Alessio Brugnoli's Blog, page 47
December 4, 2020
L’Anfiteatro di Cuma
Paradossalmente, se i testi classici dell’architettura, a cominciare da Vitruvio, danno descrizioni assai dettagliate dell’architettura dei teatri ed i principi che ne regolano l’impianto geometrico, al contrario, le informazioni per gli anfiteatri sono assai scarne.
Ora, se da un punto di vista letterale se il già noto termine theatrum significa luogo da cui volgere lo sguardo su di uno spazio ove si verifica un evento, il termine amphitheatrum, ottenuto con l’aggiunta dell’avverbio greco amphì, indica letteralmente non un doppio teatro, ma un luogo da cui assistere agli spettacoli trovandosi indifferentemente da una parte o dall’altra di questo.
Spettacoli che consisteva nei munera e nelle venationes, duelli tra gladiatori e cacce ad animali feroci, che furono ereditati dagli Etruschi, come surrogati degli antichi sacrifici umani ai Mani del defunto.
Sacrifici umani, quelli degli Etruschi, che divennero parte integrante della religione romana, almeno sino al termine dell’epoca repubblicana: basti pensare alla pratica della devotio ducis, ossia del sacrificio personale e volontario agli dei da parte di un generale, per garantire la vittoria alle legioni o dell’expiatio, in cui schiavi celti e greci venivano sepolti vivi per allontanare la malasorte dall’Urbe. In quest’ultimo caso, i Galli rappresentavano, infatti, i nemici settentrionali, i Greci quelli sud-orientali degli Etruschi
Un esempio significativo quest’ultima pratica rappresentato dalla tomba n. 4 portata alla luce nel 2016 su una collina prospiciente il lago di Chiusi, Poggio Renzo: lì sono state scoperte cinque sepolture a camera e a fossa risalenti ad un periodo databile tra il IX e il II secolo a.C. La tomba n.4 rappresenterebbe un’anomalia rispetto alle altre: l’individuo contenuto, per postura, posizione stratigrafica e dati ricavabili dalle analisi effettuate sullo scheletro sembra essere stato vittima di un sacrificio umano e potrebbe trattarsi di uno schiavo, condizione niente affatto rara in Etruria, terra di pirati noti e temuti per la loro spietatezza in tutto il Mediterraneo antico. Il corpo è stato rinvenuto adagiato su un fianco, col braccio sinistro sotto il peso del corpo e la testa innaturalmente sospinta verso l’alto, come se cercasse aria. L’individuo, probabilmente mediorientale, sarebbe stato, dunque, legato e probabilmente sgozzato
Tornando ai ludi gladiatori, una prova del loro valore sacrale ce la da Plinio il Vecchio, il quale ricorda l’ usanza di bere il sangue ancora caldo dei gladiatori morti in combattimento nelle arene, per curare l’epilessia, l’impotenza e l’anemia. Anzi, le gole dei gladiatori venivano utlizzate come coppe da cui succhiare il sangue (sanguinem quoque gladiatorum bibunt, ut viventibus poculis, comitiales morbi) ed era consuetudine che i reziari raccogliessero il sangue rimasto nell’arena con delle spugne per poi venderlo ai richiedenti.
La doppia dimensione, di spettacolo e di rito, imponeneva però la necessità di utilizzare ampi spazi allungati, per l’esecuzione dei combattimenti, ma chiusi e circoscritti, per garantire sia la sicurezza degli spettatori, sia la partecipazione dell’intera cumunità dei cives.
Per soddisfare questa esigenza, inizialmente i ludi gladiatori furono tenuti nelle piazze: il primo munus di cui si abbia notizia avvenne nel 264 a.C. nel Foro Boario e impegnò tuttavia un numero esiguo di combattenti, richiamando – si presume – un numero proporzionalmente limitato di spettatori. Grazie a Tito Livio sappiamo che munera e venationes proseguirono per i decenni rimanenti del III secolo a.C. e per tutto il II secolo successivo, ed è lecito affermare, in base ad alcuni passi di Cicerone, che, aumentando via via il numero dei partecipanti e la consistenza del pubblico, tutti abbiano avuto luogo nel più ampio e importante Foro Romano: qui si montarono tribune con gradinate temporanee in legno tutt’intorno a un’area ricavata nella platèia, sotto la quale – a conferma delle testimonianze letterarie – si è scoperta una rete di gallerie e di pozzetti di servizio in cui si conservavano e da cui si manovravano le macchine necessarie al sollevamento e alla dislocazione dei materiali per gli allestimenti.
Sulla forma che avessero queste gradinate, è difficile a dirsi: tuttavia, se ci basiamo sui successivi anfiteatri, queste potevano corrispondere a un poligono allungato inscritto in una ellissi o in un ovale intorno a uno spazio di ugual forma, cosparso di terra e di sabbia pressate.
Per il timore che le strutture fisse fossero l’occasione per i moti dei populares, il passaggio tra gradinate provvisorie ed edifici paradossalmente non avvenne a Roma, ma nella Campania, terra di sperimentazione edilizia. Uno dei primi anfiteatri fu infatti realizzato a Cuma alla fine del II sec. a.C. nel momento in cui l’aspetto della città greco-sannitica lascia il posto all’impianto urbano tipicamente romano.
Sorto appena fuori le mura meridionali della città, nel luogo più utile per il controllo dei flussi di spettatori in ingresso e in uscita, l’Anfiteatro cumano rispecchia la tipologia più antica del monumento, grazie a tre sue peculiarità. La prima è la mancanza di sotterranei, che implica sia l’uso di scenografie fisse assai semplici, senza gli “effetti speciali” legati alle macchine teatrali dell’epoca, sia il fatto che le venationes fossero assai ridotte, non essendo presenti i relativi montacarichi.
La seconda, è il fatto che, ispirato ai teatri greci, non abbia una struttura completamente autoportante, ma sia sorretto per circa una metà dell’ellisse dal pendio del Monte Grillo digradante verso il mare. L’ultima, è l’accentuata dimensione sacrale: L’anfiteatro è dotato anche di un tempio in summa cavea, che svettava sulla sommità del pendio cui si appoggiano le gradinate orientali e che risulta parzialmente inglobato dalla Villa Vergiliana, palazzina demaniale impiantata nel 1911 e attualmente in concessione a un Istituto di Studio americano. Il tempio romano doveva sorgere sulle strutture di un tempio arcaico, risalente alla fine del VI sec. a.C., del quale sono stati rinvenuti numerosi materiali.
l’anfiteatro presentava poche strutture in elevato. La fila di archi su pilastri relativi alla summa cavea, conservata quasi per intero, è infatti fondata direttamente sul terreno, senza che vi siano strutture sottostanti.
L’asse maggiore (ca. m. 90) ha orientamento nord-sud; all’estremità nord vi doveva essere un accesso, corrispondente grosso modo a quello attuale della masseria; accanto a questo, inglobato nella masseria stessa, è conservato un ambiente in opera reticolata con volta a botte, probabilmente con funzioni di servizio. Un ingresso secondario doveva aprirsi all’incirca al centro del lato est del muro perimetrale esterno.
L’asse minore era lungo circa 70 metri: date le sue dimensioni ridotte, l’Anfiteatro Comuno poteva ospitare sulle sue gradinate fino a 7000 spettatori. Le gradinate furono realizzate in muratura direttamente sul terreno e divise in cunei dalla presenza di scale
La cavea doveva essere scavata nel terreno e sostenuta da struttura sottostante in muratura.Nella parte superiore della cavea era una galleria anulare, la cui facciata può ancora essere rintracciata. La parte nord-orientale della facciata, completamente cieca, era costituita da un muro al quale era demandata la sola funzione di contenimento, su questo lato del campo. Il terreno naturale in origine era in realtà più alto di tre metri sopra il livello della galleria. La parete di fronte è in buona parte crollata, ma le poche vestigia che ancora esistono lo descrivono costituito in opus incertum. Rimane praticamente l’opus caementicium corrispondente alle pareti interne composto da tufo giallo molto friabile e malta di calce e sabbia.
Nel II secolo d.C., l’anfiteatro di Cuma fu interessato da importanti lavori di restauro, dato che l’età cominciava a farsi sentire. Furono realizzati due ampliamenti e furono aggiunti un anello esterno e un attico, nella forma di una galleria dotata di sedili in legno. Il tutto era poi coperto dal velarium, di cui, ancora oggi, ci sono le basi di fissaggio sul muro esterno. Fu poi aggiunto una sorta di criptoportico che agevolava l’accesso alle gradinate.
L’abbandono dell’edificio iniziò con le leggi relative alla proibizione dei giochi gladiatori (tra il 325 e il 428 d.C.) e, in modo definitivo, a seguito della guerra greco-gotica (VI secolo). Fu in questo periodo che iniziò la spoliazione dei rivestimenti e l’asportazione del materiale edilizio, mentre la galleria del II secolo d.C. fu utilizzata come area sepolcrale.
Nell’alto medioevo, nei pressi dell’Anfiteatro, ormai in disuso, furono impiantate delle fornaci che producevano ceramica “a bande larghe” (V-VIII sec. d.C.). Da questa zona provengono infatti diversi scarti di lavorazione, per lo più relativi a brocche, che attestano la produzione a Cuma di questa ceramica, utilizzata dalla comunità che risiedeva sull’acropoli.
Il monumento doveva essere almeno in parte emergente e visibile fin dagli inizi dell’800: è infatti rilevato dal De Jorio nella sua pianta di Cuma (1830) e a metà secolo fu oggetto di scavi. Oggi, tuttavia, l’anfiteatro di Cuma è ancora in gran parte inesplorato: si vedono solo l’ingresso meridionale, parte dell’arena e delle gradinate della cavea, e il muro perimetrale. Ad occupare il suo territorio, un frutteto privato organizzato su terrazzamenti che presenta ancora integre parte delle arcate della summa cavea.
I resti dell’anfiteatro di Cuma ricadono nel Comune di Bacoli ed è normalmente chiuso ma si organizzano visite su richiesta.
December 3, 2020
Materia oscura e gravità modificata
Applicando la buona vecchia legge di gravitazione universale di Newton alle Galassie, si ottiene un risultato assia banale: la velocità di rotazione delle stelle attorno al Nucleo galattico deve decrescere all’aumentare della distanza, proprio come accade nel Sistema solare, dove Mercurio (il pianeta più vicino al Sole) orbita più velocemente di Plutone (il pianeta più lontano). Insomma, pure loro dovrebbero rispettare la seconda legge di Keplero.
Potete quindi immaginare l’espressione basita dell’astronomo Ernst Opik, quando nel 1915, facendo i suoi conti, si accorse come le cose non fossero così, ossia che le stelle poste alla periferia di una Galassia avessero la stessa velocità di rotazione di quelle più vicine al suo Nucleo; però, le sue osservazioni furono confutati, con l’argomento che questa presunta eccessiva velocità delle stelle periferiche le avrebbe portate ad allontanarsi dalla galassia e disperdersi nello spazio esterno. Dato che ciò non avviene, che le Galassie rimango compatte, i conti di Opik dovevano essere in qualche modo errati, frutto di imprecisioni sperimentali
La questione si ripropose però nel 1933, per merito dell’astronomo Fritz Zwicky, che stava studiando il moto di ammassi di galassie lontani e di grande massa, nella fattispecie l’ammasso della Chioma e quello della Vergine. Zwicky stimò la massa di ogni galassia dell’ammasso basandosi sulla sua luminosità e sommò tutte le masse galattiche per ottenere la massa totale dell’ammasso. Ottenne poi una seconda stima indipendente della massa totale, basata sulla misura della dispersione delle velocità individuali delle galassie nell’ammasso; questa seconda stima di massa dinamica era 400 volte più grande della stima basata sulla luce delle galassie.
Ora, sia per la stranezza del risultato, sia per il caratteraccio di Zwicky, che in pratica aveva litigato con il resto del mondo scientifico, anche questo studio fu messo da parte, benché nello stesso periodo, Jan Oort e Horace Babcock osservarono, rispettivamente, la dinamica della materia luminosa della Via Lattea e di Andromeda, riportando in entrambi i casi delle discrepanze tra i valori di velocità attesi e quelli misurati sperimentalmente in base alla quantità di materia luminosa presente nelle due galassie, confermando i risultati di Opik.
Nel frattempo, però, si stava sviluppando la radioastronomia: negli anni ’60 due astrofisiche Louise Volders (olandese) e Vera Rubin (americana) misurarono con precisione la velocità di rotazione di numerose stelle di due galassie a noi vicine (M33 Triangolo e M31 Andromeda). I loro dati, confermarono quanto calcolto da Opik, di Oort e Babcock; osservazioni confermate ulteriormente negli anni successivi, tanto che, negli anni Settanta, la questione non poteva essere più elusa. Insomma, bisognava capire sia perchè queste benedette stelle andassero così veloci e sia perché non di disperdessero.
Per rispondere ad entrambe le domande furono formulate due spiegazioni alternative. La prima, accettata dalla maggioranza dei fisici e degli astronomi, è quella della “materia oscura”. Nelle galassie, oltre alla materia ordinaria, quella dei pianeti e delle stelle, fatta da barioni, è presente, in quantità assai maggiore, anche una di altro tipo, che ha una stranissima proprietà: è invisibile alla radiazione elettromagnetica.
La materia oscura è necessaria anche per spiegare la crescita delle strutture cosmiche, in particolare le piccole “anisotropie” in temperatura (ovvero differenze nella temperatura misurata nelle diverse direzioni) della radiazione cosmica di fondo alle microonde dalle quali si deduce che, in media, la materia oscura è circa 5 volte più abbondante della materia ordinaria. Inoltre, questa tipologia di materia non si concentra nel nucleo, ma si distribuisce al di fuori dei bracci della Spirale, per citare Asimov
La seconda spiegazione, assai minoritaria, ipotizza, con diverse sfumature, che la forza di gravità funzioni in modo diverso in diverse zone della galassia, essendo più intensa di quanto previsto da Newton e Einstein nelle regioni dove la gravità sarebbe, in linea di principio, molto debole.
In pratica, quando le accelerazioni in gioco sono maggiori di una soglia g0 la gravità newtoniana rimane valida; per accelerazioni minori, la gravità decresce come l’inverso della distanza (1/r), invece che come l’inverso del quadrato della distanza (1/r2).
Ora, dal punto di vista empirico, indizi sull’esistenza della materia oscura ce ne sono a iosa come ad esempio l’effetto lente gravitazionale e le osservazioni relative all’emissione di raggi dagli ammassi, che sono compatibili con la presenza di massa aggiuntiva o sullo scontro tra galassie. In particolare queste ultime mostrano come materia ordinaria (vista ai raggi X) ed oscura (identificata tramite l’effetto di lente gravitazionale) si comportino come due fluidi diversi – e vadano a trovarsi in punti diversi in virtù delle loro differenti interazioni.
Tuttavia, tale spiegazione deve confrontarsi con due grossi scogli: il primo è che la materia oscura non è prevista dal modello standard, il secondo è che non abbiamo la più pallida idea di cosa sia costituita. Tutte le ipotesi fatte sino ad ora si sono rivelate infondate.
Ancora più complicata da sostenere è l’ipotesi che della gravità variabile: per prima cosa, funziona bene solo per alcune tipologie di galassie. Per le altre, ha bisogno di una serie di aggiustamenti ad hoc, che violano il rasoio di Ockham. Inoltre, non è riproduce correttamente i moti delle galassie negli ammassi, a meno che non reintrodurre anche in questo caso la materia oscura… Il che ci riporta da capo a dodici…
December 2, 2020
La Tomba di Cecilia Metella
“V’è una severa torre di tempi passati, salda come una fortezza, con la sua difesa di pietra, di quelle che trattengono e frustrano la forza di un esercito, anche se rimangono soltanto con metà dei loro bastioni, e coperta con edera bimillenaria … Quale tesoro giace nel suo grembo, così rinchiuso, così nascosto? La tomba di una donna”.
Così lord George Byron nel IV canto del Pellegrinaggio del giovane Harold ricorda una dei monumenti più celebri dell’Appia Antica, costruito al suo III miglio, negli anni 30-20 a.C. in posizione dominante rispetto alla strada, proprio nel punto in cui si è arrestata la colata di lava leucitica risalente a circa 260.00 anni fa, espulsa dal complesso vulcanico dei Colli Albani.
Ovviamente, sto parlando della Tomba di Cecilia Metella, donna di cui, nonostante l’imponenza della sepoltura, sappiamo assai poco: le scarne informazioni sul suo conto le abbiamo ottenute proprio dall’iscrizione funeraria murata sulla parte alta del mausoleo:
“CAECILIAE Q(UINTI) CRETICI F(ILIAE) METELLAE CRASSI”
ovvero
“A Cecilia Metella, figlia di Quinto Cretico (e moglie) di Crasso”.
Per cui, Cecilia era figlia di Quinto Cecilio Metello, console nel 69 a.C., che tra il 68 e il 65 conquistò in maniera assai rocambolesca l’isola di Creta da cui gli derivò il soprannome Cretico; il marito era, con ogni probabilità, Marco Licinio Crasso distintosi al seguito di Cesare nella spedizione in Gallia e figlio del celebre Crasso, membro del primo triumvirato insieme a Cesare e Pompeo.
L’imponente tomba va pertanto interpretata sia come omaggio alla defunta che come una forma di celebrazione delle glorie, delle ricchezze e del prestigio della famiglia committente. Per questo costruirono un mausoleo costituito da una base quadrangolare alta m 7 che sorreggeva un corpo cilindrico dall’altezza di m 11 e dal diametro di m 29,50, pari a 100 piedi romani. Il cilindro era quasi sicuramente sormontato da un tetto a cono ancora esistente nell’XI sec., quando un atto designa il sepolcro come monumentum peczutum, ossia aguzzo.
Il muro esterno, costruito in opera a sacco, era rivestito di travertino; i lastroni di questo che ricoprivano la base furono divelti, mentre i blocchi che li sostenevano e che erano incuneati nel corpo della costruzione furono troncati con la mazza; ciò era già avvenuto poco dopo il 1000. Tutt’intorno alla parte superiore del corpo cilindrico corre un fregio in marmo pentelico con bucrani da cui pendono festoni (donde l’origine del toponimo “Capo di Bove”). Sopra l’iscrizione, incisa su una lastra marmorea dalla parte della via, è ancora in parte visibile una Vittoria che scrive su uno scudo; altri bassorilievi (freccia legata con arco cretese, prigioniero sotto clamide, insegne militari, ecc.) alludono alle vittorie di Metello o anche a quelle del marito di Cecilia, legato di Augusto in Mesia. Si può pensare che attorno alla sommità del cilindro si trovasse un giro di merli, da non confondere con quelli di origine medievale attualmente visibili. Alla camera sepolcrale conica, in opera laterizia coperta di stucco, si accede da un corridoio il cui ingresso è posto su un lato della costruzione e che era interrotto poco dopo la metà da una porta di cui è conservato l’architrave.
Tale camera è sovrastata da un oculus, un’aperura circolare, in modo che la luce solare, illuminando la tomba di Cecilia, ricordasse la sua apoteosi in cielo. Non è univoca la scelta della fonte di ispirazione per un monumento funebre circolare come il mausoleo di Cecilia Metella: secondo alcuni studiosi i mausolei ellenistici, secondo altri le tholos etrusche. In ogni caso è interessante appurare il clima di restaurazione antiquaria che esisteva nella Roma del tardo I secolo a.C., tanto che si contano diversi esempi di architetture simili oltre i confini di Roma (a Sepino, Falerii, Gubbio, Pompei, Sarsina,ecc.) per tutta l’epoca giulio-claudia.
Nel II secolo, la tomba divenne parte del Pago Tropio e probabilmente fu utilizzata come tomba dai membri della famiglia di Erode Attico: certo non di Anna Regilla, come pensavano alcuni eruditi del Settecento. Nel panegirico di Regilla scritto da Marcello di Side si dice infatti che «ad Atene è la sua tomba simile a un tempio», e in un’iscrizione che si trovava a Roma si affermava che «il corpo di Regilla è in Grecia e ora si trova accanto al marito».
Sappiamo che nel IX secolo il monumento fosse di proprietà della Chiesa, anche se dovette divenire presto oggetto delle mire di molte famiglie romane per la sua eccezionale posizione strategica. Una bolla di papa Gregorio VII (1073–1085) accenna a un certo Gregorius de Tuscolana (identificato con Gregorio III dei Conti di Tuscolo) quale possessore del palazzo di Massenzio e dei territori limitrofi; è lecito quindi supporre che la fortificazione del mausoleo e di questo tratto dell’Appia sia stata approntata proprio dai Conti di Tuscolo, al fine di poter controllare la via che conduceva ai loro possedimenti meridionali. L’insediamento ebbe tuttavia come ripercussione l’abbandono dell’Appia – divenuta teatro di vessazioni sotto forma di pesanti pedaggi da parte dei Conti di Tuscolo – a favore della vicina via Latina.
Con la decadenza della famiglia tuscolana non diminuì l’importanza del sito: alla fine del Duecento, Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), fece tutto quanto in suo potere per entrarne in possesso: in prima istanza abolì il divieto, imposto ai nobili romani da papa Martino IV (1281-1285), di acquistare terreni intorno alla città; poi fece in modo di riunificare le varie parcelle nelle mani Francesco Caetani, cardinale di S. Maria in Cosmedin nel 1299. Tutto il castrum fu costruito intorno al 1302; sappiamo infatti che il 12 maggio del 1302 una bolla pontificia concesse a Francesco i diritti sulla chiesa di San Nicola, eretta all’interno del complesso, di cui parlerò in un prossimo post.
Il mausoleo di Cecilia Metella venne trasformato in un vero e proprio mastio: sopraelevato con una muratura in peperino di circa 6,5 metri (a cui si addossa una stretta marciaronda), fu coronato da una teoria di merli a coda di rondine (il pinnacolo che svetta in alto sopra i merli è invece moderno: si tratta di un caposaldo trigonometrico del sec. XIX). Su uno dei fianchi fu poi appoggiato il palatium, un’ampia costruzione su tre piani, in stile nordeuropeo, come testimoniato dalle bifore rimaste, costituito da due ambienti principali, rispettivamente di 112 e 105 mq e da uno spazio loggiato, sovrastato da un archivolto, di circa 80 mq. Invece la torretta, annessa al corpo principale del palazzo, copriva un’area interna di circa 18 mq. Il palazzo, come dimostrano le finestrature e le tracce di solai, si articolava su ben tre piani sovrapposti, con locali affrescati e dotati di ampi camini e una superficie calpestabile molto superiore ai 1.000 mq.
Palatium e Mausoleo, a loro volta, facevano parte del Castrum Caetani, di quasi due ettari di estensione, cinto da mura e protetto da 19 torri rettangolari, munite di piccole finestre e coronate da una merlatura a coda di rondine. Il muro era prevalentemente in tufelli, e misura circa 100 metri sui lati corti e circa 240 sui lati lunghi. All’esterno, in corrispondenza delle merlature ghibelline vi erano anelli in pietra, probabili alloggiamenti per sportelloni mobili a sostegno della difesa dall’alto. Il Castrum non ha mai avuto un fossato, perché la sua elevata situazione non lo rendeva necessario. La strada, che taglia a in due parti tutto il recinto fortificato, dal lato di Roma penetrava nel recinto stesso per mezzo di un grande arco, in laterizio, di cui rimangono ancora sul lato destro lo stipite e il principio dell’imposta, ancora interamente visibile nelle stampe del XVI –XVIII secolo. Nella corte del Castrum sorse poi un villaggio agricolo
La morte di Bonifacio VIII del 1303 tolse ai Caetani la base stessa della loro potenza. Già pochi anni dopo la morte del papa, i Savelli occuparono il castello, che divenne un loro importante baluardo; date le somiglianze tra la Rocca Savella sull’Aventino e il Castrum e le tempistiche, non è da escludere che il complesso sia stato terminato da loro
Anche il dominio dei Savelli non fu però né lungo né tranquillo: nel 1312, Giovanni Savelli si schierò contro l’imperatore Enrico VII a fianco di papa Clemente V. La scelta del Savelli costò cara al Castello: l’imperatore fece prendere d’assalto Capo di Bove e il piccolo borgo fu dato alle fiamme; poi la ritorsione imperiale si rivolse anche verso la rocca sull’Aventino, dove i palazzi dei Savelli furono rasi al suolo.
La morte di Enrico VII (1313) scatenò una vera e propria guerra per il possesso del castello che alla fine, per ironia della sorte, passò in mano ai Colonna, i più fieri avversari dei Caetani. All’inizio del XV secolo troviamo gli Orsini come proprietari, anche se il fortilizio di Capo di Bove sembra da questo momento utilizzato soprattutto come luogo di accampamento per le truppe in marcia verso Roma. La famiglia tenne il castello sino al 1435, dopodiché divenne proprietà del Senato Romano, il quale se ne curò ben poco, tanto che il luogo divenne per generazioni il covo di feroci briganti.
Un periodo tranquillo vi fu sotto Paolo III, che però ne approfittò biecamente per depredare parte del del rivestimento, utilizzato come materiale di costruzione per San Pietro. Sisto V, come suo solito, decise di risolvere in modo radicale il problema dei briganti, suggerendo al Senato Romano di demolire tutto il complesso.
Così il 30 gennaio 1588 fu concessa così la seguente licenza di demolizione
” Licentia elfodiendi prò DD. Hieronimo leni et Baptista Mutino: nobilibus viris Diìis Hieronimo leni et Baptiste Mutino Nobilibus Romaiiis De mandat Tenore piìtiuni Vobis ut in predijs et possionibus vestris Casalis Cupo.Volumus antera duo H°. Boario Comm denuntiare”
La notizia però giunse alle orecchie del popolino, che stranamente, non gradì la decisione, scatenando un’inaspettata e dura protesta: per cui, il Comune dovette mutare decisione, tanto il primo Conservatore Paolo Lancellotti si vide costretto a fare la seguente dichiarazione:
ll. Sig.ri si debbono ricordare che nell’ultimo consiglio segreto erroneamente e senza haver notitia delle lettere apostoliche di Pio papa II e senza ricordanza delli Statuti de antiquis aedificiis non diruendis et senza haver parimenti notitia del Decreto del Popolo per li quali ne prohibivano che non solo non potevamo dar licenza et consenso a Giovambattista Mottino, Girolamo Leni et fratelli di spogliar la sepultura di Cecilia Metella detta volgarmente il Torron di Capo di Bove, ma sotto pene gravissime et dell’escomunica ancora eravamo obligati a farla manutenere et conservare, et ancora che havessemo havuto tal faculta non potevamo parimente parlarne ne proporla alle SS. VV. se prima non veniva o bolla o breve derogatorio del detto motuproprio di Pio et alli Statuti nostri.
Solo la dipartita di Sisto V salvò Paolo Lancellotti da un pessimo quarto d’ora… Urbano VIII, a riprova che dietro alla Pasquinata
Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini
vi fosse un fondo di verità dette al Bernini un permesso scritto per demolire
“…un monumento antico, di forma rotonda, di circonferenza grandissima e di bellissimo marmo presso S.Sebastiano, detto Capo di Bove…”,
vale a dire proprio la tomba di Cecilia Metella, per realizzare una sua idea relativa alla ricostruzione della vecchia Fontana di Trevi, ma anche questa il popolo romano protestò talmente tanto che i due compari dovettero ritornare sui loro passi
Nel 1797 le cinque tenute dello Statuario, Arco di Travertino, Capo di Bove, Sette Bassi e Torre Spaccata, poi denominate complessivamente Roma vecchia (corrispondenti a complessive 607 rubbia – pari a circa 1092 ettari) furono vendute a Giovanni Torlonia per il prezzo di scudi 93.795.
Da quel momento in poi, la tomba di Cecilia Metella fu al centro del progetto di riqualificazione dell’Appia Antica, voluto dai papi della prima metà dell’Ottocento. Il traffico fu dirottato sulla via Appia Nuova che già esisteva nel ‘500. Le tombe furono state scavate, ripulite e i blocchi risistemati. Ci fu un grande impegno per espropriare la strada con i marciapiedi, per scavare i monumenti, restaurarli e renderli godibili al pubblico destinando la via a luogo di diletto, di passeggiate e di studio come facciamo anche noi ai nostri giorni.
Il principale protagonista della creazione di questo museo a cielo aperto fu il piemontese Luigi Canina, nato a Casale Monferrato il 23 ottobre 1795. Tra il 1851 e il 1855, si occupò di espropriare l’area, ripulire e restaurare i monumenti ai lati della strada, tra cui la Tomba di Cecilia Metella e il Castrum Caetani.
December 1, 2020
La Supersimmetria e l’elettrone
Un mio amico fisico, noto per la sua linguaccia, ha la strana abitudine di paragonare il modello standard, la teoria fisica che descrive tre delle quattro interazioni fondamentali note, le interazioni forte, elettromagnetica e debole, e le relative particelle elementari, al modello cosmologico tolemaico. Funziona bene, è molto accurato nelle previsioni, ma non è detto che sia quello reale.
Per prima cosa è eccessivamente complicato. Seconda, non riusciamo a infilarci, neppure a forza, la gravità. Terza, secondo lui, il neutrino non avrebbe massa; in realtà, ce ne ha poca, ma ce l’ha. Infine, non spiega l’esistenza né della materia oscura, nè dell’energia oscura.
Per risolvere queste incongruenza, i fisici, da decenni, stanno, sempre per utilizzare la metafora del mio amico, infilando epicicli a destra e manca: ossia, stanno ulteriormente complicando il modello standard, aggiungendoci ulteriori ipotesi ad hoc.
La più nota tra queste è la supersimmetria, che ipotizza l’esistenza di una simmetria tra le due grandi famiglie in cui si dividono le particelle elementari, i fermioni e i bosoni. I fermioni sono i costituenti elementari della materia – quark (che formano i neutroni e i protoni), elettroni e neutrini – ed è caratterizzata dal fatto che tutte le particelle hanno una particolare grandezza, lo spin, che può assumere solo un valore frazionario.
I bosoni sono invece le particelle associate alle forze fondamentali, i fotoni (per l’elettromagnetismo), i gluoni (per la forza nucleare forte), i bosoni W e Z (per la forza nucleare debole) e i fantomatici gravitoni (per la gravità), il cui spin è un numero intero.
I fermioni e i bosoni sono come broccoli e noci di cocco: non sembrano avere nulla in comune. I fisici però non si sono mai rassegnati a ciò, ipotizzando come tra le due famiglie esistesse una sorta di parentela.
La supersimmetria afferma proprio questo: fermioni e bosoni possiedono dei “gemelli” simmetrici, con identiche proprietà. L’unica differenza è nello spin: per i fermioni i gemelli avrebbero spin intero, mentre i gemelli dei bosoni lo avrebbero frazionario. Di conseguenza, oltre alle normale particelle, già strane di suo, avremmo squark, selettroni e sneutrini, per i fermioni, fotini, gluini, wini, zini per i fermioni. Insomma, avremmo un casino colossale, peggiorato ulteriormente ahimè da un piccolo, trascurabile problema. Di questi “gemelli diversi” delle particelle ordinarie, non se ne è mai trovata traccia in giro per l’Universo.
Dove diavolo sono finite? Semplice, risponde il fisico teorico: la simmetria, proprio non perfetta è, er è stata “rotta”: i “gemelli diversi” hanno le stesse proprietà delle particelle ordinarie, ma massa diversa, nello specifico qualche centinaio di volte la massa del protone, cosa che le rende molto difficile da individuare.
Prima di uscirvene con un
“Ma la stai a buttà ‘n caciara”
vi evidenzio come la supersimmetria però, permetterebbe di risolvere tutti i buona parte dei problemi del modello standard. Per prima cosa, la materia oscura potrebbe essere costituita da questi benedetti “gemelli diversi”. Poi, è uno dei pilastri su cui si basa la teoria stringhe, la principale proposta della fisica teorica per unire i due grandi paradigmi, la meccanica quantistica e la relatività generale, ossia per ottenere una versione “quantizzata” della forza gravitazionale, che invece sembra irriducibile alla meccanica quantistica. La teoria delle stringhe si fonda sull’idea che tutte le particelle fondamentali siano semplicemente l’espressione di modi di vibrazione di stringhe (corde) unidimensionali.
Questa teoria, che è di un’eleganza matematica straordinaria,funziona solo se si accetta l’ipotesi della simmetria tra le due famiglie di particelle: inizialmente, infatti, la teoria delle stringhe si applicava solo ai bosoni, creando un evidente problema, dal momento che la teoria non può funzionare se i bosoni sono stringhe e i fermioni sono particelle. Invece, con la supersimmetria, che riduce broccoli e noci di cocco a forme particolari di mele, la teoria delle stringhe funziona bene.
Per cui, la ricerca delle particelle supersimmetriche è diventata una delle tante ricerche del santo graal della fisica moderna. Ma come facciamo a farle saltare fuori? Il primo approccio a forza bruta. In maniera alquanto rozza, ricordiamoci della famosa equazione di zio Albert E=Mc2: di conseguenza, M=E/c2.
Insomma, per ottenere una particella con tanta massa devo impiegare uno sproposito di energia, il che nel concreto si traduce in accelleratori di particelle grandi e grossi e tanti soldi spesi. Il che è un problema, perchè, purtroppo le risorse non infinite. Anche perché il buon LHC, l’acceleratore di particelle situato presso il CERN di Ginevra, le energie inizialmente stimate affinchè saltassero fuori i “gemelli diversi” le ha raggiunge, senza trovare nulla. Per questo, se esistono, devono essere più pesanti del previsto e ahimè, assai più costosi da trovare.
Ovvimente, esiste anche un approccio un poco più furbo: se questi “gemelli diversi” esistono, dovranno in qualche modo interagire con le altre particelle. In fondo, per trovare un cinghiale, è più intelligente scoprire le sue tracce, piuttosto che sedersi su un sentiero e aspettare che passi.
E in questa ricerca ci viene in aiuto il buon vecchio elettrone. Le particelle supersimmetriche interagirebbero con questo, modificandone la distribuzione della sua carica elettrica: per tornare biecamente a Fisica 2, questa non sarebbe più uniforme in un volume sferico, ma distribuendosi agli estremi, generebbe un dipolo elettrico, una sorta di fuso.
Bellissima intuizione, degna di Pico de Paperis, ma nel concreto, come si fa capire se un elettrone somiglia a un pallone da calcio o a uno da rugby ? Facendolo ruotare sul proprio asse: se è tondo, non lo fa senza problemi, se invece è ovale, oscilla. Ovviamente, dal punto di vista tecnico, far ruotare un elettrone e valutare la sua polarizzazione, la direzione la direzione lungo cui oscilla il campo elettrico, non è proprio la cosa più semplice di questo mondo, ma oggi si può fare con una precisione straordinaria.
E ahimé per i sostenitori della supersimmetria, l’elettrone è perfettamente sferico: per cui o i “gemelli diversi” hanno particolare antipatia per loro parentado normale, capita anche nelle migliori famiglie, oppure non esistono.
Per cui, la supersimmetria è da mettere da parte e la teoria delle stringhe ha qualche grosso problema…
November 30, 2020
Parlando de “L’oro di Napoli” con Donato Altomare
Come citato in un altro post, la casa editrice Delos ha appena lanciato la collana di narrativa Ucronica, dedicata alla Storia Alternativa. Per inaugurarla, con un’opera di prestigio e di valore, è stata scelta la novellette L’Oro di Napoli scritta da uno dei più importanti scrittori della Fantascienza italiana, Donato Altomare.
Per i pochi che non lo conoscessero, Donato ha vinto due volte il premio Urania, nel 2001 con il romanzo Mater Maxima, e nel 2008 con il romanzo Il dono di Svet, cinque volte il premio Italia una volta il Premio della critica Ernesto Vegetti.
Approfittando della sua gentilezza e disponibilità, ho colto l’occasione per farci raccontare sia il suo rapporto con l’Ucronia, sia approfondire le tematiche della sua novella.
Buongiorno Donato, come descriveresti a un lettore casuale, con vaghe idee su cosa sia l’Ucronia, la tua novellette L’oro di Napoli?
L’Ucronia è un sogno. Quante volte ci siamo chiesti, nel nostro piccolo, come sarebbe stata la nostra vita se certe vicende avessero preso una strada diversa? Quante volte siamo tornati indietro con la mente a quell’incontro o a quel comportamento o a quell’abbandono? Non ditemi che non avete mai provato a immaginare cosa sarebbe successo se non aveste lasciato quel ragazzo/quella ragazza, o se aveste deciso per un’altra facoltà o lavoro, oppure se quel fatidico giorno che ha segnato la vostra vita fosse andato diversamente? Ecco, questo direi a un lettore per spiegargli cosa intendo io per Ucronia. Aggiungerei però che le mie storie affrontano problemi certo più grandi dal punto di vista storico. Se l’Ucronia è creata sul mio personale passato, solo chi mi conosce a fondo potrebbe apprezzarla, per cui bisogna immaginare un evento ‘mutato’ di un momento storico (ma anche economico, scientifico, ecc.) di rilievo, insomma, qualcosa che quasi tutti conoscono. Come sarebbe oggi la realtà se i tedeschi avessero vinto la guerra? Argomento più volte trattato anche da grandi autori (Dick, Spinrad, ecc.). O se Napoleone fosse riuscito a riorganizzare il suo esercito una volta fuggito dall’isola d’Elba? O se semplicemente il radar non fosse stato inventato durante la guerra? È un divertimento che però abbisogna di solide basi di conoscenza.
Perché la scelta di trattare le vicende del Risorgimento, argomento che a scuola è spesso trascurato o insegnato male, con i protagonisti, che, a seconda delle mode, sono santificati e demonizzati?
Come ben si sa, la storia la scrivono i vincitori. Credo che sia un bene che a scuola si trascuri, o si insegni male, l’Unità d’Italia in quanto nei testi ‘ufficiali’ la verità viene accuratamente nascosta dietro immagini falsamente eroiche. L’incontro a Teano tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi, immortalato in ogni occasione, dai quadri ai francobolli, non avvenne proprio come ce lo descrivono. Fonti autorevoli ci dicono (ma questo ce lo racconta anche velatamente la storia ufficiale) che Garibaldi non piacesse per nulla al Sovrano e che a Teano ci fu un rapido saluto (secondo alcuni neanche questo) e Vittorio Emanuele II non volle neanche pranzare con Garibaldi. Ovviamente la storia ufficiale ha mutato quel gesto scrivendo che Garibaldi preferì mangiare con i suoi uomini piuttosto che col Re, ammantando quel gesto di umile grandezza, che Garibaldi certo non possedeva.
Che ne pensi dei revisionisti neo borbonici?
Domanda inquietante. Penso che è ormai troppo tardi, qualcosa bisognava farla subito dopo l’Unità d’Italia, non per disunirla, ma per migliorare la situazione del Sud che, da potenza a livello mondiale per economia, produzione e Illuminismo, si è trovato a essere ridotta alla stregua dei paesi del Terzo Mondo. Depredato, saccheggiato, sottoposto a balzelli pesantissimi, il Sud ancora oggi non riesce a risollevarsi. Chi non mi crede vada a leggere un po’ di storia vera e non quella “inventata”. Negli anni seguenti l’Unità d’Italia ci fu un tentativo di ritorno dei Borboni, organizzando i briganti, molti dei quali erano stati soldati borbonici “gettati sul lastrico” dal neonato Regno d’Italia, ma non sortì alcun effetto. No, sul versante neo borbonico, non penso oggi si possa fare qualcosa.
Io vado oltre, e penso invece che si deve modificare la geopolitica italiana e la nostra Nazione debba diventare una sorta di Stati Uniti Italiani. Oggi, col problema della pandemia, stiamo vedendo che ogni giorno nascono contrasti tra le regioni e il Governo Centrale. Contrasti dovuti a l’eterno problema: le realtà delle regioni sono così dissimili tra loro che pensare di unificarle in un qualsiasi provvedimento è, al minimo, ottimistico. Bisognerebbe dare alle regioni maggiore autonomia e fare in modo che ciascuna si faccia carico del proprio futuro. Perché ciò che può essere giusto per il Piemonte, potrebbe non esserlo per la Calabria e viceversa. Ovviamente sono due regioni prese a caso.
Secondo il tuo parere, dato che in una carriera letteraria ricca di successi e di soddisfazioni, ha spaziato in tutti i generi letterari del fantastico e della fantascienza, quali sono le peculiarità e le difficoltà nello scrivere un’Ucronia? È più importante il realismo o il desiderio di spiazzare e divertire il lettore?
Io ho grande rispetto del lettore. Dico sempre che gli scrittori sarebbero inutili se non ci fossero i lettori. Questa affermazione va ben oltre la sua apparente banalità, porta a chiederci cos’è più importante in una storia. La risposta è facile: l’abilità della scrittura è sempre nel giusto equilibrio. Non si può fare a meno del realismo, perché altrimenti invece che di Ucronia si dovrebbe parlare di fantastico in generale, ma, al contempo, bisogna sorprendere il lettore con una buona dose di originalità per “costringerlo” a non abbandonare la lettura, a staccarsi dal libro col desiderio di riprenderlo al più presto e di “vedere come va a finire”. Credimi, non è affatto facile. Spesso mi mandano romanzi o racconti da leggere. Io leggo tutto, con i miei tempi perché faccio mille cose, e ogni volta cerco di spiegare dove sono gli squilibri nella narrazione, cosa manca e cosa è di troppo. E lo faccio non come scrittore, ma come lettore onnivoro.
Che consigli daresti a un esordiente che volesse dedicarsi a questo genere letterario?
È indispensabile studiare l’evento. Poi studiare e studiare ancora. Bisogna conoscere a menadito ogni aspetto dell’evento che ci interessa perché, se lo vogliamo mutare, non possiamo non conoscere bene quello che è realmente avvenuto. Si pensa che scrivere una storia alternativa è semplice, basta dire il contrario di quello che è accaduto. Non è così, perché in un evento storico ci sono troppi elementi in gioco. Ne L’oro di Napoli, non ci sono soltanto Vittorio Emanuele II e Francesco II, ma ci sono altre figure, da quelle gigantesche, come Maria Sofia di Baviera a quelle assolutamente modeste, come l’operaio incaricato di riparare il Banco di Napoli. Entrambe sono determinanti a riprova che per mutare la storia non è necessario essere un re, ma basta anche un umile operaio. Un lettore ha commentato questa mie novellette dicendo che si tratta di un semplice divertissement, niente di particolare se non un modo per far trascorrere al lettore qualche minuto di spensieratezza. Probabilmente ho toccato tasti a lui fastidiosi, non ha neanche la minima idea di quanto ho dovuto studiare per scrivere l’Oro di Napoli, quel ch’è veramente accaduto, intendo, ma, nel suo commento, un po’ saccente, ha detto una cosa giusta: non voglio fare lezioni di storia a nessuno, ma dare una lettura piacevole e giustamente colta, perché alla fine il lettore dev’essere soddisfatto.
L’Ucronia è solo un gioco intellettuale o aiuta a comprendere meglio il nostro Presente?
L’Ucronia è un gioco intellettuale che parte proprio dal nostro Presente. Noi conosciamo la realtà che ci circonda, sia quella che ci riguarda direttamente, sia quella che ci interessa della macro-storia. Quando, alla fine della lettura di una Ucronia, ci guardiamo nuovamente intorno, vediamo ciò che ci circonda con occhi diversi e pensiamo che nel nostro prossimo futuro, e non certo nel passato, possiamo determinare gli eventi. Basta riflettere bene e non farsi trascinare da imbonitori o falsi profeti. Non si tratta di comprendere meglio il presente, ma di immaginare meglio il futuro e cercare di dare del nostro meglio in ogni occasione. L’Ucronia è un ‘grillo parlante’ che ci rammenta come, anche il gesto più semplice che facciamo, può avere importanti ripercussioni nel nostro futuro, per cui pensiamo ci bene e, come ho detto spesso a mio figlio: ‘usa il cervello, non la pancia’.
In futuro, scriverai nuove Ucronie? Quali periodi storici affronterai?
Ne ho scritte tante e continuerò certo a farlo. Il primo ‘tentativo’ è un racconto: “Centro ristrutturazione temporale” che si trova anche su Delos. Una storia un po’ ingenua, ma che è prodromica alle altre. Qui ho fatto l’operazione contraria: la storia ‘vera’ è un’altra, ma accade qualcosa che la sconvolge, trasformandola in quella che è oggi la nostra realtà. Anche qui ho avuto bisogno di studiare la Prima Guerra Mondiale. La storia alternativa più importante è il Premio Urania del 2008, il mio secondo Premio Urania, “Il dono di Svet”. Sono partito dai 13 giorni del 1962 nei quali, a causa delle crisi di Cuba, siamo stati a un pelo dalla terza guerra mondiale. Il sommergibile con testate nucleari che scortava le navi russe con le parti dei missili da portare a Cuba aveva l’ordine, in caso di scontro, di lanciare i suoi ordigni. E fu lì lì per farlo, ma un ufficiale russo lo impedì e salvò il mondo. Io mi sono posto una semplice domanda: cosa sarebbe successo se il sottomarino russo avesse lanciato i suoi razzi con testate atomiche sugli USA? Ne è venuto fuori un romanzo a episodi di notevole complessità, ma leggibilissimo anche da parte di chi era digiuno di storia.
Ho scritto altri racconti del genere, e un altro apparirà nella stessa collana de L’Oro di Napoli. Si tratta de “La Trappola di Bardia”. Nel 1941 l’Italia era ben salda nell’Africa Settentrionale e gli inglesi, aggrappati allo stretto di Suez, erano preoccupatissimi di un eventuale assalto delle nostre truppe per cacciarli via dall’Egitto. Le guidava Italo Balbo, un pilota e stratega straordinario. Ma… la storia vera è amara. L’aereo di Italo Balbo fu abbattuto nei cieli di Tobruk da un incrociatore italiano che lo scambiò per un aereo nemico e lui morì col suo equipaggio. Il comando delle forze italiane in Africa Settentrionale passò a comandanti da operetta che portarono l’esercito all’annientamento per una serie di errori che l’ultimo dei soldati non avrebbe mai fatto. Io mi sono posto la domanda: Ma se Italo Balbo NON fosse stato ucciso? Tutto ciò che poi segue non è invenzione pura, ma si basa anche su siti storici e battaglie realmente avvenute. Un altro ‘divertimento’ che mi è costato mesi di faticosi studi.
Insomma, l’Ucronia, o la Storia Alternativa, vuole anche essere un ammonimento: la storia la facciamo noi, per cui cerchiamo di non subordinarla a noi stessi, ma di avere una prospettiva più ampia e ragionata, in modo che non si torni ogni tanto a pensare a cosa sarebbe stata la nostra vita se quel giorno avessimo deciso diversamente.
November 29, 2020
Akragas (Parte I)
Akragas, prego te o splendida la più bella tra le città dei mortali.
Così Pindaro, poeta ellenico e più grande esponente della lirica corale arcaica, cantava la magnificenza dell’antica Agrigento
Secondo le fonti antiche, come ad esempio Tucidite, la città fu fondata intorno al 582 a.C. da rodio-cretesi sotto la guida degli ecisti (fondatori) Aristonoo e Pystilo, provenienti da Gela.
La scelta nasceva da una serie di necessità sia politiche sia economiche di Gela: per prima cosa, limitare l’espansione di Selinunte.
Per cui i coloni decisero di fondare un avamposto sulle rive del fiume Akragas, al centro di un pianoro sulle delimitato dai fiumi Himeras e Halykos, a circa 4 Km dal mare. Poi, tale piana permetteva una ricca produzione agricola, specialmente cerealicola, di un territorio le cui estese pianure favorivano anche l’allevamento dei cavalli; entrambe le materie prime erano esportate in tutto il Mediterraneo, essendo tra le principali fonti di ricchezza della Sicilia greca.
Infine, la vicinanza con gli stanziamenti sicani e punici, che costituivano una croce e delizia della città: delizia, perché la sua prosperità era basata sui commerci con questi vicini, croce, perché, tutte le volte che Cartagine provava ad espandersi in Sicilia, Akragas si trovava in prima linea
Inizialmente soggetta a un regime oligarchico Akragas, nel 570 a.C. nella città prese il potere il tiranno Falaride. Così lo storico ottocentesco Charles Marie Wladimir Brunet de Presle racconta il suo colpo di stato
Falaride, se vuolsi dar fede alle lettere che portano il suo nome, era nativo d‘Astipalea, una delle isole Sporadi. Bandito da’ suoi concittadini andò a far soggiorno in Agrigento, dove s’impadronì del supremo potere. Secondo Poliano egli aveva cominciato ad esercitare dapprima il mestiere di pubblicano, cioè , appaltatore delle gabelle in quella città, ed aveva così fatto molto danaro. Avendo risoluto gli Agrigentini d’innalzare sul monte che domina la loro città un tempio a Giove, Falaride si offrì di assumere quest‘impresa. E poiché la sua ricchezza e la sua perizia negli affari pro mettevano molta sicurezza pel compimento dei lavori, la sua proposta venne bene accolta, e gli furono affidati i denari pubblici.
Egli comprò un gran numero di schiavi adatti al travaglio manovale, chiamò degli artigiani stranieri, e accumulò sul monte materiali d‘ogni specie. Un giorno ci fece pubblicare la promessa d’una ricompensa per chi avrebbe denunciato i nomi di coloro i quali, diceva egli, avevano rubato del ferro e delle pietre.
Avendo l‘ annunzio di questo furto destato la pubblica indignazione, egli ottenne il permesso di cingere il monte d’un muro destinato, in apparenza, ad impedire un altro simile attentato. Dopo aver preso queste precauzioni armò i suoi operai, e, profittando d’una festa di Cerere, piombò all’improvviso sopra i cittadini inermi, ne uccise un gran numero e stabili la tirannia in Agrigento
Tiranno, Falaride, che gode ancora oggi di pessima fama: il primo a parlarne male è proprio Pindaro, nella Prima Pitica
Non è distrutta di Creso ancor la bontà, la virtude;
ma Falari, cuore feroce, che ardeva le genti
nel tauro di bronzo, lo avvolge la fama odiosa:
né fra le mense le cetere
nelle canzoni dei giovani l’accolgono.
Brano in cui si cita una sua ehm geniale idea per mantenere l’ordine pubblico, il cosiddetto toro di Falaride. Il progetto di tale accrocco è attribuita a Perillo di Atene, un fonditore di ottone, che realizzò la riproduzione di un toro metallico, vuoto all’interno e con una porta sul fianco. La vittima veniva rinchiusa dentro e un fuoco veniva acceso sotto di esso, riscaldando il metallo fino ad arroventarlo: così la vittima all’interno arrostiva lentamente fino alla morte. Per far sì che niente di indecoroso potesse rovinare il diletto dell’osservatore, il toro era costruito in modo tale che il suo fumo si levasse in profumate nuvole di incenso. La testa era dotata di un complesso sistema di tubi e fermi, che convertivano le urla dei prigionieri in suoni simili a quelli emessi da un toro infuriato. Si narra anche che una volta riaperto lo strumento di morte, le ossa riarse delle vittime brillassero come gioielli e venissero trasformate in braccialetti.
Falaride lodò l’invenzione e ordinò che essa venisse provata dallo stesso Perillo. Quando Perillo entrò, venne immediatamente chiuso dentro e venne acceso il fuoco e così Falaride poté udire il suono delle sue grida. Prima che Perillo ne morisse, Falaride fece aprire la porta e lo tirò fuori. Perillo credeva di essere ricompensato per la sua invenzione, e invece, dopo averlo liberato dal toro, Falaride lo fece gettare dalla cima di una rupe. Altra leggenda su Falaride lo dipinge come cannibale, che gradiva nutrirsi con le carni di neonato… Insomma, un precursore del comunismo bolscevico.
In realtà, il tiranno era senza dubbio un uomo spietato e intelligente, che prese il potere sfruttando le divisioni dell’Agrigento dell’epoca: a differenza di Atene, queste non era di tipo economico, ma etnico. Cretesi e rodii passavano infatti il tempo a disprezzarsi a vicenda e Falaride, anche con mano pesante, evitò che tali dissapori si tramutassero in una perenne guerra civile.
Oltre che con il bastone, Falaride tenne buoni i suoi concittadini con la carota: da una parte, con la ridistribuzione keynesiana della ricchezza, grazie alle grandi opere pubbliche da lui promosse, dall’altra con una politica espansionistica, che ribaltava le tensioni interne sull’esterno.
Politica che aveva due obiettivi: il primo è la completa indipendenza di Akragas da Gela, il secondo sottrarre più territori agricoli possibile ai Sicani. Più dubbio, ma possibile, l’intento di espandersi ai danni di Imera. Falaride venne comunque destituito da una congiura nel 554 a.C. in cui fu eliminato assieme alla madre e ai philoi.
Cosi come abbiamo lasciato raccontare a Charles Marie Wladimir Brunet de Presle la sua ascesa, ora gli lasciamo la parola riguardo alla caduta di Falaride.
Secondo Tzetzes, che forse segue Diodoro , Falaride avendo un giorno veduto uno sparviero che inseguiva uno stormo di colombe, disse: « Guardate che fa la pochezza d’animo; se un solo di quegli uccelli avesse cuore di resistere, essi potrebbero trionfare dello sparviero che li perseguita. Un vecchio, profittando tosto del consiglio, ghermì una pietra e la scagliò contro il tiranno, che cadde sotto i colpi della moltitudine. Taluni autori han detto che il suo supplizio fu prolungato, e che insieme con lui fecero morire sua madre ed i suoi amici. Gli Agrigentini, in odio della memoria di Falaride, proibirono l’uso dei mantelli turchini, perchè quelli delle sue guardie
Il motivo di tale improvvisa caduta, è lo stesso del suo successo: in quegli anni ad Akragas si vi trasferì Telemaco da Samo con una colonia di Tebani, i quali fecero di fatto saltare il fragile equilibrio etnico su cui si basava il potere di Falaride.
Eliminato il tiranno, i capi fazione cretesi, rodii e tebani, invece di tornare a scannarsi tra loro, decisero di trovare un compromesso analogo a quello libanese, per la spartizione delle cariche del regime oligarchico secondo la provenienza etnica. Regime, di cui conosciamo il nome di alcuni esimneti,Alcamene e Alcandro, primi inter pares, che garantì un periodo di tranquillità alla città…
November 28, 2020
Santa Maria della Catena
La mia passeggiata palermitana di oggi è dedicato al capolavoro di un grande architetto, noto più all’estero che in Italia: Santa Maria della Catena alla Cala, frutto del genio di Matteo Carnilivari, forse sorta sul luogo di un’antica chiesa normanna. La infatti un privilegio concesso da Federico III di Sicilia nel 1330.
Il nome di tale chiesa deriva assai banalmente dell’estremità della catena che chiudeva il porto della Cala, per impedire improvvisi raid nemici; l’altra era posta sulle mura di Castello a Mare. Nel 1392, ai tempi di Martino I, il luogo entrò all’improvviso nel cuore dei palermitani, grazie al leggendario miracolo della Vergine, che fece sciogliere al sole le catene di alcuni prigionieri condannati ingiustamente. Miracolo così raccontato, nel suo stile tipicamente barocco, dal buon Mongitore
Regnando in Sicilia il Re Martino, furono tre infelici giovani condennati a morir sulle forche: e per eseguirsene la sentenza già eran condotti al patibolo, circondati dalla turba de’ Ministri della Giustizia.
Eran già vicini alla gran piazza della marina, in cui dovean fare di loro stessi tragica scena a’ riguardanti concorsi, quando la Vergine, riguardando con occhi di pietà quegli sventurati; o ne fosse cagione la loro innocenza, ingiustamente di non commesso delitto incolpata, o il fervore delle preghiere, che commosse la clemenza della Gran Madre a protegerli, fece, che in un momento ricopertosi di folte nebbie il Cielo, si scaricasse un’improvvisa tempesta.
Alla pioggia dirotta, al vento, che soffiava terribile, allo spesso balenar dell’aere, ai tuoni, e folgori spaventevoli, che assordavano il tutto, ognun de’ Ministri, non solo non ebbe pensiero di proseguire il cammino, ma atterrito cercò il dove fuggire, per ripararsi dall’imminente pericolo.
Quindi tutti frettolosamente entrarono nella vicina Chiesetta dedicata alla Vergine, che dall’essere sul destro braccio dell’antico porto, avea allora il nome di S. Maria del Porto, e portaron seco i tre Condennati, che all’entrar della Chiesa concepirono viva speranza di scampare la morte; invocando in loro soccorso il potentissimo ajuto di Maria.
Non cessando però la tempesta, anzi vie più avanzandosi, non fu permesso a’ Ministri il partire in tutto il resto del giorno: onde furono astretti a restarsi la notte in quella Chiesa, e differire al seguente giorno l’esecuzione della sentenza.
Quindi per ben custodirsi i Rei si raddoppiaron le guardie, e s’accrebbero a gl’infelici grosse catene. Ma potean anche con maglie di diamante incepparli, poiché era in vano spesa la diligenza; e non ad altro giovevole la loro vigilanza nel fortemente legarli, che ad accrescere maggiormente il prodigio, che doveasi operare dalla Santissima Vergine.
Mentre dunque avanzata la notte le guardie intorno a’ condennati profondamente dormivano, gli afflittissimi Tre, così carichi di catene, com’erano, si strascinarono innanzi l’altare di Maria, ove una sua Immagine s’adorava, e con lagrime copiose, e preghiere, tratte dal più profondo del cuore, supplicarono la pietà della Gran Reina, a degnarsi di soccorrerli in quella estrema calamità, a conceder loro lo scioglimento delle catene, e in dono la vita.
Continuarono per buon tratto di tempo le ferventi preghiere, accompagnate da copiosissime lagrime i poveri Rei: onde il benignissimo cuore di Maria commosso a compassione, concesse loro la grazia; poiché nel mezzo della notte si sciolsero a tutti Tre le ligature, e gli caddero con maraviglia di sè stessi le catene d’intorno, senza che strepitassero alla caduta.
A questa maraviglia s’aggiunse altro portento, e fu, che si spalancò da sè stessa la porta della Chiesa; e parve loro che uscissero dalla Sacratissima Immagine queste parole. Partite alla libera; nè v’opprima alcun timore di morte: a mia intercessione già il mio divino Figliuolo, che porto in braccio, v’ha sciolto dalle catene, e v’ha concesso la vita.
Destati però all’aprir del giorno le guardie, vedendo nel pavimento le catene, e spalancata la porta della Chiesa, sopraffatti dal timore d’essere incolpati d’affettata trascuratezza nel custodire i delinquenti; e che averebbe ricaduto sul loro capo il gastigo preparato a’ condennati, uscirono sollecitamente da quel luogo per andare in traccia de’ fuggiti.
Nè fu difficile il trovarli; poichè ben presto l’ebbero nelle mani: ed ancorchè sentissero della loro bocca il miracolo operato dalla Gran Madre delle misericordie, nulladimeno rilegati furono condotti al Presidente. Innanzi di esso raccontarono francamente il ricevuto favore; e alla narrazione d’un tanto prodigio commossi quanti si trovaron presenti, apriron mille bocche a benedire la gran pietà di Maria.
Fu portata la notizia di questo avvenimento al Re Martino, e operò in sì fatta maniera il prodigioso racconto nel suo animo, che dichiarò d’un subito affatto liberi d’ogni pena i Tre condennati: giacchè erano stati aggraziati dalla Sovrana Imperatrice.
Indi si portò con la Reina Consorte per venerare l’effigie di Maria, operatrice di sì alti portenti: e con esso loro tutti gli abitatori di Palermo; avendosi divulgato da per tutto il caso maraviglioso. Molti infermi concorsero alla Chiesa della Vergine, tratti e dalla fama del miracolo, e dal desiderio della sanità; e quante furono varie le infermità, che esposero sotto gli occhi benigni della Vergine, così altrettanto varie furon le grazie, che abbondevolmente dispensò la Gran Signora a beneficio de’ suoi divoti.
Per questo gran miracolo perdè la Chiesa l’antico nome di S. Maria del Porto, e cominciò a chiamarsi della Madonna della Catena. In oltre in un Quadro, che oggi si vede collocato su la porta del sinistro lato della Chiesa, si delineò distintamente il miracolo
Il miracolo fece nascere la relativa confraternita, sia per incrementare la devozione alla Vergine, sia per gestire i proventi delle elemosine e delle donazioni dei fedeli: o perché queste non abbondavano o perchè i confrati erano in tutt’altre faccendo affaccendate, la chiesa non fu mai rimordernata. Le cose cambiarono a fine Quattrocento, quando, nella confraternita entrò lo smodatamente ricco Francesco Abatellis, il quale decise di pagare di tasca sua i lavori di ricostruzione della vecchia chiesa.
Per prima cosa, comprò una casa e un magazzino adiacenti alla vecchia chiesa, in modo che potessero essere demoliti, per fornire lo spazio alla nuova costruzione: poi ingaggiò un architetto che conosceva bene, Matteo Carnilivari, figlio illegittimo di un nobile di Noto, che aveva compiuto la sua formazione nel cantiere di Castel Nuovo a Napoli, sotto la guida di Napoli, sotto la guida di Guillem Sagrera.
Abatellis, qualche anno prima, in maniera assai rocambolesca, aveva commissionato a Matteo la costruzione del proprio palazzo: l’architetto aveva lasciato Palermo nel 1495 e si era trasferito a Cefalù, dove sino al 1499, era stato responsabile del restauro del Duomo. Dinanzi alla proposta del ricco panomormita, Matteo non si tirò indietro: avendo gli anni precedenti approfondito lo studio dell’architettura normanna, decise di stupire l’ambiente artistico locale, con un’operazione che oggi chiameremmo “postmoderna”: riscrivere un chiave gotica la Cappella Palatina,con una navata centrale ritmata da preziose colonne di spoglio, ma integralmente coperta da crociere reali; l’altezza del santuario (una porzione di fabbrica interpretabile come una hallenkirke), in relazione alla sezione dei sostegni, doveva apparire quasi proibitiva.
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Allontanandosi dai modelli locali, Matteo aveva persino fatto ricorso lungo la navata ad archi estremamente ribassati, collocati su alti soprassesti; la dimensione dell’arco, rispetto alla sezione del sostegno, è di 1:10 e arriva a 1:12 nel santuario. Si trattava di una sorta di implicita dichiarazione di pieno dominio sulle forze della struttura. Per molti versi la chiesa della Catena costituisce la superba risposta costruttiva di un maestro chiamato a confrontarsi con la tradizione siciliana.
Per un progettista del tempo l’unità di misura da sfidare era la colonna; la sua altezza e la sua sezione condizionavano l’intera costruzione. Quando si doveva fare ricorso a colonne di spoglio (e questo era il caso della Catena), la dimensione delle campate diventava pressoché obbligata; gli esempi di fabbriche secolari, una lunga tradizione e alcuni intuitivi calcoli geometrici consentivano di procedere nella costruzione senza particolari rischi.
Matteo, però invece di andare sul sicuro, adottando l’arco acuto o quello a tutto sesto, utilizzava un audacissimo arco policentrico, ispirato ai loggiati che aveva realizzato nei suoi due grandi palazzi palermitani, l’Abatellis o l’Aiutamicristo, che tuttavia reggevano un peso di gran lunga inferiore ed erano contravventati lateralmente da robuste fabbriche. Per alleggerire il carico statico che dovevano sopportare, li intervallò di traverso con archi ogivali
Lo stesso mix tra citazione del passato e sperimentazione strutturale si ritrova nella facciata e nel transetto; nella prima, Matteo reinterpreta a modo suo, con l’esuberanza degli archi con le nervature policrome, dalle fantasiose reinterpretazioni dei capitelli ionici e dagli apparati scultorei minori, dovuti ai Gagini, sia le logge dei mercanti dell’epoca, sia il loro archetipo, la facciata del duomo di Cefalù.
Nel transetto sopraelevato e bipartito Matteo citava le basiliche di età normanna, associandolo però alle costolonature sfaccettate delle volte a crociera, all’audace tiburio coperto da volta stellare e alle leggiadre le absidi coperte da volte ad ombrello: elementi che modulano la luminosità interna, accentuandone l’armonia strutturale.
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A questo Matteo associò una serrata correlazione tra interno ed esterno, grazie alle decoratissime bifore, con le tre navate sono coincidenti con i tre portali esterni e con la zona la zona absidale è caratterizzata da un complesso gioco di spazi a base ottagonale, coordinati dalla concezione unitaria.
Morto Matteo intorno al 1504, il cantiere fu affidato ad altri due grandi architetti, Antonio Belguardo e di Antonio Scaglione che rimasero fedeli al progetto originale. Nel 1581, Il Viceré di Sicilia Marcantonio Colonna, prolungando il Cassaro sino al mare, cambiò notevolmente la topologia della zona, creando un dislivello tra il piano stradale e la chiesa: per colmarlo, fu realizzata una prima scalinata a due rampe e una loggetta laterale al portico centrale.
Ulteriori modifiche furono introdotte dai teatini, i quali, da una parte costruirono il loro convento, che nel 1812 divenne ospedale e dal 1844 sede dell’Archivio di Stato, dall’altra cominciarono a “barocchizzare” l’interno; furono così dipinti una serie e fu commissionata ai Serpotta la decorazione a stucco.
Nel 1845 furono eseguiti i primi restauri: la scalinata assunse l’aspetto attuale e fu demolita la loggetta. Nella parte sinistra della chiesa subì un ripristino a opera del buon Giuseppe Patricolo, che, per una volta, non si fece prendere come suo solito la mano, inventandosi le cose dal nulla. Ben più importanti furono i restauri a seguito dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
Entrando nella chiesa, laa prima cappella che si incontra dedicata a Santa Brigida e ospita al centro una tela del XVII sec. attribuita al pittore trapanese Andrea Carreca che raffigura la santa in gloria, mentre ai lati e sul soffitto dominano degli affreschi risalenti al XVIII secolo ed eseguiti da Olivio Sozzi (1690-1765) che raffigurano la Vergine che incorana S. Brigida (sinistra), il Cristo che mostra il suo costato insanguinato (destra) e la Santa in gloria (alto).
La seconda è la Cappella dedicata alla Madonna della Catena e corrisponde alla cappella votiva su cui fu edificato il resto della costruzione della chiesa. In corrispondenza ad essa, sull’altro lato, si trova la porta, oggi chiusa, che costituiva l’antico l’ingresso.
L’affresco che caratterizza la cappella risale al XIV sec. ed è quello al quale i prigionieri chiesero la grazia. In esso è raffigurata la Vergine che allatta il Gesù bambino ed è riemerso dopo il restauro del 1990 che ha eliminato il dipinto che vi era sovrapposto e del quale sono conservate le parti laterali dell’affresco stesso. L’iconografia originaria fu proibita dopo il Concilio di Trento della seconda metà del Cinquecento. La particolarità del dipinto sono le caratteristiche maschili adulte nel volto del bambino, secondi i canoni tipici bizantini che credevano in un Cristo già saggio e maturo sin dai primi giorni di vita.
Ad incorniciare l’affresco, il baldacchino realizzato in porfido di alabastro. Ad impreziosire ancora la cappella, le sculture dei Gagini che raffigurano Santa Barbara, Santa Margherita e due delle antiche patrone di Palermo Oliva e Ninfa.
La Cappella della Madonna delle Grazie è la terza cappella e fu magistralmente decorata dalle opere di Antonello e Vincenzo Gagini. Dei Gagini è l’altare marmoreo con il rilievo della “Crocifissione”; sopra di esso, la predella con i rilievi “La consegna della chiavi a Pietro” a sinistra, e “La conversione di Paolo” a destra.
Di scuola gaginiana anche l’edicola con l’ “Incoronazione della Vergine” (XV sec.). Quest’ultima proviene dalla demolita chiesa di San Nicolò alla Kalsa, fortemente danneggiata dal terremoto del 1823, e conserva ancora i residui dei colori classici della tradizione mariana (oro e azzurro) con cui era originariamente decorata.
Furono, invece, realizzate nella seconda metà del ‘700 le cornici, i puttini e gli stucchi. Di questo periodo anche gli affreschi di Olivio Sozzi che raffigurano sulla pareti i due santi Pietro e Paolo, e sulla volta il Cristo che li benedice.
La quarta è la cappella della Natività con al centro la tela del XVII secolo “Natività con Adorazione dei Pastori” (XVII sec.) di un ignoto autore, probabile imitatore del Caravaggio per l’uso che fa delle luci. Sulla parete destra si trova l’affresco “La strage degli innocenti” mentre, sul lato opposto, una particolare raffigurazione del Cristo circonciso, rara espressione di un rito ebraico all’interno di un contesto cattolico.
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November 26, 2020
A mia moglie
Se fossi un poeta
nei versi ti ritrarrei
rosa delicata e aspra
che al vento sussurra
sogni e incanti.
O viola timida e gioiosa
che infinita nasconde
la bellezza che
ordinaria appare.
O ruvida ginestra
che coraggiosa esiste
nell’arsa stagione
e nel colore esplode
Ma poco servono poesie
verbose e prolisse
Ogni tuo gesto
risuona d’amore,
tenera canzone
che ci mormora
il destino.
Sei il faro
che naufrago mi salva
dalla mia bufera.
Ti amo.
Volterra e Public Cloud
Il grande professor Picardi, uno dei papà dell’esplorazione spaziale italiana, uomo capace di coniugare un genio senza pari a una straordinaria umanità, era solito ripetere
Scambiare un modello matematico con la realtà, è come andare al ristorante e mangiare il menù invece che le pietanze; ma senza menù, non hai più pallida idea di cosa ordinare al cameriere e rischi di collezionare fregature
Il prof aveva ragione: i modelli matematici matematici non devono essere un fine, ma uno strumento utile a comprendere la realtà e prendere le relative decisioni. Consideriamo le equazioni di Volterra: un ambito interessante di applicazione è il peculiare mercato del Public Cloud, che come raccontato in passato, è una peculiare forma di oligopolio.
Possiamo ipotizzare di avere tre tipologie di prede, corrispondenti ai segmenti di mercato: x(k) ossia gli small office, y(k) ossia PMI/Pubblica Amministrazione Locale e z(k) ossia i Clienti TOP/Grandi Enti Statali.
Al contempo, possiamo ipotizzare nel modello tre diversi predatori, i principali Provider di Public Cloud, m(k), n(k) e o(k) caratterizzati da un’offerta tecnologicamente omogenea, con un analogo modello di pricing e una range di differenze di listini oggettivamente assai ridotta.
Questo oligopolio è rappresentabile dal seguente sistema di equazioni di Volterra discrete.
x(k+1)= ax(k)+ b(k)x(k)- cx(k)x(k) – dx(k)m(k) -ex(k)n(k)- fx(k)o(k)
y(k+1)= a1y(k)+ b(k)y(k)- c1y(k)y(k) – d1y(k)m(k) -e1y(k)n(k)- f1y(k)o(k)
z(k+1)= a2z(k)+ b(k)z(k)- c2z(k)z(k) – d2z(k)m(k) -e2z(k)n(k)- f2z(k)o(k)
m(k+1)= gm(k)+ m(k)x(k)+ m(k)y(k)+ m(k)z(k)
n(k+1) = hn(k) + n(k)x(k)+ n(k)y(k)+ n(k)z(k)
o(k+1) = io(k) + o(k)x(k)+ o(k)y(k)+ o(k)z(k)
Sistema, che, se i valori dei coefficienti sono compresi in un range ridotto, entro una fascia del 5%, genera un insieme di soluzioni stabili: le variazioni delle prede sono sincronizzate con quelle dei predatori, che si spartiscono il mercato in quote che non variano nel tempo.
Nell’ipotesi che i tre competitor fossero entrati nello stesso istante TO, a regime a regime si sarebbe raggiunto un equilibrio perfetto, con ognuno associato a un terzo del mercato. Le differenti quote di mercato sono correlate al diverso momento in cui hanno cominciato a cacciare le prede.
Ma che succede se entra un ulteriore predatore ? Possiamo formulare due diverse ipotesi operative. La prima è che nel mercato entri un nuovo Cloud Provider, che non introduca nessuna innovazione tecnologica o di modello di pricing, ma semplicemente “sbrachi” sui prezzi.
Nel sistema precedente si avrà un’ulteriore equazione
p(k+1) = lp(k) + p(k)x(k) + p(k)y(k) +p(k)z(k)
se l è molto più piccolo di g, h e i è abbastanza intuito comprendere come i precedenti predatori perdano quote di mercato: in proporzione, il più danneggiato non è il Provider dominante, ma quello che possiede la quota minoritaria. Se l è molto più piccolo di i, proprio questo rischia di estinguirsi, ossia di uscire dal mercato del Cloud.
La seconda ipotesi è entri un nuovo Provider che lanci una Killer App o in termini di servizi tecnologici o di pricing. L’equazione sarà lievemente differente rispetto alla precedente, dato che introduce un termine in più, per modellizzare l’impatto dell’innovazione disruptive.
p(k+1)= lp(k) + p(k)x(k) + p(k)y(k) +p(k)z(k) + d p(k)x(k)y(k)z(k)
Anche qui avremo un provider soggetto ad estinzione: in questo caso, però, si tratta di quello dominante, che avrà un proporzione una perdita percentuale assai maggiore di quella dei concorrenti. Ma se Sparta piange, Atene non ride. Anche gli altri provider, avranno una diminuzione del giro d’affari di circa un terzo.
Per cui, i Cloud Provider, per non avere problemi futuri, più che a limare i loro listini, devono puntare sull’innovazione.
November 25, 2020
La villa di Massenzio
Come accennato in altri post, la basilica di San Sebastiano era parte del più ampio complesso della villa imperiale suburbana di Massenzio, la quale, a sua volta, ha una storia assai lunga e complessa. Il complesso, infatti, nacque in piena età repubblicana, intorno al II secolo a.C. come Villa Rustica, al centro di una tenuta dedicata alla produzione del vino, dell’olio e del grano.
A causa della crisi della produzione agricola del Latium Vetus, dovuta alle importazioni di grano provenienti dalla Sicilia, dall’Africa e dall’Egitto, il complesso all’epoca Giulio Claudia cambiò destinazione d’uso, diventando la residenza di un senatore, probabilmente imparentato con la gens Servilia, il cui sepolcro, di età augustea, è adiacente alla villa.
Sepolcro è costituito da un basamento quadrato in calcestruzzo sormontato da un tamburo a nicchie, al cui interno la camera funeraria, sufficientemente ben conservata, è decorata da stucchi. Allo stesso risalgono i due ninfei orientati verso la via Appia, a uno dei quali – ancora visibile e recentemente riscavato – si addossò molto più tardi un casale. Nel II secolo poi la villa subì una radicale trasformazione ad opera di Erode Attico che la inglobò nel suo Pago Triopio.
La proprietà passò poi nel demanio imperiale: così, intorno al 310 d.C. fu oggetto dei grandi lavori voluti da Massenzio trasformò la villa in residenza imperiale, con la realizzazione di ambienti prestigiosi coma la basilica, l’apertura di un nuovo ingresso monumentale e l’aggiunta di un circo e di un mausoleo.
I geniali architetti al suo servizio, ispirandosi al Sessoriano e ai palazzi imperiali di Milano e di Tessalonica, progettarono i tre edifici furono realizzati assecondando la morfologia del territorio, sia per risparmiare, evitando grossi lavori di sbancamento e colmatura, sia per sfruttarne al meglio le caratteristiche: così il palazzo venne edificato sui resti delle costruzioni precedenti ed il circo, adagiato nell’avvallamento che dall’Appia Antica risale gradualmente verso l’attuale via Appia Pignatelli.
La sconfitta di Massenzio ad opera di Costantino determinò probabilmente il precoce abbandono dell’impianto, tanto che indizi fanno pensare che il Circo non sia stato neppure mai utilizzato. Costantino, dato che il suo parentado preferiva risiedere nel Sessoriano, a Villa dei Gordiani e Ad Duos Lauros, si liberò del complesso, donandolo alla Chiesa di Roma.
Così il fondo divenne parte del Patrimonium Appiae, che provocò parecchi mal di testa da papa Gregorio Magno, dato che i suoi amministratori all’epoca avevano la strana abitudine di scappare con la cassa. Il circo – detto «Girulum» – è citato in un documento di permuta di terreni tra soggetti ecclesiastici dell’850, che ne diede la proprietà al Monasterium ss. Andreae et Bartholomaei, quod appellatur Honorii papae, che sorgeva dove oggi è il Policlinico San Giovanni.
Una cinquantina d’anno dopo, la tenuta fu in pratica occupata, modello squatter, dai Conti di Tuscolo, che non solo se ne guardarono bene dal restituirla ai legittimi proprietari. Dopo numerosi passaggi di proprietà, nel Quattrocento, nell’area si estendeva la proprietà dell’Ospedale del San Salvatore ad Sancta Santorum, che, sulla fine del Cinquecento, vendette parte del fondo, chiamato all’epoca “tenuta di Campo di Nove”, alla famiglia Cenci.
A questa famiglia si deve la costruzione del monumentale arco di accesso, situato sulla via Appia – che ancora conserva la decorazione con le mezze lune appartenenti allo stemma dei Cenci – e secondo il Tomassetti la costruzione di una villa di cui non resterebbe traccia, che ora funge d’accesso all’area archeologica.
I Cenci vendettero la tenuta ai Mattei, che eseguirono i primi scavi e, a metà Settecento, fecero costruire un casale al posto del pronao del mausoleo di Romolo; il resto del complesso antico – allora indicato come Circo di Caracalla – era pressoché totalmente interrato, se nel 1763 Giuseppe Vasi poteva descriverlo così:
Rimane solamente di questo Circo, che da alcuni viene stimato per opera di Gallieno, un masso di materia laterizia che era l’ingresso principale, ed il piantato d’intorno al Circo, in mezzo del quale fu ritrovato l’obelisco egizio che ora si vede sul nobilissimo fonte di piazza Navona
Poco dopo, nel 1825, la tenuta fu acquisita da Giovanni Torlonia che incaricò Antonio Nibby di compiere una ricerca archeologica in grande stile. Alla fine di otto mesi di difficile scavo (in un terreno – annota il Nibby nella sua Dissertazione – «maligno e sì duro che il tufa stesso sarebbe sembrato più molle» il circo era interamente riemerso fino alla Porta trionfale sulla via detta Asinaria. E proprio nei pressi di quella porta furono trovate due iscrizioni, una delle quali indicava Massenzio come committente e il figlio Romolo come dedicatario del monumento. Nel descrivere lo scavo, Nibby nota minuziosamente la mediocre qualità delle murature e delle stesse lastre di marmo delle iscrizioni, che data perciò al IV secolo. Egli sottolinea, inoltre, come la fabbrica non sia mai stata restaurata, in antico. I Torlonia continuarono poi a far scavare lungo tutto l’Ottocento.
Il complesso archeologico venne infine acquisito per esproprio dal Comune di Roma nel 1943; nel 1960, in occasione delle Olimpiadi di Roma, si provvide allo sterro di tutto il circo nonché al consolidamento delle murature perimetrali, cui seguirono lo scavo parziale degli edifici del palazzo, il restauro della spina, del quadriportico e del mausoleo. Varie altre campagne di scavo e consolidamento si sono susseguite da allora, nel 1975-77, nel 1979 e nei primi anni 2000. Dal 2008 la Villa di Massenzio fa parte del sistema dei Musei in Comune. Da Dicembre 2012 il sito fa parte del progetto Aperti per Voi del Touring Club Italiano.
Il Palatium di Massenzio, come accennato in precedenza sorgeva su un’altura opportunamente regolarizzata ed adattata con un terrazzamento sostenuto da un criptoportico lungo 115 metri a due gallerie parallele, divise da pilastri e coperte con volta a botte, illuminate da piccole finestre a bocca di lupo. Il criptoportico, pertinente alla fase originaria della villa, venne successivamente interrotto da un gruppo di tre ambienti mentre alle due estremità furono aggiunti due padiglioni panoramici in forma di torre. Al di sopra del terrazzamento, verosimilmente aperto verso la valle con un portico, si trovava il palazzo, del quale sono riconoscibili vari ambienti disposti ai lati di una grande aula absidata di metri 33 x 19,45 che era l’ambiente più importante di tutto il complesso, destinato alle pubbliche riunioni, alle udienze ed alle cerimonie e per questo motivo anche riscaldato, come dimostrano i tubi di terracotta inseriti nelle pareti.
Davanti all’aula si vedono pochi resti di un atrio mentre sul versante settentrionale si trova una cisterna, lunga e stretta, ad est della quale un ambiente, in origine probabilmente rotondo e coperto a volta, può essere identificato con l’ingresso monumentale al palazzo. Questo, con un lungo ambulacro, un prolungamento del portico sovrapposto al terrazzamento, era collegato al Circo. Di fatto, questa pianta, nelle sue linee generale, presenta molte similitudini con il Sessorianum: gli architetti di Massenzio, passati al servizio di Elena, nella sua ristrutturazione, applicarono le soluzioni sperimentate sull’Appia.
Il Circo di Massenzio (nel medioevo conosciuto, impropriamente, come Circo di Caracalla) si allunga nella valle, da est ad ovest, per circa 520 metri, con una larghezza, nel puntopiù ampio, di circa 92 metri. Sul lato corto occidentale, delimitato da due torri, come a Milano, a tre piani, alte 16 metri e tonde verso l’esterno, si trovavano i carceres, i 12 ambienti chiusi da sbarre alla cui apertura partivano i carri per le corse. L’insieme in antico assumeva l’aspetto imponente di una forticazione, tanto da meritare l’appellativo di oppidum. Sulle volte di cementizio dei quali si impostano le gradinate per gli spettatori, si apriva la maggiore delle porte d’ingresso all’edificio in forma di grande arco
Al centro di questo stesso lato si apriva la maggiore delle porte d’ingresso all’edificio in forma di grande arco. Un’altra porta, la “porta trionfale”, pure ad arco, si apriva sul lato opposto orientale, curvo,addossato ad un banco di tufo sul quale si adagia una ripida gradinata. Qui fu rinvenuta nel 1825 dall’archeologo Antonio Nibby la lapide dedicatoria a Romolo che permise l’identificazione del complesso, una copia della quale è collocata oggi all’interno del fornice della porta stessa e che così recita:
“Divino Romolo, uomo di nobile memoria, due volte console ordinario, figlio del nostro signore Massenzio invitto e perpetuo Augusto, nipote del divino Massimiano”.
In realtà, nonostante i solenni appellativi e le cariche, all’epoca della morte Romolo era poco più che un bambino. Sul lato nord si apre il Pulvinar, il palco imperiale collegato al palazzo da un lungo criptoportico, sul lato sud sono i resti delle costruzioni relative al palco dei giudici di gara, il Tribunal Iudicum. Il tracciato del circo, diviso in due settori dalla “spina”, struttura centrale lunga 296 metri, pari a 1000 piedi romani, era ornato da vasche d’acqua oltre che da sacelli ed opere scultoree che, tutte insieme, formavano una sorta di canale (euripus): al centro si ergeva l’obelisco in granito, trasportato da papa Innocenzo X nel 1650 a Piazza Navona allo scopo di decorare la “Fontana dei Fiumi” del Bernini. La “spina” era delimitata alle due estremità da corpi di fabbrica cilindrici, le metae che assumevano la funzione tecnica di punti di svolta per le corse.
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Il terzo elemento della villa è il Mausoleo di Romolo, morto nelle acque del Tevere nel 307, che presumibilmente fu qui sepolto. L’edificio fu posto al centro di un’area cinta da un quadriportico di metri 107 x 121, con pareti in opera listata e pilastri in laterizio e coperture con piccole volte a crociera. Il quadriportico, che si apre direttamente sulla via Appia, aveva in passato un’apertura, oggi scomparsa, che metteva in comunicazione quest’area con il palazzo costruito sulla collina retrostante. La tomba era costituita da un edificio circolare del diametro di metri 33 preceduto da un avancorpo, o pronao, rettangolare, in tutto simile a quello del Pantheon. Di pianta rettangolare di metri 21,50 x 8,60, il pronao aveva sei colonne sulla fronte ed era formato da due ambienti, il primo dei quali sottostante la gradinata frontale.
Seguiva quindi la grande “rotonda”, che al pianterreno era costituita da un monumentale corridoio anulare disposto attorno ad un enorme pilastro dal diametro di metri 7,50 e coperto con volta a botte. Nel muro perimetrale si aprivano due ingressi contrapposti, sull’asse longitudinale, e sei nicchie, alternativamente rettangolari e semicircolari, destinate ad ospitare i sarcofagi. Altre otto nicchie, alternate secondo lo stesso schema, si aprivano nel pilastro centrale. Al piano superiore un ambiente, quasi completamente scomparso, era riservato al culto funerario e doveva essere coperto da una gigantesca cupola, forse aperta al centro da un “occhialone”.
Alessio Brugnoli's Blog

