Alessio Brugnoli's Blog, page 49

November 14, 2020

La Reale Fonderia della Cala

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Oggi, nelle mie chiacchiere su Palermo, parlo del luogo dove si è sposata mia cognata, la Real Fonderia alla Cala, luogo le cui origini risalgono ai tempi di Balarm, quando la Cala era il porto della città; ciò è anche testimoniato anche dal toponimo con cui era nota nel Medioevo ‘Casa del Tarzanà’, (dall’arabo dar as-san, tarsianatus nella latinità del medioevo ovvero casa del lavoro, arsenale). Funzione che svolse sino a fine Cinquecento, quando, a seguito dell’insabbiamento della Cala, causato dai detriti riversati dai fiumi Kemonia e Papireto, nel 1567 il Viceré di Sicilia Garcia de Toledo decise di realizzare un nuovo porto.





Fu scelta l’ampia baia a nord della città fino alle falde di Monte Pellegrino, che ne costituiva la naturale protezione, e nello stesso anno fu acquistata l’area della tonnara di San Giorgio. Nel 1575, il primo tratto del “Molo Sud”; l’anno successivo si diede inizio alla costruzione del Molo Nord. Come conseguenza di questi lavori, il vecchio arsenale arabo risultò essere totalmente inadeguato. Per cui, nel 1621, su iniziativa del Viceré Francesco de Lemos duca di Castro e di don Diego Pimentel, all’epoca Generale delle Galere di Sicilia, furono iniziati i lavori dell’Arsenale Nuovo, su progetto del buon Mariano Smiriglio; edificio che attualmente è sede dello splendido, ma ahimè poco valorizzato Museo del Mare.





Ovviamente, i viceré si posero il problema di cosa fare della struttura della Cala: dopo diverse incertezze e dubbio, il vecchio Arsenale fu trasformato nella Reale Fonderia, utilizzata per fondere artiglieri e statue di bronzo. Da questo luogo uscì, tra l’altro, il grandioso monumento equestre di Carlo II, opera di Giacomo Serpotta, inviato a Messina nel 1684, e poi, distrutta durante i moti del 1848.





La Reale Fonderia rimase sino al 1840. Dopo quell’anno i cannoni vennero fusi nel vicino Castello a mare e la vecchia fonderia, come precisa Girolamo Di Marzo Ferro nel 1859, fu utilizzata per albergarvi nelle occorrenze le reclute di quei corpi che venivano da Napoli e che non appartenevano a reggimenti di stanza a Palermo.





Dopo l’Unità d’Italia la sua destinazione d’uso cambiò ancora, diventando un magazzino militare, poi, allo scoppio della Grande Guerra, la sede del Comitato regionale della Croce Rossa. Come tutti gli edifici dell’area portuale, la Reale Fonderia fu gravemente danneggiata nel 1943 dagli bombardamenti anglo americani.





Ora, su molto siti palermitani, la Reale Fonderia è spesso e volentieri confusa con l’Oretea dei Florio, che è ben altra cosa. Nel settembre 1840 i fratelli Sgroi costituirono a Palermo, nelle vicinanze del fiume Oreto, la “Società Oretea per la fusione d’opere di ferro e bronzo”, il cui impianto fu immediatamente fornito di una motrice a vapore, destinata ad azionare torni e piallatrici meccaniche. In questa prima installazione Vincenzo Florio svolgeva la funzione di cassiere e componente del consiglio d’amministrazione. In seguito al trasferimento dei fratelli Sgroi a Napoli, Florio rilevò la società con la collaborazione di alcuni soci il 12 dicembre del 1841.





Con il passaggio a Florio, la fonderia Oretea fu destinata ad affiancarsi complementarmente alle attività armatoriali, fornendo ad esse caldaie, pompe ed altre attrezzature utili allo svolgimento della navigazione a vapore.





Nei quadri dirigenti operavano tecnici “non siciliani”; vi erano francesi,prussiani i quali però non ebbero alcuna riserva a trasmettere la loro maestria, esperienza e professionalità forgiando la locale classe imprenditoriale ed operaia; altra importante specificità fu quella di non avvalersi di manodopera giovanile come allora era uso utilizzare sia in agricoltura che nell’industria. Il numero degli operai addetti variò del tempo nel corso come pure la misura delle loro retribuzioni che invero non erano eccelse sino a decrescere inesorabilmente con il declino dell’impresa. Il numero dei lavoratori oscillava tra i 250 e 300 operai fina al 1859, ma nel 1861, cioè dopo l’unificazione. se ne contavano solo 136.





Nel 1844 la sede originaria, fu abbandonata in favore di una più grande, che fu realizzata acquistando ed adattando una serie di terreni e corpi di fabbrica posti tra le attuali vie Fonderia Oretea e via Onorato, dove adesso è la Motorizzazione Civile





Nello stesso anno, grazie alla capace direzione di Antonio Michelini, la Oretea presentò all’Esposizione Nazionale di Palermo una pressa idraulica da 212 atmosfere, derivata da un modello inglese. Alla successiva Esposizione di due anni dopo, fu possibile presentare la prima macchina a vapore di costruzione interamente siciliana, della potenza di otto cavalli; ed una seconda capace di azionare tutti i macchinari dello stabilimento, ad una mostra industriale tenutasi nel 1846. Dopo tale data, la Oretea continuò ad espandere le proprie attività, tanto che nel 1859 Florio fu costretto ad abbandonare le attività legate alla pesca del tonno, per potersi concentrare sull’amministrazione della fonderia e della Società dei battelli a vapore che andava costruendo.





Sul finire del secolo XIX venne assorbita dal Cantiere Navale, e cessò di funzionare nel primo decennio del Novecento a seguito dei problemi finanziari dei Florio, il cui business, bisogna ricordarlo, era concentrato su settori, quelli del nolo marittimo e dello zolfo, il cui redditività era collassata. Completamente smantellata, al suo posto si trovano oggi alcuni edifici residenziali, in parte ricostruiti nel dopoguerra.





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Published on November 14, 2020 06:33

November 13, 2020

Il parco sottomarino di Baia (Parte III)

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Il nostro viaggio nella Baia subacquea termina in un luogo di straordinario fascino, il Ninfeo di Punta Epitaffio, fatto realizzare dall’imperatore Claudio, protagonista, tra l’altro, di un mio romanzo di prossima pubblicazione. Era il 1956 quando il capitano Burcher notò, grazie a condizioni meteo particolari, l’esistenza di reticoli ordinati sotto le acque; il che fece pensare sin da subito che potessero esserci degli importanti resti architettonici.





La conferma, però, si ebbe nel 1969, quando a seguito di una tempesta, un pescatore locale segnalò alla Sovraintendenza la presenza di Ad emergere per prima fu la figura di Ulisse e, subito dopo, quella con l’otre caprino, che fu Baios, eroe eponimo di Baia e nocchiero del Laerziade. Il geografo greco Strabone asserisce che nei pressi del porto di Baia si trovava una statua di Baios. Molto tempo prima, nel III secolo a.C., Licofrone di Calcide nel poema “Alessandra” vi colloca la tomba. Le due statue si trovavano ancora in situ, all’interno di un’abside, negli spazi in cui furono poste nei primi anni del I secolo d.C. e ad una distanza di 6,40 metri l’una dall’altra.





Nel 1981, dopo questo primo fortuito e straordinario ritrovamento, l’archeologo Andreae iniziò la prima campagna di scavo archeologico sottomarino, riportando alla luce altre statue e numerosi reperti fittili di notevole interesse storico. Nell’autunno inoltrato del 1982, completata l’esplorazione ed il rilevamento del sito, non restava altro da fare che preservare lo scavo dai predatori e da eventuali atti di vandalismo, coprendolo con lastre di cemento e reti metalliche.





Oltre ad Ulisse e Baios furono recuperate altre sculture: due statue del dio greco Dionisos, una statua stupenda dell’imperatrice Antonia Minore e una copia ritratto di una bambina dall’apparente età di 6-8 anni. L’indagine di scavo subacqueo mise in luce una grande sala rettangolare absidata (un tempo coperta a volta) – lunga m. 18 e larga m. 9,50 – allestita in maniera tale da costituire un triclinio acquatico che offrisse frescura. L’intero impianto, con il letto da mensa (triclinio) in marmo a forma di ferro di cavallo, aveva l’aspetto di uno stibadium (sala da pranzo) uguale a quello descritto da Plinio per la sua villa. Lo stibadium o sala triclinare acquatica, era composto da letti conviviali che poggiavano su un’ampia banchina marmorea; questa era posta tra una canaletta di scarico che cingeva le pareti della grande vasca centrale e quelle laterali. Dalle cronache dell’epoca e dallo scavo del manufatto, si ha conferma che il Ninfeo aveva una vasca centrale colma d’acqua e che al suo interno veniva posto in movimento un ingegno che immetteva acqua verso un canale che costeggiava le nicchie delle statue e sulla superficie dell’acqua navigavano piccole barchette ricolme del cibo offerto ai commensali dalle quali questi, distesi sui triclini, si servivano a piacere. Da alcune statue, poste nelle nicchie dei lati lunghi del ninfeo e da quella di Baios situata nell’abside, zampillava acqua, grazie a tubicini di piombo inseriti nel marmo.





Gli scavi hanno evidenziato come il ninfeo fosse frequentato sino alla tarda antichità, quandi spogliato dei marmi policromi e di alcune statue. Il definitivo abbandono e il conseguente inabissamento del ninfeo, con il relativo crollo della volta, è da imputare ad una virulenta recrudescenza del fenomeno di subsidenza avvenuto nel IV secolo d.C.





Claudio, decorò la sua sala da pranzo con un complesso ciclo iconografico, incentrato sullo scontro tra Ulisse e Polifemo, tema che, oltre ad andare di moda all’epoca, basti pensare alla decorazione della villa di Sperlonga di Tiberio, che aveva una tripliche valenza simbolica.





Il genius loci, Baios, che doveva essere posizionata su un podio in finta roccia alla sinistra di Ulisse, disposta in secondo piano e più in alto, fungeva sia da spettatore allo scontro tra istinto e ragione, barbarie e civiltà, sia tra un tiranno, capace di togliere la vita a capriccio, pessima abitudine di Tiberio e di Caligola, e un uomo che dissimulando le sue capacità e fingendosi sciocco, riuscì a salvarsi la vita, ossia lo stesso Tiberio.





Inoltre, Ulisse era padre di Telegono, mitico fondatore di Tuscolo e antenato della gens Claudia, che così dimostrava di avere altrettanto valore e dignità della Iulia, discendente da Enea e da Venere. Questa sorta di cronaca familiare continuava nel resto del triclinium. Il lato sinistro era dedicato al passato, con le statue di Augusto, di Livia Drusilla, la bisbetica nonna di Claudio, Druso Maggiore, suo padre, nelle vesti di condottiero, e di sua madre Antonia minore, figlia di Marco Antonio (figlio a sua volta di Giulia Antonia, cugina di secondo grado di Gaio Giulio Cesare) e Ottavia (sorella di Augusto, figlia di Gaio Ottavio e Azia, figlia Marco Azio Balbo e della sorella di Gaio Giulio Cesare, Giulia minore… Lo so, gli alberi genealogici dell’epoca fanno impallidire quelli dei Forrester).





Con un pizzico di perfidia, Claudio, quando ci si metteva, ne era capacissimo, Antonia minore era rappresentata come Venus Genitrix, cioè come personificazione di quella Venere che la Gens Julia onorava come progenitrice. Il lato destro, invece era dedicato al futuro.





Per prima cosa, vi erano due statue di Dioniso, per ricordare sia le bisbocce che si svolgevano nel triclinium, sia la vittoria di Ulisse su Polifemo, sia per mostrare la profonda ambiguità del dio. La prima statua rappresentava Dioniso in compagnia del suo animale sacro, la pantera, rielaborando il modello prassitelico dell’Apollo Sauroktonos, l’Apollo che uccide la lucertola.





Il giovane dio si mostra con i capelli annodati dietro la nuca ed è nudo al cospetto dell’animale a lui fedele. Nella mano sinistra, probabilmente, reggeva un tirso (bastone nodoso e contorto sormontato da un viluppo d’edera) posizionato obliquamente tra i due piedi, mentre nella mano destra abbassata, un Kantharos (contenitore usato per bere con alto collo svasato).





Il felino, posizionato tra il drappo e la gamba destra del dio, è accovacciato sulle zampe posteriori, solleva la zampa anteriore sinistra e volge in alto il capo per guardare il suo padrone (l’animale e il dio si fissano). La pantera porta al collo un tralcio di vite, formato da foglie e grappoli d’uva pendenti, annodato sul davanti. Essa mostra la bocca spalancata da cui fuoriesce la lingua, pronta a carpire le gocce del vino che Dionisos, volutamente, lascia cadere dalla coppa.





Secondo tale iconografia, Dioniso è il dio sciamanico dell’ebbrezza e dal caos, il conquistatore dell’India, il protettore di Marco Antonio, che sognava di imitare Alessandro Magno; a sua volta, rappresentato come Apollo, protettore di Augusto, rappresentava la fine della rivalità tra i due triumviri, di fatto rappresentata da Claudio.





L’altro Dioniso, con la corona d’edera, è Liber Pater, il dio aborigeno della fertilità dei campi, eroe civilizzatore e garante della prosperità dei romani: il ruolo insomma che Claudio voleva assumere come governante.





Vi erano infine le statue di due bambini: escludendo i due figli avuti con Elia Petina, perché messi da parte dopo la caduta di Seiano, probabilmente i due dovrebbero essero Britannico e Ottavia, figli di Messalina per cui la decorazione del ninfeo risalirebbe attorno al 46 d.C.

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Published on November 13, 2020 09:41

November 12, 2020

Entscheidungsproblem

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Al grande pubblico, il nome di David Hilbert dice ben poco ed è un vero peccato, perchè oltre a essere uno dei più grandi matematici della storia, era un tipo un gran donnaiolo, un abile ballerino e un apprezzato oratore.





Aveva una vena irriverente ed era assolutamento al conservatorismo della Germania guglielmina: scandalizzava i ben pensanti di Gottinga per la sua passione per le operette, per il suo smodato amore per il biliardo, passava le nottate a giocare con i suoi studenti nei retro dei peggiori bar e fu il primo nella sua facoltà, ad avere un’assistente donna.





Ovviamente, ogni tanto ne combinava qualcuna delle sue: ad esempio, un giorno uno studente gli consegnò uno scritto in cui asseriva di dimostrare l’ipotesi di Riemann. Hilbert studiò attentamente il lavoro e rimase davvero impressionato dalla profondità dell’argomentazione; purtroppo però vi trovò un errore che neppure lui fu in grado di eliminare. Un anno dopo quello studente morì. Hilbert chiese ai genitori afflitti il permesso di tenere un’orazione funebre. Mentre sotto la pioggia i parenti e gli amici piangevano sulla tomba, Hilbert sì fece avanti.





Cominciò con il dire quale tragedia fosse che un giovane così dotato fosse morto prima dì aver avuto l’opportunità di mostrare Ì successi che avrebbe potuto conseguire. Ma, continuò, anche se la dimostrazione dell’ipotesi dì Riemann elaborata da questo giovane conteneva un errore, era ancora possibile che un giorno si trovasse una dimostrazione del famoso problema seguendo le linee che il defunto aveva indicato.





In effetti – proseguì con entusiasmo, in piedi sotto la pioggia vicino alla tomba del morto – si consideri una funzione di variabile complessa…





Un’altra volta, Hilbert era stato visto in giro per diversi giorni con un paio dì pantaloni strappati, cosa che per molti sarebbe stata fonte di imbarazzo. Il compito di avvertirlo con tatto venne affidato al suo assistente, Richard Courant. Sapendo quanto Hilbert amasse passeggiare in campagna discutendo di matematica, Courant Io invitò per una camminata. Courant fece in modo di passare attraverso alcuni cespugli spinosi, e a quel punto fece notare a Hilbert di essersi strappato in maniera vistosa i pantaloni su uno dei cespugli.





«Oh no – replicò Hilbert – sono così da settimane, ma nessuno se ne è accorto».





Ora, per capire il suo genio, Hilbert, più per hobby e per sbeffeggiare Einstein, che per effettivo interesse, fu il primo a scoprire le equazioni di campo per la teoria della relatività generale, ma non fare venire un coccolone a zio Albert, sotto alcuni aspetti molto suscettibile, evitò di rivendicarne la paternità: a essere sinceri, la dimostrazione di Hilbert è assai più contorta, meno pratica ed elegante di quella di Einstein.





Nel 1899, Hilbert aveva pubblicato il saggio Grundlagen der Geometrie (in italiano: Fondamenti della Geometria), allo scopo di fornire un rigore e un formalismo assiomatico (confrontabili con quelli dell’algebra e dell’analisi matematica) anche alla geometria; per far questo, sostituì agli assiomi di Euclide un insieme formale, composto di 20 assiomi, per evitarne le contraddizioni formali.





Dato che l’appetito vien mangiando, Hilbert si mise in testa di estendere questo approccio all’intera matematica: la sua idea era di ricondurre logicamente teorie complesse ad altre più, fino a basare l’intera matematica sull’aritmetica; provando la consistenza di questa ne sarebbe seguita la completezza e la non contraddittorietà di tutta la matematica. In tal modo, per qualsiasi congettura matematica si fosse formulata, si sarebbe potuto dimostrare in maniera rigorosa, se questa fosse vera o falsa.





Per cui, nel 1928, formulò il Entscheidungsproblem, che non è un colorito insulto in tedesco, ma significa “problema della decisione”; determinare, se esiste, un metodo meccanico, noi biechi tizi che bazzicano l’IT lo chiameremmo algoritmo che permetta di stabilire per ogni possibile affermazione matematica se questa è vera oppure no, appunto deciderne la verità.





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Ahimè, il sogno di Hilbert fu messo in crisi da un tizio ancora più bizzarro Kurt Gödel, tanto geniale, quanto fuori di cocuzza: ipocondriaco e paranoico, aveva l’irrazionale paura di venire avvelenato, tanto che sua moglie, Adele Nimbursky, ballerina in un night, divorziata, più vecchia di lui di sei anni, divenne la sua “assaggiatrice” ufficiale.





Kurt, nel 1930, dimostrò i due famigerati teoremi di incompletezza: il primo, semplificato all’osso, i miei amici matematici mi sputeranno in un occhio, afferma come una costruzione assiomatica non possa soddisfare contemporaneamente le proprietà di coerenza e completezza. Se dagli assiomi viene dedotta l’intera aritmetica, essi portano ad una contraddizione; se i teoremi derivati non sono contraddittori, esiste almeno un teorema non dimostrabile a partire da quei soli assiomi, un caso indecidibile del quale non si può dire se sia vero oppure falso.





Biecamente, in un sistema formale sufficientemente complesso, esisteranno sempre concetti che potrebbero essere veri, ma che non possiamo dimostrare.





Il secondo teorema, invece, sempre semplificando il più possibile, afferma





Nessun sistema, che sia abbastanza coerente ed espressivo da contenere l’aritmetica, può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza.





Indi per cui, esisteranno enunciati matematici relativi ai numeri interi che non solo non potranno essere dimostrati, ma neppure confutati: di conseguenza, se l’aritmetica non è coerente, non lo è neppure una matematica più complessa da questa derivata.





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A peggiorare il tutto, ci si mise il buon Alan Turing, che si mise di buzzo buono per risolvere l’Entscheidungsproblem. Per far questo, immaginò una sorta di computer ideale, che noi, in suo onore, chiamiamo macchina di Turing.





Questa computer immaginario, è costituito un nastro infinito in entrambe le direzioni, diviso in caselle ciascuna delle quali può contenere il simbolo 0 oppure il simbolo 1, che ne rappresenta la memoria, eda una testina che può leggere il simbolo, 0 oppure 1, contenuto in una casella e scrivere un simbolo in una casella, e può muoversi lungo il nastro, una casella per volta. L’input di tale computer è costituito dai simboli scritti originariamente sul nastro, l’output da ciò che rimane sopra quando la macchina di Turing smette di funzionare.





Dopo avere costruito il suo immaginario modello matematico di computer, Alan dimostò come esiste una domanda semplice relativa alle Macchine di Turing a cui nessuna procedura matematica potrà dare una risposta. Ossia, dato un algoritmo e i suoi input, non possibile determinare a priori se la Macchina di Turing terminerà i suoi calcoli in un tempo finito o entrerà in loop, continuando all’infinito.





Per cui, non può esistere un algoritmo che permetta di appurare la verità di tutte le affermazioni matematiche. Tutto questo cinema, oltre a dare origine all’Informatica, e quindi farmi portare ogni mese a casa lo stipendio, cosa per cui sono sommmamente grato a Hilbert, Gödel e Turing, senza di loro starei a zappare la terra, è estendibile a diversi sistemi formali.





Ad esempio, è il motivo perchè la Teologia, con buona pace di San Tommaso d’Aquino, non può dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio. O perchè l’Intelligenza Artificiale ha gli stessi limiti di quella Umana.





In tempi recenti, Toby Cubitt dello University College London ha esteso la questione anche alla Meccanica quantistica, in relazione a un problema apparentemente semplice, quello del calcolo del gap spettrale di un materiale, ossia la differenza tra il più basso livello di energia che gli elettroni possono occupare in un materiale e quello successivo. Si tratta di un parametro da cui dipende, per esempio, l’eventuale trasformazione del materiale in superconduttore.





Utilizzando un modello teorico, che simula un reticolo bidimensionale di atomi e, sfruttando le analogie tra stati quantistici degli atomi e processi di una macchina di Turing, Cubitt ha scoperto che nel caso di reticoli infiniti è impossibile sapere se il calcolo del gap termina.





Li er Barista se ne uscirebbe con espressione romanesca alquanto volgare, dato che gli oggetti reali sono finiti e che quindi vuoi o non vuoi, il calcolo ha sempre una soluzione: Il problema però, ha spiegato Cubitt, è che anche in caso di reticoli finiti per i quali il gap spettrale sia noto, è impossibile dimostrare se, aggiungendo anche un solo atomo, sia ancora possibile calcolarlo.





Ciò impatta anche su un complesso problema matematico, la congettura di Yang-Mills (o del gap di massa): si tratta di uno di quei Problemi del Millennio che frutterebbe a chi riesce a dimostrarne la veridicità o la falsità un milione di dollari messo in palio dal Clay Mathematics Institute. Il problema del gap di massa riguarda il fatto che le particelle che trasportano la forza nucleare debole e quella forte hanno massa, mentre i fotoni, che portano la forza elettromagnetica, sono privi di massa: per risolverlo Chen-Ning Yang e Robert Mills ipotizzarono nel 1954 l’esistenza di un analogo quantistico della teoria di Maxwell, adottando una matematica non commutativa, ossia in cui a+b da un risultato diverso da b+a. Cubitt e colleghi potrebbero dimostrare che non si può decidere se la congettura Yang-Mills sia vera o falsa.

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Published on November 12, 2020 11:09

November 11, 2020

Le catacombe ebraiche di Vigna Randanini

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La comunità ebraica di Roma è probabilmente più antica dell’Occidente, dal momento che se ne conosce l’esistenza fin dal tardo II secolo a.C. Nel 139 a.C. la Giudea, sotto Giuda Maccabeo, rinnovò il patto di alleanza con Roma e un primo nucleo di ebrei si stabilì in riva al Tevere. La comunità si ingrandì nel 61 a.C. quando Pompeo portò con sé gli schiavi provenienti dalla Palestina, caduta sotto il dominio romano. Sappiamo inoltre ebrei parteciparono addolorati ai funerali di Cesare nel 44 a.C. e che molti loro mercanti si stabilirono a Ostia e a Pozzuoli. Se i rapporti con Augusto furono ottimi, quelli con i suoi successori furono alquanto conflittuali: Tiberio ne cacciò alcuni da Roma, i Libertini, inviandoli in Sardegna per contrastare il brigantaggio. Si dice, non per vie ufficiali, che la motivazione di tale decisione derivasse dalla frode da loro organizzata ai danni di Fulvia, moglie del senatore Saturnino, la quale avrebbe dato loro dei soldi da inviare a Gerusalemme, che tuttavia non sarebbero mai arrivati.





La situazione peggiorò con Caligola, successore di Tiberio, che entrò ben presto in conflitto con gli ebrei. Il “culto di sé stesso” da lui praticato era in netta contrapposizione con le tradizioni e leggi degli ebrei, chiaramente avverse al concetto di idolatria, che si opposero fortemente quando questo decise di porre all’interno della sinagoga di Alessandria una sua statua. Filone di Alessandria, ebreo e mediatore tra la cultura ellenica e quella ebraica, giunse a Roma, come raccontato nel suo “Legatio ad Caium”, per sostenere la causa degli ebrei di Alessandria contro la decisione dell’imperatore. Questa opposizione mosse le truppe dell’impero, guidate da Petronio (governatore della Siria), fino ad Acco dove furono fermate, pur se per poco tempo, dalla mediazione di Agrippa, re di Giudea. Dopo poco infatti, Caligola fece pressione per attaccare di nuovo la Giudea e sarebbe riuscito nell’intento se solo non fosse morto prima, ritardando di qualche anno lo scoppio della rivolta giudaica.





Sotto Claudio, benché secondo Svetonio





Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Roma expulit





ossia cacciasse da Roma alcuni estremisti, seguaci di tale Chresto, mantenne in generale buoni rapporti con gli ebrei, tanto che proprio durante il suo regno, appaiono le prime notizie sull’organizzazione della loro comunità. A differenza di Alessandria d’Egitto, gli Ebrei di Roma non erano raggruppati in un unico polìteuma, cioè in un’associazione autonoma, ma divisi in varie congregazioni, fosse suddivisa in varie congregazioni, le antenate delle “scole”, che presero il nome di Sinagoghé, ciascuna con propri uffici e rappresentanti ufficiali.





Ne sono attestate con sicurezza undici: Agrippesians, Augustesians, Calcaresians, Campesians, Elaea, Hebrews, Secenians, Siburesians, Tripolitans,Vernaclesians e Volumnesians. La loro organizzazione interna rivela un’abbondanza di titoli che non forniscono, purtroppo, notizie relative alla loro importanza all’interno di ogni comunità. Se in origine gli ebrei risiedevano soprattutto a Trastevere, ai tempi di Vespasiano, cominciarono a trasferirsi a Campo Marzio, nella Suburra, all’Esquilino e a Porta Capena: l’incremento di popolazione impattò anche sui loro usi funerari: dal II secolo d.C. in poi i sepolcreti famigliari sono sostituiti da quelli comunitari, le catacombe ebraiche. A Roma ne sono state identificate sei, poste sulle vie consolari: Portuense (Monteverde), Appia (Randanini, Cimarra), AppiaPignatelli, Labicana (oggi Via Casilina) e Nomentana (Villa Torlonia).





Non si sa se ciascuna necropoli servisse indistintamente l’intera comunità e se fosse esclusivamente riservata a gruppi specifici, né sono giunte notizie sul tipo di organizzazione funeraria, se indipendente oppure agli ordini di un gruppo comunitario, né se fosse unica per tutta la città, ovvero se ogni cimitero ne avesse una propria.





L’aspetto delle catacombe ebraiche è molto simile a quello dei cimiteri cristiani contemporanei anche se, rispetto a questi ultimi, mostrano una maggiore semplicità architettonica e decorativa, inoltre le gallerie sono più ampie e con pochi cubicoli. A differenza di quelle cristiane le catacombe ebraiche non furono mai sede di celebrazioni liturgiche, in quanto la religione ebraica percepiva il contatto con i defunti come un’azione impura. Questo particolare, in realtà molto importante, fa si che le catacombe ebraiche risultino prive degli ambienti cristiani ipogei adibiti alle celebrazioni ed alle riunioni pubbliche, pertanto gli accessi, le gallerie ed i cubicoli sono da ritenere esclusivamente funzionali ai riti della sepoltura.





Le catacombe ebraiche di Vigna Randanini, scavata nel fianco di una collina fra la Via Appia Antica e la Via Appia Pignatelli, fu la seconda catacomba ebraica di Roma ad essere casualmente ritrovata nel 1857, da Ignazio Randanini, l’allora proprietario terriero dell’area. Gli scavi ufficiali, che non andarono oltre il primo lucernario, furono iniziati dal Garrucci, nel 1859, partendo dall’ingresso sull’Appia Pignatelli. Una prima descrizione della catacomba e delle iscrizioni sepolcrali fu redatta da Herzog nel 1861, che provvide poi a pubblicare nel resoconto del “Bullettino dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica” .





I successivi scavi del 1862, portati avanti sempre dal Garrucci, oltre a rivelare il resto della catacomba, misero in luce un’altra entrata posta sull’Appia Antica e l’esistenza di un livello più basso. Sono sommarie le informazioni che lo stesso fornisce sia dei lavori svolti in catacomba sia delle iscrizioni, con pochi dettagli delle stesse e quasi nessuna informazione riguardo il luogo di ritrovamento. Egli rinvenne 195 iscrizioni sepolcrali incise su lastre di marmo e un non precisato numero di graffiti. Da quel momento in poi cominciò il progressivo saccheggio del complesso sepolcrale, che culminò tra il 1942 e il 1943, quando le catacombe furono utilizzate come rifugio anti aereo.





Le gallerie della catacomba di Villa Randanini che si snodano sotto la collina sovrastante sviluppano una lunghezza totale di circa 720 metri, di cui solo 450 di questi sono agevolmente percorribili. Dall’altezza media dei due lucernari si valuta che la catacomba si sviluppi ad una profondità di circa 10 metri.





L’ambiente esterno ha una forma rettangolare caratterizzata da una serie di strutture che sono da ascriversi ad almeno due fasi costruttive diverse: la prima datata alla prima metà del II sec. d. C., si presume fosse costituita dal solo piccolo ambiente quadrato caratterizzato da due esedre, in opus mixtum e da una nicchia in cui si intravedono ancora alcune tessere di mosaico bianco, una piccola pasta vitrea blu e qualche traccia di intonaco rosso e, probabilmente, una seconda nicchia, oggi scomparsa. E’ possibile che si tratti di un sepolcro familiare pagano, acquistato in seguito dalla comunità ebraica





La seconda fase, risalente al III-IV sec. d.C., è caratterizzata da una totale ristrutturazione dell’area: i muri longitudinali furono prolungati e rivestiti in opus listatum in cui vennero ricavati una serie di arcosoli. Al centro venne costruita una spina, anch’essa con arcosoli sovrapposti sui due lati, unita alle pareti laterali da muri con delle aperture a sesto ribassato. Fu in questa fase che, probabilmente, venne creata la decorazione musiva bianca e nera del pavimento. Nella parete sud-ovest si aprono le due porte d’accesso all’ipogeo.





Il Garrucci ed altri autori riconobbero in questo spazio una sinagoga, ipotesi avvalorata da alcuni elementi: la presenza di acqua, la divisione dell’ambiente in due unità distinte (per uomini e donne), la presenza delle absidi e del mosaico, ma soprattutto la distanza dell’edificio dallo spazio urbano. Entrando ci si trova in un ambiente oblungo che serviva da anticamera; un’apertura, posta sulla destra dell’anticamera, comunica con un vano grosso modo rettangolare, un vestibolo che presenta una volta a botte, ed era il primo locale a cui originariamente si accedeva tramite una seconda porta, oggi murata. Al centro di quest’ambiente c’è un pozzo, profondo circa 6 metri, che riceve l’acqua di scarico proveniente dall’ambiente esterno mosaicato.





La maggior parte delle sepolture è rappresentata da loculi, cubicoli ed arcosoli. In una regione più lontana dall’ingresso, si nota una gran quantità di kokhim, anche a più posti. Il kokh (plurale kokhim) è una tomba a forno che si sviluppa perpendicolarmente alla parete della galleria, diversi esempi si trovano in Palestina e Israele, come il kokhim che si trova nella Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. In Medio Oriente queste particolari sepolture venivano usate per circa un anno, il tempo necessario alla decomposizione del corpo, dopodiché i parenti del defunto raccoglievano le ossa e le custodivano in un ossuario.





Fra i cubicoli solo tre sono dipinti: il primo è affrescato con motivi geometrici molto semplici, resi con il colore rosso su fondo bianco. Sia sulle pareti che sul soffitto, all’interno dei disegni, sono visibili elementi decorativi molto più chiari e attualmente poco distinguibili, come del resto gli etrog (cedri) negli angoli. Sopra l’arcosolio è dipinta una grande menorah. Attualmente l’affresco si presenta notevolmente danneggiato soprattutto nelle pareti laterali e in quella d’ingresso.





Il secondo ambiente è preceduto da un vestibolo intonacato di bianco. Ai lati della porta che immette nel cubicolo, sullo zoccolo sono dipinti dei riquadri di incrostazioni marmoree e sopra queste una mezuzah. La decorazione interna è molto ricca: incrostazioni marmoree, fasce rosse e verdi, delineano l’apertura dei loculi separati tra loro da ghirlande di fiori. Sono inoltre dipinti fiori e un kantaros dal quale escono altri fiori. La particolarità di quest’ambiente è data dalla presenza di palme da dattero dipinte ai quattro angoli del cubicolo. La volta a vela, che aveva originariamente una decorazione di uccelli, è oggi scomparsa. Attualmente le pitture appaiono irrimediabilmente danneggiate a causa, sia della realizzazione dei loculi ricavati in un secondo momento e che hanno contribuito a far crollare la volta, sia dall’umidità causata dalle infiltrazioni d’acqua che provengono dal giardino sovrastante.





Una scala permette di scendere nel cosiddetto ”livello inferiore” dove sono distribuiti sia kokhim che loculi. In fondo a quest’area si apre un cubicolo doppio, ornato di pitture. Entrambi i cubicoli sono decorati con una divisione geometrica ottenuta mediante linee colorate che sottolineano gli arcosoli e su tutte le pareti circoscrivono i riquadri nei quali sono inserite le varie immagini. Il motivo centrale del soffitto della prima stanza, realizzato all’interno di una serie di anelli concentrici, è una Vittoria alata in atto d’incoronare un giovane nudo. Al cerchio esterno sono alternate varie figure come: pavoni, uccelli e cesti di fiori. I muri sono ornati con pegasi, galli, galline, pavoni e altre specie di uccelli, inoltre vi è dipinto un montone con un caduceo. La figura centrale nella volta del secondo ambiente è Fortuna con una cornucopia in mano. Nell’anello esterno figure di pesci e anitre e tra queste cesti di fiori. Sotto la figura di Fortuna, vi sono un ippocampo e due delfini, sul lato opposto alcuni pesci. In ogni pennacchio della volta a crociera c’è un Genio delle quattro stagioni. I muri sono ornati con ghirlande di fiori e uccelli. Il muro di fondo, ora gravemente danneggiato, presentava la figura di un uomo fra due cavalli. Le ipotesi avanzate dai vari studiosi, riguardo questi due ambienti, sono contrastanti: alcuni sostengono che questa regione era originariamente pagana e solo successivamente fu intercettata e inglobata nella catacomba, altri invece considerano le stesse giudaiche fin dall’inizio.





Questo cimitero ha restituito un rilevante numero di epigrafi i cui formulari seguono, per lo più, quelli usuali dell’epigrafia giudaica, riproponendo spesso l’augurio di pace al riposo del defunto

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Published on November 11, 2020 10:40

November 10, 2020

Il turno di Maderno

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E’ difficile immaginare, per noi contemporanei, quale colossale manicomio fosse la San Pietro di inizio Seicento: da una parte, vi era il cantiere michelangiolesco, di cui però mancava un pezzo; il nostro eroe, infatti, per le sue paranoie e per paura che gli architetti successivi snaturassero il progetto, non aveva dato nessuna indicazione su come chiudere il braccio orientale della sua Basilica e su che aspetto dovesse avere la facciata.





Dall’altra, vi erano i resti della vecchia navata costantiniana: sul come le due cose dovessero convivere, si scatenò un dibattito feroce e senza esclusione di colpi, tra due diverse fazioni, che divisero trasversalmente architetti e papi.





Da una parte, vi era la fazione dei “conservatori” che chiedeva di completare in qualche modo il progetto michelangiolesco a pianta centrale e al contempo restaurare il venerando edificio paleocristiano, in modo da avere due chiese distinte. Dall’altra, la fazione degli “innovatori”, che proponevano di riprendere l’idea di Bramante, Raffaello e Antonio da Sangallo, di una basilica a croce latina. Ciò implicava però di trovare un modo decente di modificare il progetto michelangiolesco e buttare giù la navata costantiniana.





Noi moderni, con l’eccezione dei redattori di Roma fa Schifo, avremmo probabilmente preferito la soluzione “conservatrice”, ma dobbiamo anche considerare tre fattori: le necessità liturgiche dell’epoca, che due “mezze” basiliche avrebbero avuto difficoltà a soddisfare, il fatto che l’edificio paleocristiano ormai si reggesse in piedi con lo sputo, la mancanza di tutti gli spazi di servizio (coro, sacrestia, loggia delle benedizioni, cappelle, atrio, etc..) che Michelangelo aveva bellamente ignorato.





Per cui, nel 1605, poco dopo la sua elezione, Paolo V, aderendo alla decisione della congregazione cardinalizia, ascoltando le ragioni degli “innovatori”, ordinò la distruzione dell’antico corpo, demolizione che iniziò il 29 marzo 1606, e bandì il concorso a inviti per la trasformazione a croce latina del progetto michelangiolesco, a cui parteciparono tra gli altri, Ponzio, architetto del papa, G. Fontana, il M., Girolamo Rainaldi, Niccolò Branconio, Ottavio Turriani, D. Fontana, Giovanni Antonio Dosio e Lodovico Cardi.





Concorso che fu vinto da Carlo Maderno, nipote di Domenico Fontana; nato intorno al 1556 da Paolo e Caterina Fontana a Capolago, Canton Ticino, per non fare la fame fu spedito a Roma dallo zio. Per prima cosa, imparò il mestiere del decoratore e dello stuccatore, poi avendo appreso l’arte del costruire con l’esercizio della professione. Era cioè “soprattutto un “architetto pratico”, formatosi direttamente in cantiere e solo marginalmente in rapporto con l’Accademia di San Luca, in un approccio, a differenza ad esempio di quello di Pirro Ligorio, assai orientato al business.





Carlo si inserì subito nel giro di imprenditori edili lombardi, o meglio ticinesi, che dominavano l’edilizia romana sia dalla seconda metà del Seicento, Fontana, i Garvo, i Novi, i Castello, i Longhi, i Mola – che avevano organizzato il loro lavoro in imprese, costituendosi in società o compagnie, l’equivalente delle nostre società per azioni.





Erano le compagnie a organizzare il lavoro nei cantieri romani e questo assicurava agli artisti la graduale scalata da semplici “garzoni” al ruolo di “maestri”, prima, e “capomaestri”, dopo. Erano questi ultimi, non già gli architetti, a gestire il lavoro nel cantiere. L’affermazione di tanti ticinesi derivava poi dal fatto che questi investivano i propri capitali creando vere e proprie compagnie di prestito. Assieme a Filippo Breccioli, Carlo costituì una società molto importante che si occupava del trasporto e del commercio dei materiali da costruzione e il cui principale committente era la Fabbrica di S. Pietro. In più, investì in altro società e compagnie: si associò infatti con Giovanni Fontana, con il proprio fratello Pompeo, con Marsilio Fontana, con lo zio Domenico e con Girolamo Garvo. Fu grazie al suo inserimento in questo tipo di meccanismo produttivo-economico che conquistò gradualmente il predominio nel mondo imprenditoriale romano.





Proprio questa serie di legami trasversali pur facilitando sia la vittoria di Carlo, sia la gestione del cantiere, non lo salvarono da critiche di ogni tipo, perché “tutti si sentivano autorizzati a mettere a confronto il suo lavoro col progetto di Michelangelo; e se i critici benevoli gli riconoscevano il merito di essere riuscito, nelle circostanze date, a salvare quanto più possibile del progetto del “divino”, quelli mal disposti gli rimproveravano il fatto stesso di essersi impegnato in una gara così impari”.





Le complesse vicende costruttive relative agli interventi di Carlo in San Pietro sono state ricostruite da Hibbard attraverso l’analisi dei disegni e dei documenti. Una prima serie di progetti è testimoniata dai fogli conservati agli Uffizi (già analizzati da Caflisch, 1934), UA100, UA101, UA264; quest’ultimo disegno, il più vicino a quanto effettivamente realizzato, si compone di due fogli, quello superiore raffigura la pianta michelangiolesca, quello inferiore il progetto di Carlo, con il prolungamento della navata, le cappelle laterali e il portico.





Le fondazioni per il basamento, iniziate l’8 marzo dello stesso anno, seguirono un diverso disegno e i lavori furono comunque bloccati dopo pochi mesi, quando, l’11 settembre 1607, il papa annunciò di voler costruire la facciata. Fu così dato avvio alle demolizioni nel cortile della Pigna e alla costruzione della facciata e contemporaneamente Carlo dovette rielaborare anche le soluzioni per la navata (le dimensioni erano ormai fissate definitivamente), la cui versione ufficiale è del giugno del 1608.





Facciata che, paradossalmente, fu un vero e proprio incubo, per Carlo: in origine cercò di mediare le idee di Raffaello, con le quattro colonne centrali sorreggono il timpano e riconducono all’immagine del tempio, con l’impostazione formale di Michelangelo basata su un ordine gigante di otto colonne centrali e di paraste ai lati. In più, aveva ipotizzato di porre i campanili sopra le cappelle orientali, anche perché si era reso conto del fatto che il terreno non avrebbe potuto reggere il loro peso.





Di fatto aveva concepito per primo l’idea della facciata stratificata di tipo barocco, con i diversi piani con progrediscono dalla periferia verso il centro, con la successione, peraltro già sperimentata da Carlo in Santa Susanna, di lesene e colonne alveolate nella muratura (meno profondamente quelle centrali), un movimento accentuato visivamente – alla stregua di una correzione ottica – dalla lieve inclinazione dei piani del portico centrale timpanato e dall’uso della scialbatura color ocra sul travertino della parete di fondo. Questo tipo di organizzazione della superficie muraria fu ampiamente imitato da Pietro Berrettini da Cortona, da Borromini, da Carlo Rainaldi, da Martino Longhi il Giovane, fino al Settecento in Italia e nel resto d’Europa.





Ma ahìmè, Carlo non aveva tenuto conto delle paturnie papali. Paolo V Borghese per prima cosa impose delle modifiche alla loggia delle benedizioni, poco male, poi si ostinò a modificare la posizione dei campanili, per porli a lato della facciata, in modo far apparire la facciata “più larga et più proportionata alla grandezza del tempio vecchio, fatto secondo l’architettura di Michelangelo Bonaroti”.





Ora Carlo non aveva né il caratteraccio di Michelangelo, né la resistenza passiva di Della Porta, riconducibile al principio





“Tu parli, io annuisco, però faccio come mi pare”





per cui dovette cedere. I campanili, iniziati alla fine del 1612 da Carlo, che li interruppe all’altezza della terrazza superiore alla morte del pontefice, furono ripresi da Bernini, che realizzò quello di sinistra, demolito nel 1646 con decreto di papa Innocenzo X, a causa delle lesioni che il suo peso procurava alla facciata. Sebbene l’aggiunta dei due campanili a facciata quasi conclusa alterasse in parte la compattezza della prima progettazione, Carlo riuscì comunque a conservare in questo nuovo contesto l’originaria idea michelangiolesca.





Probabilmente quindi il pilastro con paraste a fascio che delimita la facciata e che la divide dal campanile è stato così ideato per legare le due nuove torri alla facciata propriamente detta. La conclusione della prima fase del progetto finale della facciata è del 1612, con l’apposizione dell’iscrizione che celebra il papa Paolo V, delimitata verso l’esterno dalle lesene corrispondenti all’area occupata dai campanili.





I lavori per la navata furono molto invece molto più semplici: di fatto Carlo reinterpretò secondo i canoni michelangioleschi l’originale progetto di Raffaello e di Sangallo. La scelta adottata da Carlo per il prolungamento sviluppava una grandiosa navata centrale “a tunnel processionale” che assorbiva il quarto braccio di Michelangelo e navate laterali minori con cappelle, che diventa asse coordinatore del nuovo impianto teso verso l’altare, sia nell’esterno.





Navata che si dilata trasversalmente nelledue navate laterali, scandite da tre grandi arcate modulate dal sintagma bramantesco della travata ritmica. Le navate sono formulate come articolazioni trasversali auto-centrate, distintive del piè di croce, che configurano l’addizione maderniana come un orpo autonomo, ma subordinato al quincunx.





Anticipando sempre il Barocco, il compito di unificare gli spazi è dato dal colore della decorazione, caleidoscopio di geometrie disegnate ne marmo nero e giallo di Genova, broccatello, alabastro, rosso orientale, biglio, verde, paragone, africano, portasanta e fior di persico, e agli effetti drammatici di luci e ombre, che rendono la basilica un’infinita macchina scenica.

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Published on November 10, 2020 12:03

November 9, 2020

I trattati tra Roma e Cartagine (Parte IV)

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Dopo la battaglia di Ascoli Satriano, l’obiettivo politico di Pirro era alquanto semplice: avendo raggiunto una sorta di stallo con i Romani, nessuno dei due aveva raggiunto una vittoria decisiva sull’altro, ritene possibile trovare un compromesso, che avrebbe delimitato le aree di influenza dell’Urbe e dell’Epiro nel Sud Italia, tutelando sia l’indipendenza delle città greche, sia garantendo gli interessi economici dei senatori filocampani.





Fatto questo, Pirro avrebbe risanato le sue finanze con le tasse pagate dai suoi nuovi sudditi, in verità contribuenti assai poco entusiasti, e rimpolpato le truppe arruolando mercenari sanniti. Poi si ponevano due possibilità: la prima, sfruttare la sua parentela acquisita con Agatocle per imporre il suo dominio alla Sicilia, la seconda, tentare per l’ennesima volta di riconquistare la Macedonia, in cui, nel frattempo, per colpa di un altro personaggio da romanzo, Tolomeo Cerauno, era successo di tutto e di più.





Questi era il figlio primogenito di Tolomeo I, sovrano d’Egitto, e di sua moglie Euridice, figlia di Antipatro; invece di salire sul trono d’Alessandria, fu diseredato dal padre, che preferì l’omonimo secondogenito, figlio della moglie prediletta Berenice. Così, per evitare una brutta fine, andò in esilio alla corte di Lisimaco di Tracia. Quando Agatocle, figlio di Lisimaco, fu accusato di congiura nei confronti del padre e condannato a morte, Tolomeo Cerauno, che probabilmente era l’istigatore del tentato golpe, fuggì presso Seleuco, il nemico giurato di Lisimaco.





Poco tempo dopo Seleuco dichiarò guerra a Lisimaco e lo sconfisse nel 281 a.C. nella battaglia di Corupedio in Asia minore, dove l’anziano re di Macedonia trovò la morte. Mentre Seleuco entrava in Tracia per conquistare i territori di Lisimaco Tolomeo lo uccise a tradimento con una mossa fulminea (da cui prese il soprannome di Cerauno, in greco antico: Κεραυνός, Keraunòs, “fulmine”) e si proclamò re davanti all’esercito, probabilmente con il sostegno dei precedenti partigiani di Agatocle.





Il nuovo sovrano, per unificare i regni di Tracia e Macedonia, convinse la sorellastra Arsinoe II a sposarlo, con la promessa che avrebbe poi lasciato il trono ai figli di lei.La regina era precedentemente fuggita in maniera rocambolesca da Efeso a Cassandria in seguito alla morte di Lisimaco travestendosi da serva. Poco dopo il matrimonio, che gli permise di entrare in possesso della parte di Macedonia ancora fedele alla regina, uccise a tradimento due dei tre figli di Arsinoe e cacciò la sorellastra da Cassandria dopo averla spogliata delle insegne regali e averle perfino negato di celebrare i riti funebri per i figli, all’epoca ancora adolescenti.





Ahimè, dopo tutto questo caos, non si godette a lungo il trono, per colpa dei celti, i quali avevano deciso di mettere a ferro e fuoco i Balcani. Una loro orda, comandate da Bolgio, risalì con facilità la Morava, invase il Regno di Macedonia e ne catturò il giovane re Tolomeo Cerauno: questi, già ferito, fu giustiziato con la decapitazione; poi, già nel 279 a.C., senza preoccuparsi di consolidare l’egemonia così ottenuta, fece ritorno nelle pianure pannoniche da cui si era mosso.





Pirro, ovviamente, voleva approfittare del caos macedone, ma sapeva bene, per esperienza diretta che le esigue forze dell’Epiro, avrebbero permesso di conquistare il nuovo regno, ma non di mantenerlo; per cui nonostante gli appelli provenienti da Pella, decise di proseguire con il piano iniziale.





Il problema è che il re epirota non aveva tenuto conto di Cartagine, che approfittando del caos scatenato sia dalla guerra civile che si era scatenata a Siracusa alla morte di Agatocle, sia dai Mamertini, gli ex mercenari osci che tentavano di crearsi un loro dominio a cavallo dello stretto di Messina, saccheggiando a destra e manca, voleva finalmente realizzare il sio obiettivo di conquistare l’intera Sicilia. Per cui, un intervento di Pirro le avrebbe rotto le uova nel paniere.





Cartagine aveva due possibilità, con il re dell’Epiro: o favorire la sua riconquista della Macedonia, fornendogli denaro e soldati, in modo che si tenesse lontano da Siracusa, o appoggiare i romani, affinché continuassero a trattenere Pirro in Italia. Dato che la prima scelta implicava uscire dai loro tradizionali orizzonti geopolitici e infilarsi nel manicomio delle guerre tra Diadochi, i punici decisero di rinnovare la tradizionale alleanza l’Urbe.





Per convincere il Senato a non cedere alle proposte di Pirro, i Cartaginesi applicarono il principio del bastone e della carota. Si presentarono all’improvviso nel porto di Ostia con una flotta di 120 navi, ufficialmente come aiuto contro l’epirota, in pratica per ricordare ai romani che potevano navigare e commerciare nel Tirreno, solo grazie alla benevolenza punica.





Al contempo l’ammiraglio cartaginese, Magone, portò con sé due forzieri pieno di verghe d’argento: con il primo corruppe gli esosi senatori, con il secondo aiutò i romani a pagare le spese della guerra. Così fu firmato un nuovo trattato con Cartagine, che riprendeva i termini di quello stipulato contro Agatocle, con una specifica clausola, così riportata da Polibio





in esso conservano tutti gli altri punti alle condizioni esistenti e a questi viene aggiunto quanto scritto di seguito: “Qualora facciano alleanza con Pirro, gli uni e gli altri mettano per iscritto che sia permesso portarsi soccorso a vicenda nel territorio di chi viene attaccato; a quale dei due abbia bisogno di soccorso i Cartaginesi forniscano le imbarcazioni sia per l’andata sia per il ritorno, e gli uni e gli altri gli stipendi ai rispettivi uomini. I Cartaginesi portino soccorso ai Romani anche per mare, se c’è bisogno. Nessuno costringa gli equipaggi a sbarcare contro la loro volontà”.

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Published on November 09, 2020 12:11

November 8, 2020

Il Potenziale Manicomio Americano

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Da quanto mi hanno spiegato i miei amici americani, sia Democratici, sia Repubblicani, parrebbe che:





1) Biden avrebbe vinto anche senza il contributo dei voti postali. Di conseguenza, il blocco del loro conteggio sarebbe ininfluente.





2) Il vulnus sarebbe legato al divieto di accedere agli scrutini da parte dei rappresentanti di lista repubblicani in alcuni collegi elettorali.





3) Questo divieto, sarebbe in linea con le leggi dei singoli stati, ma non con quella federale, il che potrebbe giustificare un ricorso alla Corte Suprema Federale





4) Vi sono poi una serie di presunte irregolarità, probabilmente fisiologiche.





5) Su queste irregolarità, valgono le leggi dei singoli stati: per cui, sulla validità delle elezioni nei singoli Collegi decideranno i tribunali locali.





6) Nel caso di contestazione della decisione del tribunale locale, la decisione finale spetta alla Corte Suprema dello Stato in questione. Solo nel caso che il candidato ritenga la decisione del tribunale locale abbia violato la Costituzione, è possibile ricorrere alla Corte Suprema Federale.





7) Nel caso di ricorso alla Corte Suprema Federale, 6 membri sono di nomina Repubblicana, 3 Democratica. Per cui è ipotizzabile una decisione a favore di Trump.





8) Nel caso di decisione favorevole a Trump, decadrebbero i Grandi Elettori dello Stato contestato





9) Se tale decadenza impedisse a Biden di avere la maggioranza del Collegio Elettorale, si attiverebbe la procedura d’emergenza, -il che è accaduto tre volte nella storia americana, tutte nel 19 ° secolo– e la palla a questo punto passa al Congresso, con la Camera che è chiamata eleggere il Presidente e il Senato chiamato eleggere il vice Presidente. Al Senato ogni senatore vale un voto, alla Camera a decidere non sarebbero i singoli rappresentanti bensì le delegazioni dei singoli Stati che, in questo caso, hanno tutte il medesimo peso -indifferentemente dal numero degli abitanti dei diversi Stati-, uno Stato vale un voto.





10) A decidere Presidente e vicePresidente non sarebbe il Congresso attuale, ma quello che uscirà dal voto del 3 novembre. Se, in seguito al rinnovo dei due rami di Capitol Hill che coincide con le presidenziali (totale per la Camera, pari a un terzo per il Senato), i democratici conquistassero la maggioranza al Senato ma, pur vincendo anche alla Camera, lasciassero ai repubblicani l’attuale controllo delle delegazioni, in caso di parità avremmo quindi Donald Trump Presidente con Kamala Harris come numero due. Viceversa, se i repubblicani mantenessero il Senato e i democratici strappassero loro il controllo delle delegazioni alla Camera, avremmo Joe Biden Presidente con Mike Pence come vice.





11) Qualora la Camera non riuscisse a eleggere un vincitore entro il 20 gennaio 2021, il vicepresidente diventerebbe Presidente facente funzioni. Se, nel frattempo, nemmeno il Senato fosse riuscito ad eleggere il vicepresidente, le funzioni di Presidente passerebbero alla speaker della Camera, Nancy Pelosi, in attesa che si sblocchi lo stallo nei due rami del Congresso.





12) Però, a sentire alcuni miei amici americani, ma devo fare a fidarmi, questo manicomio tale procedura d’emergenza potrebbe essere in contrasto con una precedente decisione della Corte Suprema. Per cui, nel caso di Joe Biden Presidente con Mike Pence come vice, Trump potrebbe fare un ulteriori ricorso, replicando di nuovo le elezioni.





Per cui, per evitare a prescindere questo cinema:
a) Trump si mette l’anima in pace e accetta la sconfitta
b) La Corte Suprema Federale, mantenendosi neutrale nella disputa, lo manda al diavolo.





A oggi, entrambe le cose parrebbero poco probabilli, ma speriamo prevalga il buonsenso…

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Published on November 08, 2020 10:57

Castrum Truentinum

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Che nell’area alla foce del Tronto dovessero esistere i resti di un antichissimo insediamento era già emerso con evidenza negli anni 50’ del secolo scorso quando, a seguito dello scasso per la messa in opera di alcuni vigneti sulla soprastante altura di Colle S. Giovanni erano venuti in superficie i resti di un vasto abitato protostorico, inquadrabile fra età del Bronzo e prima età del Ferro.





Questo centro, come tanti dell’Abruzzo dell’epoca, fungeva da hub commerciale tra le popolazioni appenniche dell’interno e i mercanti micenei: le prime esportavano lana, mentre i secondi, in cambio di queste, fornivano beni di lusso e armi di bronzo.





Con l’evoluzione della società micenea, a questa attività commerciale si affiancò anche una “industriale”: di fatto questi stanziamenti producevano semilavorati, tessendo i panni di lana che venivano tinti e ricamati nei laboratori del Peloponneso. Al contempo, per soddisfare le esigenze di una clientela locale, che si era arricchita con tale commercio, ma non aveva la disponibilità economica dei capo clan appennici, cominciarono a produrre anche ceramica e bronzistica di “imitazione”.





Contesto economico che proseguì anche nel periodo geometrico e nell’età picena, in cui al commercio della lana si sostituì quello della frutta, di olio e di vini di produzione locale, che venivano esportati verso il Lazio e verso la Grecia.





Sviluppo economico che portò, dopo la conquista romana, all’urbanizzazione dell’area, favorita, tra l’altro dalla gens Pompeia: sia Pompeo Strabone, sia Pompeo Magno basarono la loro ascesa al potere sia sulle ricchezze, sia sui soldati arruolati nel Picenum.





Centro di tale urbanizzazione era l’antica città di Truentum o Castrum Truentinum, menzionata in numerose fonti antiche,in particolare Cicerone, Strabone e Plinio, e da quest’ultimo viene anzitutto segnalata come l’unico abitato dell’antica popolazione dei Liburni, evidentemente giunti in Italia dall’antistante costa dalmata, sopravvissuto sino alla sua epoca





“Truentum cum amne, quod solum Liburnorum in Italia relicum est”,





conservando una tradizione che rappresentava ancora nel I secolo d.C. una preziosa testimonianza sui contatti commerciali e culturali esistiti sin da epoca antichissima fra le due sponde dell’ Adriatico. Plinio che ne sottolinea anche i vantaggi geografici, la navigabilità del fiume Tronto e l’essere uno dei terminal della via Salaria





poiché il Tronto risulta navigabile per qualche miglio controcorrente, il luogo offrì, per la
modesta proporzione dei primi tempi, innumerevoli vantaggi per lo sviluppo del traffico. E poiché dominava il passaggio fluviale e in più il collegamento della via Salaria con la strada della costa,ha acquistato un’importanza oltre che mercantile strategica





Compare con il nome di Castrum Truentinum nelle fonti più antiche, fra cui si ricordano i segnalati passi di Cicerone, Pomponio Mela, oltre che in una iscrizione tardorepubblicana oggi conservata ad Ascoli, e nella più tarda Tabula Peutingeriana. Compare come Truentum in Plinio il Vecchio (sec. I d.C.) ed in un’altra epigrafe di provenienza romana databile fra il 119 ed il 136 d.C., mentre nell’Itinerarium Antonini, redatto nel III secolo riprendendo una situazione geografica risalente all’età augustea, viene menzionata con ambedue le denominazioni.





La decadenza del commmercio tra le due sponde dell’Adriatico sul finire del VI secolo d.C. all’abbandono graduale della città.Fu sede vescovile nei primi secoli del cristianesimo e sicuramente rimase tale fino al V secolo, quando il vescovo Vitale fu scomunicato da papa Felice III.





In seguito la città cadde probabilmente sotto il potere dei Longobardi, dopo la conquista di Fermo nel 580, e fu pertanto inclusa nella vasta Marca Fermana che inizialmente si estendeva, da nord a sud, dal Monte Conero fino alla vallata del Fiume Sangro, e da est ad ovest dalla costa adriatica fino agli Appennini.





Agli inizi dell’VII secolo sono attestati livelli di frequentazione con strutture in legno e sepolture, mentre gran parte degli abitanti dovette spostarsi in preesistenti centri più interni, come Colonnella (Civitas Tomaclara) e Civitella del Tronto, dando origine al fenomeno più generale dell’incastellamento. Sulla costa rimase un insediamento noto dalle fonti come “Turris ad Trunctum”, citato documentodell’ultimo duca longobardo di Spoleto Ildebrando





Nell’anno 1054 l’antica pieve di San Cipriano in Troncto, erede della cattedra vescovile tardoantica, viene ceduta dal vescovo di Fermo Ermanno ai canonici della Cattedrale Fermana “cum terris, vineis, silvis, piscationibus”, atto che diviene risolutivo nel 1063, quando il vescovo Udalrico riesce addirittura ad ottenere in donazione da parte dei fratelli Giselberto e Trasmondo figli di Elperino.





Il documento del 1063 appare di particolare eloquenza proprio quando descrive l’abitato di “Turris ad Trunctum… cum portes”, a testimonianza del fatto che l’impianto difensivo -evidentemente risalente al periodo bizantino- non doveva essere limitato ad una semplice torre, probabilmente analoga alla Torre Bruciata di Teramo, ma doveva essere integrato da una connessa cinta difensiva e dotato anche di tutti gli elementi accessori, “et carbonarie et conclusimine et cum introitu et exitu suo” e di una chiesa, la “ecclesia beate marie…”





La definitiva crisi medievale dell’insediamento andò avviandosi a seguito del progressivo insabbiamento della riva antica, con l’ avanzamento della linea di costa sino all’assetto attuale (circa 1.5 km rispetto a quella d’età romana), come appare evidente dalla già citata bolla di papa Innocenzo IV del 1248 che concedeva alla diocesi di Fermo la proprietà dei relicta maris, ossia dei terreni emergenti a seguito del progressivo interramento della costa fra i fiumi Potenza e Tronto.





L’utilizzo delle strutture portuali esistenti alla foce del Tronto, ancora attestato da vari portolani divenne progressivamente più difficile fra 1250/65 e metà del XV secolo, andò così divenendo progressivamente più difficile; la stessa definizione con cui tale approdo veniva menzionato, ossia “Fossa del Tronto” testimonia l’esistenza di un apprestamento portuale artificiale che potesse consentire la persistenza dell’uso di strutture portuali che dovevano essere ancora quelle antiche, ormai minacciate dall’insabbiamento a seguito della progressiva avanzata della linea di costa e degli spostamenti dell’alveo del fiume Tronto.





Nel XVI secolo, quando Carlo V era Imperatore del Sacro Romano Impero e, tra l’altro, re di Napoli, il corso inferiore del fiume Tronto segnava il confine tra il Regno di Napoli a sud e lo Stato della Chiesa a nord.





Per volere del viceré Don Pedro di Toledo nel 1547 si costruì la torre, come posto di guardia e difesa della costa dalle incursioni saracene, ed anche l’edificio adiacente, destinato a dogana del confine con lo Stato Pontificio, in funzione fino al 1860.





La progettazione fu affidata al capitano ed architetto militare di Carlo V, il valenciano Pedro Luis Escrivà (italianizzato in Pirro Aloisio Scrivà), lo stesso del Forte spagnolo di L’Aquila e Castel Sant’Elmo a Napoli. La realizzazione fu diretta dal capitano Martin da Seguera o Martin De Segura dal quale presero il nome il centro abitato che vi sviluppò accanto, il nostro Martinsicuro.





In parallelo, però, si perse memoria dell’antica città romana, che fu riscoperta solo grazie alle campagne di scavi tra 1992 e il 2005 che hanno permesso la dettagliata ricostruzione delle aree urbane della città, identificando ad esempio il Macellum, il grande mercato nelle immediate adiacenze del porto e il quartiere commerciale con locali destinati all’approvvigionamento di merci trasportate via mare. L abitato residenziale invece doveva trovarsi con notevole probabilità sulle pendici delle colline che sovrastano proprio la torre di Carlo V, dove tuttavia non sono state eseguite campagne di scavi.





Sia nel periodo repubblicano che nel periodo imperiale le attività produttive erano costituite prevalentemente dalla tintura di stoffe e dalla pesca, come testimoniano i numerosi rinvenimenti di ami e frammenti di reti, mentre la presenza di tintori è testimoniata dall’epigrafe funeraria intitolata a Gaio Marcilio Erote purpurarius, ossia commerciante di porpora, menzionato anche come “quinquevires” da un’epigrafe oggi conservata al museo di Monteprandone: si trattava di un non meglio identificato organo amministrativo/istituzionale costituito da cinque uomini di cui non è chiara la funzione.





Tutti i ritrovamenti di queste campagne archeologiche sono conservati in un Antiquarium, conservato nella Torre.

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Published on November 08, 2020 07:47

November 7, 2020

La chiesa di San Sebastiano a Porta Carbone

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Nei pressi del sito della distrutta Porta Carbone alla Cala vi è, quasi sconosciuto, un gioiello della Palermo barocca, la chiesa di San Sebastiano, dalla vita, come dire, assai travagliata. La sua prima citazione documentale risale infatti al 1482, quando a Messina si scatenò una tremenda epidemia di peste; gli abitanti di Palermo fecero voto di dedicare una chiesa al santo protettore dalle pestilenza. Dato che la città panormita scampò il pericolo, non solo fu costruita tale chiesa, a spese del Senato, ma ne fu anche affidata la gestione alla Confraternita di San Sebastiano.





I lavori procedettero, per gli standard locali, molto celermente, tanto che nel 1496 la chiesa era completata: chiesa di cui purtroppo non abbiamo alcuna idea dell’aspetto che avesse, poiché nel 1516, a causa della costruzione dei nuovi bastioni, che costrinse a buttare giù tutti e a ricostruire un nuovo edificio, che fu ampliato, in direzione del mare, nel 1562.





Lavori che furono fatti alquanto a muzzo, dato che nel 1588 una relazione tecnica firmata da Vincenzo Gagini accusava una cattiva posa in opera degli architravi, fregi e cornici collocati sopra le colonne: il noto marmoraro luganese Antonio d’Aprile, in quel tempo attivo anche nel cantiere di palazzo Reale, era tenuto infatti a rifare il lavoro «perché quelli non sunno a la misura della ragioni corintia». Gagini aveva notato la scarsa qualità delle colonne se una di quelle da poco messe in opera si trovava già «scotta» e, pertanto, da sostituire perché «non po’ regiri piso di fabrica di supra».





Le carenze di carattere statico erano tali da obbligare all’apertura di un nuovo cantiere per recuperare e ristrutturare la chiesa, lavoro svolto tra il 1619 e il 1621 dal capomastro Pietro Carnemolla e dal suo team di collaboratori Antonio Bracco, Antonio Campora e Giovanni D’Avanzato. Gli interventi riguardavano il corpo delle navate e prevedevano il consolidamento del terreno attraverso palificate, la ricomposizione degli archi delle navate sulle colonne originali (con i relativi capitelli eseguiti dal maestro Jacopo Gagini), l’inserimento contestuale di alti basamenti in pietra calcarea e, soprattutto, di una fitta orditura metallica.





Nel Settecento, da una parte la chiesa fu oggetto di grandi lavori di decorazione, dall’altra ospitò parte degli arredi sacri della vicina Chiesa di San Giacomo la Marina, che aveva grossi problemi di statica. Nel 1800, però, cominciò la decadenza: la Confraternita di San Sebastiano fu sciolta e i suoi beni furono assegnati all’ente che gestiva gli ospedali di Palermo. Ciò portò rapidamente alla chiusura della chiesa, che fu riaperta solo nel 1862, priva degli arredi sacri; da quel momento in poi, vivacchiò sino al 1915, quando, allo scoppiò della Grande Guerra, fu trasformata in un deposito di grano per conto della Croce Rossa. Identica sorte toccata a numerosi altri luoghi di culto palermitani come la Chiesa di San Nicola da Tolentino adibita a deposito di derrate alimentari.





Nel 1935, divenne poi uno dei magazzini della Sovrintendenza, fungendo da deposito per opere d’arte, per essere danneggiata dai bombardamenti angloamericani del 15 febbraio e 22 marzo 1943. I danni maggiori furono subiti dal prospetto, dai muri perimetrali, dalle volte della tribuna e dal transetto. Distrutti gli infissi, i tetti a causa di una bomba caduta sull’edificio adiacente addossato al lato nord della tribuna.





Grazie al cielo, a differenza di altre chiese vicine, San Sebastiano si salvò dalla demolizione: furono murati gli infissi e la chiesa mantenne l’uso come magazzino. Nel 2006, In occasione dell’iniziativa «Palermo apre le porte», dopo il restauro della facciata, l’interno è reso agibile e il luogo inserito nel circuito del patrimonio monumentale fruibile al pubblico.





Il progetto della facciata di gusto rinascimentale e di fattura gaginesca è in pietra di Solanto. È caratterizzato da eleganti volute e elementi architettonici inquadrati da lesene propri del nuovo stile barocco opera di Antonio Muttone. I portali sono sormontati da finestre ed edicole chiuse da grate. Un oculo si apre al centro del secondo ordine, sotto il frontone di chiusura.





Il portale barocco è sormontato da timpano curvo e spezzato, all’interno è collocato uno stemma a scudo raffigurante San Sebastiano incorniciato da volute che avvolgono due erme e sormontate da un putto alato. L’opera è attribuita allo scultore Gaspare Guercio al pari dell’altro raffigurante i simboli del martirio (fregio adottato dalla Confraternita) che orna il portale destro.





Entrando nella chiesa, per citare un articolo di Ilaria Guccione, il primo artista documentato nel 1692 è Giacomo Serpotta, che realizza dei “quatroni” in stucco, nelle cappelle di S. Stefano, della SS. Annunciata, di S. Onofrio e del Crocifisso e nel 1693 è pagato “per havere fatto gli archi di tutti li quattro cappelle et altri servizzi”.





La volta della navata centrale presenta una ripartizione geometrica articolata e scandita da figurazioni imitanti cartigli e sculture in stucco, eseguiti dall’architetto Andrea Palma è del 1705. La sua attività di quadraturista risulta documentata già nel 1689, quando esegue lavori di “prospettiva” e “finti stucchi” per la chiesa del Noviziato dei Gesuiti e nel 1703, quando gli vengono richieste pitture di “sala e galleria”negli ambienti adiacenti l’Unione dei Musici di Santa Cecilia.





Il 29 maggio 1705 il Palma si obbliga – a partire dal primo giugno ed entro fine settembre – a





“pingere e architettare tutti li dammusi, con il piedi di detti dammusi, (…) e tutti li finestri con sei faccioli dentro e di fuori della Ven(erabil)e Real confraternita di S. Sebastiano la Marina di questa città, cioè il dammuso della nave con suo timpagno con lasciarci il loco delle storie secondo il disegno”.





Sono sue anche le quadrature della volta dell’abside e delle cappelle del transetto, intitolate a S.Sebastiano (a sinistra) e all’Immacolata Concezione. Il 18 dicembre dello stesso anno, la commessa fu assegnata al pittore genovese Domenico Maria Calvarino, si desume che “l’adornato e architettura” della volta della navata era stato ultimato, mentre Palma stava ancora lavorando alle quadrature del presbiterio.





Calvarino dipinse una Invocazione di San Sebastiano con i santi Rosalia e Rocco, al cospetto del Padre Eterno e dell’Immacolata. Nel 1740 Olivio Sozzi lavora ai sottarchi della cupola e ai peducci raffiguranti i quattro Evangelisti (uno dei quali perduto). Il leone (attributo di S. Marco), riproposto negli stessi anni nell’allegoria della Fortezza (Palazzo Drago, 1745), è chiaramente derivato da quello affrescato da Corrado Giaquinto nella chiesa romana di San Nicola dei Lorenesi (1733).





Il Sozzi nel 1747 si impegna a dipingere nelle cappelle del transetto due quadroni per cappella e due “nicchie ovule” e “altre figure di chiaro ed oscuro”. La cappella dell’Immacolata Concezioneconserva solo in parte gli affreschi del Sozzi: una lacunosa Natività della Vergine è compositivamente affine ad un dipinto di identico soggetto realizzato dal Giaquinto.





Tra il 1758 e il 1759 le architetture dipinte dal Palma subiscono dei rifacimenti: Gaspare Fumagalli e Gaspare Giattino, “pittori”, sono pagati “per il partito dell’architettura di pittura da essi fatto nuovamente nel detto Cappellone”. Ai loro nomi è associato quello di Gaspare Cavarretta per un ulteriore pagamento, “per loro mercede di alcuni travagli straordinari fatti per la pittura dell’architettura nuovamente fatta in detto cappellone oltre della loro obbligazione”. Si tratta delle finte architetture realizzate per incorniciare i due quadroni a fresco che Vito D’Anna dipinse nello stesso anno.





Queste quadrature – rispetto a quelle del 1705 – sono caratterizzate da un maggiore senso scenografico che finge una prima cornice dorata per i quadroni, circondata poi da una seconda cornice marmorea, affiancata da due angeli anch’essi monocromi a fingere di essere statue: come cioè se si fingesse uno spazio entro cui è posta la cornice dell’affresco. Ma esiste ancora un terzo piano illusorio che vede sopra le volute di marmo panneggi con puttini che fingono di essere veri, e che introducono ad un altro ambiente che lascia intravedere arcate sormontate da balaustre, come se lo spazio della chiesa continuasse dietro la pittura.





Gaspare Cavarretta realizzò anche la cornice del crocifisso nel cappellone dipingendola





“di color di pietra (…) con diversi mani di vernici”.





Una delle due scene di soggetto veterotestamentario affrescate dal D’Anna, è firmata e datata al 1759. Si tratta di Sansone che distrugge il tempio dei Filistei, che fa da pendant a Mosè e il serpente di bronzo, soggetti che prefigurano entrambi Cristo. Il lavoro, affidatogli il 22 giugno 1759 per un compenso di 50 onze, risulta compiuto il 25 settembre, quando si concludono i pagamenti con un incremento di 5 onze, poiché l’artista aveva pagato di tasca sua per fare “scorciare et intonicare con rina di fiume” le pareti da affrescare.





Secondo una fonte ottocentesca, il D’Anna avrebbe già precedentemente lavorato in chiesa, coadiuvando il suocero O. Sozzi ammalato, per non far perdere l’intonaco fresco “nella cappella della Concezione ove dovea dipingere la Purità in misura più del vero”. Il Rettore, rimasto soddisfatto dal lavoro del pittore lo avrebbe invitato a continuare e “in questo modo Vito D’Anna dipinse quella chiesa”.





Difatti nella già citata cappella della Concezione è ancora leggibile, anche se non più integra, un’allegoria di tale soggetto, di grandi dimensioni, realizzata a monocromo. Essa, insieme alla bellissima figura del Dio Padre affrescata nella nicchia è da ascriversi al catalogo del D’Anna per la notevole qualità del disegno e le forti affinità stilistiche con opere certe. Questa attribuzione permette di restringere ragionevolmente i termini cronologici del suo soggiorno romano, sulla cui brevità le fonti sono concordi.





Il pittore, ritornato a Palermo da Acireale nel 1744, dovette entrare presto in contatto col Sozzi del quale poi sposò nel febbraio 1745 la figlia. Ed è in lavori affidati ufficialmente al suocero che si possono scorgere le prime tracce dell’attività palermitana del D’Anna, il cui primo incarico ufficiale finora documentato è datato al 22 maggio 1750

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Published on November 07, 2020 09:07

November 6, 2020

Il Parco Sottomarino di Baia (Parte II)

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Tornando a parlare della Baia sommersa dalle acque, la cosiddetta villa dei Pisoni era nota in origine grazie alla fotografie aeree, d’altronde come tutte le altre strutture sommerse costiere. Il padre dell’archeologia subacquea, Nino Lamboglia, la evidenziò e la posizionò, alla fine degli anni ’60, a circa 150 mt. a sud-est al largo di Punta Epitaffio.





Per avere un rilievo grafico e topografico di dettaglio, bisogna aspettare alla fine degli anni ’80, grazie ad un gruppo di volontari del Centro Campano di Archeologia Subacquea, il quale individuò anche una fistula plumbea con il bollo di Lucio Pisone, padre di Gaio che permise di identificare le rovine con uno dei luoghi citati da Tacito negli Annales.





Gaio Pisone, infatti, radunò un gruppo di circa 41 persone, tra cui senatori, cavalieri, militari e letterati, allo scopo di eliminare l’imperatore Nerone. Nel 65 il gruppo si riunì a Baia, proprio in quella villa, e lì stabilirono che, durante i giochi dedicati a Nerone al Circo Massimo, il console designato Plauzio Laterano si sarebbe dovuto gettare ai piedi dell’imperatore da supplice, accoltellandolo durante l’azione; gli altri complici sarebbero intervenuti in seguito, in modo che avvenisse un’esecuzione plateale, al pari dei grandi spettacoli popolari che lo stesso Nerone era uso organizzare. Morto l’Imperatore, Gaio Pisone sarebbe stato proclamato nuovo princeps dalla Guardia Pretoriana, grazie all’appoggio di Fenio Rufo (forse il vero capo della congiura), allora Prefetto del Pretorio congiuntamente a Tigellino, del tribuno militare Subrio Flavio e del centurione Sulpicio Aspro.





Un giorno la liberta Epicari, per tentare di attirare alla causa l’ufficiale della marina Volusio Proculo, deluso dal non aver ricevuto da Nerone le gratificazioni che si aspettava, gli fece capire che si stava preparando un complotto contro l’imperatore. Proculo, tuttavia, denunciò Epicari, che venne arrestata, ma la congiura non fu scoperta perché la liberta non aveva rivelato a nessuno i nomi dei congiurati e perché mancavano altri testimoni; Nerone, diffidente, la lasciò comunque in prigione. La congiura venne scoperta allorché uno schiavo al servizio del congiurato Scevino, Milico, corse agli Orti Serviliani a denunciare il proprio padrone che, avendogli ordinato di affilargli il pugnale e di preparargli bendaggi (per eventuali ferite ricevute nel corso dell’azione), lo aveva insospettito. Intuito che vi era una complicità tra Scevino e Natale, ed essendo entrambi amici di Pisone, i due vennero interrogati separatamente: Natale confessò subito, indicando tra i congiurati Pisone e Seneca. Fu l’inizio della scoperta della congiura, che diede adito, per ordine di Nerone, ad una serie di processi sommari, esecuzioni e suicidi





Le morti più eroiche sono senza dubbio quelle di Subrio Flavo e Sulpicio Aspro: il primo, alla domanda di Nerone sul perché avesse deciso di tradirlo, rispose





“Ti odiavo. Nessun soldato ti è stato fedele più di me, finché hai meritato di essere amato; ho cominciato a odiarti da quando sei diventato assassino di tua madre e di tua moglie e auriga e istrione e incendiario”





e al riguardo Tacito commenta:





“Non risulta che, in quella congiura, abbiano dovuto ascoltare nulla di più pesante le orecchie di Nerone, il quale, se era pronto a commettere crimini, non era abituato a sentirsi imputare i gesti compiuti”





Aspro, invece, alla stessa domanda rispose con fermezza che era l’unico modo per fermare le infamie di cui si era macchiato Nerone.





Un esempio di grande coraggio riferito dallo stesso Tacito, è la morte di Epicari, suicida pur di non rivelare i nomi dei complici dopo essere stata più volte torturata:





“Fulgido esempio di eroismo, dato da una donna, una liberta, che in un così grande pericolo volle proteggere degli estranei e quasi degli sconosciuti, mentre degli uomini nati liberi, dei cavalieri e dei senatori romani, senza essere sottoposti a tortura, tradivano ognuno le persone più care”





Oltre a Seneca e al poeta Lucano, tra le vittime della repressione imperiale vi fu Petronio Arbitro, autore del Satyricon e personaggio del Quo Vadis. Sempre Tacito, così racconta il suo suicidio





In quei giorni Nerone si era spinto in Campania, e Petronio, spintosi fino a Cuma, venne qui trattenuto. Egli non sopportò di restare oltre sospeso tra la speranza e il timore; non volle tuttavia rinunciare precipitosamente alla vita; si tagliò le vene e poi le fasciò, come il capriccio gli suggeriva, aprendosele poi nuovamente e intrattenendo gli amici su temi non certo severi o tali che potessero acquistargli fama di rigida fermezza. A sua volta li ascoltava dire non teorie sull’immortalità dell’anima o massime di filosofi, ma poesie leggere e versi d’amore. Quanto agli schiavi, ad alcuni fece distribuire doni, ad altri frustate. Andò a pranzo e si assopì, volendo che la sua morte, pur imposta, avesse l’apparenza di un fortuito trapasso. Al testamento non aggiunse, come la maggior parte dei condannati, codicilli adulatori per Nerone o Tigellino e alcun altro potente; fece invece una particolareggiata narrazione delle scandalose nefandezze del principe, citando i nomi dei suoi amanti, delle sue donnacce e la singolarità delle sue perversioni: poi, sigillatolo, lo inviò a Nerone. Spezzò quindi il sigillo, per evitare che servisse a rovinare altre persone.





Tornando alla nostra, sorta agli inizi del I sec. d.C., al seguito del fallimento della congiura, fu incamerata nel demanio imperiale e fu ristrutturata prima al tempo di Vespasiano, poi a quello di Adriano: al termine di tali lavori, il complesso si sviluppava intorno ad una corte centrale a pianta rettangolare di mt 95 x 65 circa, orientata con il lato lungo No-Se, destinata a giardino, mentre tutto il complesso residenziale che contorna la corte con portici, occupa una superficie complessiva di mt. 120 x 160. La villa era fornita di bacini di approdo ed era protetta dai venti di scirocco da una serie di pilae a doppia fila. Come tutte le ville marittime della zona, aveva delle peschiere per l’allevamento del pesce.





Sempre ai Pisoni apparteneva la cosiddetta Villa a Protiro, Le strutture oggi visitabili sono quelle di un ampio giardino quadrangolare delimitato da un portico e da corridoi, una scenografica facciata settentrionale aperta probabilmente su un parco che la separava dal Palazzo di Claudio e da due settori termali oltre a un vasto quartiere marittimo con moli, darsene, peschiere ed ameni padiglioni di soggiorno. L’edificio appartenne inizialmente alla potente famiglia dalla quale provenivano Calpurnia, moglie di Giulio Cesare e senatori, pontefici, proconsoli e consoli; poi, per una serie di complesse vicende ereditarie, entrò in possesso dei Pisoni e quindi del demanio imperiale





Adriano la fece radere al suolo e ricostruire in forme ancora più grandiose, sperimentando nuove soluzioni compositive. Il mosso disegno dei due corridoi absidati lungo il cortile è una delle prime, significative attestazioni di un nuovo genere di architettura che, nei suoi esiti scenografici, precorse il barocco e la facciata verso Punta dell’Epitaffio somigliava singolarmente alle ricchissime fronti dei coevi edifici teatrali. Di particolare interesse è inoltre il vasto bacino occidentale (m 80 x 110) utilizzato come approdo per i natanti di discrete dimensioni e protetto a sud da una doppia fila di piloni.





Lo spezzone urbanistico prossimo al canale vede la sua emergenza più importante in una villa allungata per circa 120 metri sul fronte stradale. Preceduta da una fila di botteghe, la villa consta di due parti, una termale ed una residenziale, separate da un bacino rettangolare in comunicazione col mare ed ornato da statue, una delle quali (del tipo dell’Afrodite dei Giardini di Alcamene) è stata recentemente recuperata.





L’ingresso a protiro era inquadrato da due lunghi sedili in muratura, oltrepassato il vestibolo (sul quale si affaccia l’ambiente dell'”ostiarius” o portinaio), si giunge nell’atrio dalle pareti rivestite di marmo, similmente agli ambienti adiacenti che, in diversi casi, erano pavimentati in mosaico. In un vano nell’angolo nord-orientale dell’atrio, è tuttora visibile un mosaico in bianco e nero ornato da una trama di esagoni.





A sud dell’atrio si apre una vasta aula absidata (l’emiciclo sul fondo è ampio ben 10,37 m.), probabilmente estranea al progetto iniziale e simile, anche per il ricco rivestimento in grandi lastre marmoree, alle aule tardo-imperiali delle ricche “domus” ostiensi.





Il canale d’accesso al Lago Baiano merita una visita, non fosse altro che per la sua suggestiva imponenza. Oggi è quasi completamente insabbiato e giace tra gli 8 e i 6 metri di profondità. I due muraglioni che lo delimitano sono in opera cementizia spessa mediamente 8 metri: si può seguirli in tutta la loro lunghezza di circa 230 metri, fino alle testate occidentali arrotondate e in più punti si possono riconoscere i fori lasciati dai pali delle cassaforme entro le quali, forse agli inizi dell’età imperiale, si effettuò l’enorme gettata.





Se nel prossimo post dedicato al parco subacqueo approfondirò la questione del Palazzo di Claudio, una sua componente è proprio davanti al Castello Aragonese: si tratta una peschiera,allevamento di acquacoltura di epoca, decorata con un portico anulare.





Davanti a Bacoli vi è poi un’altra struttura, che gli eruditi settecenteschi identificavano a torto con il tempio di Ercole: si tratta invece di un’altra villa, proceduta una ampia banchina in opera cementizia, priva di paramento, con un piano di calpestio costituito da scheggioni di tufo irregolari ma ben allettati secondo un piano orizzontale. Il fronte nord-ovest si presenta nella fascia inferiore concavo per attutire la forza del mare e proteggere dalle ondate la sommità della banchina, e conserva, non più in situ, un anello d’ormeggio a riprova che la struttura, in antico si protendeva in mare, oltre a costituire il basamento per la villa soprastante, forniva anche possibilità di ancoraggio. Il che da una prova concreta della testimonianza d’Orazio, che parlava della continua fatica degli uomini a Baia, impegnati a strappare la terra al mare.





Sopra questa platea, leggermente arretrati verso Sud, sono presenti numerosi resti di strutture murarie in laterizio in pessimo stato di conservazione e di difficile lettura in tutto il settore nord dell’ area edificata in quanto parzialmente ricoperti dal loro stesso crollo. Il grado di leggibilità dell’impianto migliora nell’area centrale dell’edificio, dove è stato possibile individuare, per la presenza di ambienti riscaldati, parte di un impianto termale.





Si può facilmente riconoscere un vasto ambiente rettangolare, con le pareti articolate in nicchie di cui due presentano un passaggio ad arco verso est . Il centro della stanza è occupato da un’altra struttura rettangolare, realizzata in blocchetti di tufo, con pavimento in cocciopesto forse identificabile con una vasca.





Lungo il muro perimetrale della sala la presenza di alcuni tubuli, di tegole mammate e di un pavimento in bipedali fanno supporre l’esistenza di un vano ipocausto al di sotto dell’attuale quota di fondo; è inoltre probabile che anche il corridoio che corre intorno alla vasca, troppo stretto per essere transitabile, fosse adibito ad ipocausto e in tal caso ci troveremmo di fronte ad una doppia intercapedine per il riscaldamento della vasca centrale (calida piscina).





Il piano di calpestio doveva essere quindi ad una quota maggiore di circa 70/90 cm rispetto all’attuale livello di fondo e le pareti rivestite da una concamerazione, in tal caso i due archi situati nelle nicchie orientali e posti in parte al di sotto del pavimento, sarebbero stati adibiti al passaggio dell’aria calda.





L’ambiente successivo si presenta a pianta circolare e conserva lungo tutto il suo perimetro salvo che in corrispondenza dell’entrata, una doppia muratura in laterizio che delimita un canale coperto da bipedali e cementizio, con la doppia funzione di via di scarico per acque reflue e di sedile-gradino per i frequentatori delle terme. Questo tipo di planimetria è abbastanza consueto nei percorsi termali, ma per il momento non sono stati individuati dati certi sulla presenza di un vano ipocausto e quindi per individuare la funzione dell’ambiente.





Ad Ovest di questo complesso sono presenti altri ambienti dei quali per il momento non conosciamo la funzione, ma che, per le tracce di suspensurae in uno di essi, probabilmente fanno sempre parte delle terme. Numerose altre strutture, non ancora indagate, sparse per tutta la sommità della banchina, completano questo settore, che costituisce probabilmente la c.d. pars triaritirna di una villa costiera.





Dalla zona termale parte una serie di arcate in laterizio, che giunge fin quasi ai piedi del promontorio; la successione delle arcate segue un ritmo metrico ben preciso alternandosi archi di sette metri e mezzo con archi di due metri e mezzo. L’asse longitudinale della struttura è a sua volta attraversato da un passaggio voltato.





Gli archi hanno l’estradosso piatto con attualmente il calcestruzzo a vista, mentre all’interno delle volte si conserva in alcuni tratti uno spesso strato di cocciopesto. Il forte insabbiamento che ha portato il livello di fondo all’altezza delle reni degli archi non permette di stabilire l’altezza originaria della struttura né tantomeno di verificare se si sia conservato un piano pavimentale.





Sembra comunque più plausibile ipotizzare l’estradosso delle volte come “percorso ufficiale” considerando che questa quota quasi coincide con quelle dei pavimenti delle sale termali; inoltre sono state privilegiate le arcate che si aprono verso mare, con il probabile scopo di creare una quinta scenografica per la baia, rispetto al passaggio lungo l’asse longitudinale che risulta piuttosto angusto.





La villa probabilmente apparteneva all’oratore Quinto Ortensio Ortalo, rivale e grande amico di Cicerone, che aveva scelto il luogo per la sua passione per l’itticultura, tanto che l’Arpinate, per prenderlo in giro, l’aveva soprannominato Tritone e Incantatore di Pesci.





Ortensio Ortalo, criticato per l’eccessiva eleganza nel vestire dai suoi detrattori, che per questo motivo arrivarono anche a chiamarlo con il nome, Dionisia, di una nota danzatrice dell’epoca, come dire, si era anche autoconvinto di essere un grande poeta: era talmente insopportabile in tale pretesa, che persino Catullo, altro suo grande amico, era arrivato a non reggerlo più





Alla sua morte la villa passò in eredità al figlio, al quale venne espropriata, per motivi politici, dai triumviri, entrando così a far parte del patrimonio di Antonia, figlia di Antonio ed Ottavia, per arrivare poi, per linea ereditaria, fino a Nerone, diventando il luogo dove l’imperatore progettò l’assassinio della madre Agrippina.

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Published on November 06, 2020 11:39

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Alessio Brugnoli
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