura, di aspetto serio, mentre a Napoli, cominciando dalle ore del mezzo giorno, è sempre di aspetto più gaio e più piacevole, per quanto si stende la vista.





Kniep mi aveva lasciato, già fin d’oggi, fare le mie escursioni e le mie osservazioni tutto solo, attendendo a prendere la vista del monte Pellegrino, il più bel promontorio del mondo.





Palermo, il 3 aprile 1787.





Voglio radunare ancora, alla buona, in questo foglio alcuni ricordi rimasti addietro.





Siamo partiti di Napoli giovedì 29 marzo sul tramonto, e dopo quattro giorni approdammo, verso le tre, nel porto di Palermo. Unisco alla presente un diario succinto, il quale vi farà conoscere in modo più particolareggiato, le nostre vicende. Non ho fatto mai viaggio più tranquillo; non ho mai goduto una. quiete così perfetta, quanto in questa traversata, resa lenta dalla persistenza di vento contrario, anche nella prima giornata, che dovetti passare tutta quanta nel mio ristretto camerino sdraiato sul letto, a motivo del male di mare. Ora io penso di bel nuovo tranquillamente a voi altri, imperocchè se vi poteva essere per me avvenimento d’importanza, si era questo viaggio.





Chi non si sia visto circondato in ogni parte dal mare, non può dire di avere un idea precisa del mondo, e delle sue relazioni con questo; e nella qualità poi di pittore di paesaggio, quella linea grandiosa, semplice, mi rivelò un orizzonte del tutto nuovo.





Rileverete dal diario, che in questo breve viaggio abbiamo subite varie mutazioni di tempo, e provate in piccole proporzioni, le sorti comuni ai naviganti. Del resto non potrei lodare abbastanza la sicurezza, ed i comodi del nostro legno. Il capitano era capace, e persona propriamente di bei modi; la compagnia teatrale poi che si trovava a bordo, era composta di persone abbastanza educate, e piacevoli. L’artista mio compagno è uomo provato, di buon cuore, di umore allegro, e che disegna con una rara precisione: egli prese le viste di tutte le isole, di tutte le coste, e ne rimarrete soddisfatti, quando ve le potrò far vedere. Per abbreviarmi le lunghe ore della traversata egli mi ha spiegato il metodo pratico della pittura ad acquarello, la quale in oggi è coltivata con molto successo in Italia; mi ha spiegato vale a dire, come si debbano usare, mescolare certi colori, per produrre certe tinte, senza il cui segreto non si riuscirebbe a nulla di buono. Mi ero formata già bensì una qualche idea di quel genere di pittura a Roma, però molto superficiale, ed incompleta. Gli artisti l’hanno ridotta adattissima ad una contrada, quale si è l’Italia. Non saprei trovare parole per descrivere e riprodurre la limpidezza vaporosa dell’atmosfera di queste spiagge, quando arrivammo a Palermo nel pomeriggio di una bellissima giornata, tanta era la purezza dei contorni, la morbidezza del tutto, la varietà delle tinte, la perfetta armonia fra cielo, terra, e mare. Chi lo ha visto una volta, non può a meno di ricordarlo per tutta la sua vita. Ora soltanto, posso dire di comprendere, e di essere capace di apprezzare, e nutro speranza di poterne portare meco il ricordo nel settentrione, l’aspetto magico di queste contrade. Valesse quello almeno a cancellare se non altro la meschinità delle idee de’ miei disegni di capannucce, con il tetto di paglia. Vedremo che cosa sarà capace di produrre, questa regina delle isole.





Non posso esprimervi con parole l’accoglienza che ci ha preparata la natura, con piante di gelso rivestite di frondi recenti, con leandri sempre verdi, con siepi di agrumi, e via via. In un giardino, pubblico ho visto varie aiuole di ranuncoli, e di anemoni. L’aria è mite, tiepida, odorosa; il vento è quasi caldo. La luna è sorta or ora, dietro un promontorio, ed illumina il mare; e tutte queste soddisfazioni, dopo essere stato cullato per quattro giorni, e per quattro notti, sulle onde! Scusatemi se vi scrivo queste cose alla diavola con una penna scellerata, che intingo nell’inchiostro della China, in una conchiglia, la quale servì ai disegni del mio compagno. Intanto, vi giunge quasi un sussurro, che io sto preparando per tutti quanti mi amano, un altro ricordo di queste ore felicissime. Ma non vi voglio dire che cosa sarà, e non vi posso dire neanche quando sarete per riceverlo.





Palermo, martedì 3 aprile 1787.





Vorrei che questo foglio vi potesse far godere, miei cari, della vista della bellezza inarrivabile di questo golfo, partendo da levante, dove sporge in mare un promontorio piano, le cui pareti rocciose rivestite di boschi, e di belle forme, scendono fino ai sobborghi della città, dove stanno le case dei pescatori, ai quali tien dietro la città stessa; e le case all’estremità di questa, al pari della nostra locanda, hanno tutte quante la vista sul porto, fino alla porta la quale siamo entrati.





Di là proseguendo verso ponente si va al punto abituale di sbarco, dovo stanno i legni di minore portata, fino al molo, sul porto propriamente detto, dove approdano le navi di maggiore grandezza. Colà vicino, sorge a ponente, quasi per proteggere tutti quei legni, il monte Pellegrino di forme bellissime, separato da quella che si potrebbe nomare quasi la terra ferma, da una valletta amena e graziosa, la quale scende fino al mare.





Kniep disegnava; io me ne stavo fantasticando, entrambi con grande soddisfazione, e quando tornammo a casa lieti, non ci sentimmo più, nè l’uno nè l’altro la forza, nè la volontà di formare per il momento ulteriori disegni. Non abbiamo pertanto progettato nulla per ora, e questo foglio non deve valere ad altro, se non a farvi testimonianza della nostra incapacità di potere vedere tutto, o piuttosto della nostra mancanza di pretese di riuscire a tanto, sovra tutto in tanta ristrettezza di tempo.

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Published on September 23, 2020 13:20

September 22, 2020

Villa Niscemi

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Non era ancora notte, e, incassata fra le mura, la strada si dilungava bianchissima. Appena usciti dalla proprietà Salina si scorgeva a sinistra la villa semidiruta dei Falconieri, appartenente a Tancredi, suo nipote e pupillo…





Era stata una di quelle rovine totali, durante le quali si fa fondere financo l’argento delle livree….villa Falconieri, cui l’enorme bouganvillea che faceva straripare oltre il cancello le proprie cascate di seta episcopale conferiva nell’oscurità un aspetto abusivo di fasto“.





E’ uno dei tanti brani del Gattopardo, ispirato, come tanti altri a luoghi e personaggi reali: se Tancredi e Angelica sono la trasfigurazione del principe Corrado Valguarnera Tomasi della moglie, principessa Maria Favara Caminneci, la loro villa non è che il ritratto, ovviamente modificato per le esigenze narrative, della loro dimora, Villa Niscemi.





Questa nasce intorno al 1360, a seguito del progetto di rinnovamento delle difese territoriali voluto dagli aragonesi, come torre di guardia, per controllare eventuali assalti in direzione di Palermo provenienti dalla parte di Monte Pellegrino e di Mondello.





Con la modifica di tale sistema di difesa, decisa da Filippo II, che spostò la prima linea di forticazioni sulla costa e al contempo, portò alla costruzione dei bastioni palermitani, tal torre fu dismessa e ceduta alla famiglia La Grua e Talamanca, principi di Carini, che la trasformarono in una villa rustica, il cosiddetto “Baglio Della Balata”.





Nella seconda metà del Seicento, la tenuta agricola fu ceduta principi Valguarnera di Niscemi: sappiamo ad esempio come nel 1686 il vicerè duca di Uzeda regalò al Pretore della città, Giuseppe Valguarnera, il coperchio di un antico sarcofago scoperto in quell’anno nella contrada Cannita (e adesso conservato nel museo Salinas di Palermo).





Con la lottizzazione settecentesca della Piana dei Colli, i Valguarnera, per non perdere la faccia dinanzi agli altri nobili palermitani, decisero di trasformare progressivamente il baglio in una villa nobiliare: processo che raggiunse il culmine a inizio Ottocento, dove, per le vicende raccontate nel post della Palazzina Cinese, i principi di Niscemi si ritrovarono vicini di casa del re Borbone.





Non abbiamo notizie certe sulla disposizione iniziale dell’edificio agricolo, probabilmente doveva prevedere le costruzioni intorno al grande cortile quadrato. Su questo impianto vennero costruite le stanze allineate su due bracci disposti a L: il lato meridionale del baglio, che rappresenta la facciata principale, e quello occidentale che si concludeva a nord nella torre cinquecentesca abbassata e inglobata nei nuovi prospetti.





Dall’Ottocento in poi, viene quindi realizzato lo splendido giardino all’inglese, caratterizzato dal laghetto la cui forma ricorda quella della Sicilia, sappiamo infatti dalla relazione dell’
agronomo Cusmano del 1799 fossero presenti all’epoca solo il carrubo, fichi d’india, mandorlo e olivo e la progressiva decorazione degli interni, di cui fu responsabile, daal 1881 fino alla morte, nel 1896, il buon Giovan Battista Palazzotto.





Giovan Battista, sicuramente meno eccentrico e affascinante di Patricolo o del fratello Francesco Paolo, è di certo il grande padre della Palermo Ottocentesca e Liberty, concependo un’urbanistica a misura d’uomo, incentrata sul decoro borghese e sull’importanza delle infrastrutture a servizio dei cittadini. Fu tra i primi a concepire le strade in funzione del traffico carrabile e si dedicò con massimo impegno a progettare ospedali di moderna concezione.





Nella villa crebbe uno dei più grandi gioiellieri del Novecento, Fulco di Verdura, cugino di Tomasi di Lampedusa, che ricordava così la sua giovinezza.





E io chi ero? Ero un ragazzino piuttosto robusto, ben piantato sulle gambe. Quasi sempre in moto, correndo, saltando su divani e poltrone o arrampicandomi sino in cima agli alberi più alti e cercando di stare in equilibrio a testa in giù. Però qualche volta, fermandomi di botto, mi lasciavo andare a vaghi sogni a occhi aperti e partivo per lontani magici orizzonti. Non pensavo mai all’avvenire ed ero perfettamente felice. A casa generalmente portavo un paio di pantaloncini di serge blu e una maglia a collo alto, stivaletti, e calzette perennemente cadenti. In estate una camicetta, pantaloncini di tela e sandali. Questi abbigliamenti erano chiamati “vestiti di casa”. Per uscire ero vestito, naturalmente, alla marinara. Le uniformi arrivavano regolarmente da Londra, quella d’inverno di lana blu da Peter Robinson e quella d’estate di tela bianca a righini blu da Peter Jones.





Per dire la verità i calzoni dei “vestiti di casa” erano semplicemente quelli nautici dell’anno prima. I due mitici Peter londinesi stuzzicavano la mia fantasia e mi chiedevo se Jones passasse l’inverno in letargo come gli orsi e se Robinson si squagliasse al primo sole di primavera per rinascere in autunno. Il mio copricapo era, secondo le stagioni, un berretto da marinaio o un cappello di paglia dalle larghe falde tenuto in testa per mezzo di un elastico che, a forza di essere masticato, diventava sempre troppo lungo ed era raccorciato da me con piccoli nodi sotto il mento.





Io ero così. O piuttosto così rammento di essere stato in quei distanti anni assolati. Amavo molto disegnare, o meglio scarabocchiare, inventavo paesi tracciandone le mappe con montagne, fiumi,lagni, golfi ed isole.Più tardi cominciai a disegnare vedute di città con monumenti, chiese ed il Palazzo Reale, non concependo a quell’epoca altra forma di governo. Per questi reami inventavo re, regine e ministri che spesso avevano gli stessi nomi dei nostri animali





Oppure, quando ricorda i Florio





Allora, quando ero ragazzo, Palermo era una capitale di provincia, come per dire una capitale da operetta: chi tirava i fili delle marionette erano i Florio. Donna Franca, moglie di Ignazio, era una donna bellissima, ma ci si dimentica che Ignazio stesso era uno degli uomini più belli della sua generazione, biondo con gli occhi celesti. Le Domitille, le Floriane, le Salviati, le Arabelle, hanno gli occhi di Ignazio Florio.





Degna della sua vita, piena di bizzarrie, fu la sua sepoltura, che volle a Palermo: a Pisa, colui che trasportava le ceneri da Londra venne fermato da un poliziotto sospettoso circa la composizione di quella polvere. “Ashes, ashes” – spiegò all’agente – che, ignorante d’inglese, trattenne per qualche minuto i resti di Fulco di Verdura, convinto di avere bloccato un trafficante di hashish.





Nel 1987, le discendenti della casata Margherita (detta Maita) Valguarnera e Maria Immacolata (detta Mimì) Valguarnera, Principessa Romanov, hanno venduto il complesso monumentale al Comune di Palermo che ne ha fatto sua sede di rappresentanza.





La facciata principale di Villa Niscemi è a tre elevazioni con due avancorpi terrazzati protesi verso il giardino, secondo la prassi costruttiva inaugurata a villa Butera di Bagheria e divenuta consueta nella costruzione delle ville di quest’epoca. Classica la maiolica del pavimento, a righe zigzaganti in blu lapislazzuli e la balaustra in pietra calcarenitica tipicamente lavorata. L’accesso al piano nobile, contrariamente agli usi architettonici dell’epoca che prevedevano la scalinata esterna a tenaglia, fu realizzato con una scala interna, inserita in un volume sporgente dal fronte posteriore.





Entrando, il primo salone che si incontra è la Galleria dei Re, così chiamato per la raccolta di ritratti dei re di Sicilia appesa sulle pareti. Nello stesso salotto si trova un camino di notevoli proporzioni e l’albero genealogico di famiglia. Dalla Galleria dei Re si prosegue verso le due ali della villa.A sinistra troviamo il Salotto degli arazzi e la Sala da pranzo, da cui si accede ad una delle terrazze esterne. Rivolgendosi a destra, invece, vi è una sequenza di saloni consecutivi, ordinati secondo il criterio dell’enfilade, cioè una serie di stanze allineate l’una dopo l’altra, com’era d’uso nella grande architettura europea del periodo barocco. Intorno agli anni Cinquanta e Sessanta del Settecento, i principali spazi di rappresentanza vennero interamente affrescati, secondo il diffuso criterio ornamentale a trompe-l’oeil, con i finti stucchi e trafori illusionistici.





Il primo è quello dedicato a Santa Rosalia, caratterizzato da vivaci affreschi a trompe-l’oeil e da un affresco sul soffitto raffigurante l’apoteosi della Santa patrona. Magnificamente affrescato a trompe-l’oeil è il successivo Salotto delle Quattro Stagioni cosiddetto per le allegorie rappresentate sulle pareti lunghe. Sulla parete di fondo, invece, si trova l’affresco con Carlo Magno che dona al principe Valguarnera lo stemma di famiglia, mentre il soffitto è decorato con l’Assunzione della Vergine.





Questa salotto permette l’accesso alla seconda terrazza esterna mentre, continuando il percorso all’interno, si giunge ad altri salottini dai sontuosi decori ed, infine, alle camere private dei principi, costituite da un piccolo studio, dalla camera da pranzo privata e dalle varie camere da letto impreziosite da tetti lignei egregiamente intarsiati ed arredate come se i padroni di casa non avessero mai lasciato la Villa.

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Published on September 22, 2020 05:30

September 21, 2020

La Palazzina Cinese

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Come raccontato per villa Trabia, la Piana dei Colli, tra il Settecento e l’Ottocente, anche per il boom degli agrumeti, si riempì di ville padronali: la più strana di queste era stava voluta dal buon Benedetto Lombardo e Lucchese, barone delle Scale e delli Manchi di Belìce, che era appassionato di lingue e culture orientali, tanto da studiare mandarino e buttare giù una sorta di commentario, alquanto cristianizzato, del pensiero di Confucio.





Bernardo desiderava costruire una villa in stile cinese: ovviamente, avendo vaghe idee di come fossero le case nel Celeste Impero, le immaginava simili a una pagoda. La sua, in realtà, non è che fosse un’idea così bizzarra, nella nobiltà dell’epoca: all’epoca, anche per le relazioni dei viaggiatori e dei missionari gesuiti, la società cinese, con la meritocrazia e il meccanismo dei concorsi per i burocrati, era visto come un modello di buon governo da imitare e grazie all’importazione delle porcellane e delle giade, l’amore per le chinoiserie era alquanto diffuso.





In Italia, ad esempio, i primi ambienti di gusto cinese apparvero a Torino nelle residenze Savoia (il Gabinetto Cinese a Palazzo Reale e le salette cinesi a Villa della Regina), ma un vero capolavoro di preziosismo fu il Salottino di Maria Amalia per la Reggia dei Portici (oggi al Museo di Capodimonte), da cui prese ispirazione il salottino del Palazzo Reale ad Aranjuez.





Ma Benedetto fu il primo a volere un intero edificio in stile orientale, esterni compresi, anticipando anche il Royal Pavilion di Brighton, fatto realizzare da Giorgio IV, reinterpretando a modo suo l’architettura indiana.





Per sua fortuna, Benedetto trovò l’uomo giusto per realizzare la sua ambizione, quel pazzo scriteriato di Giuseppe Venanzio Marvuglia, che per una volta, messe da parte tutte le sue manie neoclassiche, decise di assecondare le voglie del committente: studiò una collezione di vasi Ming, messa a disposizione del Principe di Butera, un paio di rotoli di seta con paesaggi, un regalo di un missionario all’arcivescovo di Palermo e parlò con tre o quattro marinai che erano stati a Macao.





Da questo ehm approfondito studio, buttò giù la prima “casera”, che, per imitare quanto aveva sentito dire sulle case cinesi, era fatta soprattutto in legno: il corpo centrale terminava in alto con un tetto a pagoda, sorretto da un tamburo ottagonale. In più, per dare un tocco di esotico, ne aveva decorato la facciata con uno sproposito di campanellini di metallo, che tintinnavano a ogni spirare di vento, tanto che fu chiamata, con molta fantasia “Villa delle Campanelle”.





Quando Benedetto morì,l’accrocco fu ereditato dal fratello Giuseppe Maria, che avendo gusti più normali, cercò di liberarsene quanto prima, anche perché, per una serie di speculazioni andate a male nel commercio del vino, si era indebitato in maniera spropositata con Antonio Levanti, Pietro Piraino e Gioacchino Failla.





Il problema è che il nobile palermitano medio digeriva al massimo lo stile neoclassico, con qualche citazione egizia, per atteggiarsi a spregiudicato massone: lo stile cinese era troppo d’avanguardia, per i suoi gusti. Per cui, compratori non ne trovava.





A tirare fuori il ragno dal buco, per sua fortuna, arrivò Ferdinando di Borbone, grande appassionato di caccia, che cercava un padiglione che fungesse da base operativa: quando vide la Villa delle Campanelle, in un attimo di fantasia, se ne innamorò.





Non potendola comprare direttamente, il re si inventò un complesso artificio legale per prenderne possesso, ben spiegato da Come ha spiegato da Romualdo Giuffrida in “Il parco della Favorita di Palermo da sito reale a luogo di pubblica fruizione”





“non essendosi presentato alcun compratore, la Gran Corte aveva stabilito che la ‘casena’ potesse essere concessa a censo enfiteutico ( un possesso dietro la cura del bene ed il pagamento di un canone annuo, ndr ) il cui importo annuale sarebbe stato versato ai creditori. Il principe di Aci ne chiese la concessione a nome del re e, ottenuto il consenso del barone Giuseppe Lombardo, incaricò il professore di Architettura don Giuseppe Marvuglia ‘per prezzare li benfatti o siano tutte le opere fatte per la costruzione di detta Casena e sue officine, la villa girata di muri, li benfatti rusticani e le gebbie per adacquare la detta villa, ed in parola tutto ciò che fu erogato per tutte le dette opere ad effetto di stabilire il censo annuale’…”





Il buon Marvuglia fu inizialmente incaricato di sostituire le strutture in legno con quelle in muratura, per poi modificare le coperture sostituendo i tetti laterali con due terrazze simmetriche che presentano delle colonne che sorreggono architravi lignee traforate, mentre nella parte centrale viene la copertura a padiglione viene sovraelevata e sormontata da pinnacolo a doppio calice rovesciato, detta “Specola o Stanza dei Venti”. Infine nei prospetti nord e sud venne aggiunto un portico sorretto da sei colonne in marmo disposte a semicerchio, coronato da tetto a pagoda; dato che, se non sono matti, non li vogliamo, un’ulteriore aggiunta fu commissionata al solito Patricolo, che, sempre per dare un tocco orientale, aggiunse due torrette con scale elicoidali collegate attraverso passaggi aerei ai ballatoi del piano rialzato e del piano nobile.





In più, sempre Patricolo, per non farsi mancare nulla, progettò e realizzò gli adiacenti “padiglioni orientali” dedicati alle cucine e alle stalle, mentre al contempo fu disegnato lo straodinario giardino all’italiana.





Al piano rialzato si trova la grande sala di rappresentanza, decorata con pitture raffiguranti scene di vita orientale a cui erano accostate bellissime tappezzerie. Da questa si accede da una parte alla sala da pranzo, anch’essa decorata con scene orientali di campagna e al cui centro si trova la “tavola matematica”, progettata dallo stesso architetto Marvuglia e costruita a Napoli. Si tratta di una struttura in legno molto ingegnosa che, tramite un sistema di pulegge, permette di fare salire e scendere le vivande. In pratica il quadrante centrale ed i fori laterali potevano scendere fino alla cucina, venire caricati di vivande e stoviglie, e quindi riportati al piano rialzato. Questa tecnica andava piuttosto di moda in quel periodo, si trova qualcosa di simile nei castelli bavaresi di re Ludwing, ed in pratica aveva lo scopo di preservare la privacy, perché consentiva di pranzare senza la presenza della servitù. Nella camera da letto del re invece è ancora visibile il letto a baldacchino formato da un colonnato.





Al primo piano troviamo le stanze delle dame e dei cavalieri, suddivise in spazi maschili e spazi femminili, con uno stile neoclassico. Il secondo invece era riservato alla regina Maria Carolina, la quale scelse una decorazione con uno stile più variegato. Passando da una stanza all’altra si ha un vistoso cambio di stile, come a volere raccontare in questo breve percorso tutti gli stili che caratterizzano la palazzina. Si comincia con la stanza alla turca, con divani triangolari posti ai lati e con decorazioni fatte di sole e mezze lune stilizzate. Si passa successivamente alla Sala Ercolana, in stile impero, tipico di quel periodo, anche grazie al ritrovamento delle antiche città di Pompei ed Ercolano. Infine si arriva alla camera da letto della regina, in stile neoclassico, in cui spicca il bagno denominato gabinetto delle pietre dure, caratterizzato da un intarsio realizzato appunto con pietre dure, marmo e paste vitree.





Curioso sapere che la sovrana, che si dilettava di pittura, dipinse lei stessa alcuni decori, più esattamente dei piccoli ritratti monocromi della sua famiglia: sotto le testine dei figli, ancora bambini, aveva scritto “Immagini di mia tenerezza”; sotto il profilo di Ferdinando “Il mio sostegno”; sotto l’immagine del primogenito “La mia speranza” e poi sotto se stessa, sbagliando genere, aveva scritto nella didascalia “Me stesso”.





Infine l’ultimo livello, cui si accede attraverso quattro scale a chiocciola in ferro poste sulle terrazze laterali, è la già citata “Stanza dei Venti”, l’ambiente posto al termine dell’intera costruzione, originariamente destinato ad osservatorio astronomico, altra grande passione di Re Ferdinando.





Nel seminterrato si trova invece la sala da ballo ed il bagno. La disposizione probabilmente non è casuale, poiché spesso l’orchestra suonava anche quando i reali facevano il bagno. Una specie di filodiffusione con orchestra in diretta! Particolare in questo piano è anche una saletta, utilizzata come sala buffet, chiamata sala delle codine, e decorata in modo particolare. Guardandola si ha quasi l’impressione che non sia stata restaurata, che il tetto si sia rovinato e che la muffa abbia preso il sopravvento, danneggiando gli affreschi. Ed invece si scopre che questo è il decoro originale della stanza, realizzato in questo modo.

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Published on September 21, 2020 11:10

September 20, 2020

Villa Trabia alla Terre Rosse

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Villa Trabia alla Terre Rosse, uno splendido parco al centro di Palermo, proprio sopra il Giardino Inglese, nasce nel Settecento, in seguito al progressivo mutamento della abitudini della nobiltà locale. All’epoca, infatti, villa si trovava ad un miglio circa dalla città murata, in un’area che era ben oltre l’estrema periferia e che era destinata sia all’agricoltura, sia alle cave di materiale edile.





Secondo quanto racconta Vincenzo Ostinelli, capo giardiniere della villa a inizio Novecento





non era che un fondo rustico in grande parte incolto, con alquante terre coperte di ulivi, sommacco e fichi d’india e con un piccolo appezzamento rivestito di agrumi ed altri alberi da frutta.





Le cose cambiarono nel Secolo dei Lumi: i principi palermitani decisero di adottare l’abitudine francese della villeggiatura, costruendo delle ville fuori porta, in cui trascorrere la bella stagione, che a Palermo va da Aprile a Novembre. Ovviamente, il motivo non era puramente edonistico: è il periodo in cui l’agricoltura siciliana, che era sempre destinata all’esportazione, cambia progressivamente tipologia, passando dai cereali alla viticultura e alla coltivazione degli agrumi. Il che implicava un diverso modello di gestione del latifondo, con il maggior coinvolgimento dei proprietari.





Questa corsa alla campagna, solo nell’area della Piana dei Colli, compresa tra i Monti Pellegrino, Gallo, Billiemi, nel Settecento furono costruite 72 ville, provocò una sorta di antecedente di quello che due secoli dopo sarà chiamato Sacco di Palermo, con speculazioni, lottizzazioni e truffe di ogni tipo.





Villa Trabia non fa eccezione: nel 1740, reverendo Nunzio Serio riuscì a ottenere dal convento di San Francesco di Paola a prezzo di favore il latifondo delle Terre Rosse, per il particolare colore del suo terreno ferroso, che lottizzò, speculando in maniera vergognosa.





Uno dei lotti, in cui vi era un casolare rustico, una casena, fu acquistato nel 1756 da don Paolo Spinelli, che decise di trasformare il tutto un una villa rococò con un giardino di gusto francese. Alla morte di don Paolo, i nipoti vendettero il tutto a Ignazio Gaetani, Principe di Cassaro, che ampliò il terreno comprando i lotti vicini, trasformandolo in una tenuta di campagna vera e propria e ingrandirono il giardino alla francese.





La casa, la fontana principale, il viale d’accesso (Viale della Catena, chiamato così per via di una catena posta all’ingresso su dei cippi…) e il ponte con un belvedere furono tutti allineati ad un asse centrale. Questo lungo e celebrativo viale d’ingresso alberato, che prelude alla dimora, la disposizione di un parterre a ridosso della stessa e la simmetricità generale nel disegno della villa seguiva lo stile del paesaggista francese André Le Nôtre di grande moda fra la nobiltà palermitana del Settecento. Per la ricca vegetazione e per la sua bellezza ,a quel tempo la tenuta era nota come Casina Villa fiorita. Alla morte del principe Gaetani, non avendo questo eredi diretti, la proprietà passò al cognato Ignazio Lucchesi Palli, principe di Campofranco, il quale, per pagare un grosso debito, la cedette nel 1814 a Giuseppe Lanza Branciforti, principe di Trabia, vinse l’intera proprietà al tavolo da gioco. Proprio dai principi di Trabia la villa prese il nome.
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I Trabia trasformarono gradualmente il giardino secondo lo stile inglese, rendendolo un vero e proprio orto botanico, famoso in tutto il mondo. Un inventario redatto da Vincenzo Ostinelli nel 1910 enumerava 2.790 specie di piante e nelle serre, ora ridotte ai minimi termini, si coltivavano rose, agrumi e più di 200 specie di orchidee.





Vi era in fondo alla tenuta una zona, le pirriere (cioè le cave), da cui fu tratto la calcarenite dell’Ucciardone, che, alla fine dell’800 ospitavano persino lo zoo privato dei principi di Trabia in grotte naturali; in più le gazzelle africane, che i Trabia cercarono di introdurre in Sicilia e di addomesticare, convinti che la loro carne fosse un’ottima alternativa a quella delle pecore e delle capre, vagavano liberamente tra le piante esotiche.





Al contempo, modificarono la villa padronale: il compito fu affidato al buon Giuseppe Patricolo, l’inventore del fantomatico stile arabo normanno, che nonostante meriterebbe di essere spernacchiato a oltranza dai posteri, è troppo simpatico per essere esposto a pubblico ludibrio.





La villa aveva, in origine, come la maggior parte dei palazzi di campagna di un tempo, una pianta ad U, costituita da un corpo centrale e due bracci laterali abbelliti da due rampe di scale che permettevano l’accesso al piano nobile. Nel suo progetto di ammodernamento Patricolo pose questo scalone all’interno della villa per dare un senso di eleganza e regalità all’ingresso. L’iscrizione latina “Una volta sotto il cielo, ora all’interno, decorate, le scale si innalzano” si riferisce proprio al fatto che lo scalone era stato trasferito all’interno.





Sopra l’apertura centrale, al primo piano, c’è il grande balcone del piano nobile con lo stemma del casato dei Branciforti, il leone rampante, e la statua di santa Rosalia. Sulla facciata e sulle ali laterali sono visibili motivi floreali. Le aperture del piano terra si affacciano su una terrazza rialzata rispetto al giardino, a cui si accede attraverso una gradinata. Le aperture del primo piano si affacciano su vecchi balconi costruiti con ringhiere in ferro battuto a petto d’oca. Le aperture sono completate da cornici. All’interno di ogni cornice si notano nuovamente motivi floreali: uva, rose, melagrane.





L’ultimo proprietario fu un personaggio da romanzo, Raimondo Lanza di Trabia che nacque in un paesino della Lombardia (oggi frazione di Erba), da una relazione clandestina tra il nobile siciliano Giuseppe Lanza Branciforte principe di Scordia (che fu deputato e sottosegretario alla Guerra) e la nobildonna veneta Maddalena Papadopoli. Per legittimarlo, la nonna, Giulia Florio, fece redigere da Mussolini una legge ad hoc.





Fu tenente del Regio Esercito durante la seconda guerra mondiale, fra il 1940 e il 1943. In quegli anni frequentò e fu amico del ministro degli esteri Galeazzo Ciano, di Curzio Malaparte e Gianni e Susanna Agnelli. Grazie ai suoi contatti con i servizi segreti inglesi, fu anche amante di una loro spia, provò più volte a organizzare un colpo di stato contro Mussolini, per giungere a una pace separata con gli Alleati e salvò la vita a numerosi ebrei.





Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, aderì al Regno del Sud, fu aiutante di campo del generale Giacomo Carboni al SIM, operando fino al giugno 1944 nella Roma occupata dai tedeschi, ottenendo una medaglia di bronzo al valor militare, e poi agì quale ufficiale di collegamento con le forze alleate fino al 1945.





Amante di Rita Hayworth e Carroll Baker e marito dell’attrice Olga Villi, Raimondo aveva un gran gusto, in fatto di donne, fu presidente del Palermo Calcio e corridore automobilistico: negli anni 1930-40 proprio alle Terre Rosse venivano esposte le auto prima della partenza della Targa Florio.





Il suo originario ingente patrimonio, inclusivo di attività minerarie e derivante in parte dalle sostanze dei Florio entrate a far parte del patrimonio dei Lanza di Trabia e Butera, si polverizzerà del tutto nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, subendo un colpo considerevole a causa della riforma agraria e della crisi delle solfatare.





Morì nel 1954 per un sospetto suicidio, in circostanze misteriose e mai acclarate, in seguito a una caduta da una finestra del primo piano dell’Hotel Eden di via Ludovisi a Roma. La sua morte, recentemente si è parlato anche di omicidio, ispirò Modugno, suo grande amico, il testo della canzone Vecchio Frack.





Dopo il 1960 gli eredi dei principi di Trabia,per motivi economici, tenteranno di lottizzare, cioè suddividere il parco in più lotti, per venderlo, suscitando non poche polemiche. Per qualche anno la villa venne ceduta al Banco di Sicilia. Nel 1980 il Comune di Palermo acquisterà una parte della tenuta messa all’asta e, nel 1984, anche la villa e il rimanente terreno: attualmente Attualmente la villa ospita una sede distaccata del comune di Palermo, una biblioteca pubblica, una videoteca, una biblioteca per bambini ed un internet point gratuito

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Published on September 20, 2020 10:42

September 19, 2020

Il carcere dell’Ucciardone

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L’antica Palermo, come tutte le città in epoca pre-moderna era strapiena di carceri: i motivi, erano essenzialmente tre. A quei tempi, molte infrazioni che oggi sono punite al massimo con una multa, invece portavano diretti al gabbio. Al contempo, gli edifici carcerari, la cui concezione era ispirata ai conventi, erano assai più piccoli degli attuali, quindi è facile comprendere, che per imprigionare un numero maggiore di detenuti, ce ne volessero assai di più. Infine, i carceri tendevano a essere distinti per tipologia sociale.





Ad esempio, sino al 1820 il Palazzo arcivescovile ospitò celle per gli ecclesiastici colpevoli di delitti e, dunque, sottratti alla giurisdizione statale per via di antichi privilegi. Nei pressi della chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio (piazza Bellini) c’erano le carceri della Corte del Pretore, altre si trovavano dentro l’odierno Palazzo Municipale denominate le “Carboniere”. Secondo il Marchese di Villabianca, nel 1553 furono impiantate altre carceri nei pressi di Porta Carini. Tutte queste erano dedicate alla borghesia e agli impiegati statali, soprattutto colpevoli di malversazione e corruzione.





Castello a mare fungeva da carcere per i nobili, che ovviamente godevano di trattamenti di favore, e per chi complottava contro lo Stato. Nonostante le comodità, i detenuti, a causa della connotazione militare della struttura, qualche rischio lo correvano: con l’esplosione della polveriera del Castello, sul finire del 1593, persero la vita, compreso il poeta monrealese Antonio Veneziano. Nel XVIII secolo, dentro l’Arsenale, furono costruite celle per una categoria di detenuti particolari, i debitori insolventi e gli evasori fiscali, condannati al “remo” e alla “catena” sulle galee militari. Al famigerato Steri, dove probabilmente sarebbe finito il sottoscritto, vi erano le celle per i prigionieri dell’Inquisizione. All’interno del Quartiere di San Giacomo, invece, vi erano le carceri militari, chiamati “Bomba”.





Ma i peggiori, come spesso accade erano le carceri a cui erano destinati i morti di fame, la Vicaria, costruito nel 1578 come dogana, essendo nei pressi di Piazza Marina, ma che rapidamente cambiò funzione. Divenne prima sede dei Tribunali, poi dal 1593, carcere.





Qui, i detenuti, sia uomini, sia donne, vivevano in condizioni inumane: ammassati in enormi cameroni senza le minime condizioni igienico sanitarie. Rimanevano inoperosi tutto il giorno, perciò passavano il tempo giocando a carte, dadi, o divertendosi col gioco del pidocchio, consistente nell’introdurre uno o più pidocchi dentro una specie di cerbottana e soffiando li lanciavano sui passanti.





Il resto della giornata stavano appiccicati alle inferriate che davano sul Cassaro, in attesa di parlare con i parenti e gli amici. Quelli che si provavano a piano terra, allungando la mano fuori dall’inferriata chiedevano l’elemosina o per acquistare qualcosa dai venditori ambulanti che stazionavano sul posto.





Anche i detenuti che si trovavano nei piani alti, usando una cordicella attaccata ad una “coffa” (cesto di vimini) acquistavano il necessario. La notte, le guardie di ronda facevano scorrere un bastone di legno lungo le grate di ferro giorno e notte, per controllare che fossero integre. Cosa che provocò infinite proteste da parte degli abitanti della zona, che si lamentavano di non poter dormire.





Nel 1627, per alleviare le sofferenze dei carcerati fu fondata la Venerabile Opera di Nostra Signora di Santa Maria di Visita Carcere allo scopo di provvedere ai bisogni di “quei miserabili che gemono nelle carceri di questa felice e fedelissima Città”. I Deputati di questa Opera avevano le loro stanze al pianterreno della Vicaria e si occupavano del vitto, del vestiario e della salute dei detenuti.





Nel cortile all’ingresso della struttura, oltre all’alloggio del boia, pare che vi fossero accatastati gli strumenti di tortura, tre forche, scale e gli steccati per gli atti di giustizia, ed esternamente ai due lati del fabbricato pare che ci fossero due fontane.





Il prigioniero che entrava alla Vicaria era tenuto a pagare, di tasca sua, “i diritti dei carcerati” pari a due tarì e quattro grana quale compenso per il Castellano (il dirigente del carcere) e delle guardie. In più, doveva pagare nove grana come contributo per l’olio della lampada





Se, per ipotesi, non era in grado di pagare, perché non possedeva soldi, veniva depredato di quei pochi capi di vestiario che aveva addosso, rimanendo completamente nudo anche durante l’inverno. Il “Rancio” era appena sufficiente alla sopravvivenza. La spesa per il vitto era a carico delle casse regie, tuttavia la maggior parte del denaro che serviva per l’acquisto del cibo per gli “ospiti” della Vicarìa finiva nelle tasche del Castellano e dei suoi aiutanti. Venivano cucinati normalmente soltanto legumi … La carne la si vedeva raramente, in occasione delle grandi festività o della visita di qualche Autorità assieme alla sua Corte, e comunque per non più di un oncia a testa, di pessima qualità e malamente cucinata. Infine, mancava del tutto l’infermeria: se un detenuto si sentiva male, doveva pagare di tasca propria il trasferimento all’Ospedale Grande di Palazzo Sclafani.





Benché a fine Settecento, cominciassero ad arrivare le prime ordinanze da parte dei vicerè, per rendere queste carceri più umane, il 19 settembre 1773, a seguito di moti popolari, danneggiò tutto l’edificio, compresa una pila di pietra (ove si suppliziavano i detenuti) che, per la sua funzione, aveva dato origine ad una brutta imprecazione “chi putissi vidiri la pila!” (che possa andare in galera!).





Ora a seguito delle continue lamentele dei nobili che avevano i palazzi sul Cassaro, nate più per motivi di decoro urbano che per ragioni umanitarie, i Borboni decisero di prendere di petto il problema. L’occasione fu data nel 1806 dall’ennesimo memoriale di protesta dei detenuti: re Ferdinando, che per colpa di Napoleone, si era trasferito a Palermo, volle apparire come magnanimo difensore dei diritti dei sudditi più malridotti.





Per prima cosa, le detenute, furono trasferite allo Steri, sequestrato all’Inquisizione: per non fare apparire il rimedio peggiore del male, l’intero complesso fu ristrutturato, le celle furono ampliate e furono costruite delle infrastrutture, come l’infermeria e la messa, per renderlo più vivibile.





Poi, decise di fare realizzare un nuovo carcere, le Grandi Prigioni Centrali o Vicaria Nova, che avrebbe dovuto rispondere ai più avanzati principi illuministici. Ferdinando, infatti, era rimasto affascinato dall’idea del Panocticon di Bentham, che il filosofo utilitarista, oltre ad averlo propagandato in diversi saggi, aveva applicato nella sua fabbrica, in cui faceva lavorare dei carcerati





Il principio base di tale carcere è ben descritto in “Bentham ed il Panopticon“ di Andrea Friscelli





Il modello Panopticon non fu soltanto un semplice prototipo architettonico ma un vero e proprio metodo educativo/pedagogico. Questi non sarebbe altro che un carcere ideale, progettato in modo che le celle, disposte a raggiera, avessero pareti trasparenti davanti e dietro non sui lati, cosicché i detenuti non potevano vedersi e la luce consentisse al guardiano, posto su una torretta situata al centro dell’edificio simile a un faro, di osservare e controllare in ogni ora del giorno e della notte le loro attività. Il sorvegliante osservava i carcerati attraverso persiane schermate, le quali non permettevano a questi ultimi di sentirsi controllati. Questa strategia li costringeva a tenere comportamenti moralmente corretti (primo presupposto per un pentimento e ravvedimento), al punto che non era necessaria la presenza costante di un controllore, poiché la stessa struttura carceraria così come configurata garantiva da sola la massima sicurezza.





Bentham era convinto, infatti, che le percosse e le angherie, all’ordine del giorno nelle carceri, si potessero sostituire con l’isolamento e la pervasiva certezza che qualcuno ti osservava. Il modello carcerario “panottico” migliorò il trattamento dei detenuti, rappresentando anche un tentativo di riabilitare velocemente soggetti per il ritorno in società e al lavoro. Si può discutere se il metodo dell’isolamento portasse davvero dei miglioramenti nella psiche e nella coscienza dei detenuti, inducendo in loro una revisione della condotta di vita, in ogni caso va riconosciuto a Bentham di aver provato a migliorarne la condizione, garantendo almeno una reclusione non violenta.





I Borboni, convinti della sua validità, oltre che al carcere di Palermo, lo applicarono a quello dell’isola di Santo Stefano, a quello di Avellino e di Campobasso. Per prima cosa, Ferdinando scelse il luogo della nuova struttura, ben lontano dal centro della città, per evitare le lamentele dei residenti.





Fu scelto così il Piano dell’Ucciardone, delimitato dal borgo e dalla chiesa di Santa Lucia da un lato, dal convento della Consolazione dall’altro, mentre nei restanti versanti si trovavano campi coltivati e cave di pietra. Il nome Ucciardone con tutta probabilità proviene dal francese “Le chardon”, ovvero il cardo spinoso, che abbonda nei terreni incolti di tutta la Sicilia. Secondo un documento del 1549, conservato presso la Biblioteca Comunale, in cui il terreno è appunto menzionato come “planus cardonum” cioè piano dei Cardi, qui vi si portavano i buoi a pascolare.





Poi Ferdinando mise in piedi una commissione tecnica d’avanguardia, costituita dagli architetti Luigi Speranza, Nicolò Puglia e Vincenzo Di Martino, che presentarono almeno tre progetti: l’ultimo, che presentava due possibili ipotesi per il muro di ronda del carcere, segnato ai vertici da torrette, uno ad andamento ottagonale e con fossato dinanzi all’ingresso e l’altro, invece, ad andamento mistilineo, secondo la forma degli edifici in cui si articola il penitenziario, con palesi rimandi alla Maison des jeunes détenus parigina.





Quest’ultima ipotesi è di particolare interesse poiché il muro di recinzione in corrispondenza dell’edificio dell’ingresso si prolungava a formare una esedra monumentale conclusa da piloni, quasi una vera e propria piazza, posta a inquadrare la facciata monumentale del carcere, assegnando così una spiccata valenza urbana al nuovo complesso, in previsione di una possibile espansione della città. Proprio questo disegno venne sottoposto all’approvazione personale di Ferdinando II, che dato il suo spiccato interesse per l’architettura carceraria, lo revisionò ulteriormente.





La pietra necessaria per costruire il maestoso edificio fu cavata dalla tenuta Terre Rosse appartenente ai Baroni Lanza di Trabia. Gli enormi buchi, furono successivamente trasformati in un giardino all’inglese che è ancor oggi uno degli angoli più belli di Palermo, di cui parlerò nei prossimi giorni.





Tuttavia, i tre architetti dovettero affrontare un problema imprevisto: sotto l’area centrale del progetto scorreva l’antico letto fluviale del torrente Passo di Rigano, chiamato nel passato Rio Lisciardone, che era stato deviato qualche decennio prima, sulla costa dell’Acquasanta per evitare l’interramento del porto con i suoi sedimenti, avendo proprio lì a Santa Lucia la sua foce. Peccato che nessuno aveva avvertito i tre architetti del problema, che scavando le fondamenta, invece del tufo si trovarono bensì da sedimenti plastici e cedevoli di limi argillosi e torba. Di conseguenza, sin dall’inizio, gli edifici cominciarono a sprofondare. Per evitare il disastro, Luigi Speranza, Nicolò Puglia e Vincenzo Di Martino furono cacciati a pedate e sostituiti dal buon Emmanuele Palazzotto, che nonostante i suoi gusti estetici peculiari, aveva una formidabile formazione ingegneristica. Emmanuele, tra l’altro, per i casi della vita, era impegnato nel trasformare il vecchio carcere della Vicaria di Palermo nel Palazzo delle Reali Finanze, innestandovi nella facciata un incongruo portico dorico-siculo, ispirato al Tempio di Segesta. All’Ucciardone, ovviamente, non prese iniziative così strampalate: rafforzò le fondamenta, alleggerì la struttura, abbassò la torre centrale, che rischiava di fare la fine di quella di Pisa, modificò la disposizione a raggiera dei corpi di fabbrica destinati alla celle.





Terminati questi benedetti lavori, all’Ucciardone venne assegnato il seguente personale:





• 1 Comandante di 1^ classe con ducati 25 al mese di soldo;
• 1 Meritorio con ducati 4;
• 1 Cappellano con ducati 16;
• 1 Comite con ducati 13;
• 2 Algozini con ducati 10 per ciascuno;
• 12 Custodi con ducati 9 per ciascuno;





In tutta la sua vita, di brutte storie all’Ucciardone ce ne sono state a iosa, come l’omicidio di Gaspare Pisciotta o l’omicidio di Vincenzo Puccio e dal suo interno, tante volte, è partito l’ordine di eliminare qualcuno. Però, vorrei concludere questo racconto, con una storiella divertente, ossia quando nel carcere fu scoperto il petrolio.





A quanto pare, negli anni Sessanta, sotto i pavimenti di alcune sezioni del carcere passava un oleodotto che portava benzina già raffinata dal deposito dell’Uditore alle cisterne del porto; ebbene, alcuni detenuti riuscirono a trivellare, a forare l’oleodotto e a tirar su la benzina con una pompa di fortuna. La benzina veniva poi travasata in bidoni e portata fuori dal carcere.

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Published on September 19, 2020 10:54

September 17, 2020

Faillo di Crotone

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Pochi se ne ricordano, ma il prossimo 29 settembre si celebreranno i 2500 anni della battaglia di Salamina. Battaglia il cui ruolo storico è forse esagerato, è assai più importante Platea, combattuta l’anno successivo: poi, in fondo, se Serse avesse vinto e conquistato la Grecia, forse sarebbe cambiato ben poco, nella nostra Storia.





I Persiani, dovendo gestire un impero in cui c’era di tutto e di più, delegavano molto al potere locale e tendevano a mettere bocca il meno possibile sulle abitudini e credenze dei loro sudditi, a patto che pagassero con regolarità le tasse ed evitassero di scannarsi tra loro. Per cui, in un’Atene persiana, ci sarebbe stata una democrazia, ma di certo non l’incubo delle guerre del Peloponneso: forse un Socrate, pur discutendo in piazza della natura del Bene e del Giusto, avrebbe evitato di brindare con la cicuta.





Poi diciamola tutta, i Persiani hanno influenzato la nostra civiltà tanto quanto i greci: la nostra etica, il nostro pensiero religioso ed escatologico più che di Abramo, è figlio di un profeta tanto geniale, quanto sottovalutato, il buon vecchio Zarathuštra o Zoroastro, come preferite chiamarlo. Ebraismo, Cristianesimo e Islam, in tutte le forme che assumono, non sono che variazioni sul tema della sua predicazione.





Ora, le poche opere di narrativa che cita tale battaglia, Xerxes di Frank Miller o 300 – L’alba di un impero, non citano però uno dei personaggi più affascinanti che parteciparono a quell’epopea, Faillo di Crotone.





Faillo, benchè non partecipasse alle Olimpiadi, era un fervente pitagorico e tra le tante stranezze del filosofo di Samo vi era una cordiale antipatia per questa manifestazione sportiva, trionfò più volte nei Giochi Pitici, che si tenevano in onore di Apollo a Delfi; all’inizio, questi erano unicamente delle competizioni musicali ma poi vennero estese anche al canto ed alle performances strumentali. Successivamente vennero aggiunti anche giochi ginnici e competizioni come le corse dei carri. Grazie al buon Pausania, sappiamo che





Nei Giochi Pitici ne riportò tre; due del pentathlon (o quiiiquerzio) , ed una terza nella corsa dello stadio. La sua celebrità era dovuta ai record atletici che infranse: saltò una lunghezza pari a 55 piedi (circa 15 metri) e lanciò il disco ad una distanza di 95 piedi (circa 26 metri). Se la distanza del salto è notevole anche per i tempi moderni, la distanza del lancio sembra piccola rispetto agli standard odierni. Questo dipende da due cose: il maggiore peso del disco, pari a circa 5 kg e dal diametro di 30 cm e la diversa tecnica di lancio.





Filostrato, autore che visse tra il II ed il III sec. d.C.,nella sua opera Le Immagini la descrive, parlando di un quadro che raffigurava la morte di Giacinto. Da questo documento sappiamo come l’atleta compisse una torsione a destra piegando il braccio con cui reggeva il disco, per poi lanciarlo con una semirotazione. La statua di Mirone fotografa l’attimo precedente il lancio, in cui l’atleta concentra al massimo le sue energie che confluiranno nell’azione del getto del disco.





Le imprese di Faillo furono così famose, che un secolo dopo vennero citate nelle commedie di quella linguaccia di Aristofane. Negli Acarnesi dice infatti





Oh, me infelice, maledetta la vecchiaia! (Anfiteo) non mi sarebbe sfuggito al tempo della mia giovinezza quando io, anche se portavo un carico di carbone, correvo e tenevo dietro a Phayllos





mentre nelle Vespe





Quando ero ancora giovane inseguii e presi il corridore Phayllos.





In più, il nostro eroe fu addirittura ritratto in diversi vasi a figure rosse della sua epoca: insomma una vera star. Ma la vera gloria, come detto, la raggiunse durante la Seconda Guerra Persiani. I greci, disperati, avevano provato a chiedere aiuto alle loro colonie in Italia e in Sicilia, ricevendo come risposta quantità industriali di pernacchioni.





L’unica eccezione fu Faillo, che da privato cittadino, armò un trireme e, nonostante avesse superato la cinquantina, lo condusse in battaglia a Salamina, al fianco degli altri greci, coprendosi d’onore, tanto da essere citato dallo stesso Erodoto





Dei popoli che vivono fuori da questi limiti, gli unici ad aiutare la Grecia in pericolo furono i crotoniati, con una nave comandata da Faillo, tre volte vincitore ai giuochi pitici. I crotoniati sono di stirpe achea





L’impresa scaldò tanti i cuori degli Elleni, che gli dedicarono una statua a Delfi nel recinto sacro di Apollo. Gli Ateniesi, poi, che come xenofobia e puzza sotto al naso non erano secondi a nessuno, gli dedicarono un tripode sull’Acropoli, proprio davanti al Partenone, accompagnato con un’iscrizione rinvenuta nel 1889, che pur nel suo stato frammentario, è stata integrata e ricostruita nella parte centrale e che l’esegeta Moretti nel 1953 così tradusse:





“… Phayllos dedicò, tre volte vincitore nell’agone pitico e vincitore delle navi che l’Asia spedì (contro la Grecia)“.





Negli anni ’30, lungo la spiaggia tra Capo Colonna e Capo Cimiti si recuperò casualmente un cippo, con ogni probabilità, la metà di un’ancora iscritta, variamente datata tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C su cui era incisa l’epigrafe





Zeus Melichio,
Phayllos eresse





Un ex voto per Zeus facile da invocare e dolce come il miele, che Faillo ringraziò, per il buon esito della spedizione a Salamina.





Infine, sappiamo dal solito Plutarco che, in onore di quest’unico greco d’Occidente che corse in aiuto della Madre Patria, Alessandro Magno inviò più tardi a Crotone parte del bottino frutto dello scontro decisivo sostenuto con i Persiani a Gaugamela

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Published on September 17, 2020 11:58

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Alessio Brugnoli
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