Alessio Brugnoli's Blog, page 48
November 24, 2020
Volterra e le sue equazioni
Umberto D’Ancona, il grande biologo marino fiumano, durante i suoi studi aveva, per ovvi motivi, spesso a che fare con i pescatori dalmati, i quali, una volta, gli chiesero spiegazioni per una questioni che li aveva lasciati alquanto perplessi.
Durante la guerra e i casini provocati da D’Annunzio, i pescherecci che osavano uscire dai porti erano assai pochi: i coraggiosi che ci provavano, data la scarsa concorrenza, ipotizzavano di potere tornare a casa con le reti strapiene. Invece, la realtà era ben diversa: non solo di pesce se ne prendeva poco, ma questo era costituito essenzialmente da squali, assai poco mangiabili e ancor meno vendibili. Per cui, il gioco non valeva la candela.
Umberto, nonostante fosse scettico, decise di verificare la storia, esaminando i dati sulla pesca di varie specie in diversi porti del Mediterraneo tra il 1914 e il 1918. Grande fu la sua sorpresa quando si accorse come i pescatori avessero ragione. Nel 1914, la percentuale di squali sul totale del pescato era pari a 11,9%, mentre nel 1918 era salita al 36,4%.
A quanto pare, la sospensione della pesca aveva modificato l’equilibrio biologico a favore delle specie predatrici, che si trovavano di fatto meno concorrenti, e a svantaggio di quelle che si alimentavano di vegetali o piccoli invertebrati. Per cui, paradossalmente, una pesca moderata determinava un equilibrio biologico marino molto più favorevole, per l’economia umana, di quello naturale.
Il problema era modellizzare le regole matematiche che determinavano questo equilibrio: per sua fortuna, era genero di uno straordinario matematico, Vito Volterra il matematico dell’unità d’Italia, essendo nato il 3 maggio 1860 ad Ancona, da una famiglia ebraica assai povera. Orfano all’età di due anni del padre, mostrò sin da bambino una straordinaria passione per la geometria tanto che ad appena undici anni aveva già letto la Geometria di Adrien Marie Legendre e due anni dopo, nell’ambito della meccanica razionale, si cimentava con il difficile “Problema dei tre corpi”, di cui propose un’originale soluzione approssimata. A 13 anni, dopo aver letto Dalla Terra alla Luna di Jules Verne, calcolò la traiettoria di un proiettile sotto gli effetti del campo gravitazionale della Terra e della Luna
Dopo la morte del padre, la famiglia si dovette trasferire prima a Torino e poi a Firenze, dove Vito studiò alla “Scuola tecnica Dante Alighieri” e in seguito all’Istituto tecnico “Galileo Galilei”. Sarebbe stato costretto a sospendere gli studi per le difficili condizioni economiche, se all’istituto tecnico che frequentava non avesse incontrato Antonio Roiti, celebre fisico e professore all’Università di Firenze, il quale, riconosciute le eccezionali doti scientifiche del giovane, lo aiutò materialmente offrendogli il posto di “preparatore” nel suo Istituto di Fisica. Grazie a tali aiuti e a quelli di uno zio, l’ingegnere Edoardo Almagià, nel 1878 Vito potè iscriversi alla Facoltà di Scienze Naturali dell’Università di Firenze. L’anno dopo vinse il difficile concorso d’ammissione alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove nel 1882 si laureò in fisica con una tesi di idrodinamica e l’anno successivo, diventò professore di meccanica razionale.
Fu membro del consiglio direttivo del Circolo matematico di Palermo, che, fondato da Giovan Battista Guccia nel 1884, è la più antica associazione matematica italiana.
Nel 1892 ebbe l’incarico per l’insegnamento della fisica matematica, divenendo anche preside della facoltà di scienze. L’anno dopo fu invitato dall’Università di Torino ad occupare le cattedre di meccanica razionale e meccanica superiore lasciate vacanti dalla morte di Giacci. Nel 1897, per suo interessamento, venne fondata la Società Italiana di Fisica, di cui fu il primo presidente, e nel 1899 fu nominato socio nazionale dell’Accademia dei Lincei.
All’inizio del nuovo secolo, la morte del grande Eugenio Beltrami aveva reso vacante la cattedra di fisica matematica a Roma; Volterra fu chiamato a ricoprirla, grazie anche all’appoggio del fisico Pietro Blaserna.
Di forti sentimenti patriottici, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale fu favorevole all’ingresso in guerra dell’Italia ed egli stesso, all’età di cinquantacinque anni, si arruolò volontario col grado di tenente nell’arma del Genio, dove più poteva essere utile con le sue altissime capacità scientifiche e il suo spiccato spirito organizzativo. Si occupò di dirigibili, a livello sia teorico sia costruttivo, ottimizzandone le prestazioni, sostituendo l’idrogeno (infiammabile) con l’elio. Si dedicò al calcolo balistico per i pezzi d’artiglieria imbarcati sui dirigibili e sviluppò anche ricerche sulle rilevazioni fototelemetriche, per le quali più volte fu operativo in zona di guerra, guadagnandosi sul campo la promozione a capitano e l’assegnazione della Croce di Guerra.
Nel 1919 l’istituzione del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che avrebbe dovuto conglobare vari enti di ricerca già esistenti: l’Ufficio invenzioni e ricerche, il Comitato per le industrie chimiche e l’Istituto Aeronautico. Il progetto fu approvato dal Governo Orlando, ma le difficoltà burocratiche fecero iniziare l’attività del CNR ben cinque anni più tardi, con Vito primo presidente
Fin dalle sue prime manifestazioni, Vito Volterra non esitò a mostrarsi contrario all’indirizzo politico del Fascismo, tanto che, nonostante la sua personale antipatia per Benedetto Croce, firmò il Manifesto degli Intellettuali Antifascisti. Fu poi uno dei dodici professori universitari che non firmarono il giuramento di fedeltà al Fascismo… Come commentò amaramente Gaetano Salvemini dal suo esilio,
“nessuno di coloro che in passato s’erano vantati di essere socialisti aveva sacrificato lo stipendio alle convinzioni così baldanzosamente esibite in tempi di bonaccia”
Fu quindi costretto a lasciare la cattedra di Fisica matematica all’università e nel 1934 decadde anche dall’Accademia dei Lincei per un identico rifiuto. Rimase invece senatore fino alla morte, avvenuta a Roma 11 ottobre 1940, perché quella che fu paradossalmente chiamata “discriminazione regia” esentò i senatori ebrei dalle misure delle leggi razziali del 1938.
Nella sua tomba, nel cimitero d’Ariccia, spicca l’epitaffio che Vito scrisse per sé
“Muoiono gli imperi, ma i teoremi di Euclide conservano eterna giovinezza”
Ahimè, nessuna lapide invece lo ricorda, nel palazzo romano in cui viveva, in via Lucina 17. Tornando al problema della pesca, Volterra cominciò l’analisi del problema posto dal genero suddividendo tutti pesci in due popolazioni: quella delle prede x(t) e quella dei predatori y(t). Poi, ritenne che le prede non competessero molto intensamente fra loro nella ricerca di cibo, essendo questo molto abbondante, a fronte di una loro popolazione alquanto ridotta.
Quindi, in assenza di squali o altri predato, il pesce commestibile crescerebbe in accordo alla legge di Malthus dx(t)/dt = ax(t), per qualche costante positiva a. Inoltre, argomentava Volterra, il numero di contatti per unità di tempo fra prede e predatori sarebbe stato pari bx(t)y(t), per qualche costante positiva b. Analogamente, Volterra concludeva come i predatori avessero un naturale tasso di decrescita −cy(t) proporzionale al loro numero attuale, e che il loro numero invece aumentasse ad un tasso dx(t)y(t) proporzionale al loro numero y(t) e al numero delle loro prede x(t).
Di conseguenza il rapporto tra squali e prede, ad esempio sardine, è riconducibile al sistema di equazioni differenziali
dx(t)/dt = ax(t) − bx(t)y(t)
dy(t)/dt = −cy(t) + dx(t)y(t)
Un sistema analogo fu identificato dallo statistico americano Alfred Lotka, per un ambito ben differente, lo studio delle reazioni autocatalitiche in chimica. Tale sistema prevede soluzioni
prevedono la possibilità di un’oscillazione delle due popolazioni, in accordo con le osservazioni che D’Antona aveva proposto a Volterra di spiegare.
Un difetto delle equazioni originarie di Lotka e Volterra sta nel fatto che suppongono che i cambiamenti di una specie siano influenzati solo dai cambiamenti dell’altra. La mancanza di una delle due specie fa sì che l’equazione che regola il comportamento dell’altra ritorni a essere l’irrealistica equazione malthusiana che preveda in particolare una crescita esponenziale dell’unica specie rimasta in gioco. Volterra ovviò a questo difetto pubblicando nel 1931 variazioni sul tema. La più semplice suppone che i cambiamenti di una specie siano non solo influenzati dai cambiamenti dell’altra, ma anche dai propri.i. Rimanendo nell’ambito dei cambiamenti lineari, si arriva alle più realistiche equazioni
dx/dt = ax(1 − x −y)
dy/dt = by(x − y − 1)
Proviamo a fare un piccolo esperimento mentale: mettiamo il virus Covid-19 al posto del predatore e noi umani al posto della preda. Con alcune modifiche, le equazioni di Volterra descrivono anche l’evolversi delle epidemia, con l’ampiezza delle ondate dipendente dalla disponibilità delle prede, a riprova della necessità di limitare i contatti sociali e la sua scomparsa dalla mancanza di cibo, ossia di tizi da contagiare; per questo è necessario vaccinarsi in massa.
Ma la questione pesca ? Aggiungiamo al precedente sistema un terzo predatore
dx/dt = ax(1 − x −y)
dy/dt = by(x − y − 1)
dz/dt = cz(x − z − 1)
La soluzione prevede se c > b allora il secondo predatore diminuirà drasticamente, molto di più della preda: viceversa, b > c, il secondo predatore crescerà di molto. Se consideriamo z come pescatori, se questi rimangono in porto, allora y, gli squali, aumentano di numero
November 23, 2020
Parlando di Ucronica con Giampietro Stocco
Come molti sanno, parte della mia produzione letteraria, chiamiamola così, con qualche rara eccezione, è incentrata sull’ucronia, nelle sue diverse declinazioni. Per cui, non potevo che essere entusiasta del fatto che Delos, una tra le principali case editrici della fantascienza e del fantastico in Italia, avesse dedicato a tale genere una collana specifica, Ucronica.
Collana diretta tra l’altro da uno dei decani e massimi esperti dell’ucronia in Italia, lo scrittore e giornalista Giampietro Stocco, autore ad esempio dei romanzi Nero Italiano, in cui si ipotizza che l’Italia fascista non sia entrata in guerra nel 1940 e il regime sia proseguito integro fino al 1975, Nuovo Mondo, con l’America colonizzata da Vichinghi e La Corona Perduta, con un Napoleone ucciso durante la campagna d’Italia del 1796.
Non potevo quindi non fare qualche domanda a Giampietro, per conoscere meglio questo progetto…
Ciao Giampietro, perché Ucronica? Come descriveresti questa collana a un lettore, totalmente ignaro di cosa sia la Storia Alternativa?
Ucronica sarà la casa di una serie di racconti, novelle e anche romanzi che hanno come presupposto il what if, cosa sarebbe successo se. Per non cadere nella banalità che ci accerchia tutte le volte che spieghiamo l’ucronia, immaginate la vostra vita e ripercorretela all’indietro. Se non vi foste laureati, o se lo aveste fatto, se vi foste sposati oppure no. Immaginate tutto ciò che avreste potuto fare e non avete fatto e immaginate di tornare a un punto dove lo fareste. Cosa sareste ora? Come sarebbe cambiata la vostra vita, come quella dei vostri cari? Ci sarebbero ancora? Ci sareste voi? Ecco, girare il senso dell’Ucronia in questo modo forse fa capire meglio le straordinarie potenzialità di questo genere di narrativa fantastica, che dunque non è solo fantafascismo ma molto di più e di diverso. E se magari qualcuno ci inviasse racconti con presupposti ucronici personali e non solo politici, ma letterariamente credibili, potremmo anche inaugurare strade nuove nel genere, chissà?
E’ stato difficile, per Silvio Sosio, convincerti a partecipare al progetto?
Assolutamente no. Anzi, sono molto stimolato e onorato di farlo. Curare una collana che ospiterà tante idee diverse credo sia una ricchezza, un’occasione per crescere anche come autore.
Da scrittore di ucronie a curatore di una collana… Come mai questo cambio di ruolo? Che sfide e difficoltà hai affrontato, nel passare dall’altra parte?
Intanto continuo a essere autore: quest’anno tento l’Urania e pubblico altre mie cose, ucroniche e anche no. Curare una collana come questa è uno stimolo alla fantasia, ci si confronta con altre idee e worldbuilding. Le difficoltà alle volte sono quelle di un qualsiasi editor, rendere tali idee, se buone, più abbordabili al pubblico e smussare qualche angolo di troppo. La sfida complessiva è fare del genere ucronico quel che merita: un luogo di fermento di idee e narrazioni, che non si appiattisca sui soliti luoghi comuni e che mostri magari anche qualche guizzo di imprevedibilità. Dunque, spremete le meningi! 
November 22, 2020
San Giovanni dei Napoletani
Come accennato altre volte, accanto a Castello a Mare vi era un’antica chiesa normanna, dedicata a San Giovanni Battista, che nel 1178 Guglielmo II di Sicilia affidò ai cistercensi della Chiesa del Santo Spirito, che come loro abitudine, vi fondarono un ospedale, che, come tutte le analoghe istituzioni palermitane, fu affidata all’amministrazione dell’Ospedale Nuovo e Grande di Palazzo Sclafani all’inizio del XV secolo.
A quanto pare, i Rettori dell’Ospedale Nuovo, appena presero in carico la chiesa di San Giovanni Battista, nel vederne le condizioni, si misero le mani nei capelli, essendo alquanto malridotta. Non volendo tirare fuori un tarì per restaurarla, si misero a trovare qualcuno a cui appiopparla.
Gli ehm fortunati furono i membri della Congregazione della Nazione dei Napoletani, provenienti in gran parte da Cava dei Tirreni, ossia dell’associazione di categoria dei mercanti campani, che cercava sia una sede, sia una cappella per celebrare le proprie feste.
Sfruttando la devozione del direttivo della Congregazione per Giovanni Battista, affidarono loro la chiesa nel 1519, con una sorta di contratto enfiteutico capestro. La Congregazione aveva sì in a disposizione la chiesa, a condizione che si obbligasse
“dittam ecclesiam beneficare et augumentare ac meliorare eorum sumptibus et impensis et diebus festivis dici et celebrari facere missas”
ossia si facesse carico di tutte le spese ordinarie e straordinarie e s’impegnasse a pagare ogni anno un’onza e un cero del valore di sei tarì rispettivamente il 15 agosto e per la festa dello Spirito Santo.
Il diritto sulla Chiesa sarebbe venuto meno qualora per un biennio i concessionari non avessero pagato il dovuto, nonostante la consuetudine palermitana che disponeva diversamente. Inoltre era stabilito che non fosse possibile
“creare aliquem beneficialem ditte ecclesie nullo umquam tempore, quovis modo, nisi cappellanum creare, removere et alium de novo iterum creare ad eius libitum voluntatis, reservato consensu et assensu Summi Pontificis”
insomma, che la Congregazione potesse decidere ben poco e che nel caso si trovassero altre rendite oltre a quelle previste dall’atto di concessione, s’intendessero spettanti di diritto all’Ospedale.
A salvare i napoletani da questa trappola mortale, intervenne il governo spagnoli, che nel 1526 decise di rimordernare e ampliare le difese di Castello a Mare. A causa di questi lavori, la chiesa normanna dovette essere demolita.
Date le lamentele della Congregazione della Nazione dei Napoletani, la Regia Curia
“alium locum per oppositum ecclesie Virginis Marie de la Cathena prope menia maritima urbis pro fundando et ad opus costruendi et edificandi per ipsam Naccionem aliam ecclesiam Sancti Ioannis Battiste”
Ossia due vecchi magazzini adiacenti la chiesa di Santa Maria della Catena. L’incarico di progettare il nuovo edificio fu affidato a Giuseppe Giacalone; nonostante il finanziamento di 400 onze, offerte dalla città di Palermo, le cospicue donazioni e i proventi tassa che dal 1546 i mercanti napoletani si obbligarono a pagare sulle merci in transito per Palermo e Termini nella misura di grani due per ogni onza di mercanzia, i lavori proseguirono molto lentamente, tanto che finirono nel 1617. A parziale giustificazione del ritardo, vi fu nel 1581 il prolungamento sino al mare del Cassaro, che costrinse alla demolizione di parte di quanto costruito: come conseguenza il portico assunse la sua peculiare forma a trapezio, i cui fornici sono semi-tamponati per motivi statici successivi al terremoto del 1823. Nel corso del XVIII secolo la chiesa fu decorata con stucco bianco e dorato da Procopio Serpotta
La chiesa veniva amministrata con le rendite pagate dagli stessi napoletani e non dipendeva dall’Ordinario ma dal Giudice della Regia Monarchia e nonostante la dedica a San Giovanni Battista, di fatto vi era onorato soprattutto San Gennaro, tanto che i reali borbonici nel 1799 la visitarono proprio nel giorno dedicato a tale santo.
Dal 1925 passò nelle mani della Confraternita della Carità, che la affittò alla Soprintendenza alle Gallerie e Opere d’Arte della Sicilia che la utilizzò come deposito annesso alla Galleria Regionale di Palazzo Abatellis. Recentemente è stata riaperta al culto e affidata all’Ordine dei Cavalieri del Tempio di Gerusalemme.
Se l’esterno, nonostante la splendida cupola ricoperta di maioliche, è alquanto anonimo e passa spesso inosservato al visitatore frettoloso, l’interno è degno di nota; a pianta rettangolare, è a tre navate con transetto e tre absidi; gli archi della navata presentano un lieve sovrassesto che conferisce leggerezza a tutta la struttura; i capitelli delle colonne sono stati realizzati ad opera di mastri intagliatori siciliani e sono diversi l’uno dall’altro.
Da notare la soluzione data al problema della realizzazione della cupola all’incrocio della navata centrale con il transetto, con la conseguente formazione di un elemento ottogonale, la cui costruzione è tipica del periodo rinascimentale.
Il pavimento settecentesco è rimasto soltanto nel transetto ed è realizzato in marmo policromo; l’originario pavimento in cotto può essere osservato in una piccola zona della navata laterale destra. Nel pavimento delle navate, realizzato in marmo bianco in occasione dei recenti restauri, si possono inoltre notare alcune lapidi fra cui quella che copre la sepoltura di un capo della congregazione il cui bassorilievo del busto si trova sulla parete destra.
Nella controfacciata in basso due edicole marmoree cinquecentesche e in alto il letterino per l’organo che era stato realizzato dal celebre organaro Raffaele La Valle, nella balconata si trovavano quindici quadretti con i Misteri del Rosario (oggi non più esistenti come anche l’organo) opere di Vincenzo Romano. Sull’altare maggiore, dove un tempo vi era una tavola con la “Madonna del Rosario”, fu poi posta una “Sacra Famiglia”. Adiacenti al presbiterio vi sono due cappelle: in quella di sinistra vi era il quadro con “L’Annunciazione” e in quella di destra la “SS. Trinità” (oggi alla Galleria Regionale di Palazzo Abatellis) entrambi di Giuseppe Albina detto il Sozzo. Notevoli quattro statue in stucco di Procopio Serpotta raffiguranti la Verginità, la Grazia, la Giustizia e la Fertilità. Nella navata destra vi sono, dietro una bella balaustra in marmi mischi, la cappella con decorazioni anch’esse in marmi mischi di S. Giovanni Battista con la statua in marmo gaginesca trasferita dall’antica chiesa, la cappella di S. Gennaro e quella di S. Rosalia.
Nella volta era un affresco dello Zoppo di Gangi raffigurante il titolare della chiesa. Oggi si presenta spoglia dei quadri che l’adornavano, resta solo la statua del Battista nel suo altare barocco, le statue delle Virtù, alcuni monumenti funerari tra cui quello dei Trabucco benefattori della chiesa e sull’altare maggiore una statua settecentesca lignea raffigurante La Madonna con il Bambino
In prossimità dell’ingresso sono addossate due scale, oggi non più praticabili, una delle quali conduceva alla cantoria, dallo splendido soffitto con travi dipinte.
November 21, 2020
Resilienza, tolleranza ed etica
Resilienza, termine di cui spesso si abusa. In origine, il suo ambito di applicazione era alquanto ristretto, limitandosi alla metallurgia: indica infatti la capacità di un materiale di resistere alle forze che vi sono applicate, l’esatto opposto della fragilità.
Progressivamente, il suo significato si è amplificato, indicando la capacità di un generico sistema complesso, che può essere qualsiasi cosa, la mente umana, un ecosistema, una società, a adattarsi a cambiamenti rapidi e invasivi.
Resilienza, nei giorni della Pandemia, significa accettare con responsabilità i sacrifici necessari per rallentare la diffusione del virus, al contempo sfruttando al meglio gli strumenti e le occasioni che ci sono date, per ricostruire, per quanto possibile, una nuova normalità.
Il mio amico Davide Del Popolo Riolo poteva smadonnare in tutte le lingue, piemontese compreso, per avere vinto il Premio Urania proprio nell’anno in cui non si possono presentare libri e organizzare convention. Eppure non si è perso d’animo e ieri, utilizzando Zoon, siamo riusciti a organizzare, non dico una presentazione, ma almeno una chiacchierata su Il Pugno dell’Uomo.
Chiacchierata in cui abbiamo coinvolto anche l’editor Anna Pullia, per dare visibilità a un lavoro ingrato, necessario e importante, che spesso non è valorizzato, né dagli autori, né dalle Case Editrici. Io con Anna ho lavorato più volte, per i racconti steampunk: ha tutta la mia ammirazione, dato che non sarei in grado di fare il suo mestiere.
Come lettore di sono bocca buona, non ho né occhio, né orecchio per comprendere e migliorare le sfumature del testo e della trama e non possiedo la pazienza e la tolleranza per sopportare le paturnie di quei bambinoni egocentrici che siamo noi scrittori.
Chiacchierata, quella su Il Pugno dell’Uomo, che ha toccati anche alcune tematiche portanti del romanzo: il primo è il rapporto con il Diverso, tra timore, tolleranza, dialogo e costruzione di un’identità condivisa. Paradossalmente, molte delle idee che ci siamo scambiati ieri sera, mi sono tornate in mente stamane, quando per caso, mi sono trovato davanti alle polemiche su Nadria Tucker, autrice della serie televisiva Superman & Lois che a quanto pare è stata licenziata in tronco per avere proposto che Martha e Jonathan Kent, i genitori adottivi di Sup, fossero di colore.
Se ci pensiamo bene, Kal-El, la cui storia è stata riscritta decine di volte nella sua lunga vita editoriale, è il diverso per eccellenza, l’alieno, proveniente da un pianeta di squinternati psicopatici, che tramite l’educazione adotta e interpreta i valori della società in cui per caso si ritrova per caso a vivere: può l’essere l’America rurale che cerca di reagire in qualche modo alla Grande Depressione, l’URSS di Red Sun, oppure la Germania nazista, come raccontato da Davide in Übermensch.
Se noi siamo legati a un Superman tradizionale, tutto Verità, Giustizia e Compassione, ciò che lo definisce è l’etica kantiana che segue, non chi gliel’ha insegnata: questi possono essere una coppia tradizionale di contadini del Kansas, una coppia gay della piccola borghesia afroamericana, una coppia lesbica coreana, due nativi americani, poco cambia. Anzi, queste variazioni sul tema darebbero spazio a tante, intriganti possibilità narrative: allora perché lettori e fan, invece di essere intrigati, hanno reagito malamente? Perché, sospetto, abbia ragione Davide, quando ne Il Pugno dell’Uomo ci fa sospettare che noi tolleriamo l’altro non per convenzione, ma per abitudine.
Cosa che ci introduce un altro tema fondamentale del suo romanzo, quello della banalità del Male. Concetto che fu elaborato da Hannah Arendt quando fu inviata dal New Yorker per seguire il processo a Adolf Eichmann: invece di trovarsi davanti un mostro assetato di sangue, si trovò davanti qualcosa di ben più inquietante.
Restai colpita dalla evidente superficialità del colpevole, superficialità che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi atti a un livello più profondo di cause o di motivazioni. Gli atti erano mostruosi, ma l’attore – per lo meno l’attore tremendamente efficace che si trovava ora sul banco degli imputati – risultava quanto mai ordinario, mediocre, tutt’altro che demoniaco o mostruoso.
Un uomo banale e scialbo, incapace di comprendere che la sofferenza degli altri è anche la propria e di guardare oltre il proprio “particulare”, che per pigrizia e desiderio di uniformarsi alla media, ha delegato al Potere le sue scelte morali. Per Davide, questa lontananza dalla vera realtà e la mancanza di idee che deresponsabilizza il singolo e lo rende ingranaggio di una macchina, finalizzata a distruggere, è conseguenza dei Regimi Totalitari; ahimè, io sono assai più pessimista di lui e la vedo come una tentazione connaturata alla Natura Umana.
Reagirvi è la base di ciò che chiamiamo Etica…
November 20, 2020
Il Castello di Baia
Il promontorio che sovrasta Baia, nell’epoca tardo repubblicana, era sede di una lussuosissima villa, che continuò a essere frequentata sino all’età Flavia, cui sono da attribuire rari resti, per lo più piani pavimentali in cocciopesto tessellato e frammenti di intonaco di secondo Stile pompeiano – Padiglione Cavaliere – ed un tratto della rampa a tornanti usata per raggiungerne le pendici
Tanto la tradizione erudita quanto quella popolare tramandano anche i nomi dei proprietari di questa ed altre ville rintracciate in zona, che così vengono attribuite ora all’oratore Cornelio Dolabella, che qui pare avesse una sua dimora, ora a Giulio Cesare che, seguendo quanto tramanda lo storico Tacito, possedeva una villa posta in posizione dominante sul golfo di Baia. Pare che a questa villa vada attribuito anche il complesso di monumentali peschiere, come testimoniato sia dalle scene dipinte raffiguranti l’antica costa baiana, in particolare lo Stagnum Neronis e gli ostriaria, sia sulle cosiddette fiaschette puteolane, le bottiglie di vetro di produzione tardo antica vendute come souvenir ai turisti dell’epoca di passaggio nell’area.
Il luogo rimase abbandonato sino al 1495, quando gli Aragonesi, temendo più la minaccia turca che quella di Carlo VIII, con il senno di poi, possiamo spernacchiarli, ma nel 1480 Otranto era stata saccheggiata dalle truppe ottomane, lanciarono un ambizioso progetto di fortificazione delle coste del Sud Italia, affidato a Francesco di Giorgio Martini, che tra le tante cose, era anche uno dei principali architetti militari dell’epoca.
Francesco costruì, lo sappiamo grazie una xilografia del 1539, una fortezza ben diversa dall’attuale: si trattava di un altissimo mastio merlato a pianta quadrangolare, cinto da una cortina muraria rinforzata da torri angolari quadrate con base a scarpa e merlature. L’eruzione del 1538 del Monte Nuovo causò ingenti danni a questo castello aragonese, tanto che il viceré don Pedro Alvarez de Toledo decise di restaurarlo e rimodernarlo, dando alla pianta l’attuale aspetto a forma di stella e finanziando i i diritti di ancoraggio cioè il pagamento cui erano soggette le navi per ormeggiare nel porto di Baia.
Mai scelta fu più provvida: nel 1544 la fortezza e i suoi uomini riuscirono a respingere l’attacco del corsaro Khair Addin, detto il Barbarossa, forte di 150 vascelli e reduce dalla depredazione di Ischia. Nel 1707, essendo la fortezza difesa solo da 50 soldati, fu facile preda delle truppe austriache.
Il 1799 vedeva il Castello impegnato in una lotta mortale contro gli Inglesi, i quali il 17 giugno, mentre Francesco Caracciolo presidiava il canale di Procida, occuparono astutamente il Forte di Baia, sbarcati da imbarcazioni leggere, senza essere scorti se non quando ormai già troppo tardi.
Il 2 giugno del 1815, all’ombra del Castello faceva ingresso nel porto il vascello inglese “The Queen”, scortato da altre navi, a bordo del quale vi era Ferdinando IV di Borbone che ritornava sul trono dopo la caduta di Gioacchino Murat. Il re rimase a Baia fino al giorno 7 e risale proprio a questo suo soggiorno nella fortezza la nomina dei ministri di Stato e dei capi di corte: le direttive al nuovo assetto politico del Regno venivano tracciate a Baia.
Due anni più tardi, il re riceveva l’imperatore d’Austria Francesco II accompagnato dalla consorte e da un numeroso e qualificato seguito, tra cui vi era il famoso principe di Metternich. Il re offrì in quell’occasione un lauto pranzo nella sua residenza del Fusaro dopo aver fatto visita agli scavi di Cuma e dopo aver fatto ammirare dalla fortezza di Baia le bellezze del paese, delle quali più di tutti rimase ammirato il Metternich. Il fatto è testimoniato da una lettera che il principe mandò alla famiglia, nella quale esprimeva tutto il suo stupore davanti alle bellezze flegree.
Il 23 ottobre 1821 il Direttore della Segreteria di Guerra – Ramo Marina – prospettò al Governatore Militare della Piazza di Napoli la necessità di installare nel Castello di Baia e nell’isola di Nisida un impianto del telegrafo ottico di Charles Chappe, una sorta di antenna a più braccia, i cui movimenti permettevano di comunicare messaggi: benché fosse un’invenzione della Rivoluzione Francese, i Borboni furono tra i più entusiasti nell’adottarla.
Il 6 ottobre 1860 il Castello fu teatro di una delle ultime battaglie tra esercito piemontese ed esercito borbonico: dopo l’Unità d’Italia, con con Regio Decreto del 1887, venne escluso dalle fortezze dello Stato. Durante la Prima Guerra Mondiale, la fortezza fu utilizzata come carcere militare per i prigionieri di guerra austriaci.
Nel 1927 lo Stato ne dispose la concessione – con diritto di godimento perpetuo – al Reale orfanotrofio militare; nonostante questa destinazione d’uso, nel 1943 rischiò di essere demolito dai tedeschi. Secondo una tradizione locale, il Castello si salvò da questo destino grazie al custode, che corroppe i crucchi con venti litri di Falanghina e Piedirosso.
L’orfanotrofio militare rimase fino al 1975, anno in cui l’ente fu sciolto. Passato quindi alla Regione Campania, in occasione del terremoto dell’Irpinia del 1980 il castello fu occupato parzialmente per alcuni anni da famiglie terremotate. Nel 1984 è stato definitivamente consegnato alla Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta perché diventasse sede del Museo archeologico dei Campi Flegrei.
Museo il cui percorso comincia con le sale dedicate a Cuma, in cui si traccia tutta la storia di una delle principali colonie della Magna Grecia a partire dei corredi tombali del villaggio esistente prima dell’arrivo dei calcidesi.
Alla città greca di metà VIII a.C., con corredi tombali di rango realizzati seguendo un rituale eroico secondo il modello del funerale di Patroclo raccontato nell’Iliade; a quella sannita di IV sec. a.C. ben rappresentata da una monumentale tomba a camera dipinta e soprattutto dal rarissimo fregio composto da un primo in terracotta dipinta con motivo vegetale di girali di acanto a rilievo, seguito da secondo fregio dorico con triglifi e metope dipinte con scende di Centauromachia in chiave sannita, ed un coronamento di antefisse in terracotta raffiguranti una teoria di Danaidi, il tutto proveniente dall’antico capitolium dell’area forense.
Alla fase ellenistico romana, un momento in cui Cuma è oramai pienamente assorbita nell’orbita dell’influenza di Roma, rimandano gli eccezionali reperti scultorei ed architettonici in tufo grigio, sempre provenienti dall’area del Foro, fra cui grande importanza soprattutto per la loro unicità sono i pannelli con maschere tragiche e comiche, trovati in posizione di crollo e provenienti dall’attico del settore sud-occidentale del Foro, lasciando ipotizzare che questo lato del foro potesse essere stato usato come naturale sede per spettacoli teatrali, una sorta di scenografia teatrale inserita permanentemente nell’apparato decorativo della piazza stessa.
Ampio spazio è poi dedicato alla “rinascita” augustea grazie alla quale la città viene a ricoprire un ruolo di primo piano nella storia del profugo Enea e quindi nella storia della gens Julia e di Ottaviano Augusto stesso. Eccezionali sono sia tutti gli interventi marmorei volti a cambiare il volto di Cuma, sia i reperti egizi ed egittizzanti provenienti da un piccolo sacello rinvenuto nella foresta di Cuma, ai piedi dell’Acropoli, sia soprattutto lo splendido gruppo marmoreo di piena ispirazione augustea generalmente interpretato come Psiche ed Eros ovvero Eirene e Plouto (la Pace e la Ricchezza). Le ultime sale di questa prima sezione topografica sono invece dedicate all’ultima fase di occupazione della città nel periodo bizantino, durante il quale l’abitato, fortemente ristretto alla sola acropoli, affronta l’immane colpo della guerra greco-gotica (535-553 d.C.).
Scendendo al primo piano delle ex camerate si entra invece nella sezione dedicata alla colonia romana di Puteoli, dove il percorso espositivo parte dal 194 a.C., anno della deduzione dalla colonia. Si viene subito messi a contatto con una realtà molto diversa rispetto a quella di Cuma. Pozzuoli era il porto di Roma, l’altera Dolus o Delus minor, la Porta dell’Oriente, come testimonia la ricostruzione della Grotta del Wady Minahy nel deserto egiziano, grotta in cui sono state trovate iscrizioni rupestri lasciate da commercianti puteolani o le tante dediche a divinità fenice, a Serapide e a Yahveh.
Nelle sale del Rione Terra sono esposti reperti riferibili alla decorazione architettonica del capitolium ed a quella scultorea di altri edifici pubblici del Foro di età augustea, fra cui figurano ritratti di membri della famiglia imperiale giulio-claudia, ma soprattutto una pregevole copia della testa dell’Athena Lemnia di Fidia e frammenti pertinenti a cariatidi e clipei, che hanno permesso di proporre una ricostruzione molto simile a quella dell’attico del Foro di Augusto a Roma.
Uscendo dalle sale dedicate a Puteoli e salendo verso il torrione di nord-ovest (Torre Tenaglia) si incontra un piccolo edificio, una volta sede della polveriera del castello, oggi riservato alla storia della colonia marittima di Liternum fondata nel 194 a.C. Hanno qui trovato il giusto spazio reperti provenienti sia da vecchi scavi sia quelli nuovi, eseguiti dalla Soprintendenza nelle aree del Foro e dell’anfiteatro, nei quartieri urbani e nelle necropoli.
Le ultime tre sezioni, sono dedicato Sacello degli Augustali di Miseno di cui parlerò le prossime volte, al ninfeo di Claudio e a una sorta di gipsoteca dell’antica Roma: un bottega di scultori di Baia, per motivi di studio e per facilitare la riproduzione di copie, si dedicò a collezionare calchi in gesso di originali greci in bronzo, ora perduti
Si possono quindi riconoscere frammenti della Persefone di Corinto (metà del V sec. a.C.), delle Amazzoni di Efeso (440-430 a.C.), dell’Afrodite tipo Hera Borghese (circa 420 a.C.), dell’Apollo del Belvedere (circa 330 a.C.) e del secondo Gruppo dei Tirannicidi di stile severo (477 a.C.), opera di Crizio e Nesiote. Frammenti che ci hanno permesso di conoscere meglio l’antica scultura greca.
November 19, 2020
Mangiare nel Paleolitico
Come molti sanno, più di un anno fa ho cominciato una dieta ferrea, seguita ovviamente da un nutrizionista, che mi ha portato a perdere 5 taglie e più di 50 kg. La cosa buffa, in questo periodo, è la quantità industriale di pareri ricevuti da amici, parenti e lontani conoscenti su cosa mangiare o non mangiare.
I più fomentati, con mia somma sorpresa, erano i sostenitori della teoria della dieta paleolitica, una teoria lanciata per la prima volta dal gastroenterologo Walter Voegtlin nel 1975, secondo cui l’uomo avrebbe regolato il suo patrimonio genetico, e quindi la sua fisiologia, mangiando principalmente carne magra e verdure durante il paleolitico (periodo che va da 2.5 milioni a 10 mila anni fa). Con l’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento, e l’introduzione massiccia di nuovi alimenti come cereali, latte e derivati, l’uomo non sarebbe riuscito bene ad adattarsi. Da qui avrebbe origine lo sviluppo delle malattie tipiche della civilizzazione, come obesità, diabete e carie.
Tesi che ha un motivo di essere per le peculiarità della dieta americana, in cui i loro carboidrati sono ad alto indice glicemico, basti pensare che in media, negli USA, su 100 grammi di pane ve ne sono 10 di zucchero, ma che oltre a non essere estendibile ad altre culture, si scontra con i dati di fatto provienti dalla Paleantropologia.
Gli ominidi erano uno sproposito di specie, ognuna associata a una specifica nicchia ecologica: per cui, ipotizzare che mangiassero tutti la stessa cosa, è una forzatura eccessiva. Ad esempio, l’analisi delle fitoliti (strutture delle piante che spesso restano intrappolate nei denti), insieme all’esame della composizione chimica dei denti l’Australopithecus Sediba che vive 1,98 milioni di anni fa in Sud Africa ai margini delle prateria, mostrava una dieta variegata e assai simile a quella dello scimpanzè, composta di frutta, semi, noci, foglie, fiori, insetti e miele. Lo stesso si può dire per i suoi predecessori, l’Afarensis, vissuto tra i 4 e i 3 milioni di anni fa, e l’Africanus, vissuto invece tra 3 e 2 milioni di anni fa
L’Australopithecus garhi, che viveva in Etiopia 2,5 milioni di anni fa, invece consumava carne, sia cacciando, sia saccheggiando carcasse in concorrenza con gli avvoltoi e gli sciacalli. L’Australopithecus bahrelghazali che viveva in Ciad 3,5 milioni di anni fa, mangiava probabilmente pesce e molluschi.
I Paranthropus,vissuti in Africa centro-orientale fra i 2,7 e circa 1 milione di anni fa, avevano una dieta vegetariana, molto simile a quella dei nostri gorilla: in particolare il Boisei consumava quantità industriali di tuberi ed erbe tenere.
Passando ai nostri diretti antenati diretti, gli Homo abilis ed Erectus, questi avevano una dieta assai flessibile, dipendente dagli habitat e dalla disponibilità degli alimenti: in pratica mangiavano tutto ciò che capitava loro a tiro: probabilmente questa flessibilità è stata la chiave della loro sopravvivenza evolutiva, anche a fronte dei cambiamenti climatici che hanno messo in crisi il loro parentado.
E lo stesso si può dire dei Neanderthal, che noi immaginiamo sempre impegnati in grandi abbuffate a base di mammuth: a quanto pare, quelli che abitavano nelle foreste erano essenzialmente vegetariani, mentre quelli delle steppe consumavano, dalle analisi delle placche dentali, alimenti ricchi di amido gelatinizzato, una trasformazione che avviene solo quando si cucinano dei cereali.
Infine, i nostri nonni Sapiens Sapiens, grazie alle macine ritrovate in siti archeologici di 30 mila anni fa in Italia, Russia e in Repubblica Ceca, usavano mangiare il pane e le farine migliaia d’anni prima rispetto all’invenzione dell’agricoltura. Per cui, nel Paleolitico, per scherzare, era già praticata la dieta mediterranea…
November 18, 2020
Basilica di San Sebastiano
Ai tempi della tarda Repubblica, la valle ad catacumbas, chiamata così per le cave di tufo presenti, cambiò progressivamente destinazione d’uso: le attività estrattive, non più remunerative, a causa della concorrenza di quelle del Gianicolo, di Monteverde e dell’Aniene, che erano facilitate nel trasporto, furono abbandonate e l’area venne utilizzare per le sepolture, anche a seguito della trasformazione residenziale dell’antico cimitero del Campus Esquilinus.
Così, nel I secolo, furono eseguiti una serie di lavori di terrazzamento della pendice settentrionale della valle: sui nuovi spazi così ottenuti furono eseguiti una serie di piccoli colombari e un grande edificio, la così detta Villa Grande, che fino a pochi anni fa, si ipotizzava destinato a uso previdenziale.
E’ probabile, invece, che servisse come spazio dedicato alle celebrazioni funebri dei proprietari di questi colombari, legati per lo più alla casa imperiali e senza dubbio benestanti: a riprova di questo, vi è il fatto che la Villa Grande, costituita da nove ambienti in opera mista disposti intorno ad un cortile centrale, avesse pareti e pavimenti decorati da ricchi mosaici e affreschi a imitazione dei marmi policromi: tra questi spicca rappresentazione di paesaggio marittimo con porto, su cui si conserva un graffito in lingua greca di difficile interpretazione.
All’inizio del II sec, fu abbandonata la cava di pozzolana adiacente a tale complesso funerario, che fu rapidamente trasformata in un piccolo cimitero sotterraneo dai liberti di Traiano; una cinquantina d’anni dopo, però, le volte di tale cava crollarono all’improvviso, innalzando il livello del terreno. Su questo nuovo spazio disponibile, la cosiddetta piazzola, furono rapidamente costruiti tre nuovi sepolcri monumentali pagani.
Il primo apparteneva a “Marcus Clodius Hermes”, come dichiara l’iscrizione superstite, ed era composto di due camere sovrapposte: ben visibili, sopra la facciata, le tracce di un muretto che costituivano il “solarium”, dove i parenti del defunto si riunivano nell’anniversario della morte del congiunto per consumarvi un pasto leggero in suo onore, una sorta di rinfresco detto “refrigerium”. Il secondo sepolcro, detto “degli Innocentiores”, in quanto proprietà di un collegio funeratico, una sorta di associazione finalizzata a fornire una degna sepoltura ai suoi membri così denominato; infine il terzo, detto “dell’ascia”, per la figura di questo arnese incisa nel timpano del frontone; composto da una rampa d’ingresso e di camera sotterranea con la volta a botte ornata di finissimi stucchi.
La Villa Grande fu così destinata ai servizi funebri di questi mausolei, che nel III secolo, cambiarono di proprietà, acquistati da uno o forse due nuovi collegi funerari. Negli stessi anni, a ovest di questo complesso si sviluppò un cimitero sotterraneo, seguito dall’occupazione secondaria dei vecchi colombari con le tombe a inumazione: per facilitarne l’accesso, fu costruito una sorta di ingresso monumentale, la Villa Piccola, una struttura a due piani con le pareti dipinte con eleganti affreschi con motivi decorativi entro sottili fasce rosse e verdi su fondo bianco
Ad un certo punto, verso la metà del III secolo, l’intera piazzola fu interrata così da creare un terrapieno ad un livello superiore in cui schola collegii, la sede dell’associazione funeraria, con la famosa Triclia, una sala coperta porticata utilizzata per banchetti funebri, con un cortile, una nicchia e una scala che scendeva al pozzo sotterraneo.
Questa scuola in origine, come tutto il resto del cimitero, apparteneva ai pagani in maggioranza legati alla casa imperiale. Sembra che solo nel 258 (in seguito alle persecuzioni di Valeriano) siano venuti qui i cristiani, che in quel tempo non potevano accedere al loro cimitero comunale di San Callisto e alle tombe degli Apostoli sul Vaticano e sulla via Ostiense. Probabilmente, qualche ricco cristiano comprò o affittò la proprietà dal Collegio pagano e vi trasferì le reliquie di Pietro e di Paolo, dando origine alla cosiddetta “Memoria Apostolorum”.
Per la sua ambiguità, bene pagano utilizzato dai cristiani, il luogo trasbordò indenne la persecuzione di Diocleziano. Dagli ultimi dati archeologici, sembrerebbe sempre più probabile che la costruzione della Basilica Apostolorum sia stata ordinata da Massenzio, i cui architetti da una parte inventarono le basiliche circiformi, utili per gestire al meglio l’afflusso dei pellegrini, dall’altra crearono l’associazione tra Palazzo e Basilica ecclesiastica, che sarà replicato a Milano, a Costantinopoli e nel Sessorianum.
Basilica circiforme, quella degli Apostoli, senza dubbio grandiosa: unga 74 metri e larga 31, aveva tre navate divise da pilastri sormontati da archi. La copertura, secondo consuetudine, era affidata a semplici capriate lignee a vista ed il pavimento era completamente lastricato di tombe, come anche le pareti. Numerosi mausolei, a pianta centrale o a struttura basilicale, vennero in seguito costruiti attorno alla chiesa, il più importante dei quali, databile alla fine del IV secolo, di forma irregolare, è quello detto “Platonia”, che la tradizione vuole sia la cripta dove i due apostoli trovarono sepoltura. Per tale motivo papa Damaso lo fece rivestire con lastre di marmo che nel basso latino erano dette “platoniae”: di fatto era un mausoleo privato costruito ad opera di una comunità della Pannonia, dove furono deposte, tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, le spoglie del vescovo e martire San Quirino di Siscia.
Secondo il Liber Ponticalis Papa Damaso fece anche erigere nel centro della Basilica una sorta di cenotafio in onore di Pietro e di Paolo, su cui fece incidere una poesia in loro onore.
Bic habitasse prius sanctos cognoscere debes nomina quisq(ue) Petri pariter Pauliq(ue) requiris. Discipulos Oriens misit, quod sponte fatemur; sanguinis ob meritllm Christumq(ue) per astra secuti aetherios petiere sinus regnaque piorum: Roma suos potillis meruit defendere cives. Baec Damasus vestras referat, nova sidera,laudes
ossia in italiano:
Tu che vai cercando i nomi di Pietro e Paolo sappi che i santi dimorarono qui in passato. Questi Apostoli ce li mandò l’Oriente, lo riconosciamo volentieri, ma in virtù del martirio (seguendo Cristo su per le stelle vennero nelle regioni celesti e nel regno dei giusti) Roma poté rivendicarli suoi cittadini. Questo voleva dir Damaso in vostra lode, o nuove stelle
Come tutte le chiese cimiteriali, la Basilica Apostolorum non aveva un proprio clero stabile, ma era alle dipendenze di qualche chiesa parrocchiale urbana. Da diverse iscrizioni sappiamo che ne aveva cura il clero del titulus Byzantis, cioè dei Santi Giovanni e Paolo al Celio.
Forse per assicurare al santuario un servizio più regolare, Sisto III (432-440) fondò due monasteri, uno maschile e uno femminile. Nei decenni successivi, nella Basilica Apostolorum furono trasferite le reliquie di Sebastiano, che progressivamente sostituì nel culto e nella denominazione Pietro e Paolo.La testimonianza di questo cambiamento ce la da papa Gregorio Magno, con la sua omelia 37 in Evangelia: in basilica S. Sebastiani, die natali eius.
Omelia che colpì la fantasia dei romani, che portò alla nascita della leggenda che, celebrando Gregorio la messa in San Sebastiano fuori le mura, un angelo gli fece da chirichetto, dicendo
in isto loco promissio vera est et peccato rum remissio, splendor et lux perpetua et sine ne letitia , quam meruit Christi martyr Sebastianus
Nell’826 il corpo di Sebastiano, conservato nella cripta, fu rimosso e trasferito a San Pietro per volere di Eugenio II, probabilmente per timore dei Saraceni, precauzione quanto mai fondata, visto che circa venti anni dopo la chiesa venne investita in pieno dalla terribile incursione dei pirati ed il monastero, che subì i danni maggiori, fu, sia pure per breve tempo, abbandonato. Pochi anni dopo, Niccolò I (858-67) provvide a rifondare il complesso che tre secoli più tardi fu affidato ai Cistercensi di S.Bernardo. Nel 1218 Onorio III, in occasione dei restauri del complesso, riportò i resti del martire nella cripta, conservati ancora oggi presso la Cappella di S.Sebastiano, a sinistra dell’altare maggiore.
L’altare del santo ospita un bellissimo monumento, opera di Giuseppe Giorgetti su disegno del Bernini, ed il suo corpo, trafitto di frecce, riposa sotto l’altare nella stessa conca di marmo dove lo pose Onorio III. In occasione del restauro furono costruiti il campanile (oggi profondamente trasformato) ed il chiostro, rinvenuto nel corso degli scavi novecenteschi sotto la navata sinistra. Soltanto nel 1563 la basilica subì un nuovo intervento, limitato, peraltro, alla zona dell’altare maggiore, il quale, in origine posto in mezzo alla navata, venne spostato lungo la parete destra. La trasformazione del complesso nelle forme attuali ebbe luogo una ventina d’anni più tardi, quando i Cistercensi, che l’avevano sempre officiata, eccezion fatta per i due secoli in cui furono sostituiti dai Canonici Regolari del Laterano, abbandonarono la chiesa: essa allora fu data in commenda al cardinale Scipione Borghese, nipote di Paolo V, che promosse una profonda opera di ristrutturazione tra il 1608 ed il 1613, affidata in un primo momento a Flaminio Ponzio e, dopo la sua morte, a Giovanni Vasanzio. Furono rifatti soffitto e pavimento, iniziate le due cappelle delle Reliquie e di S.Sebastiano e rinnovata l’architettura generale, compresa la facciata.
Quest’ultima presenta un grande portico a tre arcate, che poggia su quattro coppie di colonne antiche in granito, sormontate da altrettanti capitelli ionici. L’ordine superiore, scandito da coppie di paraste che separano tre finestre dal timpano curvilineo, culmina in un frontone triangolare, sopra il quale spiccava lo stemma nobiliare dei Borghese, successivamente scalpellato.
La cornice marcapiano, che separa i due ordini, reca l’iscrizione:
« SCIPIO CARD(inale] BURGHENSIUS, S[acrae] R[omae] E[cclesiae] MAJOR PENITENTIARIUS, AN[no] DOM[ini] MDCXII »
L’opera del cardinale, che richiamò i Cistercensi nel monastero, fu continuata dal cardinale Francesco Barberini e dal papa Clemente XI Albani che, oltre a erigerla a sede parrocchiale il 18 aprile 1714, commissionò una cappella, ricca di marmi e decorata con le storie di San Fabiano, architetto Carlo Fontana, con la collaborazione di Alessandro Specchi e Filippo Barigioni.
San Sebastiano divenne l’apice del famoso pellegrinaggio delle Sette Chiese istituito da San Filippo Neri e conserva, al suo interno, una delle frecce estratte dal corpo di Santo, la colonna alla quale fu legato per l’esecuzione della condanna a morte e l’originale ex-voto pagano che secondo la tradizione riprodurrebbe le impronte dei piedi di Gesù durante l’incontro con Pietro avvenuto dinanzi alla chiesa del “Domine, quo vadis?”.
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I monaci cistercensi amministrarono il complesso fino al 23 giugno 1826, quando papa Leone XII (1823-1829) con la lettera apostolica Ex locis sacris fu affidato all’Ordine dei Frati Minori, che l’amministrano tuttora. Chiesa che, oltre a conservare, per una serie di bislacche vicende, il mio certificato di battesimo, custodisce il Salvator Mundi l’ultima scultura di mano dello scultore barocco Gian Lorenzo Bernini, eseguita nel 1679, quando l’artista aveva ormai ottant’anni, e da lui lasciata in testamento all’amica e committente la regina Cristina di Svezia. Quando la regina morì, nel 1689, lasciò il busto a Innocenzo XI. Nel 1713 è citato in un inventario di Palazzo Odescalchi:
Un busto di marmo, che rappresenta il Salvatore con una mano, e panneggiamento scolpito dal Bernini; alto palmi di passetto 4 e due terzi, il suo piedistallo è diaspro di Sicilia, alto palmo uno et un quarto, largo di sotto due palmi et un quarto qual busto vien sostenuto con ambo le mani da due angioli, che sono in ginocchio sopra ungran piede il tutto di legno dorato, quali assieme col zoccolo son alti palmi nove di passetto
Nel 1851 è l’opera è forse citata nell’inventario di Palazzo Albani, che l’avevano ottenuta in eredità dagli Odescalchi: nel 1852, con la morte dell’ultimo erede Albani, il busto fu posto sagrestia della cappella funeraria della famiglia in San Sebastiano fuori le Mura, dove se ne perse memoria.
L’opera fu “riscoperto” nel 2001 da Francesco Petrucci, forse il più grande studioso vivente del Bernini, che ne vide una foto in una mostra in cui era capitato per caso..
November 17, 2020
Leggendo Il Pugno dell’Uomo
Credo che le civiltà nascano e si sviluppino in quanto rispondono con successo a sfide susseguentisi. Si spezzano e cadono se e quando le cimenta una sfida cui esse non riescono a far fronte
E’ una frase dello storico inglese Arnold Joseph Toynbee, che ha dedicato l’esistenza nel tentativo di comprendere il ciclo di vita di una civiltà, dalla crescita al declino. Ciclo di vita che dipende dalle capacità e della resilienza di una società e di una cultura nel sapere reagire a eventi imprevisti e non gestibili tramite metodi consolidati.
Il breakdown – come lo definisce Toynbee – si origina proprio in seguito ad una crisi, immediata o progressiva, che interessa le élites politico-economiche – le «minoranze creative» – condizionate dal perseguimento di interessi particolari e, quindi, incapaci di rispondere in modo efficace alle sfide provenienti dalle minacce esterne e dai conflitti interni.
Nel momento in cui l’élite smarrisce la capacità di innovare, anche se non perde il proprio ruolo politico, inizia a trasformarsi in una «minoranza dominante» e spinge così la civiltà sulla china di un declino per molti versi inevitabile. Entra in crisi nella società la condivisone di idee e valori che permettono la convivenza e l’azione e prevale l’autoreferenzialità sull’egemonia culturale precedentemente esercitata dalle «minoranze creative».
Ho l’impressione che, sotto certi aspetti, Toynbee è una sorta di padre spirituale del romanzo “Il Pugno dell’Uomo” di Davide Del Popolo Riolo, vincitore del Premio Urania 2019.
Davide, di fatto, racconta il collasso di una società complessa e multiculturale, la Città, che non ha nulla di invidiare al Bas-Lag dei romanzi di China Miéville, di che, leggendo tra le righe, è sopravvissuta a un’infinità di problemi: la necessità di adattarsi a un nuovo mondo, crisi economiche ricorrenti, perdita di conoscenze che l’ha costretta a mutare a fondo e in modo creativo il proprio paradigma tecnologico.
Eppure questa società, a suo modo resiliente, come la Roma degli Antonini, la Bisanzio di Giustiniano, l’Europa dell’Autunno del Medioevo o prostrata dalla Grande Guerra, entra in crisi per un’epidemia, ci tengo a dirlo, Davide scrive il romanzo ben prima che si avesse notizie del Coronavirus.
Epidemia che, oltre a distruggere l’economia, mina la solidarietà del corpo sociale e la fiducia nelle istituzioni; in una sorta di trascrizione fantastica della nostra Repubblica di Weimar, affidandosi alla demagogia, al mito dell’Uomo forte e alla ricerca del capro espiatorio, in fondo
Per ogni problema complesso, c’è sempre una soluzione semplice, che è sbagliata
la Città, che sembrava essere immune allo scorrere del Tempo, si trasforma in una Distopia. Questa eutanasia, è raccontata, da una polifonia di storie e di punti di vista. Ognuno dei personaggio, buoni, cattivi o semplicemente meschini, ha una voce unica, che rimane indelebile nella mente e nell’anima. Una romanzo che ci dona due importanti lezioni di speranza: come la Storia è mossa sempre dalle scelte morali che compiamo ogni giorno, nel nostro quotidiano e che ogni Distopia, anche la più tragica, prima o poi è destinata a collassare.
Tutto questo, senza essere noioso e pesante, ma con una narrazione che avvolge il lettore e lo imprigiona alle pagine, che alterna grandi emozioni a colpi di scena ben calibrati e mai artificiosi. Per cui, non perdete tempo, e correte a comprare “Il Pugno dell’Uomo” in edicola, prima che finisca…
November 16, 2020
Pirro XI
Di fatto l’intervento diplomatico di Cartagine, aveva messo Pirro in una situazione difficile: dinanzi al rifiuto romano di un compromesso, le truppe e le finanze epirote sarebbero state progressivamente logorate in una guerra d’attrito, che il greco non era pronto a combattere, anche in presenza di alleati italici poco propensi a fornire soldati e oro.
A differenza di Annibale, che si trovò nella stessa situazione, invece di fare la fine del topo, Pirro ebbe l’intuizione di cambiare strategia: invece di cercare di condurre alla ragione i romani, avrebbe colpito al cuore gli interessi dei loro alleati.
I cartaginesi, messi alle strette, avrebbero così smesso di foraggiare i senatori, che avrebbero finalmente accettato la divisione in sfere d’influenza della Magna Grecia. Di conseguenza, la nuova strategia epirota venne articolata in tre punti
a) Contenimento dell’avanzata romana a sud, grazie all’alleanza con i Sanniti e le altre popolazioni italiche
b) Sottomissione, con le buone o con le cattive, delle città greche della Sicilia, sfruttando la sua parentela con Agatocle
c) Conquista dell’Epicrazia cartaginese: ricordiamo come Zyz, la nostra Palermo, era la seconda città dell’impero punico e tra le sue più importanti fonti di entrate fiscali.
Con Cartagine fuori dei giochi e le risorse siciliane a disposizione, Pirro era poi convinto di chiudere la partita con Roma: consolidata così la sua posizione in Italia, avrebbe potuto ampliare la sua sfere d’influenza in Macedonia e in Grecia.
Disegno forse troppo ambizioso, ma che era facilitato dal manicomio che si era creato in Sicilia alla morte di Agatocle. Le maggiori poleis erano in mano di signori locali (un Eracleide a Leontinoi, un Tindaro a Tauromenion, un Onomarco a Katane), mentre a Siracusa era stato eletto strategòs aurokrátor Iceta di Siracusa, che ricoprì la carica fino al 279 a.C. A Siracusa era in atto un conflitto interno, motivato dal rifiuto di concedere la cittadinanza ai mercenari di Agatocle ora senza padrone.
Concordato con essi che avrebbero potuto vendere i propri beni e lasciare la Sicilia, essi si allontanarono da Siracusa, ma razziarono Gela e Camarina, per poi volgersi verso Messana, che fu occupata e ribattezzata Mamertina, dal nome che essi stessi si erano dato, “Mamertini”, nel sogno, condiviso con Tauriani di Mamertion e Decio Vibellio di Rhegion, di creare una sorta di federazione osca, che controllasse le due rive delle Stretto.
In questo panorama, i Cartaginesi erano riusciti ad imporsi in tutta l’isola (segnatamente ad Akragas, ma anche a Gela, dove poi sarebbe passato il tiranno Finzia, che avrebbe raso al suolo la città e deportato la popolazione per fondare, nei pressi dell’odierna Licata, il centro di Finziade): solo Mamertina e Siracusa erano rimaste libere. Quando i Mamertini decisero di scagliarsi contro quest’ultima, Siracusa, insieme ad Akragas e Leontini, ricorse a Pirro, sperando, probabilmente, che l’intervento del condottiero epirota rappresentasse una fase transitoria.
Nel 278 a.C. Pirro, dopo aver preparato la spedizione con l’invio di ambasciatori, riuscì a sfuggire alla flotta punica e ad approdare con 10.000 uomini a Tauromenion, appoggiato dal tiranno Tindaro.
Di qui, seguito via mare dalla flotta, giunse trionfalmente a Siracusa, accolto come un liberatore. Nella polis aretusea riuscì a mediare tra Thoinon e Sosistrato: il primo è fatto phróurarchos (cioè sovrintendente ai phrouria), il secondo è posto al comando dei mercenari. Stando a Polibio, ricevette la carica di eghemon e di basileus. Riprese la simbologia usata da Agatocle nella coniazione di monete d’argento (la testa di kore), segno del desiderio di richiamarsi all’ex suocero. Stessa cosa accade per le pregiatissime monete d’oro, con l’immagine della dea Nike.
Pirro inglobò la propria flotta con quella di stanza a Siracusa. La città possedeva oltre 120 navi, di cui 20 senza ponti, e un enneres reale; Pirro così aumentò la sua flotta di oltre 200 navi. Eraclide di Leontini presentò a lui le sue città e l’esercito di 4.000 fanti e 500 cavalieri. Arrivato a comandare un esercito di 37.000 uomini, il sovrano epirota fece partire la terza fase del suo piano. Per prima cosa, mise a ferro e fuoco le campagne di Messina, per evitare che i Mamertini prendessero strane iniziative, distruggendone le piazzeforti e uccidendone gli esattori
Poi, si diresse contro l’Epicrazie e i suoi alleati: nel 277 a.C. catturò Erice, la più munita fortezza filo-cartaginese sull’isola. A ruota seguirono le conquiste di Zyz, Eraclea Minoa ed Azone e la resa di altre città filo-puniche come Segesta, Iato e Selinunte nel 276 a.C. Come previsto da Pirro, dinanzi a questa ecatombe, Cartagine decise di sedersi al tavolo delle trattative.
La città punica, in cambio della pace, avrebbe riconosciuto a Pirro il dominio su Siracusa e sui suoi alleati, mano libera con i Mamertini, un ricco tributo e neutralità nella sua disputa con Roma. Pirro invece chiedeva, oltre a questo, il dominio su tutte le città greche, comprese quelle sotto il controllo cartaginese, come Agrigento e Selinunte e una moral suasion sul Senato Romano, affinché firmasse la pace.
I punici, pur essendo disposti a mediare tra Pirro e Roma, anche perché erano abbastanza sicuri dell’inutilità dei loro sforzi, non transigevano su Agrigento: per cui, Pirro, per costringerli a cedere, decise di assediare Lilibeo, trovando gli stessi problemi che affronteranno i romani nella Prima Guerra Punica. Senza il controllo del mare, la città era imprendibile.
Di conseguenza, imitando il suocero Agatocle, Pirro, decise per un ulteriore azzardo: portare la guerra in Africa, attaccando la stessa Cartagine, che dinanzi a tale pericolo, di certo avrebbe accettato le condizioni epirote. Però, per un’impresa del genere, serviva una flotta imponente che provò a fare finanziare dalle città siciliane, che intrapresero una sorta di sciopero fiscale. Per vincere la loro opposizione, Pirro cercò di reagire imponendo una vera e propria dittatura su tutte le città greche, che fece presidiare con forti guarnigioni. Questo a sua volta, scatenò una rivolta generale. Insomma, non solo i cartaginesi stavano vincendo senza combattere, ma Pirro, invece che in Italia, stava rischiando di essere imbottigliato in Sicilia.
In più, la strategia di contenimento in Italia era fallita clamorosamente: Roma era tornata in campo contro i popoli del Mezzogiorno. Il console Fabrizio, nel 278, aveva vittoriosamente combattuto contro i Lucani, i Bruzii, i Salentini e i Tarentini ed Eraclea, quell’anno stesso, si era consegnata ai Romani.Nel 277 il console Publio Cornelio Lucino, antenato di Silla, aveva espugnato Crotone, mentre nel 276 era caduta Locri e Taranto stava per essere messa sotto assedio
Per cui, carico di bottino, con una flotta di 110 navi tento di ritornare in Italia: secondo la tradizione, imbarcandosi, disse ai suoi soldati
“Che meraviglioso campo di battaglia stiamo lasciando, amici miei, a Cartaginesi e Romani”
mostrandosi facile profeta… Intanto, però, passando lo stretto, la sua flotta improvvisata fu assalita e in gran parte affondata dai cartaginesi
November 15, 2020
Giulianova, città ideale
Poco nota, anche perché Vasari poco sapeva delle esperienze artistiche del Quattrocento sull’Adriatico, è la fondazione della “città ideale” di Giulianova, le cui origini risalgono agli anni immediatamente successivi alla conquista da parte di Roma della fascia medioadriatica, con la fondazione, intorno al 290 a.C., di Castrum Novum Piceni, probabilmente sul sito di un precedente oppidum italico, chiamato Batinus o Batia.
Colonia, Castrum Novum Piceni, che essendo contemporaneamente un porto e un importante nodo stradale, ebbe una progressiva crescita durante l’età imperiale; prosperità che continuò anche nella prima età bizantina, dato che, durante il VI secolo, questa si trasformò nel castrum bizantino menzionato da Giorgio Ciprio col nome di Kástron Nóbo.
L’insediamento, per la cui fortificazione vennero riutilizzate le strutture difensive di Castrum Novum, continuò a rivestire un ruolo strategico assai importante. A presidio dell’incrocio tra la via litoranea e l’antico tracciato lungo il fiume Tordino, Kástron Nóbo, che pure continuò a servirsi degli impianti portuali dell’antico centro romano per forme di cabotaggio su rotte non marginali, fece parte del sistema bizantino di difesa presente lungo la costa abruzzese.
La longobardizzazione di Kástron Nóbo, con acquisizione pubblica di una estesa proprietà pubblica poi passata per donazione ai possedimenti della chiesa teramana, si pensa dovette avvenire negli anni successivi al 590, seguendo la conquista di Ascoli, Fermo e, in territorio abruzzese, di Castrum Truentinum.
Documenti archivistici del IX secolo segnalano la nuova importanza acquisita dall’abitato che, consolidatosi sulla eminenza collinare subito a nord del precedente insediamento romano, fu protetto da un quadrilatero fortificato di derivazione bizantina con torri aggettanti agli angoli e lungo i lati.
Il borgo medievale prese il nome di Castrum S. Flaviani, poi mutato in Castrum ad Sancto Flaviano, Castrum in Sancto Flaviano e quindi nel XIII secolo Castel San Flaviano, in onore del patriarca di Costantinopoli. Secondo una tradizione antichissima e suggestiva, le spoglie di S. Flaviano, composte in un’arca d’argento, vennero inviate in Italia da Galla Placidia, figlia di Valentiniano III; la nave recante il “sacro deposito”, diretta a Ravenna, spinta da un fortunale sarebbe approdata sulle coste dell’attuale Giulianova con la traslazione dell’arca nella chiesa bizantina, nell’occasione forse trasformata nel grandioso complesso architettonico che ebbe larga rinomanza per tutto il medio evo e le cui vestigia ancora nel XVI secolo erano riconoscibili al geografo tedesco Cluverio.
Feudo, a partire dal 1382, di Antonio Acquaviva, Castel S. Flaviano, oltre a patire saccheggi e devastazioni negli anni turbinosi del Trecento, venne coinvolto con effetti disastrosi nella famosa battaglia combattuta il 27 luglio 1460 nei suoi pressi fra le truppe di Federico Montefeltro e Alessandro Sforza da una parte, e di Jacopo Piccinino con Bosio Santofiore dall’altra. Successivamente a questa battaglia gli uomini capitanati da Matteo di Capua, a cui si aggiunsero alcuni degli Spennati, provenienti da Teramo, saccheggiarono e bruciarono quel che restava dell’antico abitato
Giulio Antonio Acquaviva, duca d’Atri e signore del luogo, provvide alla ricostruzione della città: non sarebbe però stata eretta sulle sue rovine, bensì su un’altura situata a circa settanta metri sul livello del mare, a breve distanza dal precedente sito. Il 31 maggio 1471 Ferdinando I di Napoli emise un diploma mediante il quale si autorizzava Giulio Antonio Acquaviva a riedificare San Flaviano sul luogo che egli stesso aveva prescelto. Il nuovo nucleo prese da lui il nome di Giulia o Giulia nova e Julia o Julia nova.
A ricordare agli abitanti le motivazioni della fondazione di Julia Nova, il vescovo di Teramo Giannantonio De Teolis pose un’iscrizione sulla porta delle mura che collegava il paese alla zona marina (Porta Marina), che recitava in latino:
O forestiero, quel tu sia, che giungi – a queste mura aderte, ti sia noto – che ogni casa mutò di luogo e di nome – poscia che fu abbandonata, e per più avverso Cielo – E mira i campi, che un dì furono deserti – dei fuggiaschi coloni, ed or con queste – messi fan colma la nativa gioia
Ricostruzione, quella di Giulianova, che oltre a mostrare il potere e la gloria degli Acquaviva, doveva soddisfare due esigenze pratiche: rilanciare economicamente un’area impeverita dalle continue guerre e costituire un’importante difesa sia dalle mire pontificie sull’Abruzzo, sia dalle scorrerie turche.
Ora Giulio Antonio Acquaviva era, oltre a un abile condottiero, anche un colto umanista: per cui, per raggiungere i precedenti obiettivi, realizzò un sintesi di tutta la cultura architettonica dell’epoca. Lo schema del disegno urbano si può riferire ad esempi toscani del Due-Trecento, come San Giovanni Valdarno o Terranova Bracciolini, ma anche agli impianti regolari fondati in età angioina ai confini nord-occidentali del Regno, come Cittaducale o Amatrice. La fondazione si collega, soprattutto per l’anno di ideazione e per la scelta del nome, all’intervento di Pienza, di cui, almeno in parte, riprende lo schema di un asse principale lungo circa trecento metri con due piazze tra loro complementari. Le piazze sono a metà del corso, dove esso si flette, collegate da due strade ortogonali.
Disegno che, per prima cosa rispetta i dettami di Vitruvio sull’urbanistica.
Poi, essendo Giulio Antonio, come tutti gli uomini della sua epoca, appassionato di astrologia, la disposizione degli edifici rispecchia quella della sfera celeste nel giorno della sua nascita, come buon auspicio per la prosperità della cittadina e come peculiare rappresentazione del sogno rinascimentale dell’armonia tra microcosmo umano e macrocosmo naturale.
Infine, l’impianto viario di Giulianova è in linea con i dettami albertiani del “De Re Aedificatoria” in riferimento alla realizzazione dei borghi di modeste dimensioni e soprattutto in merito agli accorgimenti adottati per la realizzazione del Corso principale. Giulianova realizza e verifica quel concetto albertiano sull avia centrale, che
“dentro a la terra poi non sia diritta … perciocché oltra che nel parere ella più lunga, accrescerà in quel luogo l’opinione de la grandezza sua; e certamente tal cosa giova molto a la bellezza, a la comodità de l’uso, e a le opportunità de’ tempi”
Influenza albertiana si ritrova nel rapporto tra Palazzo Ducale e piazza, che ispirata alla ristrutturazione nicoliniana dei Palazzi Vaticani, replica, in scala urbana, quello che nel Quattrocento veniva considerato il rapporto tra scena e platea nei teatri antichi: lo stesso proposto da Leon Battista Alberti a Roma per la ristrutturazione di Campo de’ Fiori o realizzato nella Piazza di Santi Apostoli.
La Piazza così non è più spazio di incontro e di confronto della cittadinanza, ma luogo in cui il Potere, in forme differenti, celebra se stesso. Diversa invece è la concezione del duomo di San Flaviano, sintesi di tre esperienze differenti: la concezione delle città ideale urbinate, il cui spazio è generato da un edificio sacro a pianta centrale, la tradizione dei mausolei ottogonali del Centro Sud Italia, basti pensare al tempietto di Vicoraro e la conoscenza della conoscenza della grande architettura funeraria tardo antica. Il Duomo di San Flaviano, con i suoi due livelli, la cripta destinata alla sepoltura degli Acquaviva e la chiesa in cui sono celebrate le messe in loro onore in fondo non è che la replica moderna e cristianizzata dei grandi mausolei imperiali dell’epoca tetrarchica e costantiniana.
Chi è l’autore di tale progetto urbanistico ? Un architetto che conosceva bene la trattatistica antica e moderna, l’architettura tardo antica e le esperienze contemporanee, dato che aveva le idee abbastanza chiare di cosa avesse combinato Bernardo Rossellino a Pienza. Inoltre, era assai esperto nel progettare fortificazioni.
Chi sia, purtroppo lo ignoriamo: è possibile che Giulianova possa essere il frutto di più mani, succedute nel tempo. Date le tempistiche, le frequentazioni tra gli Acquaviva e la corte di Urbino, non è da escludere che il primo progetto del 1471 sia stato commissionato da Luciano Laurana, che conosceva assai bene sia l’architettura tardo antica, sia le riflessioni di Leon Battista Alberti; commissione che continua anche con il trasferimento a Napoli dell’architetto, di cui Giulio Antonio è suddito
Alla morte di Laurana, nel 1479, il suo ruolo, come ad Urbino, può essere stato preso da Francesco di Giorgio Martini, che può aver completato il progetto delle fortificazioni dopo il 1491, quando entra al servizio degli Aragonesi. In alternativa, nel 1490, le difese possono essere state completato su progetto di Baccio Pontelli, altro grande esperto di architettura militare.
Alessio Brugnoli's Blog

