Akragas (Parte I)
Akragas, prego te o splendida la più bella tra le città dei mortali.
Così Pindaro, poeta ellenico e più grande esponente della lirica corale arcaica, cantava la magnificenza dell’antica Agrigento
Secondo le fonti antiche, come ad esempio Tucidite, la città fu fondata intorno al 582 a.C. da rodio-cretesi sotto la guida degli ecisti (fondatori) Aristonoo e Pystilo, provenienti da Gela.
La scelta nasceva da una serie di necessità sia politiche sia economiche di Gela: per prima cosa, limitare l’espansione di Selinunte.
Per cui i coloni decisero di fondare un avamposto sulle rive del fiume Akragas, al centro di un pianoro sulle delimitato dai fiumi Himeras e Halykos, a circa 4 Km dal mare. Poi, tale piana permetteva una ricca produzione agricola, specialmente cerealicola, di un territorio le cui estese pianure favorivano anche l’allevamento dei cavalli; entrambe le materie prime erano esportate in tutto il Mediterraneo, essendo tra le principali fonti di ricchezza della Sicilia greca.
Infine, la vicinanza con gli stanziamenti sicani e punici, che costituivano una croce e delizia della città: delizia, perché la sua prosperità era basata sui commerci con questi vicini, croce, perché, tutte le volte che Cartagine provava ad espandersi in Sicilia, Akragas si trovava in prima linea
Inizialmente soggetta a un regime oligarchico Akragas, nel 570 a.C. nella città prese il potere il tiranno Falaride. Così lo storico ottocentesco Charles Marie Wladimir Brunet de Presle racconta il suo colpo di stato
Falaride, se vuolsi dar fede alle lettere che portano il suo nome, era nativo d‘Astipalea, una delle isole Sporadi. Bandito da’ suoi concittadini andò a far soggiorno in Agrigento, dove s’impadronì del supremo potere. Secondo Poliano egli aveva cominciato ad esercitare dapprima il mestiere di pubblicano, cioè , appaltatore delle gabelle in quella città, ed aveva così fatto molto danaro. Avendo risoluto gli Agrigentini d’innalzare sul monte che domina la loro città un tempio a Giove, Falaride si offrì di assumere quest‘impresa. E poiché la sua ricchezza e la sua perizia negli affari pro mettevano molta sicurezza pel compimento dei lavori, la sua proposta venne bene accolta, e gli furono affidati i denari pubblici.
Egli comprò un gran numero di schiavi adatti al travaglio manovale, chiamò degli artigiani stranieri, e accumulò sul monte materiali d‘ogni specie. Un giorno ci fece pubblicare la promessa d’una ricompensa per chi avrebbe denunciato i nomi di coloro i quali, diceva egli, avevano rubato del ferro e delle pietre.
Avendo l‘ annunzio di questo furto destato la pubblica indignazione, egli ottenne il permesso di cingere il monte d’un muro destinato, in apparenza, ad impedire un altro simile attentato. Dopo aver preso queste precauzioni armò i suoi operai, e, profittando d’una festa di Cerere, piombò all’improvviso sopra i cittadini inermi, ne uccise un gran numero e stabili la tirannia in Agrigento
Tiranno, Falaride, che gode ancora oggi di pessima fama: il primo a parlarne male è proprio Pindaro, nella Prima Pitica
Non è distrutta di Creso ancor la bontà, la virtude;
ma Falari, cuore feroce, che ardeva le genti
nel tauro di bronzo, lo avvolge la fama odiosa:
né fra le mense le cetere
nelle canzoni dei giovani l’accolgono.
Brano in cui si cita una sua ehm geniale idea per mantenere l’ordine pubblico, il cosiddetto toro di Falaride. Il progetto di tale accrocco è attribuita a Perillo di Atene, un fonditore di ottone, che realizzò la riproduzione di un toro metallico, vuoto all’interno e con una porta sul fianco. La vittima veniva rinchiusa dentro e un fuoco veniva acceso sotto di esso, riscaldando il metallo fino ad arroventarlo: così la vittima all’interno arrostiva lentamente fino alla morte. Per far sì che niente di indecoroso potesse rovinare il diletto dell’osservatore, il toro era costruito in modo tale che il suo fumo si levasse in profumate nuvole di incenso. La testa era dotata di un complesso sistema di tubi e fermi, che convertivano le urla dei prigionieri in suoni simili a quelli emessi da un toro infuriato. Si narra anche che una volta riaperto lo strumento di morte, le ossa riarse delle vittime brillassero come gioielli e venissero trasformate in braccialetti.
Falaride lodò l’invenzione e ordinò che essa venisse provata dallo stesso Perillo. Quando Perillo entrò, venne immediatamente chiuso dentro e venne acceso il fuoco e così Falaride poté udire il suono delle sue grida. Prima che Perillo ne morisse, Falaride fece aprire la porta e lo tirò fuori. Perillo credeva di essere ricompensato per la sua invenzione, e invece, dopo averlo liberato dal toro, Falaride lo fece gettare dalla cima di una rupe. Altra leggenda su Falaride lo dipinge come cannibale, che gradiva nutrirsi con le carni di neonato… Insomma, un precursore del comunismo bolscevico.
In realtà, il tiranno era senza dubbio un uomo spietato e intelligente, che prese il potere sfruttando le divisioni dell’Agrigento dell’epoca: a differenza di Atene, queste non era di tipo economico, ma etnico. Cretesi e rodii passavano infatti il tempo a disprezzarsi a vicenda e Falaride, anche con mano pesante, evitò che tali dissapori si tramutassero in una perenne guerra civile.
Oltre che con il bastone, Falaride tenne buoni i suoi concittadini con la carota: da una parte, con la ridistribuzione keynesiana della ricchezza, grazie alle grandi opere pubbliche da lui promosse, dall’altra con una politica espansionistica, che ribaltava le tensioni interne sull’esterno.
Politica che aveva due obiettivi: il primo è la completa indipendenza di Akragas da Gela, il secondo sottrarre più territori agricoli possibile ai Sicani. Più dubbio, ma possibile, l’intento di espandersi ai danni di Imera. Falaride venne comunque destituito da una congiura nel 554 a.C. in cui fu eliminato assieme alla madre e ai philoi.
Cosi come abbiamo lasciato raccontare a Charles Marie Wladimir Brunet de Presle la sua ascesa, ora gli lasciamo la parola riguardo alla caduta di Falaride.
Secondo Tzetzes, che forse segue Diodoro , Falaride avendo un giorno veduto uno sparviero che inseguiva uno stormo di colombe, disse: « Guardate che fa la pochezza d’animo; se un solo di quegli uccelli avesse cuore di resistere, essi potrebbero trionfare dello sparviero che li perseguita. Un vecchio, profittando tosto del consiglio, ghermì una pietra e la scagliò contro il tiranno, che cadde sotto i colpi della moltitudine. Taluni autori han detto che il suo supplizio fu prolungato, e che insieme con lui fecero morire sua madre ed i suoi amici. Gli Agrigentini, in odio della memoria di Falaride, proibirono l’uso dei mantelli turchini, perchè quelli delle sue guardie
Il motivo di tale improvvisa caduta, è lo stesso del suo successo: in quegli anni ad Akragas si vi trasferì Telemaco da Samo con una colonia di Tebani, i quali fecero di fatto saltare il fragile equilibrio etnico su cui si basava il potere di Falaride.
Eliminato il tiranno, i capi fazione cretesi, rodii e tebani, invece di tornare a scannarsi tra loro, decisero di trovare un compromesso analogo a quello libanese, per la spartizione delle cariche del regime oligarchico secondo la provenienza etnica. Regime, di cui conosciamo il nome di alcuni esimneti,Alcamene e Alcandro, primi inter pares, che garantì un periodo di tranquillità alla città…
Alessio Brugnoli's Blog

