Alessio Brugnoli's Blog, page 51
October 17, 2020
Ibn Battuta, viaggiatore
Ibn Battuta, arabo marocchino, è uno dei più grandi viaggiatori della Storia: in quasi trent’anni, dal 1325 al 1354, girò per mezzo mondo, dal Nord Africa fino in Cina, percorrendo il sudest europeo, il Medio Oriente, il centro e il sudest asiatico, la Russia, l’India, il Kurdistan, il Madagascar, Zanzibar, Ceylon o, in Occidente, i regni di Aragona e Granada e del Mali, che avrebbe visitato in viaggi successivi. In totale percorse più di 120.000 kilometri.
Iniziò le sue peregrinazioni nel 1325, a ventuno anni, partendo dalla sua città natale e dirigendosi in pellegrinaggio alla Mecca. Così racconta la sua decisione
Partii solo, senza un amico che mi allietasse con la sua compagnia e senza far parte di una carovana, ma ero spinto da uno spirito risoluto e sottacevo in cuore lo struggente desiderio di visitare quei Nobili Santuari. Così mi decisi ad abbandonare coloro che – donne e uomini – amavo e lasciai il mio paese siccome un uccello s’invola dal nido. I miei genitori erano ancora in vita e soffrii molto a separarmene: sia io che loro ne provammo una gran pena.
Quando iniziò a viaggiare le navi aragonesi, veneziane e genovesi controllavano il Mediterraneo, ma durante i suoi andirivieni calpestò suolo cristiano solo in Sardegna, che apparteneva alla Corona di Aragona, e a Costantinopoli, la capitale dell’Impero bizantino.
La sosta sull’isola non fu delle migliori: Ibn Battuta comincia la sua descrizione parlando
Un’isola cristiana dotata di un porto straordinario, tutto circondato da grandi travi in legno e con un’entrata simile a una porta che viene aperta solo quando se ne dà il permesso
il che fa pensare che la nave aragonese su cui si era imbarcato avesse attraccato a Cagliari, cosa che è confermata da un altro dettaglio
Sull’isola sorgevano diverse fortezze ed entrati in una di queste vedemmo che ospitava diversi mercati
Ma a questo punto della descrizione, Ibn Battuta, rivela la sua preoccupazione, dato che la Sardegna Aragonese era uno principali mercati mediterranei degli schiavi di origine musulmana e di certo, il viaggiatore non voleva finire in catene
Io feci voto all’Altissimo che avrei digiunato per due mesi consecutivi se ci avesse fatti ripartire sani e salvi, perché avevamo saputo che gli abitanti dell’isola avevano intenzione di inseguirci non appena fossimo usciti, per farci prigionieri. Comunque ne venimmo fuori vivi e dopo dieci giorni giungemmo a Tanas.
Ben diversa è la descrizione di Costantinopoli
Costantinopoli, di una grandezza sterminata, è divisa in due parti fra le quali scorre un maestoso fiume, l’Absumi, dove la marea si fa sentire, come succede con il fiume di Salè, in Marocco. Un tempo c’era un ponte in muratura, ma poi è andato distrutto e ora il fiume si attraversa solo in barca. Una delle due parti della città, Istanbul (Astanbul), sorge sulla sponda orientale del fiume e ospita le residenze del sovrano, dei grandi dignitari e del resto della gente. Strade e mercati, ampi e lastricati in pietra, comprendono quartieri separati per ogni gilda e sono muniti di porte che la notte vengono tenute chiuse – artigiani e venditori, fra l’altro, sono quasi tutte donne. Questa parte della città, con al centro la basilica, si trova a piè di un monte che si protende nel mare per circa nove miglia ed è largo altrettanto se non di più: in cima vi hanno sede una piccola roccaforte e il palazzo del sovrano, e intorno scorrono le mura, ben fortificate e inaccessibili a chiunque dalla parte del mare, che racchiudono all’interno circa tredici borghi abitati
Quanto alla seconda parte della città, Galata (al-Ghalata), sorge sulla riva occidentale del fiume, tanto vicina al corso d’acqua quanto lo è Rabat al suo fiume (il Bou Regreg), ed è riservata alle abitazioni dei cristiani d’Occidente, che di svariata provenienza – genovesi, veneziani, romani e franchi – sono tutti sotto la giurisdizione del sovrano di Costantinopoli. Questi nomina suo luogotenente uno di loro che sia gradito agli altri – il cosiddetto qumis – e impone loro un tributo annuale, ma a volte capita che gli si rivoltino contro e allora il sovrano li combatte finché il Papa non interviene a ristabilire la pace. Lavorano tutti nel commercio e hanno un porto fra i più grandi al mondo: vi ho personalmente visto un centinaio di navi simili alle galere e altre di pari grandezza, oltre a un numero incalcolabile di barche più piccole. Quanto ai mercati, sono belli ma pieni di immondizie e attraversati da un rigagnolo d’acqua sporca lurida – anche le chiese, del resto, a Galata sono sporche e non hanno nulla d’interessante
Lo colpì invece molto Santa Sofia
Descriverò solo l’esterno, perché dentro non l’ho vista. La chiamano Aya Sufiya e dicono sia stata costruita da Asaf ibn Barakhya, figlio della zia materna di Salomone. Fornita di tredici porte e circondata da mura come una città, è una delle più grandi chiese bizantine e comprende un sacrato lungo circa un miglio, con un enorme portone che tutti possono varcare – e infatti anch’io ci sono entrato insieme al padre del sovrano, di cui parlerò oltre. Questo sacrato, dunque, sembra una sala delle udienze: lastricato in marmo, è attraversato da un rivo d’acqua che, uscendo dalla chiesa, scorre fra due argini alti circa un cubito, di marmo venato e tagliato in modo splendido. Sulle sponde del rivo crescono alberi ben allineati l’uno all’altro e dalla porta della cinta a quella della chiesa si stende un alto pergolato in legno su cui si abbarbicano le viti, mentre in basso crescono gelsomini e piante aromatiche. Fuori dalla porta della cinta, invece, sorge un grande padiglione con delle tavole anch’esse in legno su cui stan seduti gli addetti alla porta, e a destra del padiglione si trovano panche e gabbiotti, per lo più sempre in legno, dove stanno seduti i qadi e gli scribi della cancelleria. In mezzo ai gabbiotti si erge poi un altro padiglione ligneo a cui si accede per mezzo di una scaletta in legno: vi è sito un grande scanno rivestito da un drappo su cui si siede il loro (gran) qadi, ma di costui parleremo oltre. Il rivo di cui sopra, infine, si biforca in due rami: uno attraversa, a sinistra del primo padiglione, il mercato degli speziali, mentre l’altro passa colà ove stanno i qadi e gli scribi.
Quanto agli inservienti, occupano una serie di portici all’entrata della chiesa e, oltre a spazzare il pavimento, accendere le lampade e chiudere le porte, devono lasciare entrare solo chi si prosterna davanti a un’enorme croce ritenuta la reliquia di quella su cui fu crocifisso il sosia di Gesù. Questa croce, custodita in una teca d’oro lunga una decina di cubiti con sopra un’altra identica, sistemata di traverso, è posta sulla porta che, ricoperta di lamine d’argento e d’oro, è munita di due picchiotti d’oro puro. A quanto mi hanno detto, questa chiesa ospita diverse migliaia di monaci e di preti – fra cui alcuni discendenti degli Apostoli – e racchiude al suo interno un’altra chiesa riservata alle donne, abitata da oltre mille vergini consacrate al servizio di Dio – e ben più numerose donne non più giovanissime.
Il sovrano, i grandi dignitari del regno e il resto della gente vengono a visitare questa chiesa ogni mattina, e il Papa ci viene una volta all’anno: quando è a quattro giorni di cammino dalla città il re gli va incontro, smonta da cavallo in segno di rispetto ed entra a Costantinopoli precedendolo a piedi – poi, fintanto che il Papa resta in città, cioè fino a quando parte, va a rendergli omaggio tutti i giorni al mattino e alla sera
Altrettanto interessante è la descrizione che da del palazzo imperiale delle Blacherne
Il sovrano di Costantinopoli, Takfur, è figlio del sovrano Jirjis (Giorgio), che pur essendo in vita ha rinunziato al mondo e si è fatto monaco, consacrandosi ad adorare Dio nelle chiese e lasciando il regno al figlio – ma di lui riparleremo in seguito.
Eravamo arrivati a Costantinopoli da quattro giorni quando la khatun mi mandò l’eunuco Sunbul al-Hindi, che mi prese per mano e m’introdusse a palazzo. Varcammo quattro porte, tutte provviste di portici con uomini in armi e una pedana ricoperta da tappeti per il loro comandante, e arrivati davanti alla quinta l’eunuco mi lasciò ed entrò solo, tornando poi con quattro eunuchi bizantini. Questi mi perquisirono per assicurarsi che non avessi addosso dei coltelli: a quanto mi disse l’ufficiale, era la loro procedura, in base alla quale chiunque entra al cospetto del sovrano – sia nobile o del volgo, straniero oppure no – viene perquisito, proprio come fanno in India. Dopo la perquisizione l’addetto alla porta, presomi per mano, aprì i battenti e mi ritrovai circondato da quattro uomini: due mi presero per le maniche, gli altri due si misero dietro, e insieme a loro entrai quindi in una grande sala delle udienze. I muri erano rivestiti di mosaici che rappresentavano vari aspetti del creato – esseri viventi e altri inanimati -, e al centro del locale scorreva un rivo d’acqua con alberi su entrambi i lati. A destra e a sinistra c’erano degli uomini che stavano ritti in piedi senza proferir parola e i quattro che mi scortavano mi consegnarono ad altri tre al centro della sala. Questi mi presero per le vesti come avevano fatto i primi, poi qualcuno fece un cenno e mi condussero oltre. Uno di loro era ebreo e mi disse in arabo: << Non temere: fanno sempre così con gli stranieri! Io sono l’interprete e vengo dalla Siria >>. Allora gli chiesi come dovevo salutare. << Dì: al-Salam alay-kum! >>, mi rispose.
Giunsi così a un imponente padiglione ove vidi il sovrano assiso in trono, con davanti la moglie, la madre della khatun, e quest’ultima ai suoi piedi insieme ai suoi fratelli. Alla sua destra c’erano sei uomini, alla sua sinistra quattro, e altri sei gli stavano alle spalle – e tutti erano armati. Prima che mi avvicinassi a salutarlo, il sovrano mi fece segno di sedermi un attimo per placare il mio timore: io obbedii, poi mi avvicinai e gli porsi i miei omaggi. Egli fece nuovamente segno di sedermi – la qual cosa, questa volta, io non feci – e quindi mi pose una serie di domande su Gerusalemme, la Roccia santa, la Qumama (chiesa del Santo Sepolcro), la culla di Gesù, Betlemme ed Hebron, e poi ancora su Damasco, Il Cairo, l’Iraq e l’Anatolia.
Con l’aiuto dell’ebreo che ci faceva da interprete risposi a tutto quanto e le mie parole gli piacquero a tal punto che disse ai suoi figli: << Trattate quest’uomo con riguardo e proteggetelo! >>.
Poi mi regalò una veste d’onore e ordinò di darmi un cavallo con sella e briglie e un parasole di quelli che usano per riparare la testa dei re in segno della sua protezione (aman). Allora gli chiesi di mandarmi anche qualcuno che venisse ogni giorno con me a cavallo per la città, onde poter ammirare stranezze e meraviglie di cui poter parlare nel mio paese, ed egli acconsentì.
Qui vige l’usanza che se qualcuno indossa una veste d’onore del sovrano e monta un suo cavallo, venga portato a fare il giro della città a suon di corni, trombe e tamburi, in modo che tutti lo vedano – serve soprattutto perché non vengano importunati i Turchi del sultano Ozbek -. Sicché anch’io vi fui condotto”.
Leggendo le descrizioni di Ibn Battuta emergono due sentimenti contrastanti: l’incanto, il fondersi di smarrimento e sorpresa che nasce dall’incontrare un altrove sconosciuto e straniamento, perchè siamo costretti a guardare con altri occhi ciò che diamo per scontato.
La percezione che ha Ibn Battuta di Santa Sofia è ben diversa non solo dalla nostra, ma anche da quella che aveva un abitante di Costantinopoli della sua epoca. La sfida dell’alterità, anche nel nostro quotidiano lavorativo è capire la vision di chi abbiamo accanto, figlia della sua storia personale, della sua cultura e dei pregiudizi. Per questo, per collaborare al meglio, dobbiamo sempre tenere in mente che ciò consideriamo banale, scontato e consolidato, può non esserlo per l’altro
October 16, 2020
Il Parco Sottomarino di Baia (Parte I)
Come accennato altre volte, si può fare la battuta che a Baia ci sono più cose da vedere sotto l’acquae che sulla terra. Tutto è ovviamente effetto del bradisismo, che ha portato la la di costa di età romana ad una profondità di 10 m sotto il livello del mare. Tale movimento tellurico, estremamente veloce, per gli standard geologici, è dovuto alle variazioni di volume di una camera magmatica vicina alla superficie che si svuota e si riempie, o anche a variazioni di calore che influiscono sul volume dell’acqua contenuta nel sottosuolo molto poroso.
I primi indizi dell’esistenza della città sommersa saltarono fuori negli anni Venti, grazie ai primi rinvenimenti e recuperi casuali in occasione dei dragaggi nelle acque del porto per l’ampliamento della banchina, a cura del Real Genio Civile, ma sono nel 1956, grazie alle foto aeree scattate dal pilota (e sub) militare Raimondo Bucher, si ebbe un’idea di massima della planimetria dell’area, cosa che portò alle prime ricerche da parte di Nino Lamboglia e Amedeo Maiuri, che portarono tra il 1959 ed il 1960 alla redazione della prima carta archeologica, grazie alle prime esplorazioni subacquee.
Il 1969 segnò due tappe importanti per l’archeologia subacquea e la tutela dell’area di Baia. La prima, causale, con l’affioramento davanti Punta Epitaffio, a seguito di una mareggiata, di due sculture di grande qualità che furono riconosciute come “Ulisse e compagno con l’otre”, ancora al loro posto nell’abside di un edificio rettangolare. La seconda tappa fù l’accordo tra il soprintendente di Napoli Alfonso De Francis ed il Direttore dell’Orfanotrofio militare, ospitato nel Castello di Baia, di destinare parte di questo complesso a sede del museo archeologico dei Campi Flegrei. Nonostante molta risonanza nemmeno queste due importanti tappe riuscirono a raggiungere un seguito immediato, dato che solo nel 1980 avvenne il primo scavo subacqueo effettuato direttamente da archeologi.
Nel 1984 finalmente fu consegnato alla soprintendenza il Castello di Baia ed avviato un progetto di restauro per interventi funzionali: venne istituito un locale ufficio archeologico, un primo laboratorio di restauro, di depositi archeologici. Nello stesso periodo riprendeva il rilevamento della città sommersa di Baia.
Attività che portò alla progressiva tutela dell’area: nel 1987 fu posto il vincolo archeologico della fascia marina dei 500 mt dell’intero ambito flegreo con il divieto di alterare lo stato dei luoghi. Tra il 1994 ed il 1998 vennnero emanate specifiche ordinanze dalla capitaneria di porto per regolamentare il transito delle motonavi commerciali. Nel 1998 la la soprintendenza prese in consegna lo specchio d’acqua della sponda settentrionale. Nel 1999 fu realizzato il primo percorso di visita per subacquei. Nel 2000 a causa di un grave danneggiamento provocato da un traghetto incagliatosi nel fondale, fu sospesa definitivamente l’attività del porto commerciale. Il 7 agosto 2002 fu istituito il parco archeologico sommerso di Baia equiparato ad area marina protetta. La gestione provvisoria del parco sommerso è stata affidata alla Soprintendenza per i beni archeologici di Napoli e Caserta.
I sub, cosa possono visitare, nelle loro immersioni? Il primo sito, alquanto affascinante, è la secca delle fumose, costituto da piloni, colonizzati da alghe e coralli, che si ergono tra fumarole, colonne di bolle gassose di origine vulcanica che si sprigionano dal fondale, e depositi di zolfo. I piloni facevano parte delle strutture a protezione del Portus Iulius, fatto costruire da Agrippa
facendo penetrare il mare nei laghi Lucrino e Averno
secondo quanto racconta quel pettegolo di Svetonio, come base navale contro Sesto Pompeo, il figlio di Pompeo Magno, che per sfuggire alle liste di proscrizione compilate da Ottaviano, Antonio e Lepido, reclutò una flotta composta da esuli, da ex schiavi e pirati, e nel 42 a.C. occupò la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, dandosi alla pirateria, impedendo l’arrivo di rifornimenti a Roma.
Velleio Patercolo, così commenta tale decisione
Egli allora, come ho già detto, dopo aver occupato la Sicilia, accogliendo nei ranghi del suo esercito schiavi e fuggiaschi, aveva gonfiato il numero delle sue legioni e, per mezzo di Mena e di Menecrate, liberti paterni, nominati comandanti navali, infestava il mare con atti di brigantaggio e di pirateria e si serviva del bottino per le necessità sue e dell’esercito, senza vergognarsi di molestare con scorrerie piratesche quelle coste che erano state liberate con operazioni militari condotte proprio da suo padre.
Secondo le descrizioni di Cassio Dione e Velleio Patercolo, il porto costiero offriva un naturale rifugio protetto per le navi da guerra oltre ad un ampio cantiere navale interno. Ingenti opere ingegneristiche lo collegavano, infatti, sia al lago di Lucrino, che era molto più vasto all’epoca e fungeva già da rada riparata, sia al lago d’Averno che forniva un approdo sicuro e, grazie ai boschi limitrofi, anche il legname per il cantiere navale. Sotto la direzione dell’architetto Lucio Cocceio Aucto, il canale artificiale, già esistente e lungo 300 metri che collegava i due laghi, venne allargato a 50 metri. Fu, inoltre, creato, presso il porto, uno sbocco per il lago di Lucrino scavando il breve tratto sabbioso che lo separava dal mare.
Portus Iulius possedeva un molo costiero lungo 372 metri ed edificato su archi che poggiavano su quindici piloni quadrangolari. Era difeso da una lunga diga – sulla quale passava la Via Herculea (o Via Herculanea) – che partiva dalla Punta dell’Epitaffio, presso Baia, per giungere fino a Punta Caruso, e che includeva l’ingresso al canale navigabile che conduceva al Lucrino. Il complesso militare era completato dai camminamenti sotterranei commissionati da Agrippa per mettere in comunicazione sicura il lago d’Averno con il porto di Cumae, come viene descritto da Strabone nella sua Geografia. La funzione militare del porto si esaurì una ventina d’anni dopo la costruzione a causa della bassa profondità del lago Lucrino e del parziale insabbiamento con il conseguente trasferimento della flotta a Miseno nel 12 a.C.
Portus Iulius, ampliato con infrastrutture e magazzini, mantenne, tuttavia, per molto tempo (fino al IV secolo) la funzione di porto commerciale, estendendosi verso Pozzuoli con la costruzione di due nuovi sobborghi (vici) cittadini: il vicus Lartidianus e il vicus Annianus. Sui suoi moli ogni anno attraccavano centinaia di navi alessandrine con il grano egiziano e con molti altri prodotti esotici (spezie, vetri, unguenti e tessuti) che giungevano in Italia dalla lontana India, attraverso l’Oceano Indiano, il Mar Rosso, le vie carovaniere del deserto egiziano.
Sotto Nerone fu intrapresa la costruzione di un lunghissimo canale navigabile (fossa Neronis, parzialmente rilevato dalle fotografie aeree) che avrebbe dovuto congiungere Portus Iulius a Roma, per consentire un traffico sicuro dalle tempeste per le navi che rifornivano di grano la capitale. La costruzione del canale fu interrotta alla morte di Nerone e non venne mai completata.
Portus Iulius venne abbandonato nel IV secolo per il progressivo abbassamento della linea di costa causato dal bradisismo. Alla fine del V secolo, secondo Cassiodoro, la diga costiera era già crollata e parte del materiale lapideo della stessa era stato riutilizzato per riparare le mura di Roma. Nei secoli successivi l’arretramento della costa marina produsse la scomparsa del lago di Lucrino e il porto romano venne completamente sommerso.
Il complesso antico si estende per circa 10 ettari ad una profondità variabile da 2,50 a 5 metri circa ed è stata rilevata direttamente solo la parte orientale. Vi si può osservare il tracciato di una via che passa fra i resti di due file parallele di magazzini portuali, con alzati di murature in opera reticolata, intonaci, casseforme lignee, impianti idraulici e poi un edificio più vasto con un orientamento diverso da tutte le altre strutture, disposto obliquamente, nel quale si è voluto riconoscere la domus dell’ammiraglio essendovi ancora dei pavimenti a mosaico.
October 15, 2020
San Vincenzo in Prato
Pochissimo nota, anche agli stessi milanesi, è la basilica paleocristiana di San Vincenzo in Prato, nei pressi della Darsena, nei pressi de Le Biciclette, locale in cui, grazie a un amico che all’epoca faceva il DJ, ho trascorso uno sproposito di serate meneghine.
In origine, il luogo in cui sorge era probabilmente un nemeton, un bosco sacro dei celti, in cui i druidi compivano i loro riti e sacrifici: all’epoca augustea, con lo sviluppo urbano di Mediolanum, il nemeton fu “civilizzato”, con la costruzione di un sacello dedicato probabilmente a Giove. Con il tempo, questo santuario suburbano fu affiancato da un cimitero, progressivamente cristianizzato, tanto che ai tempi di Ambrogio fu associato a Vincenzo, diacono aragonese martirizzato sotto Diocleziano, tra l’altro protettore di Lisbona e con un particolare simpatia per i corvi.
Tanto era diffusa la devozione a tale martire nella Mediolanum imperiale, che lo stesso Agostino gli dedicò alcuni sermoni. Nel 770, l’ultimo re longobardo, Desiderio, costruì una cappellina circolare, forse dedicata alla Vergine. L’epiteto “in Prato”, fu acquisito perché sita nel podere detto Prata, di proprietà del vescovo Odelperto, che nel gennaio dell’806 lo concesse ad Arigauso, abate del monastero di Sant’Ambrogio, in virtù dei suoi servigi, a patto che tornasse nelle mani della curia milanese alla sua morte. Arigauso, per aggirare tale clausola, decise di fondare un monastero benedettino adiacente alla cappella, che comprendeva sia un ospizio per i pellegrini, sia un ospedale.
Per cercare di guadagnare qualcosa in più con le donazioni e le elemosine, i frati affermarono, nel 859 di avere ritrovato nel vecchio cimitero paleocristiano, prima le reliquie di Vincenzo, poi, facendosi prendere la mano, di Quirino e Nicomede. Ora, come dire, sappiamo che diedero fondo alla loro fantasia, perchè, bene o male, sappiamo dove furono sepolti i tre martiri: Vincenzo a Valencia, per poi avere il corpo spostato qua e la per la Spagna, Quirino in Pannonia, Nicomede a Santa Prassede, all’Esquilino. Per cui, i tre, Mediolanum non l’avevano vista neppure da lontano.
Però, i pellegrini dell’epoca credettero alla storia e cominciarono a frequentare in massa la cappella di Desiderio: per sfruttare al meglio il business, i benedettini cambiarono la dedica alla chiesa, attribuendola proprio a Vincenzo e intrapresero grandi lavori di ristrutturazione. Per ottenere qualche fondo in più, intorno all’anno 1000 dissero, sfidando l’ira dei comaschi, di avere trovato anche le reliquie di Abbondio… Qualcuno evidentemente ci cascò, dato che l’edificio venne restaurato e riedificato tra il IX e XI secolo perché oramai cadente, mantenendo però le antiche forme. Nel 1386 l’abate Beno dei Petroni di Bernareggio fece riparare e decorare la chiesa. La crisi cominciò i primi anni del 1500 quando a causa della guerra con la Francia, il chiostro venne militarmente occupato e il complesso sacro adibito a caserma.
Nel 1520 il monastero fu soppresso e trasformato in commenda: nel 1598 divenne poi una parrocchia, il che portò alla costruzione del campanile barocco. Nel 1729 la chiesa fu restaurata e imbiancata nuovamente, e vennero collocati all’interno dipinti di Giuseppe Ripamonti e Pietro Maggi. Nel 1787 la parrocchia fu abolita e due anni dopo, a causa delle leggi ecclesiastiche promulgate da Giuseppe II, la chiesa sconsacrata, per diventare una caserma, una stalla, magazzino.
Il suo destinò cambiò radicalmente grazie a un personaggio assai bizzarro, Francesco Bossi, che, nel maggio 1799 chiese all’amministrazione meneghina l’autorizzazione ad installare una fabbrica di acido solforico e di altri prodotti chimici. Dati le complesse vicende legate alla guerra tra Napoleone e la Seconda Coalizione, Francesco dovette aspettare un paio d’anni, per vedere realizzato il suo sogno: la prima fabbrica chimica italiana nel 1801, nell’area dell’allora convento di San Girolamo, dalle parti di Porta Vercellina, lungo il “naviglio Morto” oggi via Carducci.
Oltre all’acido solforico, Bossi produceva anche acido cloridrico, acido nitrico, cloruro di ammonio, solfati di sodio, di potassio, di magnesio e di rame. L’acido nitrico era, fra l’altro, usato per la preparazione delle lastre per la stampa delle monete da parte della Zecca.
Ben presto i fumi e i miasmi della produzione all’interno della chiesa sconsacrata di San Girolamo si fecero sentire, provocando la protesta degli abitanti della zona e dei gendarmi, ospitati nello stesso convento. Tanto che il 13 giugno 1802 fu emessa un’ordinanza che obbligava Francesco a smettere subito la produzione. Nel novembre dello stesso sfortunato anno 1802, pieno di debiti, dovette cedere la sua quota nell’impresa al socio Luciano Diotto e a Michele Fornara, il tizio che aveva progettato e realizzato al tornio tutto il macchinario. I tre soci litigarono per qualche tempo e Francesco uscì definitivamente di scena proprio nel momento in cui, nonostante l’inquinamento, gli affari cominciavano ad andare meglio.
I guai non finirono, nel 1807 il prefetto del Dipartimento dell’Olona (la Repubblica italiana si era nel frattempo trasformata in Regno Italico) fece compiere un ennesimo sopralluogo nella fabbrica di acido solforico, ora della ditta Fornara & C.; ancora una volta venne constatata la nocività delle esalazioni gassose irritanti e il Prefetto ordinò il definitivo trasferimento della fabbrica. Nel 1808, dopo lunghe discussioni, la fabbrica Fornara si trasferì in San Vincenzo in Prato, la nostra chiesa sconsacrata, più appropriata perché all’epoca sorgeva in una zona più aperta e in mezzo ai prati, abbastanza isolata. La chiesa di San Vincenzo venne venduta ai due soci per lire 10.193, che vi portarono il laboratorio chimico. Convertirono il campanile in ciminiera e purtroppo danneggiarono gravemente parti della vecchia struttura e distruggendo gli affreschi quattrocenteschi che ne decoravano l’interno.
Fabbrica il cui interno che forse ispirò un’acquaforte che Luigi Conconi realizzò nel 1880, intitolata la Casa del Mago. Nello stesso anno si ha l’ appello ai milanesi per il recupero della basilica che doveva servire come parrocchia per il nuovo popoloso quartiere di Porta Genova. Da questo momento iniziano le trattative per l’acquisto dell’edificio dalla ditta Candiani e Biffi si protrassero fino al 1884.
Dal 1885 in poi, su sollecitazione delle Commissioni cittadine facenti capo all’Accademia di Belle Arti di Brera, l’architetto Gaetano Landriani, responsabile dei restauri alla vicina Basilica di sant’Ambrogio, la restaurò in modo assai energico, con estese ricostruzioni talvolta arbitrarie (ricostruzione delle absidiole laterali, abbattimento del campanile barocco e sua ricostruzione in puro finto stile romanico) e l’aggiunta di un arredo liturgico alquanto kitsch e delle decorazioni neopaelocristiane opera del pittore Attilio Nicora. Nella seconda metà del secolo XX una successione di interventi degli architetti milanesi Vito e Gustavo Latis ha lavorato sulle pavimentazioni (1962), sul tetto (1973), ha realizzato la riforma degli altari a seguito del Concilio vaticano II con l’eliminazione di alcuni dei rifacimenti ottocenteschi “in stile” tra cui gran parte delle decorazioni pittoriche e gli amboni e balaustre in cemento.
La chiesa,in mattoni a vista e che misura 40 per 20 metri circa, ha tre navate con copertura a capriate, che si riflettono sulla partizione esterna della fronte a spioventi. Questa è caratterizzata da tre portali sovrastanti da lunette cieche, da due grandi finestre nella parte superiore e da un coronamento del timpano riprodotto nell’Ottocento dal motivo autentico che si trova sul retro. L’abside maggiore ed il timpano sovrastante sono originali e costituiscono l’elemento stilisticamente più significativo dell’esterno, ornati da motivi romanici a fornaci ed archetti in cotto.
All’interno le navate sono spartite da colonnati che sostengono, su una serie eterogenea di notevoli capitelli di recupero romani ed altomedievali, nove archi a tutto sesto. Nella parete piena sono inserite due serie di vetrate moderne, che sviluppano i soggetti delle gerarchie angeliche – sulla destra – e della creazione del mondo – sulla sinistra. Le finestre del coro portano tre vetrate ispirate alle parole di apertura del Vangelo di Giovanni.
Nel catino absidale come nei medaglioni tra le arcate, decorazioni pittoriche della fine del secolo scorso. Sull’altar maggiore è collocato l’affresco della Crocifissione detto “Madonna del pianto”, del XV secolo, proveniente dalla chiesetta di San Calocero e attribuito alla scuola degli Zavattari. Chiesa quella di San Calocero, in stile barocco, che fu demolita nel 1951 a causa dei danni riportati dai bombardamenti alleati dell’anno 1943, in cui secondo la tradizione proprio l’affresco portato a San Vincenzo pianse lacrime di sangue tre giorni e tre notti nel 1519. Nella navatella di destra, un altro frammento di affresco portato da S. Calocero, la “Madonna dell’aiuto”; all’inizio di quella di sinistra una colonna romana con capitello corinzio rivestita di mattoni, che sosteneva fino al 1885 la prima campata dell’arcata sinistra. Al di sotto del presbiterio sopraelevato si trova la vasta cripta, coperta da voltine a crociera sorrette da colonnine dotate di bei capitelli: rappresenta uno dei migliori esempi in Lombarida di cripta “ad oratorio” di epoca romanica. L’altare contiene l’urna di pietra con le reliquie dei martiri portate a San Vincenzo tra il IX e l’XI secolo; dietro di esso si trova tuttora un antico pozzo, le cui acque erano ritenute miracolose.
Il battistero ottagonale che si trova all’esterno, sulla sinistra, è opera dell’architetto Paolo Mezzanotte e venne aggiunto nel 1932 con la benedizione del cardinale Schuster: la Pietra santa qui contenuta e facente parte del fonte battesimale, proviene dalla Chiesa di San Nazaro in Pietrasanta, demolita nel 1889 per lasciare spazio alla nuova Via Dante. Questa chiesa era collocata ove sorge ora l’imponente edificio di Casa Broggi, all’angolo fra la via Meravigli, via Santa Maria Segreta e la allora contrada San Nazaro in Pietrasanta (successivamente via Giorgio Giulini e oggi indicativamente via Dante), nelle immediate vicinanze della Piazza Cordusio, nel luogo dove, secondo la tradizione vi era la casa di San Nazario. La Pietra Santa era un resto di una colonna romana, su cui, secondo la tradizione, sarebbe servita di appoggio a Sant’Ambrogio nell’atto di montare a cavallo durante le sue lotte contro gli Ariani
October 14, 2020
Il Pago Tropio
Tornando alla nostra passesseggiata virtuale sull’Appia Antica, superato il complesso Callistiano, si giunge nella località “ad catacumbas”, una depressione situata tra il II e il III miglio della via Appia antica, dovuta alle antiche cave di pozzolana esistenti nell’area, in cui si sviluppava il cimitero cristiano di San Sebastiano.
Dato che questo era l’unico che rimase accessibile per tutto il Medioevo, il nome della località per estensione passò poi a designare qualunque cimitero sotterraneo. Nell’area, al di là delle memorie religiose, è caratterizzata da un’altissima concentrazione di presenze archeologiche. Una famiglia di grande tradizione, la gens Annia, discendente dagli antichi Attili Regoli, aveva in questa parte di territorio, tra il III miglio della via Appia e la valle del fiume Almone, fin dall’età repubblicana i propri possedimenti, che vennero ereditati da un personaggio da romanzo e detto fra noi, anche alquanto cialtronesco, il buon Erode Attico
Questo era un VIP dell’epoca antonina, ricco sfondato e alquanto vanitoso, tanto da scrivere sulla sua tomba
“Giacciono in questo sepolcro i pochi resti di Erode figlio di Attico, nativo di Maratona, mentre la sua fama è sparsa in tutto il mondo”.
Erode, nato tra il 100 ed il 101 d.C., fu retore, filosofo, precettore degli imperatori Lucio Vero e Marco Aurelio, e governatore di una parte dell’Asia e della Grecia. Aveva ereditato le sue ricchezze dal padre che pure si chiamava Erode Attico, un ateniese che discendeva dalla famiglia reale dell’Epiro, gli Eacidi, che oltre a vantare ascendenza mitologica con Achille, aveva come antenato il buon Pirro.
Si narra che Erode Attico padre, nonostante le illustri origini, fosse ridotto nella miseria più nera; un giorno, mentre nella sua casa di Atene sbatteva la testa nel muro per la disperazione, scoprì una cavità nella quale era nascosto un enorme tesoro.
Gli studiosi dell’ ‘800, conquistati dalla suggestività dell’episodio, si scervellarono nella ricerca dell’origine di un tale tesoro, e giunsero ad attribuirlo nientemeno che al re persiano Serse, che l’avrebbe abbandonato in Grecia in seguito alla sconfitta di Salamina; studi critici più recenti hanno però spiegato questa incalcolabile ricchezza in modo meno fantasioso, ipotizzando una più concreta speculazione finanziaria: i beni di famiglia, tesaurizzati e nascosti dal nonno per non pagare i debiti, sarebbero in seguito ritornati in circolazione col pretesto del tesoro.
Fatto sta che Erode Attico padre (questo è vero), divenuto improvvisamente il più ricco uomo dell’epoca, scrisse preoccupato all’imperatore Nerva per avere istruzioni; l’imperatore, brevemente, rispose “usane”. Nuovamente interpellato dal perplesso Erode, Nerva rispose addirittura “e tu abusane”; ma chi usò l’immensa ricchezza fu invece Erode Attico figlio, che diventò famoso costruendo grandiose opere pubbliche, soprattutto in Asia minore e ad Atene, dove ancora oggi si ammirano lo stadio delle Olimpiadi e l’Odeon sotto l’Acropoli; inoltre si debbono a lui lavori a Canosa di Puglia e naturalmente a Roma.
Dato che piove sempre sul bagnato, Erode non pago dei suoi beni, sposò l’ancor più ricca Annia Regilla. tra l’altro parente della moglie di Antonino il Pio, Faustina, sì, proprio quella del tempio nel Foro Romano. Anna morì in Grecia nel 160 mentre era incinta ed Erode fu accusato di aver fatto assassinare da un suo liberto. Trascinato in giudizio dal cognato Annio Attilio Bradua ne uscì prosciolto da ogni accusa – probabilmente anche grazie all’intervento dello stesso Marco Aurelio – ma l’opinione pubblica continuò a ritenerlo colpevole, accusandolo di avere corrotto i giudici, anche perché Erode non faceva nulla per nascondere la passione che provava per Polideuce, il giovane figlio di un suo liberto.
Proprio Marco Aurelio diede il consiglio al suo maestro di salvaguardare le apparenze, il quale, come dire, si fece prendere la mano, dandosi a esagerate manifestazioni di lutto: fece dipingere di nero tutta la casa, regalò i gioielli della moglie ai templi degli dei, ed in suo onore ristrutturò tutto il fondo, a cui diede il nome di Pago Triopio in ricordo del famoso santuario che Demetra, dea delle messi, aveva nella città di Cnido in Asia minore (l’odierna Turchia). Egli volle in questo modo porre la sua proprietà al di sopra dei comuni interessi umani.
Nello stesso tempo la parola Triopio richiamava il nome di Triopas, re di Tessaglia, che secondo la leggenda aveva osato tagliare la legna del bosco sacro a Demetra, e per questo era stato da lei punito con una fame insaziabile che lo aveva portato alla morte. Forse, nelle intenzioni di Erode, tale ricordo doveva tenere lontani dal fondo i malintenzionati che si fossero avvicinati per rubare o per recare danno alla sua proprietà.
Il Pago Tropio si estendeva nella zona compresa tra la chiesa del Quo Vadis e via dell’Almone. Grazie a cinque epigrafi qui trovate, dette appunto “iscrizioni triopee”, abbiamo un’idea abbastanza precisa sull’origine e sull’organizzazione del comprensorio.
Le prime due iscrizioni, su grandi colonne di marmo cipollino (ora al Museo Nazionale di Napoli), riportano:
“Non è permesso ad alcuno di portarle via dal Triopio, che è situato al terzo [miglio] della via Appia, nel possedimento di Erode. Chi le rimuoverà non ne riceverà certo vantaggio. Ne è testimone la dea infernale (Hecate) e le colonne che sono dono a Cerere e a Proserpina e agli dei Mani e [a Regilla].”
Altre due iscrizioni (oggi al Louvre), scolpite su cippi di marmo pentelico, contengono un lungo panegirico in versi, composto da Marcello Sideta, il medico della corte imperiale, che si era autoconvinto di essere un grande poeta… Per dare lustro al suo genio, mi limito a citare l’incipit del suo capolavoro
Venite qui a questo tempio, donne tiberine, a portare offerte sacrificali
intorno alla statua di Regilla. Ella discende dagli Eneidi molto ricchi, inclito
sangue di Anchise e di Afrodite dell’Ida, si sposò tuttavia a Maratona. La
onorano le dee celesti, la nuova Demetra e la vecchia Demetra. A loro è dedicata
l’effigie sacra della donna dalla bella cintura. Ella dimora con le eroine sulle
isole dei beati, dove Cronos regna
Una copia delle due colonne con cotale testo poetico si trova a villa Borghese.
Nella quinta iscrizione, su una colonna di marmo collocata originariamente all’ingresso del Triopio e ora ai Musei Capitolini, è scritto, in latino e in greco:
“Annia Regilla, moglie di Erode Attico, luce della casa, alla quale appartennero questi beni”.
Le iscrizioni ci descrivono campi di grano, olivi, vigne, prati, addirittura la stazione di polizia, il campo sacro a Nemesi e Minerva, il parco, il villaggio colonico (che era dalle parti di Cecilia Metella) e, nel luogo in cui successivamente fu costruito il Palazzo di Massenzio, la villa residenziale. Soprattutto è citato un tempio dedicato a Cerere (la dea romana corrispondente alla Demetra dei Greci) e a Faustina (moglie dell’imperatore Antonino Pio, da poco morta e quindi divinizzata), al cui interno Erode collocò la statua della moglie; il tempio, tuttora esistente, va identificato nella chiesa di Sant’Urbano, di cui parlerò in futuro
La valle, pur suddivisa in diversi appezzamenti, continuò ad essere coltivata fino agli inizi del XV secolo, quando l’insalubrità del fondovalle, il timore di briganti e di invasori, ed il generale progressivo spopolamento della campagna romana, determinarono l’abbandono delle attività agricole. Nel 1547 i Caffarelli entrarono in possesso della tenuta acquistandone i terreni da diversi proprietari e bonificarono la valle ridando slancio all’agricoltura e costruendo il casale detto della Vaccareccia. Così il Pago Tropio divenne la nostra Caffarella
Nel 1695 la tenuta fu venduta ai Pallavicini e nel 1816 venne infine rilevata dai Torlonia che la bonificarono per l’ultima volta restaurando e ampliando la rete idrica.
October 13, 2020
Michelangelo e la Cupola
In realtà, il problema delle volte e delle absidi era alquanto secondario, nella testa di Michelangelo: il suo scopo fondamentale era di chiudere, in un modo o nell’altro, la questione della cupola. Tutto l’opposto di Antonio da Sangallo che, sulla scia di Raffaello, si era concentrato nel definire la planimetria generale, cercando di fare convivere in qualche modo le contraddizioni lasciate aperte da Bramante, aveva voltato alcune delle parti fondamentali dell’edificio e soprattutto aveva rafforzato le fondamenta.
Di conseguenza, i quattro grandi archi della crociera innalzati da Bramante entro il 1511, rimanevano, come dire, abbandonati a stessi. Non che che Antonio non si fosse posto il problema. Si era infatti reso conto del fatto che per la sua concezione, la cupola bramantesca sarebbe crollata sotto il suo peso. Per cui, invece di accroccare delle modifiche poco efficaci e costose da realizzare.
Per cui decise di riprogettarla del tutto: nella sua prima versione, la cupola sangallesca di San Pietro avrebbe misurato al piede qualcosa come 7,45 m di spessore; diffidando delle spinte generate dal profilo semicircolare al «primo terzo» (ossia al piede), Antonio rialzò drasticamente il sesto, e al contempo dilata la calotta per allontanarla dai pennacchi, sino a farle raggiungere la massima luce mai immaginata nella storia: 200 palmi, ossia 44,60 metri.
Questo trionfo del gigantismo, però, impedisce, per non indebolire il tamburo, di aprirvi finestre e per non aumentare ulteriormente il carico, a rinunciare alla lanterna, per cui sulla tomba di Pietro non avrebbe potuto capeggiare la croce: paradossalmente, il risultato sarebbe stato più simile al Pantheon del progetto bramantesco.
Se all’epoca del richiamo al paganesimo, poco importava, il Concilio di Trento è ancora lontano, la scarsa illuminazione dell’altere principale metteva Antonio in una situazione imbarazzante: era infatti una delle principali critiche che aveva rivolto al precedente progetto raffaellesco. Non solo non l’aveva risolto, ma era riuscito anche a fare peggio del predecessore. Per cui, ributtò tutto e ricominciò da capo a progettare.
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Per prima cosa, sostituì il tamburo anulare con uno radiale, applicando a una cupola di oltre 40 metri di luce un sistema sino ad allora usato per le lanterne, riconfigurando la struttura da continua in discontinua e indirizzando le spinte della calotta in una serie di setti radiali connessi da volte a botte coniche che si neutralizzano l’una l’altra.
In tale modo la muratura del tamburo si alleggeriva senza perdere di resistenza alla spinta, la quale ultima agisce su direzioni appunto radiali; ciò avrebbe quindi permesso l’apertura di queste benedette finestre. Poi, per dare continuità al tutto, estese la struttura radiale al primo terzo della cupola, con due ordini sovrapposti di arcate che saldavano indissolubilmente calotta e tamburo, fusi in un unico nodo costruttivo: di fatto al modello classicista del Pantheon, che era il culmine di una tradizione consolidata dall’epoca augustea, sostituisce quello dell’inquieto sperimentalismo dell’architettura tardo antica, riprendendo le soluzioni strutturali del cosiddetto Tempietto di Minerva Medica all’Esquilino.
Antonio, per la sua esperienza nei cantieri e per la sua conoscenza dell’architettura fiorentina, in particolare della Cupola di Santa Maria del Fiore, si era reso conto empiricamente conto di una cosa che avrebbe dimostrato Bernoulli solo alla fine del Seicento: ossia che il profilo più adatto per sostenere una cupola che si regge col proprio peso non è quella circolare, ma quella della catenaria rovesciata, forma che assume una catena appesa, tenendo fermi i suoi due estremi. Ciò lo portò ad adottare un sesto accentuatamente rialzato, idea che sarà ripresa da Della Porta e che troviamo nell’attuale cupola.
Per cui, volendo decorare l’interno della sua cupola con una volta cassettonata, dovette elabora un profilo ovale mistilineo, in cui il primo tratto di calotta, il più sollecitato, era molto ripido, mentre quello sommitale era più stondato, a suggerire dal basso l’immagine di una volta emisferica; l’intradosso era tracciato in modo da rimanere esterno al triangolo equilatero costruito sul diametro della cupola, dando luogo a una constructio ad triangulum che quasi preannunciava Borromini e il Barocco.
Tutto queste riflessioni, furono prese e gettate nel secchio da Michelangelo, per tre motivi estetici: il primo è che lo slancio verticale pensato da Antonio aveva senso per una basilica delle dimensioni ipotizzate da lui e da Raffaello, ma sarebbe stato alquanto incongruo e sproporzionato, per quella più ridotta pensata dal fiorentino.
Il secondo, il rifiuto della sovrapposizione e del concatenamento di ordini di misure differenti,
che rappresentava una delle caratteristiche più evidenti dell’architettura di Sangallo, ereditata tra l’altro da Bramante e da Raffaello, a favore di una elementare sovrapposizione di corpi di fabbrica cilindrici.
Il terzo il presunto recupero dell’idea base del Bramante, ossia costituire un mausoleo nelle forme di una tholos cupolata sospesa nel cielo, per testimoniare il carattere trascendente del sacrario del primo pontefice: il problema è che il buon Donato, di idee, ne aveva avute a bizzeffe, anche per colpa delle paturnie di Giulio II e sceglierne una, invece di un’altra, era come dire, alquanto arbitrario.
Per cui, Michelangelo ipotizzò di realizzare il tutto mantenendo una sostanziale coincidenza nelle quote alle quali si impostavano gli ordini esterno e interno, rendendo certamente più semplice la costruzione e affidando a massicci anelli il compito di sostenere e distribuire il peso del tamburo e della cupola. Più facile a dirsi, che a farsi. Il problema era come mantenere tutto in piedi, evitando crolli.
Come Antonio, guardò alla tradizione fiorentina, ma non al Duomo, forse memore dei problemi che aveva avuto Giuliano da Sangallo a Loreto, ma all’intuizione che Salvi d’Andrea, altro architetto sottovalutato, ebbe per costruire le cupole di crociera e della sagrestia di Santo Spirito a Firenze, costituite da due calotte sottili connesse solo al primo terzo con speroni, e per il resto indipendenti per struttura e geometria. Di fatto Salvi d’Andrea aveva applicato nel concreto una resistenza di tipo scatolare
Cosa che non si può dire per la cupola brunelleschiana: questa infatti non è una vera cupola a doppia calotta, ma piuttosto una cupola a calotta unica, quella interna, spessa e fortemente costolonata, ricoperta da otto falte sottili esterne che danno un contributo strutturale discutibile. Se per ipotesi le si togliesse la calotta esterna, questa rimarrebbe comunque stabile: se questo succedesse nelle cupole di Santo Spirito, queste crollerebbero miseramente.
Idea, quella di Salvi d’Andrea, che era stata proposta proprio per la cupola di Santa Maria del Fiore nel 1366, per il concorso organizzato dall’Arte della Lana, dal capomastro Neri di Fioravanti, ma che non era stata realizzata nel concreto e che aveva limitati precedenti storici. È utilizza nella basilica di San Vitale a Ravenna e nel battistero di S. Giovanni a Firenze (11°-12° sec.), che è una doppia cupola in quanto volta ottagonale sormontata da un tetto piramidale in legno. Curiosamente, però, l’esempio più simile si trova nella lontana Persia: è la tomba del sovrano mongolo Khudabanda Oljeytu a Sullaniyya, eretta tra il 1307 e il 1313.
Partendo da questa ispirazione, nell’ottobre 1548, Michelangelo concepì un abbozzo di progetto, dove, sopra un tamburo anulare, abbastanza spesso da raccogliere la spinta al piede della volta superiore, si elevavano due distinte calotte, l’interna a tutto sesto, l’esterna a sesto acuto; nell’intercapedine si alzava una scala che connetteva le due volte al primo terzo, ma poi proseguiva con gradini anulari sulla sola calotta interna, sino al serraglio.
La scelta delle due calotte indipendenti, dallo spessore ridotte, era da una parte frutto di una necessità estetica, il desiderio di Michelangelo di offrire la cupola vaticana in forme diverse alla visione interna e a quella esterna. La diffusa luminosità dell’interno una calotta emisferica, appena rigata da scorniciature di natura quasi grafica, avrebbe comunicato l’idea della perfezione geometrica e immateriale della volta celeste, culminata dalla griglia stellata prevista in controluce nell’oculo sommitale. La slanciata calotta a sesto acuto esterna, innervata da una plastica costolonatura, invece, si sarebbe invece mostrata come un corpo pieno, solido, scolpito dai raggi solari.
Dall’altra, della necessità di alleggerire il più possibile la struttura, che lo portò anche all’abbandono del calcestruzzo, tradizionale nell’architettura romana e utilizzato nei progetti della cupola di Bramante e di Sangallo in favore della pietra strutturale e del laterizio; per questo, scelse il travertino proveniente da Fiano Romano, invece che quello di Tivoli, dato che i proprietari di tale cave erano più propensi a sganciare tangenti.
Il percorso seguito dal Michelangelo per giungere alle sue ultime proposte del 1561 è riassumibile in pochi punti. Come accennato, nel 1548 il tamburo era concepito come un largo muro anulare, attraversato e alleggerito da un corridore voltato a botte, per fare d’appoggio alla doppia calotta; tra il 1549 e il 1551 Michelangelo elaborò i celebri disegni di Haarlem e di Lille, nei quali il congegno di massima delle due calotte è confermato, ma in forme più evolute.
Nel disegno di Haarlem (dove il tamburo non compare), Michelangelo studiò un sesto ovale per la calotta interna, ispirato al deprecato progetto dell’ancor più deprecato Sangallo. Nel disegno di Lille il tamburo fu profondamente rivisto: Michelangelo assottigliò il tamburo, ma al contempo lo irrobustì con dodici speroni radiali (sempre d’inconfessata ispirazione sangallesca), posti presumibilmente in corrispondenza di costole interne alle due calotte; in testa agli speroni il fiorentino immaginò di accostare coppie di colonne, in linea con alcune proposte bramantesche.
Disegno in cui si mostra, oltre alla cupola, anche l’alzato del tamburo, con oculi circolari, colonne binate e alto cornicione decorato con statue. La presenza di oculi e colonne binate in realtà, fu una sorta di riciclo di vecchia idea: questa soluzione, infatti, richiama una precedente proposta (inv. 50A recto conservato presso Casa Buonarroti) formulata da Michelangelo tra il 1519 ed il 1520 per il completamento del tamburo della cupola di Santa Maria del Fiore. Fu sulla base di queste idee, ancora non del tutto precisate, che Michelangelo iniziò a costruire nel gennaio 1554 l’attuale tamburo a 16 speroni, secondo un disegno conservato presso Casa Buonarroti, che, malgrado presenti solo una porzione della sezione del tamburo, lascia intuire la loro presenza, assieme a oculi e paraste interne.
L’idea degli oculi fu definitivamente abolita assai prima del 1557-1558, quando Michelangelo commissionò un modello ligneo della cupola (preceduto da uno studio in argilla del 1556), con un tamburo caratterizzato da finestre trabeate; la presenza di timpani curvi al posto di quelli alternati costituisce la principale differenza tra questo modello e la costruzione reale, nonché la dimostrazione che il progetto della cupola fu colmo di ripensamenti e di numerose modifiche in corso d’opera. Il modello, ancora esistente, fu comunque realizzato quando i lavori del tamburo erano già cominciati e molto probabilmente subì modifiche successive che ne hanno alterato l’aspetto originario; pertanto lo stesso non aiuta a comprendere le vere intenzioni di Michelangelo
Nel modello 1558-61, e nei disegni che ne attestano lo studio, comparve per la prima volta una calotta esterna a tutto sesto, che rappresenta l’ultima versione elaborata da Michelangelo: sopra al tamburo a sedici speroni, iniziato quando il fiorentino pensava probabilmente di unire le volte della cupola con delle costole interne meridiane, furono poste due calotte unite al piede da quattro corpi scala e da sedici speroni che si arrestavano al primo terzo. Di lì in su le calotte, che misuravano circa un metro di spessore, salivano indipendenti fino a riunirsi nel serraglio, che costituiva una sorta di lanternino interiore, sopra al quale era posta la grande lanterna a colonne binate, forse libere.
October 12, 2020
I trattati tra Roma e Cartagine (parte II)
Gli avventurieri latini o sabini, come Valerio Publicola che, a capo dei loro suodales, che presero il potere a Roma approfittando delle faide interne tra Tarquini, in fondo, avevano un obiettivo politico abbastanza semplice: controllare le vie commerciali tra l’Etruria e la Campania, in modo da arricchirsi taglieggiando i mercanti.
Il problema è che il vuoto di potere provocato dalla cacciata della dinastia etrusca, provocò la rottura degli equilibri di potere nel Lazio: le popolazioni dell’interno, gli ernici, gli equi e volsci, cominciarono a migrare verso la pianura e la coste. Avendo un’economia di tipo pastorale, i loro interessi confliggevano drammaticamente con quelli degli agricoltori latini. Di conseguenza, i Valerio Publicola, invece che arricchirsi, dovettero combattere per la loro sopravvivenza politica e fisica. Probabilmente la continua necessità di risorse umane ed economiche per fronteggiare questo stato di guerra permanente, li costrinse a cedere progressivamente potere e rappresentanza all’assemblea dei notabili locali, il Senato, portando alla progressivo sviluppo della Repubblica Romana.
Effetto collaterale di questo stato di guerra permanente, è che la via terrestre tra l’Etruria e la Campania diventava sempre meno praticabile, rendendo quella marittima sempre più strategica. Per dominarla, nel 474 a.C. gli etruschi decisero di estendere il loro controllo alla città campana di Cuma: a tale scopo, prepararono un assalto combinato da terra e dal mare.
I Cumani, però scoprirono le intenzioni etrusche e chiesero aiuto a Ierone I, tiranno di Siracusa, il quale, nel tentativo di imporre il predominio greco nel Tirreno, inviò in soccorso della città la sua intera flotta. Così, proprio quando gli Etruschi stavano iniziando l’operazione di accerchiamento da terra e dal mare spuntò,inattesa, la flotta da guerra siciliota, composta da moderne triremi, che gettò nello scompiglio le navi etrusche che furono costrette a invertire la rotta e a dirigersi contro il nemico.
Lo scontro probabilmente avvenne in mare aperto presso il vicino capo Miseno dove, ai piedi della scogliera alta 160 metri a picco sul mare, si accese una sanguinosa battaglia con un corpo a corpo tra navi che penalizzava fortemente i legni etruschi, più agili ma meno potenti e veloci delle triere greche. I Siracusani affondarono e catturarono numerose navi, costringendo alla fuga le poche superstiti.L’esercito di terra, intimorito e scoraggiato, tolse l’assedio a Cuma e tornò in patria.
La battaglia cambiò gli equilibri geopolitici del Tirreno: le città etrusche subiranno l’embargo da parte della flotta siracusana che ne occuperà gli scali commerciali e ne razzierà ciclicamente i tesori nei templi. Come reazione, l’élite etrusca iniziò quel processo di conversione economica che la portò da essere un’aristocrazia di commercianti ad un’aristocrazia latifondista.
Ovviamente, tutto ciò non poteva non avere impatti su Cartagine e su Roma: la prima vedendo a rischio il suo predominio sul Tirreno, si impelagò sempre di più nella politica siciliana, nel tentativo prima di isolare, poi di conquistare Siracusa. Ovviamente, questo provocò un disimpegno punico nel Lazio.
A Roma, la crisi della tradizionali vie commerciali provocò una crisi economica senza precedenti: la riconversione dall’agricoltura, analoga a quella delle città etrusche, ebbe però due effetti collaterali. Il primo, la politica espansionistica, dovuta sua alla fame di terra, sia alla necessità di impedire che i vicini trasformassero i campi latini in pascoli. Il secondo, la nascita della questione sociale, che sarà una costante nella storia politica della Repubblica, incentrata sulla ridistribuzione delle terre conquistate, se a favore dei ceti dominanti o dei contadini.
Le mutarono ulteriormente intorno al 380 a.C. sempre per colpa dei siracusani. Dioniso I, il tiranno della città, aveva intrapreso un’ambiziosa politica di potenza, incentrata su tre pilastri: cacciare i Cartaginesi dalla Sicilia, imporre il suo dominio su tutte le città della Magna Grecia, colonizzare l’Adriatico, in un modo da controllo totale sulle rotte che portavano il grano padano verso la madrepatria greca. Per raggiungere quest’ultimo obiettivo e per avere a disposizione una riserva inesauribile di mercenari, Dioniso si era alleato con i Celti, i quali però erano impegnati in un duello mortale con Roma.
E a quanto pare, i Siracusani non si fecero scrupoli nell’aiutare i loro alleati. Così narra Tito Livio
I Galli … andavan vagando per i campi e le spiagge marine, tutto devastando: ma il mare era infestato dalle flotte dei Greci, come pure il litorale d’Anzio, le spiagge di Laurento e le foci del Tevere …II console … assume senza sorteggio il comando della guerra gallica e dà ordine al pretore di difendere tutto il litorale, tenendone lontani i Greci. …II console, …ricevuto poi l’ordine dal senato di assumere il comando dellag uerra marittima [“bellum maritimum”], si congiunge con le truppe del Pretore. … Camillo non ebbe possibilità di compiere imprese notevoli contro i Greci: mediocri combattenti in terra, come i Romani in mare. Infine, tenuti lontani dalle spiagge, non potendo rifornirsi nemmeno di acqua nonché di tutto il resto indispensabile alla vita, abbandonaronol’Italia. A quale popolo, a quale nazione appartenesse quella flotta non sipuò stabilire con certezza. Io credo che si trattasse di tirannelli siciliani
Di conseguenza, applicando l’antico assioma
“Il nemico del mio nemico è mio amico”
Cartaginesi e Romani ripresero i loro rapporti diplomatici, che portarono alla stipula di un nuovo trattato nel 348 a.C. il cui testo era assai simile al precedente, quasi a testimoniare, da parte della diplomazia punica, l’utilizzo di formule standard
A queste condizioni ci sia amicizia tra i Romani e gli alleati dei Romani e i popoli dei Cartaginesi, dei Tirii e degli Uticensi e i loro alleati. I Romani non facciano bottino, né commercino, né fondino città al di là del promontorio Bello, di Mastia, di Tarseo. Qualora i Cartaginesi prendano nel Lazio una città non soggetta ai Romani tengano i beni e le persone e consegnino la città. Qualora i Cartaginesi catturino qualcuno di quelli con cui i Romani hanno accordi di pace scritti, ma che non sono a loro sottomessi, non lo sbarchino nei porti dei Romani; qualora poi un Romano metta mano su chi è stato sbarcato, sia lasciato libero. I Romani, allo stesso modo, non facciano ciò. Se un Romano prende acqua o provviste non commetta torti ai danni di nessuno di quelli con cui i Cartaginesi sono in pace e amicizia. Un Cartaginese, allo stesso modo, non faccia ciò. Altrimenti non si vendichi privatamente: se qualcuno lo fa che l’offesa sia pubblica. In Sardegna e in Libia nessun romano commerci o fondi città e non vi rimanga più di quanto occorra per imbarcare provviste o riparare la nave. Se vi sarà stato spinto dalla tempesta, si allontani da quelle regioni entro cinque giorni. Nella parte della Sicilia soggetta ai Cartaginesi e a Cartagine, ogni Romano può agire e commerciare in piena libertà, con parità di diritti coi cittadini. Un Cartaginese faccia lo stesso a Roma.
Per prima cosa, limitavano l’area di penetrazione marittiva e commerciale dei Romani nel Mediterraneo Occidentale. Al contempo, riconosceva la preminenza di Roma nel Lazio: per di più per citare Mommsen
I Cartaginesi, con questo trattato commerciale concluso con Roma, si obbligavano a non recare alcun danno ai Latini che si trovavano sotto il dominio romano e in particolare alle città costiere di Ardea, Antium, Circei e Terracina; se poi una delle città latine si fosse staccata dalla lega romana, era data facoltà ai Punici di attaccarla; e nel caso l’avessero espugnata, era stabilito che non dovessero raderla al suolo, ma consegnarla ai Romani. Da ciò si comprende con quali modi Roma avesse saputo tutelare le sue città, ed a quale pericolo si esponesse una città che avesse osato sottrarsi al dominio del suo protettore.
Successivamente, si regolavano le questione legate alla pirateria, che in teoria entrambi gli alleati dovevano compiere ai danni dei Siracusani, ma, si sa, in mare è facile confondere le navi. I Cartaginesi, nel caso avessero catturato nelle loro razzie alleati dei Romani, si impegnavano a non venderli come schiavi nei porti del Lazio: nel caso si fosse verificata tale evenienza, il prigioniero sarebbe stato liberato e consegnato ai Romani. Ovviamente sarebbe valso anche il contrario.
Al contempo, i pirati latini non avrebbero dovuto scaccheggiare i territori degli alleati di Cartagine. In caso fosse avvenuto questo imprevisto, Roma si impegnava a rimborsare i danni. Lo stesso avrebbe fatto Cartagine, nel caso che a fare casini fossero stati i suoi, di pirati.
Le limitazioni sul commercio in Sardegna e in Libia, in realtà, più che a danneggiare i Romani, era finalizzato a imporre una sorta di embargo ai locali, nella speranza che il monopolio punico dei commerci mettesse un freno alla loro propensione alla ribellione e all’evasione fiscali, impedendo che potessero al contempo acquistare armi da terze parti.
In compenso, veniva garantito pieno accesso ai commercianti romani ai principali mercati del Mediterraneo Occidentale, Cartagine e Palermo
October 11, 2020
Il Museo della Ceramica di Castelli
Altre volte ho accennato alle ceramiche di Castelli, che, per secoli hanno costituto un’eccellenza per l’Abruzzo e per l’Italia: la terza grande collezione, oltre all’Acerbo e alla Paparella Treccia Devlet, vi è ovviamente quella conservata nello stesso comune abruzzese. Il museo, a causa degli effetti del terremoto de l’Aquila ospitato provvisoriamente nel Palazzo Municipale dell’Artigianato, ha sede dal 1984 all’interno del Convento dei Frati Minori Osservanti, che si trova sopra il paese, con un bellissimo Chiostro affrescato, all’inizio del secondo decennio del 1700, dai fratelli Ubaldo (1669-1731) e Natale Ricci (1677-1754), ai quali sono attribuite anche le cinque tele che ornano gli altari della annessa chiesa, dedicata alla Madonna di Costantinopoli. Affreschi che rappresentano su 21 lunettoni episodi della vita di Maria, ed ogni lunetta è intercalata da medaglioni raffiguranti volti di Santi e Beate che hanno dedicato la loro vita all’opera religiosa. Il convento è stato in funzione sino al 1866, poi a seguito della legge sull’incameramento dei beni ecclesiastici, divenne un deposito, per poi essere nel 1905 la prima sede dell’Istituto statale d’Arte F.A.Grue.
Il nucleo originario delle collezioni appartiene alla “Raccolta civica”, promosso da Giancarlo Polidori negli anni 1930-1940, quando era direttore della Scuola d’arte, via via arricchito da importanti depositi di enti pubblici (regione Abruzzo e Museo nazionale d’Abruzzo) e di collezionisti privati (Fuschi e Nardini) e dalle acquisizioni effettuate periodicamente, grazie anche alle donazioni di generosi estimatori.
Il museo, di fatto, è una porzione di un più ampio Parco della Ceramica: nelle vicinanze, infatti, si trova la Chiesa di San Donato,che risale all’incirca intorno alla fine del XV secolo e che fu edificata al posto di una precedente e semplicissima chiesetta di campagna : la peculiarità di questo edificio è il soffitto totalmente coperto di mattoni in maiolica, ed i mattoni originali di questo soffitto che rappresentano per lo più figure maschili, femminili, animali e stemmi di casati sono conservati nel museo.
Un’altra struttura che è un’importante testimonianza di questa tradizione è quella che ospita l’Istituto Statale d’Arte per la Ceramica “F.A.Grue”, dove è possibile ammirare il bellissimo e monumentale presepe che è stato creato negli anni ’70 e che si compone di circa sessanta statue realizzate a grandezza naturale. Il presepe è stato concretizzato nel decennio tra il 1965 ed il 1975 dallo stesso Istituto che aveva perfino organizzato delle attività didattiche concentrate sul tema natalizio che vedeva collaborare professori e studenti. Affianca il presepe la ”Raccolta Internazionale di Ceramica Moderna” che ospita incantevoli opere di più di trecento artisti di diversa nazionalità o provenienza.
Al piano terra, con gli strumenti originali provenienti dalle antiche botteghe, sono stati ricostruiti i diversi cicli lavorativi per la produzione della maiolica, documentando, oltre alle fasi correnti della foggiatura, della smaltatura e della pittura anche quelle eseguite artigianalmente fino alla metà del secolo scorso, come la produzione della creta e degli smalti, e che oggi sono affidate ad industrie di livello nazionale ed internazionale. È esposto anche un modello del forno a respiro, di invenzione castellana, alimentato a legna, oggi soppiantato dai forni elettrici ed a metano.
In due sale, poi, si possono ammirare la donazione del maestro Giorgio Saturni, trenta opere che costituiscono una importante testimonianza della sua attività artistica dalla metà del Novecento all’inizio del nuovo secolo, ed una significativa raccolta delle opere che artisti contemporanei, come Artias, Fieschi, Marotta, Mingotti, e Palmieri hanno lasciato dopo le mostre organizzate nei locali del museo.
Al piano superiore sono invece esposte le collezioni antiche in un percorso espositivo che si svolge in ordine cronologico. La prima sala è dedicata ai frammenti di scavo raccolti sul territorio castellano e una piccola testimonianza di piastrelle da pavimento e da rivestimento di epoche diverse a testimonianza di una produzione svoltasi costantemente anche se diretta ad una cerchia piuttosto ristretta, visti i pochi ritrovamenti.
Nella seconda sala sono esposti due piatti medioevali di ceramica ingobbiata graffita recuperati nella grotta di Sant’Angelo, in provincia di Teramo e un boccale frammentato appartenente alle produzioni della prima metà del ‘500. essa è dominata dai circa 200 mattoni provenienti dalla primitiva “cona cinquecentesca” di San Donato e si possono ammirare solo presso il museo di Castelli, e che sono messi a diretto raffronto con i due vasi farmaceutici della tipologia Orsini-Colonna, posseduti dal Museo, a testimonianza delle analogie stilistiche che hanno consentito, negli anni ottanta del secolo scorso, di attribuire alle manifatture della bottega Pompei questa importantissima produzione cinquecentesca. Si tratta di un corredo farmaceutico la cui produzione era assegnata di volta in volta, ai più noti centri italiani di produzione ceramica fino a quando non furono reperiti frammenti di scavo nella discarica della fabbrica dei Pompei che misero termine alla disputa. I vasi superstiti sono oggetto di un ricercato collezionismo fin dall’ottocento e sono presenti in tutti i più importanti musei del mondo: Louvre, British, Metropolitan, Ermitage, Bargello, Palazzo Venezia, Floridiana, per citarne alcuni.
Nella stessa sala è esposta, inoltre, la Madonna che allatta il Bambino, di Orazio Pompei che reca la datazione più antica della ceramica castellana (1551) rubata negli anni 70 dalla sala consigliare del Comune di Castelli dove era esposta, ritrovata sul mercato antiquario dal nucleo di tutela del patrimonio artistico, all’inizio degli anni ’90, purtroppo rotta e manomessa in modo irreversibile, e di recente restaurata, per riportarla al primitivo splendore (la data, purtroppo, è stata modificata in 1550). Il periodo a cavallo fra il cinquecento ed il seicento, in cui domina lo stile compendiario- una pittura semplice di sintesi come denuncia lo stesso nome, nei toni languidi del giallo, dell’arancio, del verde e del blu, della tavolozza castellana non ancora arricchita dal bruno di manganese- è documentato da un pannello, che ricompone un campione del soffitto seicentesco di San Donato (1615-1617), ancora in sito, realizzato con i mattoni non ricollocati sul soffitto dopo il restauro del 1969-70, dai mattoni incompleti già appartenuti al soffitto stesso dal Paliotto di Colledoro e dal Panello con l’Arcangelo Gabriele da una serie di piatti da pompa, che venivano utilizzati per ornare le case nobiliari, da contenitori farmaceutici e targhe devozionali.
L’Istoriato castellano, un genere di pittura che ha caratterizzato le produzioni castellane dalla prima metà del Seicento fino alla fine del Settecento, l’epoca d’oro della maiolica castellana quando, invece, gli altri centri ceramici erano caratterizzati da una generale decadenza, è documentato da una serie di opere di pittori appartenuti alle varie dinastie di maiolicari, che si tramandavano il mestiere di padre in figlio: i Grue, i Gentili, i Cappelletti, i De Martinis ed i Fuina; sono definiti pittori perché le loro opere sono vere e proprie opere pittoriche spesso rielaborate con originalità dalla cosiddetta grande pittura ed utilizzate per adornare le case della nobiltà locale ma anche di quella nazionale ed internazionale.
Nel corridoio intorno al chiostro è esposta una selezione degli “spolveri” settecenteschi provenienti dalla fabbriche dei Gentili- sono disegni su carta bucherellati per trasportare il disegno sul supporto ceramico troppo tenero per sopportare il segno della matita-, e un deposito a vista con materiale non incluso nel percorso ordinario.
In una sala e in parte del corridoio, in attesa che sia disponibile l’allestimento espositivo definitivo, sono temporaneamente esposte una qualificata selezione delle circa duecento opere in ceramica di Aligi Sassu (1912-2000) appartenenti alla collezione di Alfredo e Teresita Paglione, donate recentemente al museo, che, con la persistente rappresentazione di cavalli scalpitanti.
October 10, 2020
L’Ape Bianca
“Ho sempre cercato di educare la mia anima all’orrore per il pregiudizio, forse questo mi basta per definirmi un osservatore ma non mi aspetto niente di buono. Mi piace pensarmi come un collezionista di scarti, tentando di circoscriverne il fenomeno. Sono figli nostri, intendo quegli oggetti-soggetti che si legano al paesaggio e che io fotografo, estraggo dipingo e quindi non dimentico, sia per fare un dispetto alla globalizzazione sia per quel sentimento di riconoscenza, di aspettativa enigmatica, di quell’imperscrutabilità che si rivela a volte come una metafora dell’incertezza del vivere.
Consolidando la propria esperienza nel mondo per tentare di renderla sensata, plausibile, armoniosa, O perlomeno, confortevole.”
Sono le parole di Andrea Di Marco, pittore panormita, che assieme ad Alessandro Bazan, con cui formerà, insieme a Francesco De Grandi e Fulvio di Piazza. Di Piazza, la cosiddetta Scuola di Palermo, una delle fucine di quella che nella seconda metà degli anni Novanta fu definita la “Nuova Figurazione Italiana”. Con il senno di poi, questa etichetta, di Nuova Figurazione, fu forse una forzatura, dato che costituì un enorme calderone in cui si infilò tutto e il contrario di tutto.
Andrea, ad esempio, era innamorato della sua città, dei suoi contrasti e delle sue stratificazione e più che sfondo a storie altrui, la considerava un personaggio vivo, con i suoi sogni, speranze e malumori: per cui, la sua pittura, beffarda, malinconica e ubriaca di luce, cominciò a concentrarsi sugli scorci del centro storico, con la sua miseria e nobiltà, popolandoli di infiniti oggetti, spesso abbandonati o feriti dal tempo, che diventano ambigue metafore della condizione umana.
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Il più famoso di questi era la “lapa”, l’Ape Piaggio, per in non palermitani, il tanto bistrattato e sbeffeggiato motocarro, che vuoi o non vuoi, ci fa compagnia dal 1948. Un accrocco a tre ruote, senza dubbio alcuno: ma anche simbolo di un’Italia che invece di lamentarsi e piagnucolare non si arrende, che si rimbocca le maniche, che coniuga ingegno e arte d’arrangiarsi. Cose di cui, in questi giorni di pandemia, ci sarebbe tanto, tanto bisogno.
E la “lapa” è, nonostante la sua veneranda età, uno dei numi tutelari del centro storico di Palermo: la troviamo nei mercati, stracarica di ogni cosa che sia possibile vendere, la vediamo correre, parola grossa, per i vicoli, oppure trasformata in una sorta di chiosco ambulante di street food. L’ultima sua trasformazione, è in tuk-tuk, per portare a spasso i turisti: io, da convinto camminatore, non l’ho mai preso, però amici e parenti me ne hanno parlato con entusiasmo.
Nella notte tra giovedì 1 e venerdì 2 novembre del 2012, Andrea fu stroncato da uno shock anafilattico: Per ricordarlo, fu deciso di realizzare nel concreto un suo vecchio sogno: un’installazione proprio dedicata alla “lapa”, inaugurata il 12 luglio 2013 al Molo Sailem della Cala di Palermo, nell’ambito del programma del 389° Festino di Santa Rosalia.
A differenza delle “lape” dei suoi quadri, cariche di colore, quella della Cala è “Bianca”, per renderla meno sensibile alle condizioni atmosferiche e allo scorrere del Tempo, cosa che però, spesso e volentieri, la resa vittima della maleducazione e del vandalismo.
In ogni modo, questo monumento è diventato un simbolo della città. Tanti turisti, pur non conoscendone la storia, passeggiando per la Cala, la guardano, la fotografano, le regalano un sorriso, allontanandosi con il cuore più leggero… In fondo, proprio ciò che voleva Andrea…
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October 9, 2020
Le Terme di Baia (Parte III)
Continuando la nostra visita a Baia, ci trasferiamo al nucleo o terme di Sosandra, che prende il nome da una statua raffigurante Afrodite, copia romana di un originale greco del V sec. a.C. attribuito allo scultore Calamide, che, secondo la tradizione, nello scolpirla usò come modella Aspasia, l’amante di Pericle. Il complesso si estende su un’area rettangolare inquadrata tra due rampe situate lungo i lati nord e sud; l’insieme strutturale evidenzia una disposizione a terrazze, che seguono la morfologia del pendio e degradano verso il mare, con un gioco architettonico di porticati e di corridoi anulari di notevole effetto scenografico.
Nella terrazza superiore vi è una serie di stanze a uso residenziale, tra cui spicca un ambiente a volta, pavimentato con un bel mosaico policromo a pannelli figurati, accanto al quale fu rinvenuta e recuperata una statua di Mercurio. La terrazza mediana, invece racchiude un piccolo Teatro-Ninfeo con una vasca circolare, alimentata dall’acquedotto del crinale, al centro dell’orchestra: è un edificio che andava di moda nelle ville marittime e che serviva per rappresentazioni mimiche, di miti e favole erotiche e per recitazioni e audizioni musicali.
In quest’area è ancora possibile ammirare i resti del pavimento in mosaico. Una composizione formata da tessere nei colori del bianco, nero insieme a rosso in varie tonalità, violetto e giallo. L’esterno del disegno ha una prima fascia composta da forme geometriche accostate insieme, ad un’altra, con un motivo a treccia. Nella parte centrale invece, sono raffigurate maschere teatrali.
L’inferiore, infine, era formata da una grande piscina quadrangolare racchiusa da grandi arcate che formavano il portico intorno al bacino. La piscina, alimentata da una fonte sulfurea che ancora scaturisce dal piede della collina, era un’utile natatio per immersioni. Intorno alla vasca, cui si accedeva con scalette di discesa, erano distribuite delle stanze sormontate da arcate decorate a stucco.
A cosa serviva questo complesso? In realtà, è complicato a dirsi, dato che a quanto pare, nella sua lunga storia cambiò diverse volte destinazione d’uso. Nel I secolo a.C. dovrebbe essere stata una domus privata, di un ricco senatore o cavaliere, che fu sequestrata ai tempi di Nerone e trasformata nell’ebeterion (luogo destinato ai giovani), destinato al riposo e allo svago dei soldati di stanza a Miseno. Ebeterion che, nel II secolo d.C. fu a sua volta trasformato in un’ hospitalia, ossia in una albergo di lusso dell’epoca, destinato ai clienti delle Terme.
I cosiddetti templi di Diana, Venere e Mercurio in realtà non lo sono mai stati ma la loro imponenza e il loro aspetto apparentemente isolato aveva fatto pensare a edifici sacri, collegati a queste divinità solo per piccoli, o inesistenti, indizi trovati nelle decorazioni delle loro pareti. In verità, si tratta di tre diversi stabilimenti termali costruiti, a distanza di un secolo l’uno dall’altro, per sfruttare sempre più intensamente le risorse idrominerali del sottosuolo: oltre a grandi vasche per immersioni, numerosi sono i condotti scavati direttamente nel terreno per captare le risalita di vapori bollenti per riscaldare le saune. La ricerca di queste fonti naturali di calore ci spiega in parte la disposizione disordinata di questi edifici, che tuttavia deriva anche da un altro fattore: prima di questi grandi impianti lo spazio era già stato occupato da grandi ville, costruite una a fianco all’altra già uno o due secoli prima
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Lo stesso può dirsi del Tempio di Diana, separato dal complesso principale dalla “Ferrovia Cumana”, che unisce i Campi Flegrei al centro di Napoli; il suo nome deriva nasce solo per il ritrovamento nell’area di un rilievo in marmo con raffigurati una serie di animali, uno dei pochissimi elementi noti di quella che doveva essere una decorazione raffinata che rivestiva pareti e soffitti.
Il Tempio di Diana consiste in un grande ambiente che per la pianta ottagonale all’esterno, circolare all’interno, per la distribuzione alterna di nicchie absidate e rettangolari, simile al piano inferiore dell’altra più grande rotonda del Tempio di Apollo sul Lago d’Averno; otto grandi finestre, delle quali cinque ancora conservate, si aprono al di sopra delle nicchie absidate.
Il monumento appare interrato fino al di sotto del piano delle finestre e distrutto in tutta la sua parte anteriore.L’analogia con le altre sale circolari di Baia fa supporre che il Tempio di Diana fosse un grande sudatorio o una grande piscina di raccolta di acque termali. Quest’ultima ipotesi sembra essere avvalorata dal fatto che la sala si trovi addossata al fianco della collina per meglio intercettare il flusso delle sorgenti. Gli altri edifici intorno semisepolti e poco riconoscibili, facevano parte dell’impianto termale di cui il Tempio di Diana veniva ad essere la parte essenziale e più cospicua.
Sono mancati infatti scavi sistematici che permettessero di capire lo sviluppo del complesso: nonostante ciò, l’analisi delle murature visibili permette di considerare l’edificio come l’ultimo dei grandi complessi termali di Baia, costruito probabilmente intorno al III secolo d.C. Da questa considerazione gli studiosi hanno ipotizzato un possibile collegamento con il già citato palazzo che l’imperatore Alessandro Severo, come ci racconta la sua biografia nell’Historia Augusta, fece costruire per la madre Giulia Mamea.
October 8, 2020
San Giovanni in Conca
In mezzo a Piazza Missori c’è un rudere spesso ignorato dal passante frettoloso: eppure si tratta di un frammento importante della storia di Milano. Si tratta infatti dei resti dell’antica basilica paleocristiana di San Giovanni in Conca.
L’area, una palude nel periodo celtico, fu bonificata ai tempi di Mediolanum, per essere trasformata in epoca tardo antica in quartiere residenziale di lusso: dove sorgeva la chiesa, vi era la domus di un importante e ricco funzionario della corte imperiale, come testimoniato dal ritrovamento di un mosaico policromo pavimentale, ora conservato al Civico Museo Archeologico, uno dei pochissimi esempi milanesi con motivi figurati
Databile al III secolo d.C., il mosaico rappresenta entro uno schema geometrico a meandro riquadri con animali, tra i quali è completamente conservata la figura di una pantera. Allo stesso edificio doveva appartenere una cisterna in laterizi (larga 6,70 metri) rivestita da cocciopesto impermeabilizzante e alimentata da condutture in piombo. Tra V e VI secolo d.C. l’area cambiò destinazione d’uso, diventando un nuovo importante polo religioso e funerario: sulle precedenti abitazioni sorse, infatti, una chiesa ad aula unica absidata (17 x 35 metri) senza suddivisioni interne, le cui pareti laterali erano all’esterno modulate da arcate cieche come nella basilica di San Simpliciano, larghe 3 m circa, sostenute da pilastri rettangolari molto sporgenti.
Degli ornati della basilica si conserva esclusivamente un frammento di pavimento in opus sectile a esagoni neri e triangoli bianchi. Attorno alla chiesa si sviluppò anche una necropoli, di cui furono rinvenute diverse tombe. Fra queste, è degna di nota una sepoltura in cassa lapidea affrescata, uno dei rarissimi esempi di pittura paleocristiana conservati a Milano. Datata in base alle caratteristiche stilistiche tra V e VI secolo d.C., essa era addossata alla parete destra esterna della chiesa; oggi è conservata nel Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco di Milano.
Sempre sul fianco destro della chiesa sono stati rinvenuti i resti di un sacello funerario, interpretato anche come martyrium di San Castriziano, terzo vescovo di Milano, a cui è attribuita la costruzione della prima chiesa di Milano nell’hortus Philippi, situato nella zona dell’attuale basilica di Sant’ Ambrogio.
La chiesa continuò a essere utilizzata anche nel periodo longobardo, come testimonia un altro reperto conservato al Castello Sforzesco, la lastra tombale del nobile longobardo Aldo, parente del duca di Trento Evino, cognato della regina Teodolinda, convertito dall’arianesimo al cattolicesimo. Il pezzo si presenta caratterizzato da un’orlatura che originariamente doveva essere intarsiata con pietre e paste vitree colorate. Al centro, invece, una croce latina incavata spartiva lo specchio epigrafico in quattro settori.
La denominazione della chiesa ad concham è presente già nel testamento di Ansperto (879) e allude probabilmente alla leggera depressione del terreno in quella zona. Intorno al 1100 fu realizzata la splendida cripta, ancora esistente sotto il piano stradale; con ogni probabilità in quest’epoca che si operò la suddivisione a tre navate dell’antica aula rispettata nel suo perimetro, così come la ricostruzione dell’abside non mutò la posizione e l’andamento originari. Devastata dal Barbarossa nel 1162, nella seconda metà del Duecento la chiesa venne restaurata e riconfigurata, ispirandosi ai modelli delle chiese delle grandi abbazie dell’epoca.
I sostegni erano cilindrici per le prime quattro campate e cruciformi, con semicolonne in senso longitudinale, i due successivi prima della campata di coro unitaria e dell’abside, rialzata. La navata era coperta a capriate, mentre le campate laterali rettangolari erano voltate a crociera. I pilastri compositi dell’incrocio reggevano una più alta volta a crociera nascosta da un tiburio quadrato.
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La bellissima facciata a capanna, all’epoca affiancata da un campanile alto 24 metri, venne realizzata nel 1200 circa ed era scandita in origine da quattro contrafforti che separavano in tre fasce la facciata. La parte centrale era in marmo chiaro mentre le due fasce laterali erano in cotto.Un ampio rosone traforato in marmo bianco sovrastava il portale centrale ad arco a tutto sesto con lunetta e forti strombature a colonnina laterali. Sopra al rosone si trovava una monofora a nicchia con una scultura al centro, mentre ai lati si aprivano due piccoli rosoni sormontati da due finestre a cielo.
Al centro, vi era una nicchia ospitava il busto di San Giovanni Evangelista, rappresentato nel calderone di olio in cui, secondo la tradizione, lo avrebbe fatto immergere l’imperatore Domiziano, senza che il Santo ne soffrisse. In analogia con questo episodio, sul sagrato della basilica si tenevano -in tempo di siccità- dei tridui di preghiera per invocare l’intercessione divina per la pioggia. I canti e le suppliche, improntate ai principi della magia omeopatica o imitativa, venivano accompagnati da libagioni rituali che servivano ad allontanare gli spettri della siccità, della carestia, della fame e delle pestilenze sempre in agguato. Nei pentoloni, issati sopra dei falò, venivano messe a bollire, al posto del martire, delle vivande con la speranze che canti, preci, aspersioni e spruzzate “brodolose” servissero ad evocare e a catalizzare le forze positive dell’universo trasformandole in pioggia
Presso le Raccolte d’Arte del Castello Sforzesco sono ricoverati gli affreschi strappati dalle pareti interne della chiesa: tra i più antichi rivestono notevole importanza, per l’alta qualità e per la generale scarsità di testimonianze superstiti della pittura milanese degli anni a cavallo fra Due e Trecento, l’Angelo annunciante e la Vergine annunciata, collocati in origine ai lati dell’arcone absidale. Strappati e trasportati su tela da Ottemi Della Rotta intorno alla metà del Novecento, i due affreschi sono caratterizzati da grande eleganza formale, abbondante uso della decorazione “a pastiglia” e ricercata ambientazione spaziale, sia pur con risultati spesso prospetticamente incoerenti. L’anonimo responsabile di queste figure, ravvisabile anche in un’Ultima Cena in S. Agostino a Bergamo, testimonia la diffusione del gusto neoellenistico mediato da modelli veneziani nel clima raffinato della Milano viscontea.
Nel corso del XIV secolo, Bernabò Visconti (1323-1385) trasformò la chiesa in una cappella gentilizia integrandola nella propria dimora fortificata che sorgeva nei pressi dell’edificio religioso. Il palazzo era noto ai milanesi come Ca’ di Can per la passione di Bernabò nei confronti dei cani da caccia. Sembra infatti che ne possedesse ben 5000, per lo più dati in affido alle “cure amorevoli” dei propri sudditi. Se da questi venivano trascurati, i “governatori del cane” venivano condannati a pene molto severe. Recarsi alla Ca’ de Can con la consapevolezza di aver svolto male il proprio compito sembra abbia dato origine all’espressione triviale “lavorare alla cavolo di cane”
Proprio Bernabò provvide a rinnovare la decorazione di San Giovanni, con un ciclo di affreschi con Storie di san Giovanni Evangelista di cui restano al Castello Sforzesco cinque frammenti con figure stanti isolate o raccolte in piccoli gruppi; le scene appaiono delimitate da larghe bande a motivi cosmateschi e girali vegetali a monocromo cui si aggiunge, in basso, un alto zoccolo illusionistico formato da una sequenza di finte scansie marmoree e da sottostanti specchiature, pure in finti marmi colorati; alcuni dei frammenti sono inoltre impreziositi da eleganti fondali architettonici, accuratamente definiti. Questi elementi, uniti alla monumentale ampiezza e solennità delle figure, al plastico modellato dei panneggi, alla morbida definizione dei volti e all’uso di una tavolozza dai toni chiari e luminosi, sembrano collegare l’anonimo Maestro delle Storie di san Giovanni ai migliori esempi pittorici di matrice giottesca della Milano del terzo quarto del Trecento, in particolare ai frammentari affreschi del palazzo Arcivescovile, oltre che al mondo poetico e coloristico di Giusto de’ Menabuoi.
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Eccezionale testimonianza del rinnovamento “gotico” di S. Giovanni in Conca è il grandioso, celeberrimo monumento funerario di Bernabò Visconti (oggi al Castello Sforzesco), collocato in origine dietro l’altar maggiore della chiesa. Culmine dell’intera esperienza della scultura campionese, il complesso si compone di due elementi principali: la statua equestre di Bernabò, eseguita prima del 1363, e il sarcofago, sorretto da colonne e decorato sulle fronti da rilievi raffiguranti gli Evangelisti, l’Incoronazione della Vergine, la Crocifissione e la Pietà. Accanto al condottiero sono due rappresentazioni allegoriche della Fortezza e della Sapienza, mentre sul bordo del sarcofago poggiano due angeli reggitorcia (in origine quattro). È opinione diffusa che il solo gruppo equestre, con le figure allegoriche che lo accompagnano, sia da attribuire a Bonino da Campione, mentre i rilievi del sarcofago, più tardi, spetterebbero alla sua bottega. L’opera doveva dunque produrre in origine un effetto di incombente, violenta monumentalità apparendo, rifulgente d’oro e colore, nella buia abside della chiesa per la quale era stata concepita; cavallo e cavaliere hanno una fisicità intensa e ieratica, che conferisce loro grande solennità, come era probabilmente nei desideri dello stesso Bernabò. Stilisticamente l’opera rivela nella sensibilità per i tratti fisionomici del volto e nell’attenzione minuziosa per i dettagli – specie nella resa dell’armatura – la profonda matrice gotica della cultura di Bonino, memore dell’opera del pisano Giovanni di Balduccio (in Sant’ Eustorgio). La cripta accolse infine il monumento funebre della moglie di Bernabò, Regina della Scala, cui si deve la costruzione della chiesa di Santa Maria alla Scala, demolita nella seconda metà del XVIII secolo per far posto al Nuovo Regio Ducal Teatro, più noto come Teatro alla Scala. Il monumento, oggi al Castello Sforzesco, è Del tipo a parete ed è composto da un sarcofago a coperchio piatto sostenuto da robusti pilastrini ottagonali; il fronte della cassa è suddiviso in tre riquadri.
Nel 1531 fu concessa da Francesco II Sforza ai Carmelitani, che la ristrutturarono parzialmente aprendo in seguito alcune cappelle laterali, i costruirono accanto il monastero e alzarono il campanile sino a 42 metri, tanto che in seguito fu utlizzato sia come osservatorio astronomico, sia come centrale metereologica. Nel 1570 il monumento di Bernabò fu spostato da Carlo Borromeo (1538-1584) in una navata laterale, mentre le sue spoglie mortali, seguite in un secondo tempo da quelle della consorte, furono traslate nel XIX secolo nella Chiesa di Sant’Alessandro in Zebedia, mentre un’ultima fase di rinnovamento avvenne in epoca barocca ad opera di Francesco Castelli (1662-68). Giovanni Paolo Lomazzo dipinse la volta dell’abside così come il dipinto al centro del coro, una crocefissione, che oggi si trova in Brera. Altro dipinto oggi conservato in Brera è il Battesimo di cristo opera di Bernardino Lanino, un tempo attribuito a Bernardino Luini
Nel 1782 la soppressione degli ordini religiosi contemplativi imposta da Giuseppe II d’Asburgo ( portò allo scioglimento dell’ordine carmelitano. Nel 1787 a San Giovanni venne tolta la parrocchialità e la chiesa venne soppressa definitivamente nel 1808 passando al Demanio. Spogliata dei mausolei viscontei, fu trasformata in un magazzino
Il 21 novembre 1878 il Regio Governo cedette dietro pagamento l’edificio al Comune di Milano che nel 1877 aveva deliberato di far passare la nuova via Carlo Alberto, oggi via Mazzini, nell’area occupata dalla chiesa. Nel maggio 1879 la Comunità Valdese, autorizzata da una delibera del Consiglio Comunale, acquistava l’antica basilica con l’obbligo di arretrarne la facciata a rettifilo della allora Via Carlo Alberto e di amputarne la parte posteriore affinché l’edificio rimanesse nei confini dell’area assegnata dal Comune. Il progetto di adeguamento fu realizzato dall’architetto Angelo Colla che modificò, arretrandola, la facciata in stile neogotico e la applicò obliquamente al corpo della chiesa, che venne drasticamente accorciata. Una piccola porzione dell’area della vecchia chiesa fu acquistata dall’ellenista ed epigrafista Giovanni Labus.Il nuovo tempio valdese fu inaugurato l’8 maggio 1881; la demolizione del campanile fu decretata nella seduta consigliare del 5 gennaio 1884 e, dopo lunghissime discussioni fra le varie autorità, fu demolito fra il giugno e l’agosto 1884.
Nel secondo dopoguerra presunte “esigenze imprescindibili di viabilità” condannarono definitivamente l’edificio, che fu demolito tra il 1948 e il 1952, per realizzare l’asse viario di via Albricci-piazza Missori. Dell’antica basilica furono salvati e restaurati solo una parte dell’abside e della cripta, mentre la facciata fu ricostruita e applicata al nuovo tempio valdese in via Francesco Sforza.
Di conseguenza rimangono solo “ el dent cariaa”, una una porzione dell’abside, con tre monofore, quella centrale a strombo mistilineo, le laterali a strombo semplice, e parte del coronamento a fornici. Questi ultimi sono sopraccigliati da un fregio di archetti pensili e da una banda conclusiva a dente di sega. Si vedono lungo il perimetro esterno i segni delle immorsature dei contrafforti, dell’estremo meridionale resta una piccola porzione in basso che restituisce una sezione triangolare su lesena.
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Al di sotto del piano stradale rimane sostanzialmente integra quella che può essere a giusto titolo considerata la più preziosa cripta romanica milanese insieme a quelle di Santo Sepolcro e di San Vincenzo in Prato . Si tratta di una cripta “a oratorio” che si sviluppa in corrispondenza dell’abside e di una antistante campata di coro rettangolare: quattro file di colonne e due colonnine laterali a ovest scandiscono l’ambiente in sette navatelle coperte da volte a crociera dotate di sottarchi. Le colonne, di varia altezza e larghezza, frutto di riuso, sono prive di basi e reggono capitelli di morfologia differenziata, ove però ricorrono due tipi: uno a foglie angolari lisce rilevate nel bordo da un listello; un secondo tipo corinzio a foglie grasse e crocetta centrale tra i caulicoli, assegnabile agli anni di costruzione della cripta, ma esemplato su una tipologia di VII-IX sec. frequente in area lombarda. Le volte a crociera, pressoché piatte, vengono raccolte lungo il perimetro da pilastri composti da una semicolonna aggregata a una lesena e a un nucleo rettangolare: la semicolonna corrisponde al sottarco, l’elemento intermedio alla nervatura diagonale, molto spigolosa, della volta all’innesto con il sostegno, il nucleo sorregge gli archi di parete. I pilastri si impostano su uno zoccolo continuo di circa 0,85 m di altezza.
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