Alessio Brugnoli's Blog, page 46

December 14, 2020

Pirro XIII





Dopo la battaglia di Maleventum, tra Pirro e Romani si raggiunse una situazione di stallo: il re epirota con le truppe che aveva a disposizione, poteva resistere in Italia a tempo indefinito, ma certo non costringere il nemico a un accordo.





D’altra parte i Romani, che non potevano essere sconfigge, non erano riusciti ad annientare Pirro, né avevano ancora le capacità per costituire un pericolo per l’Epiro. Per cui, il nostro eroe, dopo avere fatto un vano tentativo per indurre Antigono Gonata e Antioco Sotere di Siria a inviargli rinforzi, i due re furono così miopi da non rendersi conto che più tempo e risorse Pirro impiegava in Italia, meno le avrebbe avute per danneggiare i loro interessi, decise di raggiungere un tacito compromesso con i romani. Si imbarcò con le truppe per tornare a casa, lasciando a Taranto un presidio comandato dal figlio Eleno e dal suo luogotenente Milone.





Roma, felice per l’allontanarsi di un avversario così formidabile, si guardò bene dall’infastidire la polis pugliese. Pirro, nonostante non avesse realizzato i suoi obiettivi strategici, la conquista della Magna Grecia e della Sicilia, però in fondo non tornava con un pugno di mosche: per prima cosa, aveva a disposizione le grandi ricchezze tarantine, che risolveva il tradizionale problema della mancanza di fondi dell’Epiro.





Poi, aveva fatto tesoro dell’esperienza: non solo aveva testato i limiti della falange, di cui tutti i generali dell’epoca erano più o meno consapevoli, ma, memore delle tattiche romane, aveva anche capito come superarli.





Tornata a casa, però, Pirro si era trovato in situazione geopolitica assai complicata: Antigono Gonata, il figlio di Demetrio Poliorcete, aveva fatto pace con Antioco Sotere rinunciando a ogni pretesa sull’Asia Minore, aveva acquistato prestigio con una grande vittoria sui Galli presso Lisimachia, e poi, invasa la Macedonia, aveva ricuperato il regno paterno e posto fine all’anarchia, ponendo un’ipoteca a tutte le ambizione sull’area dell’Epiro.





Anche le condizioni della Grecia erano assai migliorate. Respinta l’invasione celtica, gli Etoli erano divenuti la potenza preponderante della Grecia settentrionale, la Beozia e l’Attica erano indipendenti, sebbene deboli e sebbene Antigono avesse conservato il possesso del Pireo. Nel Peloponneso si equilibravano gli Spartani, che avevano ripreso alquanto vigore sotto il governo energico di re Areo, e gli alleati della Macedonia, e qualche conato di rinnovata libertà repubblicana si cominciava ad attuare in Acaia. Di conseguenza, l’Epiro rischiava di tornare a essere quello che era sempre stato, una potenza di secondo ordine.





Per cui, Pirro decise di agire da par suo: riorganizzò l’esercito e nel 274, invase la Macedonia: Antigono Gonata sottovalutando l’avversario, decise di affrontarlo in battaglia nella stretta gola del fiume Aoos. Fu un colossale disastro, per Antigono. Il re macedone decise di sfondare lo schieramento con la falange, ma questa fu messa in grande difficoltà dagli arcieri italici, non riuscendo ad avanzare.





Per cui Antigono ebbe l’idea di utilizzare i suoi elefanti contro l’epirota, ma questo lo sorprese utilizzando le stesse tattiche che Publio Sulpicio Saverrione aveva utilizzato contro Pirro: i pachidermi macedoni, ridotti a puntaspilli, voltarono le terga e in fuga, travolsero la loro falange. A peggiorare la situazione, inoltre, un contingente di celti e mercenari italici avevano attaccato la retroguardia di Antigono, massacrandola. Presi tra i due fuochi, i pezeteri macedoni si arresero in massa a il loro re, temendo di essere catturato, abbandonò la sua ricca panoplia, fuggendo travestito da soldato semplice.





Pirro conquistò la Tessaglia e la Macedonia Superiore, ma ebbe enormi difficoltà a espugnare le città marittime, fedeli ad Antigono, dato che queste, visto che Pirro era privo di una flotta decente, potevano resistere a tempo indefinito a qualsiasi assedio. In più Antigono, nonostante le vecchie ruggini stava trattando un’alleanza con Areo di Sparta, per stringere in una morsa l’epirota. Il quale decise di agire da par suo.





Approfittando del fatto che Areo aveva guidato gran parte delle sue truppe a Creta, partecipando come mercenario in una delle strampalate guerre civili locali, azzardò un blitz verso Sparta: nell’ipotesi migliore avrebbe conquistato senza colpo ferire la Laconia, in quella peggiore, avrebbe stanato Antigono, costringendolo a una battaglia campale che Pirro era convinto di vincere.





Con grande rapidità di mosse, attraverso l’Etolia che gli era amica, condusse l’esercito sulle sponde del golfo corinzio e lo tragittò nel Peloponneso. Qui fu accolto a braccia aperte dagli Achei, dagli Elei e da parte degli Arcadi che speravano in lui il tutore della propria libertà. Gli si diede perfino Megalopoli, che da tempo era come la cittadella del dominio macedonico nel Peloponneso; e Pirro invase la Laconia portando con sé un pretendente di sangue reale, Cleonimo, che voleva sostituire ad Areo. Sì, proprio il genialoide che dopo essere stato cacciato a pedate da Thurii dalle legioni romane, aveva tentato di conquistare Padova, per essere preso a randellate in capo dai veneti.





Così Pirro giunse nei pressi di Sparta con con un esercito di 25 500 uomini e 24 elefanti. Secondo il racconto di Plutarco, che cita a sua volta Filarco, mentre gli Spartani stavano per prendere la decisione di inviare le donne al sicuro a Creta, Archidamia, la vedova del re Eudamida I piombò nella Gherusia con la spada sguainata, rimproverando gli anziani perché pensavano che le Spartane avrebbero tollerato di poter sopravvivere alla distruzione di Sparta.





Quella notte, le donne di Sparta scavarono una profonda fossa davanti alla città, che al tempo non aveva alcun tipo di mura o fortificazione difensiva, consentendo agli uomini rimasti in città di riposarsi in vista della battaglia imminente. Chilonide invece, non volendo ad alcun costo tornare col marito in caso di sconfitta, si mise un cappio al collo pronta al suicidio.





Il giorno seguente, la fossa scavata dalle donne di Sparta nella notte ostacolò l’assalto dell’esercito di Pirro in maniera decisiva, e nella battaglia che ne seguì, dove Acrotato si distinse in modo esemplare, gli Spartani riuscirono a respingere i nemici, con l’aiuto e il supporto delle donne che, pur non partecipando direttamente alle azioni belliche, aiutavano nelle operazioni logistiche.





Nei giorni successivi, l’arrivo da Corinto dei mercenari di Aminia Foceo, generale di Antigono II Gonata, e il successivo ritorno del re Areo I da Gortyna, misero in difficoltà Pirro, che rischiava di essere preso tra due fuochi, come a Maleventum. Il sovrano epirota, però, mantenne il sangue freddo e decise di procedere per linee interne: con massima rapidità, avrebbe sconfitto il nemico principale, Antigono, per poi rivolgersi con tutta calma contro Areo.





Antigono, però, memore della batosta sul fiume Aoos, invece di affrontare Pirro in battaglia, si asserragliò ad Argo, nella speranza che Areo prendesse alle spalle le truppe epirote. Ma il macedone, per l’ennesima volta aveva sottovalutato l’avversario.





Grazie a una spia, Pirro entrò nella notte con le sue truppe ad Argo, prendendo di sorpresa Antigono e massacrando le sue truppe in una mischia furibonda. Intravedendo da lontano il re macedone, Pirro si tolse l’elmo, che gli era d’impaccio, e si lanciò a cavallo nel cuore della battaglia. Un colpo di lancia era riuscito a ferirlo; a menarlo era stato un giovane argivo, impegnato nel combattimento pur senza appartenere alle forze regolari. Pirro si era volto subito contro di lui, nel tentativo di neutralizzarlo. Mentre si preparava a ucciderlo, tuttavia, un colpo tremendo ricevuto al capo lo aveva costretto a lasciare le redini del cavallo facendolo cadere a terra disarcionato. Non era stato un guerriero a sferrarlo. Affacciata alla finestra sopra di lui, infatti, l’anziana madre del giovane argivo – temendo per l’incolumità del figlio, ormai spacciato – aveva afferrato il primo oggetto a portata di mano, una tegola, e con tutte le sue forze l’aveva scagliato contro l’invasore. Ormai quasi privo di sensi e con alcune vertebre spezzate, Pirro era stato riconosciuto da un soldato di Antigono, il quale lo aveva trascinato presso una porta che si trovava nelle vicinanze. Pur semisvenuto, il re epirota alla vista della spada che stava per abbattersi su di lui aveva provato a reagire, dimenandosi e cercando di schivare i colpi. Ogni sforzo, tuttavia, doveva risultare vano. Era quello il tragico epilogo della vita di un grande condottiero, a cui la sorte aveva negato perfino la consolazione di una morte gloriosa.





Alla vista della testa dell’avversario recisa dal corpo, recatagli come trofeo, si racconta che Antigono versasse calde lacrime, consapevole della capricciosa mutevolezza della fortuna che si era accanita questa volta contro Pirro, ma avrebbe potuto presto riservare anche a lui il medesimo destino. Con tutti gli onori, quindi, egli diede l’ordine di bruciare il capo e le membra del valoroso nemico, come si conviene a un degno contendente. Poi, stipulò la pace con i figli di Pirro: questa ridava ad Antigono la Macedonia, ma lasciava loro l’Epiro coi territori acquistati dal padre in Grecia. Un compresso che era necessario alla Macedonia, la quale aveva bisogno di un periodo di raccoglimento e di consolidamento.





Alla notizia della morte del sovrano epirota, i romani mobilitarono le legioni, per chiudere definitivamente la partita con Taranto, i cui abitanti tentarono una mossa disperata, chiedendo la protezione a Cartagine. Il senato punico si perse in uno sproposito di discussioni: da una parte vi era il partito mercantile, a cui facevano gola le ricchezze tarantine e la possibilità di avere un hub commerciale diretto con la Grecia, dall’altra quello agricolo, che non voleva violare l’alleanza con i Romani.





Alla fine, prevalsero i primi, grazie a un’interpretazione alquanto capziosa del trattato, analoga a quella che ne daranno in futuro i Romani, che scatenerà la Prima Guerra Punica. Ma la notizia dell’arrivo di una flotta cartaginese preoccupò alquanto Milone, che nella campagna siciliana di Pirro ne aveva combinate di cotte e di crude e che temeva di essere condannato a una morte lenta e dolorosa come criminale di guerra da parte dei punici. Per cui, Milone, per salvarsi la pelle, aprì le porte alle legioni romane.





Fin qui la storia: ma dato che mi dedico all’ucronia, come testimonia il mio ultimo romanzo, Io Druso, possiamo interrogarci su come sarebbe cambiata la storia se Pirro non si fosse tolto l’elmo. Probabilmente, avrebbe sconfitto ed eliminato Antigono, avrebbe raggiunto un accordo con Arato, dato che Sparta, nella sua visione geopolitica, aveva un ruolo assai secondario. Da quel momento in poi, si sarebbe dedicato a rafforzare il suo predominio in Grecia.





Dato che tutto si può dire di Pirro, tranne che non fosse tenace o meglio, testardo come un mulo, probabilmente alla prima occasione possibile, avrebbe cercato la rivincita con Roma. Essendo il Senato ben consapevole di questo, di certo avrebbe evitato di servirgli l’occasione su un piatto d’argento. Per cui, nel dibattito se intervenire o no a favore dei Mamertini contro Cartagine in Sicilia, probabilmente sarebbe prevalsa la posizione più cauta e l’espansionismo romano si sarebbe concentrato a Nord, verso i liguri e la Gallia Cisalpina.





Ora, capiamoci, a causa degli interessi economici delle città campane e della Magna Grecia, la Prima Guerra Punica, ci sarebbe stata lo stesso, ma tardata di una o due generazioni. Se invece i senatori romani fossero stati così ottusi da impelagarsi lo stesso in Sicilia nel 264, Pirro ne avrebbe sicuramente approfittato, alleandosi con Cartagine e riportando la guerra in Italia… E per Roma, la situazione sarebbe diventata assai complicata…

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Published on December 14, 2020 12:32

December 13, 2020

La Battaglia di Himera





Il comando della spedizione cartaginese fu guidata dallo stesso re di Cartagine Amilcare I, colui che aveva stipulato il primo trattato di alleanza con Roma, nonno di Annibale Magone, conquistatore di Selinunte.





Il piano cartaginese era abbastanza semplice: costringere le truppe di Akragras a combattere su due fronti. L’esercito punico avrebbe riconquistato Himera, per poi avanzare lungo la valle del Salso verso Akragas: al contempo, le truppe di Rhegion, guidate dallo stesso Anassila, procedendo lungo il corso dell’Hymeras e dell’Halikos, gli sarebbero venute a dare manforte.





Per schiacciare la resistenza di Terone, Amilcare fece le cose in grande: benché Erodoto e Diodoro Siculo, come loro solito sparino i numeri caso, parlando di trecentomila uomini e di una flotta che contava più di 200 navi da guerra e più di 3 mila imbarcazioni, probabilmente l’esercito punico contava circa trentamila mercenari, a cui si sarebbero aggiunti quindicimila opliti di Rhegion e venticinquemila degli altri alleati siciliani. Settantamila soldati, per l’epoca, erano comunque una cifra considerevole.





Ma la iella si accanì sui punici: Anassila dovette fronteggiare una rivolta di Locri, quindi ritardò la sua spedizione in Sicilia. In più, nel traversare il canale di Sicilia, una tempesta affondò parte delle navi, proprio quelle che trasportavano che trasportavano i cavalli e i carri.





Per cui, come racconta Diodoro Siculo





Quando giunse in Sicilia (Amilcare) e approdò al porto di Panormo, ebbe a dichiarare di avere già condotto a termine la guerra: aveva temuto, infatti, che il mare potesse risparmiare ai Sicelioti i pericoli di una guerra. Impiegò tre giorni perché i suoi soldati si riprendessero e per riparare i danni provocati dal naufragio, quindi si mosse col suo esercito verso Himera, mentre la flotta appoggiava la sua azione rasentando la costa. Quando giunse nei pressi della suddetta città, egli pose due accampamenti, l’uno per l’esercito di terra, l’altro per gli equipaggi delle navi. Tirate in secco le navi da guerra, le chiuse con un profondo fossato e con una palizzata, fortificando l’accampamento dell’esercito, che collocò di fronte alla città e che si estendeva dal muro costruito a difesa della flotta fino alle colline sovrastanti occupata tutta la parte verso Occidente, tolse le vettovaglie dalle navi da carico, mandò via tutte le imbarcazioni con l’ordine di portare grano e il resto delle vettovaglie dalla Libia e dalla Sardegna….





In pratica Amilcare, con il fossato e la palizzata, isolò Imera dal mare, dal fiume Torto e dall’interno: dove le truppe cartaginesi furono libere di saccheggiare il territorio circostante. In attesa dell’intervento di Rhegion, la fame e la sete avrebbero fatto capitolare la città. Terone si rese conto della situazione, tentò di di interrompere la costruzione della palizzata, ma la sortita ebbe un esito pessimo: la falange agrigentina fu disarticolata dai frombolieri delle Baleari e dagli arcieri sardi e costretta al corpo a corpo, massacrata dai mercenari iberi.





Di conseguenza, la guarnigione di Himera fu alquanto demoralizzata: Terone, temendo che volesse ammutinarsi, mandò un messaggero al tiranno di Siracusa, Gelone, chiedendo il suo aiuto. Amilcare, conoscendo la rivalità tra le due colonie greche, aveva ipotizzato che Siracusa si mantenesse neutrale nella disputa: poi, se vittoria su Agrigento fosse stata veloce e senza troppe perdite, con calma Cartagine avrebbe potuto regolare i conti anche con lei.





Gelone, consapevole di questo, decise di sotterrare provvisoriamente l’ascia di guerra con Akragas e di correre in aiuto di Terone: per cui, mobilitò 25.000 opliti e 5.000 cavalieri, per organizzare una spedizione di soccorso a Himera.





Per prima cosa, la cavalleria siracusana eliminò le squadre di razziatori che, con i saccheggio, procuravano i viveri all’esercito punico, facendo circa 10.000 prigionieri: poi, Gelone tentò di distruggere le navi cartaginesi, sempre per impedire il loro rifornimento, nel tentativo di trasformare gli assedianti in assediati. Amilcare, che, ricordiamolo, era privo di cavalleria, consapevole del pericolo, mandò un messaggero a Segesta, chiedendo di mandargli in soccorso i propri cavalieri elimi.





Dato che Amilcare era particolarmente iellato, questo messaggero cadde nelle mani di Terone, che, assieme a Gelone, pensò uno stratagemma degno di Ulisse: travestì i cavalieri siracusani da elimi e li fece presentare dinanzi al campo cartaginese il giorno che Annibale aveva stabilito per il raduno, in cui il re punico era impegnato in un grande sacrificio di espiazione ad Asherat, la dea del mare.





Felici per l’arrivo dei presunti alleati, i cartaginesi aprirono le porte del campo fortificato: al contempo Terone, che aveva fatto piazzare alcune vedette sulle alture limitrofe perché gli segnalassero l’ingresso della cavalleria nel campo nemico, attaccò col resto dell’esercito. Lo scontro fu violentissimo: nel frattempo i cavalieri siracusani uccisero a tradimento a tradimento Amilcare e cominciarono a incendiare le navi.





La notizia scatenò il caos tra i cartaginesi, che si diedero alla fuga: Gelone ordinò di non fare prigionieri, di conseguenza i fuggitivi furono inseguiti, metà dell’esercito punico rimase sul terreno, altri si asserragliarono nel campo fortificato della fanteria, dove per mancanza di viveri si arresero, solo uno sparuto gruppo riuscì a raggiungere le coste dell’Africa.





Dinanzi all’inaspettata batosta, I Cartaginesi chiesero la pace, Diodoro ricorda che dopo la battaglia:





“….quando giunsero presso di lui (Gelone) da Cartagine, gli ambasciatori, che erano stati inviati, e che gli chiedevano con le lacrime agli occhi di trattarli con umanità, concesse loro la pace, riscosse da loro le spese sostenute per la guerra, duemila talenti d’argento, e comandò di costruire due templi nei quali dovevano depositare gli accordi”





Le condizioni miti derivavano da una serie di considerazioni da parte di Gelone e di Terone: i due alleati non si fidavano l’uno dell’altro. Poi, le perdite greche erano state pesanti, per cui difficilmente avrebbero potuto contrastare una nuova offensiva cartaginese. In più Anassila, chiusi i conti con Locri, aveva sbarcato le sue truppe in Sicilia. Per cui bisognava fare i ponti d’oro, affinché i punici si ritirassero dalla guerra.





I Cartaginesi, sorpresi dell’essersela cavata così a buon mercato, donarono alla moglie di Gelone, Damarete, una corona d’oro del valore di cento talenti, perché ella, da loro pregata, aveva perorato in favore della pace. Con quest’oro lei, o Gelone, comperò dell’argento per coniare una nuova moneta: il Demareteion. Parte dei duemila talenti, tra l’altro, furono girati ad Anassila di Rhegion, per comprare la pace con lui.





In più, i puniic contribuirono alla costruzione del Tempio della Vittoria a Himera, uno dei capolavori dell’ordine dorico. Nel 1700 Montesquieu nel suo “ volume “Lo spirito delle leggi “ ricorda con queste parole la pace concessa da Gelone.





“Il più bel trattato di pace di cui la storia abbia parlato è, credo, quello che Gelone concluse con i Cartaginesi. Egli volle che essi ponessero fine alla consuetudine di immolare i loro figli. Cosa ammirevole! Dopo aver sconfitto 300.000 cartaginesi, Gelone esigeva una condizione che era utile solo a loro, o piuttosto stipulava a favore del genere umano”.





Recentemente, per i lavori del raddoppio della linea ferroviaria tra Palermo con Messina, nel tratto di Buonfornello sono emerse le fosse comuni che furono scavate per dare sepoltura ai soldati e ai cavalli: molti reperti, come armi e armature di tipo iberico, hanno confermato il racconto di Diodoro Siculo, sulla presenza di truppe mercenarie.





Grazie ad un finanziamento della Regione Siciliana e all’acquisto della vecchia stazione ferroviaria di Buonfornello, attualmente in disuso, la Battaglia avrà presto il suo museo, in cui saranno esposti i reperti, ora conservati, ma non esposti al pubblico, all’interno dell’Albergo delle Povere di Palermo.





La battaglia ebbe un diverso impatto nella Sicilia greca e a Cartagine: grazie alla disponibilità di schiavi, con la relativa manodopera a basso costo, e di bottino, Akragras e Siracusa ebbero un boom economico, sia per l’effetto di grandi lavori pubblici, sia per l’aumentata produttività agricola.





A Cartagine, la sconfitta di Imera indebolì il potere monarchico a vantaggio del Senato, del Tribunale dei 104 e dei suffeti, trasformando lo stato in una repubblica di fatto. I traffici commerciali col Medio Oriente furono tagliati dai Greci in Sicilia e in Magna Grecia. La città allora si concentrò nel commercio navale con l’occidente e nel commercio carovaniero con l’oriente.





Fin qui la storia: poi cominciò la leggenda. Ora, sotto la minaccia di Serse, Atene e Sparta mandarono ambasciate alle città della Magna Grecia e della Sicilia per chiedere aiuti, ma queste, sia perché erano problemi della Madrepatria, sia perché troppo impegnate a scannarsi tra loro, risposero picche, con l’unica eccezione di Faillo di Crotone, di cui ho parlato in un altro post.





Al seguito della vittoria di Platea, i coloni greci, per giustificare il loro menefreghismo, cominciarono a diffondere quantità industriali di balle, anche con l’aiuto di Erodoto. La prima fu la storia dell’ambasciata ateniese e spartana a Siracusa, per chiedere soccorsi





In risposta Gelone offrì di concedere una flotta di 200 triremi e di 20.000 opliti, 2000 cavalieri, 2000 arcieri e 2000 frombolieri, oltre al rifornimento di grano per tutto l’esercito greco per tutta la durata della guerra, solo a patto che gli lasciassero il posto di comando delle operazioni militari panelleniche, o almeno dei soli contingenti navali.





Orbene, fintanto che pretendevi di esercitare il comando su tutta la Grecia, noi Ateniesi ne avevamo abbastanza di starcene zitti, ben sapendo che l’ambasciatore di Sparta sarebbe bastato a tutelare l’interesse di ambedue le città. Ma poiché, vedendoti rifiutare il comando supremo, chiedi quello della flotta, ecco come stanno le cose per te: anche se l’inviato di Sparta ti accordasse questo comando, noi non te lo concederemmo di certo. Esso spetta alla nostra città, almeno se gli Spartani non ne vogliono sapere, poiché, se essi vogliono esercitare il supremo potere, noi non ci opponiamo; ma a nessun altro cederemo il comando della flotta. In tal caso, infatti, sarebbe inutile che noi possedessimo la flotta più numerosa dei Greci, se dovessimo cedere la supremazia ai Siracusani, noi che siamo Ateniesi, che rappresentiamo il popolo più antico; che, soli fra i Greci, non abbiamo mai cambiato paese; quando anche il poeta Omero di uno di noi che s’era recato all’assedio di Ilio, dice che era il più valente nel disporre e ordinare un esercito.





Poi, data la vicinanza temporale della battaglia di Salamina con quella di Himera, si inventarono la balla che Serse e i Cartaginesi avessero stipulato un’alleanza contro i greci di ogni genere e risma. Scrive Diodoro Siculo:





“(Serse) desiderando di destabilizzare il mondo grecò, inviò un’ambasciata ai Cartaginesi al fine di promuovere con loro un accordo nei termini seguenti : egli sarebbe intervenuto militarmente contro i Greci, mentre i Cartaginesi avrebbero approntato, nello stesso tempo un poderoso esercito per debellare i Greci residenti in Sicilia e in Italia”





Benché Aristotele, che a differenza degli altri intellettuali greci, era abbastanza informato sulle vicende cartaginesi, tentasse in ogni modo di smentire questa storia, si impose come presunta verità. Anche perchè i siciliano avevano uno straordinario press agent, chiamato Pindaro. Nella Pitica I, dedicata a Gerone di Siracusa, scrisse





…[a Platea] dove penarono i Medi dagli archi ricurvi,
e presso la riva dell’Imera
dalle limpide acque dirò l’inno
compiuto per i figli di Dinòmene,
tributo alla loro virtù
per cui penarono i nemici





mentre per Terone, nell’Olimpica II





Agrigento
è la meta, e diremo alte
con cuore sincero parole giurate:
non partorì in un secolo questa città
uomo di pensieri premurosi,
di mano munifica verso gli amici
più di Théron. Ma alla lode s’attacca un fastidio
compagno non di giustizia ma frutto d’uomini vili
e bramoso che il molto parlare
avvolga di tenebra le opere belle
dei grandi. Perché – la sabbia sfugge al numero:
e lui, quante gioie donò ad altri
chi potrà mai dire?

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Published on December 13, 2020 10:34

December 12, 2020

Gianfilippo Ingrassia e la Grande Peste di Palermo





In questi mesi di pandemia, forse è necessario ricordare ai nostri governanti, l’esperienza della Grande Peste di Palermo del 1576, di cui conosciamo anche il paziente 0, una prostituta maltese, che aveva praticato il suo mestiere con il capitano di una galeotta, la versione mini della galea, proveniente della Barberia, il nostro Nord Africa.





Dinanzi ai primi casi, il viceré don Carlo, duca di Terranova, da una parte mise subito in isolamento il bordello, dall’altra, cercò di tracciare tutti i potenziali contatti del paziente 0. Nonostante il successo dell’impresa, il viceré dovette scontarsi con altro problema: la peste non era stata diffusa solo dal capitano puttaniere, ma anche dalle merci della sua nave, essenzialmente tappeti.





Il viceré dinanzi al rischio di ecatombe, non si perse d’animo: organizzò un comitato, una task force, non pletorica e ridondante, ma costituita da un numero ridotto di membri, tutti con potere decisionale. Soprattutto non vi mise a capo l’Arcuri di turno che, qualunque sia il giudizio sulla sua carriera manageriale, il mio, avendone avuto a che fare, è pessimo, di certo non ha né le competenze, né le esperienze per gestire un’emergenza come la pandemia, ma uno dei più grandi scienziati e medici dell’epoca, Gianfilippo Ingrassia, colui che scoprì l’ossicino della staffa nell’orecchio.





Don Carlo dovette sudare le sette camicie, per convincere Gianfilippo, che si definiva





vecchio e nell’anno della mia età sessantesimo quarto, di debolissima complessione, soggetto a continui catarri





ma quando i morti a Palermo cominciarono a superare la prima soglia critica, accettò il ruolo di Consultore Sanitario, con l’animo di l’animo di un soldato in guerra:





… si miles armatae militiae in pace militiam deferat, gradu deponitur at bello idem admissum, capite punientum est





Per combattere la peste, Gianfilippo, applicò una strategia basata sui tre pilastri: oro, fuoco, forca. L’“oro” stava a indicare le ingenti quantità di denaro da investire per sostenere il blocco delle attività produttive in caso di pestilenza. Il “fuoco” serviva a bruciare e igienizzare tutte le proprietà degli appestati, che venivano considerate “pestilenziali”, cioè possibile fonte di contagio. Infine, la “forca” era necessaria per punire severamente chiunque trasgredisse alle disposizioni di isolamento e denuncia dei malati in caso di epidemia.





Ma nel concreto, questi pilastri in cosa si traducevano ? Per prima cosa, igiene pubblica: furono fatti sforzi di ogni ripulire le strade,





«facendo nettare tutte le puzzolentie et cagioni di generar fetore».





Bisognava levare di mezzo gli animali morti e richiamare al proprio dovere ogni “mastro di mondezza”, i nostri spazzini





«che non attendono ad altro, che a riscuotersi il suo salario»





Insomma, le polemiche sulla scarsa efficienza della Nettezza Urbana a quanto pare sono secolari… Era inoltre importante che la propria abitazione rimanesse





«limpida di qualsivoglia bruttezza, e di tener monde le sue latrine».





Sempre in quest’ottica, Gianfilippo propose di intubare il fiume Papireto, che si era trasformato in una fogna a cielo aperto.





Quando, arrivati a metà luglio, i morti arrivarono a 150, Gianfilippo cominciò a imporre un rigido distanziamento sociale: fece in modo che «si prohibisse ogni conversatione, donde ne potesse nascere ampliation di contagio». Restrizioni colpirono «le schole publice, et i larghi, et lunghi visiti, che si solevano fare per li morti, et per gli infermi», oltre che «i venditori ad incanti, et i vaganti per la Città», come anche l’attività di prostituzione. In più, nonostante fosse di un uomo molto religioso e le proteste dell’Arcivescovo, vietò le processioni e ridusse al minimo le cerimonie religiose. Arrivò addirittura a chiudere i conventi di San Francesco e di San Domenico, che si stavano trasformando in pericolosi focolai di infezione.





In presenza di un decesso la casa veniva “barreggiata” e nei casi più gravi l’intero cortile: l’abitazione veniva cioè chiusa con barre, sequestrata e sorvegliata da guardie, nessuno poteva avvicinarsi e il letto e gli indumenti del defunto erano bruciati. Gli infermi venivano dirottati nel lazzaretto allestito per l’occasione alla Cuba, mentre i familiari sospetti di contagio erano sistemati per le procedure di purificazione al borgo di santa Lucia, che aveva sino ad allora ospitato i militari spagnoli di stanza in città. Si trattava di un quartiere, dotato di singole abitazioni, che i vecchi proprietari furono costretti ad abbandonare e mettere a disposizione della municipalità.Qui venivano trasportati su appositi carri anche gli indumenti di ognuno perché fossero purificati: Gianfilippo raccomandava che i “portatori” dei sospetti non fossero gli stessi degli infetti.





La Cuba fu ristrutturata, in modo da diventare un ospedale capace di ospitare più di 1000 malati. Gianfilippo lo organizzò in padiglioni distinti per donne e per gli uomini con febbre e senza febbre. In tempi rapidissimi vi fece realizzare una farmacia, una cucina, la dispensa, il guardaroba, le stanze per il personale sanitario (chirurghi, barbieri, fisici), la cappella dove praticare i sacramenti. Nel cortile dell’edificio, fece poi scavare un cimitero dove seppellire i morti, nudi e ricoperti di calce per limitare le esalazioni.





La novità più rilevante del sistema ideato da Gianfilippo fu la separazione in edifici diversi dei malati dai convalescenti in via di guarigione (“netti di febbre” da almeno 14 giorni, ma non ancora completamente guariti perché con qualche residuo di piaghe), i quali a contatto con gli infetti vecchi e nuovi erano seriamente a rischio di recidiva. All’esterno del complesso della Cuba furono così allestiti due differenti edifici: uno per gli uomini tra la chiesa di S. Leonardo e il convento dei Cappuccini (per 250 persone e più) e l’altro poco distante per le donne (da 150 a 200 posti), ognuno dei quali era affidato a uno “spedaliere”, e rifornito di vettovaglie a spese della città, dove questi convalescenti erano ospitati per ventidue giorni. Qui ogni ospite dimorava almeno 22 giorni, e in pile grandi e comode poteva lavarsi continuamente con acqua corrente abbondante, cenere e sapone, forniti dall’amministrazione.





Da ultimo si impiantarono a Palermo altri due ospedali, uno per le donne e uno per gli uomini, nel quartiere Sant’Anna, ormai entro le mura della città, dotati di numerose stanze, pozzi, acqua corrente Coloro che erano già completamente guariti dopo la convalescenza vi trascorrevano ancora 14 giorni circa per l’”ultima purificazione” prima di ritornare in libertà e soprattutto riabbracciare i propri cari.





A dicembre, nel bel mezzo dell’epidemia, fu deciso una sorta di lockdown.Più precisamente, venne chiesto da Gianfilippo di «inserrare» per venti giorni donne e fanciulli sino ai dieci anni, impedendo loro di uscire di casa, di frequentare i luoghi sacri «con soddisfattione di tutti gli huomini, massimamente dei gelosi, benché a malgrado delle dette donne». Chiusa buona parte della popolazione in casa, un problema urgente fu quello delle carceri. Anche questo problema fu gestito in modo eccellente: fu disposta una prigione per gli infetti dentro il bastione della Porta di Termini, e un’altra per i sospetti. Nel marzo 1576, pur essendo giunti allo scemare dell’emergenza, si manifestarono otto casi di infezione e altri cinque di febbre nelle carceri. Una volta isolati, a questi prigionieri «veggendosi quel luogo molto brutto, sozzo, et puzzolente», furono destinate le stanze a pianterreno di Palazzo Aiutamicristo. dotate di «ogni comodità, e di pozzo, e di gran pila per lavarsi, et anco di latrina per nettarsi tutti i loro escrementi».





Per mantenere l’ordine pubblico e fare rispettare le disposizioni sanitarie, La città fu affidata ai deputati di ogni quartiere, undici in tutto, con pieni poteri giurisdizionali e facoltà di comminare ai trasgressori anche la pena di morte senza processo, come in guerra. Particolare attenzione fu destinata alla selezione del personale addetto all’inventario delle “robbe” prelevate nelle numerose case della città rimaste vuote, che venivano trasferite per le operazioni di purificazione presso il giardino del duca di Bivona, poco distante dal borgo di Santa Lucia, la nostra Borgo Vecchie





La fiducia risposta nei loro confronti era massima, e per dissuadere i disonesti fu allestita





una trocchiola per dar la corda quando fosse il bisogno, et di più una bella forca per appiccare il primo che presumesse ascondere qualche minimo pezzo di roba.





Ovviamente, tutto questo decisionismo causò parecchi malumori: : i malati non si dichiaravano per non lasciar bruciare il loro arredamento, per cui fu istituito una sorta di indennizzo. Si disse pure che i medici non volevano trovare la medicina per questa epidemia perché altrimenti sarebbe venuto meno la loro parcella. Fu per questo motivo che Gianfilippo sdegnato, rinunciò del tutto al proprio stipendio.





La peste durò fino alla primavera del 1576 e solo in estate si dichiarò completamente estinta: Al borgo del Capo – dove si contarono la maggior parte delle vittime cittadine – fu cantato finalmente il Te Deum Laudamus fra le lacrime





per allegrezza del tempo presente, et pietosa memoria del passato





I palermitani si resero conto subito dei meriti di Gianfilippo: il tasso di mortalità dell’epidemia era stato del 1,12% a fronte ad esempio del 25% di Venezia. Argisto Giuffredi, mediocre poeta, ma autore delle principali grammatiche spagnole e italiane dell’epoca, nonostante la sua linguaccia, se ne uscì con un





per lui diciamo, che dopo Dio siam vivi





Passata la buriana, Gianfilippo rifiutò lo stipendio di 250 onze d’oro al mese che la città di Palermo, per mostrargli la sua gratitudine e dichiarandolo benemerito della patria, gli offrì. Della generosa offerta prese solo quanto gli bastò per abbellire la cappella di Santa Barbara posta nel chiostro della chiesa di San Domenico in Palermo, in cui fu sepolto alla sua morte, nel 1580

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Published on December 12, 2020 08:12

December 11, 2020

L’Anfiteatro di Liternum





Ho scorto lungi, sulla riva del mare, la torre che si chiama di Scipione. All’estremità di un casamento, formato da una cappella e da una specie di albergo, mi son trovato in un campo di pescatori intenti a rappezzare le reti presso una vasca. Due fra essi mi hanno posto in barca e condotto ad un ponte sul luogo della Torre.





Ho passato dune su cui crescono lauri, mirti e piccoli olivi. Salito con fatica in cima alla torre, ho contemplato il mare sul quale si affisò tante volte Scipione; non sono sfuggiti alla mia religiosa ricerca alcuni avanzi di volte detti le Grotte di Scipione; pieno di rispetto premevo il suolo onde eran coperte le ossa di chi cercò la solitudine alla sua gloria





Così Chateaubriand raccontava una sua gita in quelle che oggi sono le spiaggie di Marina di Varcaturo, dove, adiacente alla sponda sinistra del Lago Patria, vi era la colonia romana di Liternum, fondata per dare una casa e terra da coltivare ai veterani della Secondo Guerra Punica.





Luogo famoso, per essere stato l’ultima dimora di Scipione l’Africano: dopo la vittoria contro Antioco III di Siria, lui e il fratello Lucio furono accusati da Catone il Censore di essersi intascati sottobanco parte dei 15000 talenti che il re seleucide doveva pagare a Roma, come rimborso delle spese di guerra e di essersi impadroniti senza permesso di vasi d’oro e d’argento presi nell’accampamento nemico.





Amareggiato da questa sorta di Tangentopoli e della relative polemiche, il vincitore di Annibale mandò tutti al diavolo e si ritirò presso i suoi veterani, e si ritirò in volontario esilio nella sua modesta e arroccata villa a Liternum, dedicandosi ai lavori agricoli, come racconta Valerio Massimo





“piantando mirti e olivi con le proprie mani”





il quale narra come





“nell’amarezza del suo cuore per l’ingratitudine de’ suoi concittadini, Scipione ordinò in punto di morte che fossero scolpite sul suo sepolcro le celebri parole :“Ingrata Patria, ne ossa quidem mea habebis” (ingrata Patria, non avrai neanche le mie ossa) e pare infatti che “il pezzo di marmo con la parola “patria” incisavi, rinvenuta in quel luogo appartenesse alla sua tomba”





Ora, Liternum, si trasformò rapidamente da paesino agricolo, in una fiorente città, grazie alla posizione favorevole lungo la via Domitia. La sua ricchezza era basata sull’agricoltura, sulla piscicoltura praticata nel Lago Patria e sullo sfruttamento della sabbia delle spiagge di Marina di Varcaturo: essendo questa particolarmente fine e bianca, era particolarmente ricercata ai tempi dell’antica Roma per la produzione del vetro di lusso.





Questo boom economico è testimoniato da quello che, secondo numerosi archeologi, potrebbe essere il più antico anfiteatro in muratora del mondo romano, costruito a metà del II secolo a.C. su un terrapieno di sabbia, subito a sud della città, dove adesso sorge la casa cantoniera della Domiziana.





Grazie alla ricerca archeologica condotta nei primi anni 2000 abbiamo idea delle sue dimensioni, (85/90 x 65/70 m), per una capienza di circa 5000 spettatori, che divennero per lungo tempo una sorta di standard de facto per le vicine città campane. In maniera analoga all’anfiteatro di Cuma, di qualche anno più recente, per risparmiare sui costi e sui tempi di costruzione, la cavea dell’edificio è addossata in parte alla collina e in parte al terrapieno sostenuto da muri di contenimento.





Inoltre, come l’anfiteatro di Cuma e quello di Pompei, a testimonianza del fatto che all’epoca di venationes se ne facessero pochine e che il pubblico si accontentasse di scenografie spartane, mancano i sotterranei. Sempre da questi scavi, risulta come l’edificio avesse solo due accessi, a Nord e a Sud, a riprova della sua antichità: l’architetto repubblicano che lo progettò non aveva ben chiare le problematiche legate all’accesso e al deflusso del pubblico, che tanto faranno impazzire i suoi emuli delle generazioni successive.





Tra il I e il II secolo d.C. visto che tutti i limiti connessi alla sua precocità costruttiva si stavano evidenziando, l’anfiteatro fu oggetto di una profonda ristrutturazione: nella cavea fu realizzata la sovrapposizione alla prima gradinata di una seconda con una maggiore pendenza allo scopo di aumentare la capienza complessiva, senza dover ampliare l’edificio. Un terzo restauro avvenne ai tempi dell’imperatore Gordiano III.





Ora, per i casi della vita, l’Anfiteatro di Liternum, oltre al primo ad essere costruito, fu probabilmente anche tra gli ultimi a essere restaurato: nela seconda metà del IV sec. un consularis Campaniae, Domitius Severianus finanziò la sua ristrutturazione, assieme a quella del teatro cittadino e di un edificio termale, il balneum Veneris, longi temporis vetustate corruptum

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Published on December 11, 2020 10:39

December 10, 2020

La traduzione dell’Elamita Lineare





Alla fine del 3° millennio, l’Elam comprendeva una grande parte dell’odierno Altopiano iranico. Gli Elamiti chiamavano il loro paese Haltamti o Hatarnti, che significa “il paese del signore”, i Sumeri lo designavano con l’ideogramma NIM che significa “alto, elevato”, gli Accadi usavano il nome Elamtu, evidente calco della parola elamita, e gli Achemenidi, come si evince dalle loro iscrizioni redatte in antico persiano, denominavano questa loro provincia Huja (o Huvja), identificabile, però, con la Susiana. Ma è da `Eldin, toponimo dato dagli Ebrei nelle Antiche Scritture a questa regione, che deriva il nome Elam da noi oggi usato.





Area geografica che sin dalle origini costituiva un ponte tra la Mesopotamia e le montagne dello Zagros e, al di là, verso l’Altopiano iranico e le valle dell’Indo, che permetteva un esteso commercio di legname, pietre dure e metallo, che svolse il ruolo di volano per una sua precoce urbanizzazione.





Uno degli effetti collaterali dello sviluppo di questa società complessa, fu la nascita della scrittura: la prima fu il Proto-elamita, diffusa tra il 3200 e il 2900 a.C., che probabilmente, come la Lineare B, aveva una funzione essenzialmente contabile. I segni pittografici che costituiscono l’inventario del Proto-elamita consistono di circa 400-800 caratteri, associati all’incirca a 1600 testi. Questa prima forma di scrittura, in modo non chiaro agli studiosi, si trasformò nel cosiddetto Elamita lineare, costituita da circa 100 segni, di cui sono rimaste circa una quarantina di iscrizioni.





I testi più importanti e lunghi in Elamita Lineare appaiono in contesti monumentali. Sono incisi su grandi sculture in pietra, tra cui una statua della dea Narunte (I), la “Tavola del leone” (A), e grandi massi votivi (B, D), nonché su una serie di scalini (F, G, H, U) di una scala monumentale in pietra, dove si alternavano a gradini recanti testi con titoli accadici di Puzur-Inšušinak. Una scoperta unica è l’oggetto Q, un vaso d’argento con un’unica riga di testo perfettamente eseguito, conservato nel Museo di Teheran. Ci sono anche alcuni testi su coni di argilla cotta (J, K, L), un disco di argilla (M) e tavolette di argilla (N, O, R). Alcuni oggetti (A, I, C) includono entrambe le iscrizioni (elamita lineare e cuneiforme accadica. Nove testi sono stati trovati anche su coppe d’argento (X, Y, Z, F ‘, H’, I ‘, J’, K ‘e L’).





Nonostante numerosi tentativi, sino a pochi anni fa, la scrittura elamita lineare rimaneva indecifrata. Il mistero fu risolto dall’archeologo francese Francois Desset, docente all’Università di Tehran e all’Università di Lione, nonché membro della missione archeologica dell’Università di Padova in Iran, impiegando lo stesso sistema che adottò Jean-François Champollion per decifrare i geroglifici egiziani nel 1822, partendo dai pochi testi bilingui esistenti.





Nel 2018 Desset è riuscito ad “infrangere il codice” identificando le sequenze di segni che indicano i nomi di due sovrani che regnarono sull’Iran sud-occidentale intorno al 1950 a.C., Ebarti and Šilhaha, nonché i nomi di una importante divinità invocata negli stessi testi, Napiriša (“Il Gran Dio”). Seguendo questa prima traccia, nel 2020 Desset, chiuso nel suo appartamento di Tehran dal lockdown locale, ha continuato la decifrazione e ha scoperto che la lingua delle iscrizioni era una forma arcaica della lingua Elamita, che alcuni linguisti ritengono imparentata con le lingue dravidiche.





Desset, nella sua decifrazione dell’Elladico Lineare, ha confermato tre sospetti che erano sorti tra gli archeologici: il primo è che tale scrittura fosse di tipo fonetico, probabilmente la più antica di questo tipo. La seconda è che, a differenza del Protoeladico, non avesse un ruolo contabile, ma celebrativo.





Di fatto, i suoi testi sono per la maggior parte riconducibili a due forme standard





‘io sono nome proprio, re di nome del regno, figlio di nome del padre





per legittimare il Potere e testimoniare la trasmissione della regalità





e





‘ho depositato questo artefatto per nome di divinità





per esaltare il valoe degli ex voto, invocando la protezione divina sul re.





L’ultimo che si leggesse da destra a sinistra e dall’alto verso il basso. Come dice bene Desset, l’importanza della decifrazione dell’Elamita Lineare deriva dal fatto che





Fino a poco tempo fa sull’Iran avevamo solo le informazioni che ci venivano dalla vicina Mesopotamia, ovvero l’attuale Iraq. Naturalmente quando si parla dei vicini non si è mai oggettivi, si dice che sono cattivi, non civilizzati e cose del genere. Ora per la prima volta non abbiamo più solo un punto di vista esterno, ma un punto di vista interno all’Iran dell’epoca”.

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Published on December 10, 2020 11:12

December 9, 2020

L’azzardo texano





Con parecchia superficialità, bisogna dirlo, i media italiani stanno affrontato la questione del ricorso del Texas contro la Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, per la questione del voto presidenziale: a loro parziale discolpa, è come tale vicenda sia parecchio complicata di suo e ben poco inquadrabile a chi conosce poco la storia americana.





Partiamo dal nocciolo del ricorso texano, tradotto, non proprio in maniera elegante, grazie a Google Cloud





Alcuni funzionari degli Stati convenuti hanno presentato la pandemia come giustificazione per ignorare le leggi statali in materia di voto per assente e per corrispondenza. Gli Stati convenuti hanno inondato la loro cittadinanza con decine di milioni di domande di voto e schede elettorali in deroga ai controlli legali su come le schede debbano essere legittimamente ricevute, valutate e contate. Che fossero o meno ben intenzionati, questi atti incostituzionali hanno avuto lo stesso effetto uniforme: hanno reso le elezioni del 2020 meno sicure negli Stati convenuti. Tali modifiche non sono coerenti con le leggi statali pertinenti e sono state apportate da entità non senza potere legislativo, senza alcun consenso da parte delle assemblee statali. Gli atti di questi funzionari hanno quindi direttamente violato la Costituzione.





Questo caso presenta una questione di diritto: gli Stati convenuti hanno violato le clausole delle leggi elettorali intraprendendo azioni non legislative per modificare le regole elettorali che disciplinerebbero la nomina degli elettori presidenziali? Queste modifiche non legislative alle leggi elettorali degli Stati convenuti hanno fatto si che il voto e il conteggio delle schede fosse in violazione della legge statale, che, a sua volta, violava la legge elettorale all’articolo II, sezione 1, clausola 2 della Costituzione degli Stati Uniti. Con questi atti illegali, gli Stati convenuti non solo hanno contaminato l’integrità del voto dei propri cittadini, ma le loro azioni hanno anche degradato i voti dei cittadini nello Stato ricorrente e in altri Stati che sono rimasti fedeli alla Costituzione.





Ossia, il contendere non è sui presunti brogli elettorali a favore di Biden, ammesso e non concesso che si siano stati, rientrano nella media fisiologica delle elezioni e di certo non in grado di alterare il risultato finale, ma su due questioni cardine della politica americana: i diritti degli Stati, questione che funse da alibi agli stati secessionisti ai tempi della guerra civile e la non delegation doctrine.





La prima questione è riconducibile a stabilire il perimetro di quanto le leggi dei singoli stati possano non essere allineate con quanto previsto con le disposizioni federali. La seconda, più complessa a spiegare, è relativa al fatto che il potere legislativo non possa delegare a una terza parte, il potere esecutivo, un’agenzia amministrativa o un’entità privata, le sue prerogative.





La contestazione del Texas e degli altri stati del Sud che sembra si stiano accodando è riconducibile proprio a questo: un singolo stato non può cambiare la sua legge elettorale se questa contrasta con quella federale, dato che ciò potrebbe violare il XIV emendamento, e soprattutto tale modifica non può essere decisa tramite atto amministrativo.





Per appoggiare tale tesi, è stata ritirata fuori una sentenza della Corte Suprema del 1935, quando era in guerra con Roosvelt, Schechter Poultry Corp. v. United States, in cui questa dichiarò che





“al Congresso non è permesso abdicare o trasferire ad altri le funzioni legislative essenziali di cui è così investito”





Ovviamente, gli stati querelati stanno evidenziando, in forme differenti tre cose, al di là dell’ironia che proprio gli ex Confederati si stiano trasformando nei difensori delle prerogative di Washington: la prima è che le loro decisioni, dato che aumentano la possibilità di esprimere un voto per i loro cittadini, sono in linea proprio con lo spiroto e la lettera del XIV emendandamento, che afferma





«Nessuno Stato potrà passare o applicare coattivamente alcuna legge che diminuisca i privilegi o le immunità dei cittadini degli Stati Uniti. Né alcuno Stato potrà, senza un processo legale, privare nessuno della vita, libertà e proprietà, né potrà rifiutare l’uguale protezione delle leggi alle persone che vivono nella sua giurisdizione»





La seconda, è che sentenze pensate in origine per la tutela delle libertà civili ed economiche non siano estendibili a norme che non limitano, ma determinano le modalità di voto. Infine, che queste norme sono provvisorie e derivanti da una causa di forza maggiore, la pandemia.





Posizioni razionali, ma che si scontrano con una serie di cavilli giuridici, basati sulla capacità texana di trovare precedenti giuridici. Per prima cosa, nel ricorso hanno fatto riferimento a una sentenza della Corte Suprema del 1997 la Foster v. Love, che parrebbe estendere anche ai regolamenti elettorali la non delegation doctrine e soprattutto dichiarava apertamente come la legge elettorale di uno stato non potesse contrastare con il regolamento federale.





Poi, si sono appellati alla recente sentenza sempre della Corte Suprema contro le restrizioni alle funzioni religiose decretate dal governatore di New York, Andrew Cuomo, per combattere l’epidemia di Covid. I giudici hanno sostenuto che l’ordinanza di Cuomo violasse il primo emendamento che protegge la libertà di esercitare il credo religioso.





The constitution cannot be put aside just cause there’s a pandemic





E questo deve anche valere per l’articolo II, sezione 1, clausola 2 della Costituzione degli Stati Uniti.





Premesso come il ricorso della Pennsylvania non sia indicativo, tra l’altro il caso Parnell / Kelly rimane pendente, è stata respinta la richiesta di provvedimento cautelare, proprio in attesa del ricorso del Texas, che diavolo succede nel caso i giudici della Corte Suprema lo ritenessero ammissibile e decidessero a suo favore ?





Il Texas chiede due cose: che il termine del 14 dicembre (data in cui i grandi elettori dovrebbero formalmente eleggere il presidente degli Stati Uniti) venga prorogato e che siano i parlamenti statali a doversi esprimere per selezionare a loro volta i grandi elettori: parlamenti statali che in Georgia, Michigan, Wisconsin e Pennsylvania risultano – non a caso – a maggioranza repubblicana.





Di conseguenza, Biden non avrebbe la maggioranza dei grandi elettori e quindi vigerebbe la procedura d’emergenza del XII emendamento





XII – (1804) Gli Elettori si riuniranno nei rispettivi Stati, e voteranno a scrutinio segreto per il Presidente e il Vice-Presidente, uno dei quali almeno dovrà non essere un abitante del loro stesso Stato; essi indicheranno nelle loro schede la persona votata come Presidente, e in distinte schede la persona votata come Vice-Presidente, e faranno distinte liste di tutte le persone votate come Presidente e di tutte le persone votate come Vice-Presidente, e del numero dei voti di ciascuno, liste che essi firmeranno e certificheranno e trasmetteranno sigillate alla sede del governo degli Stati Uniti, dirette al Presidente del Senato. Il Presidente del Senato, alla presenza del Senato e della Camera dei Rappresentanti, aprirà tutti i plichi certificati e i voti saranno contati. La persona che avrà il più alto numero di voti come Presidente sarà Presidente se tale numero è la maggioranza del numero totale degli Elettori nominati.E se nessuno ottiene questa maggioranza, allora tra coloro, non superiori a tre, che hanno il maggior numero di voti sulla lista delle persone votate come Presidente, la Camera dei Rappresentanti sceglierà immediatamente, a scrutinio segreto, il Presidente. Ma nello scegliere il Presidente i voti saranno dati per Stati, e la rappresentanza di ciascuno Stato disporrà di un voto; a tal fine il quorum [inteso come numero legale per la validità della votazione] sarà costituito da uno o più membri provenienti dai due terzi degli Stati, e la maggioranza degli Stati sarà necessaria per la scelta. E se la Camera dei Rappresentanti non sceglierà un Presidente, quando il diritto di scelta le sarà devoluto, prima del quarto giorno del successivo mese di marzo, allora il Vice-Presidente agirà come Presidente, come in caso di morte o altro impedimento costituzionale del Presidente. La persona che ha il più alto numero di voti come Vice-Presidente sarà Vice-Presidente se tale numero è la maggioranza del numero totale degli Elettori nominati, e se nessuno ottiene la maggioranza, allora fra i due numeri più alti della lista in Senato sceglierà il Vice-Presidente; a tal fine il quorum sarà costituito dai due terzi del numero totale dei senatori, e la maggioranza del numero totale sarà necessaria per la scelta. Ma nessuno che sia costituzionalmente ineleggibile all’ufficio di Presidente sarà eleggibile a quello di Vice-Presidente degli Stati Uniti.





Ora il Senato ha maggioranza repubblicana. Più complessa è la condizione nella Camera dei Tappresentanti, in cui 26 delegazioni statali hanno la maggioranza repubblicana. Venti stati hanno una maggioranza democratica. Le restanti delegazioni statali sono pari, 50/50, con l’Iowa indeciso in attesa di elezioni non chiamate. Per cui, a occhio, Trump e Pierce dovrebbero essere confermati, al netto di ricorsi di Biden.





A titolo di curiosità, dato che negli USA le cose non sono mai semplici, potrebbe accadere un ulteriore casino. Ora, le votazioni, per prassi devono avvenire a camere congiunte. Nancy Pelosi, essendo speaker della Camera, avrebbe la possibilità di vietare l’ingresso ai senatori, determinando uno stallo della situazione a tempo indefinito: se questo si prolungasse oltre il 20 gennaio, in mancanza di di un Presidente eletto, la Pelosi, quale più alta carica dello Stato, sarebbe per legge Presidente.





Ovviamente, tutti questi discorsi sono puramente ipotetici e applicando il principio di buon senso, è assai probabile che la Corte Suprema rigetti il ricorso del Texas… Ma in fondo, anche se fosse rigettato il suo ricorso, il Texas avrebbe tutto da guadagnare: avrebbe creato un procedente per modificare in maniera creativa e con un procedimento amministrativo le leggi elettorali, potendo così imporre delle regole che in modo più o meno esplicito, favoriscano i repubblicani a scapito dei democratici.

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Published on December 09, 2020 12:18

December 8, 2020

Il mio nuovo romanzo: Io, Druso

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Dopo parecchi anni, in cui mi sono dedicato soprattutto ai racconti, sono riuscito a trovare la voglia e l’ispirazione per tornare a dedicarmi a un romanzo. Stavolta, niente steampunk, ma ho provato a fare un ulteriore salto nel passato, affrontando un genere che in Italia, strano a dirsi, ha scarsissimo seguito: il peplumpunk o sandalpunk, a seconda di come si voglia chiamare.





Se nello steampunk, di solito, il punto di svolta è la costruzione da parte di Babbage della Macchina Analitica, che anticipa la rivoluzione informatica all’Ottocento, replicando grazie alla macchina al vapore la tecnologia contemporanea e fornendo così uno specchio distorto della nostra società postmoderna, nel peplumpunk la divergenza è basata sulla diffusione dell’eolipila di Erone.





Eolipila che è una sorta di turbina a vapore: ora, dato che il primo a parlarne è Vitruvio nel suo trattato De architectura, che era poco più di prontuario tecnico, a livello teorico l’idea doveva essere molto diffusa e studiata. Ora, le simulazione realizzate in tempi moderni, hanno mostrato come, nonostante la buona efficienza, arrivava sino a 1500 giro al minuto, per funzionare in maniera continuativa, la macchina doveva consumare molte centinaia di chili di legna all’ora, avendo gli antichi romani un accesso molto ridotto al carbone. Per cui, probabilmente, nonostante diversi esperimenti, gli imprenditori e i tecnici dell’epoca, dopo essersi fatti due conti, si accorsero come il gioco non valesse la candela. Per le loro specifiche esigenze, l’eolipila poteva essere sostituita, in maniera assai più economica, non dal lavoro degli schiavi, ma dall’energia idraulica.





Ora, nel peplumpunk, o per una maggiore disponibilità di carbone o per un’infinità di altri motivi, c’è il boom dell’eolipila: così una società schiavistica, all’improvviso si trova fiondata in piena Rivoluzione Industriale.





In Italia, come accennavo, il genere peplumpunk, a differenza dei paesi anglosassoni, ha avuto poco successo: sospetto che sia legato al modo con cui sia insegnata la storia classica e la letteratura latina, che ci rende indigesta l’antica Roma… Eppure, con le loro stranezze e follie, che li rendono tanto diversi da noi, gli antichi romani sono tanto affascinanti quanto i klingon, i mandaloriani o i valyriani. Tutto sta nel saperli apprezzare. Lo stesso vale per i loro autori: diciamola tutta, Martin è dieci spanne inferiore a Tacito, Properzio e Lucano sono pulp oltre ogni misura, Petronio Arbitro, Svetonio, Plinio il Vecchio e i cialtroni dell’Historia Augusta, beh, sono matti da legare.





Negli ultimi anni, però, il peplumpunk un minimo in più di interesse lo ha destato, grazie a Davide Del Popolo Riolo e al suo De Bello Alieno: per i pochi che non conoscono questo romanzo, si tratta di un’ucronia in cui Giulio Cesare, per sfuggire alle ire di Silla, scappa ad Alessandra e decide di investire nelle invenzioni degli scienziati locali, arricchendosi in maniera spropositata e modernizzando l’Urbe





Davide, nonostante il successo di quel romanzo, non ha mai voluto scriverne il seguito: così un’estate, mentre passeggiavamo per i Mercati Traianei, per scherzare, abbiamo cominciato a buttare giù le ipotesi più disparate su come potesse continuare la sua storia.





Tutto sarebbe rimasto lettera morta, finché, un annetto fa, mi hanno invitato a partecipare a un’antologia dedicata all’ucronia: per pigrizia, ho deciso di mettere su carta una delle ipotesi che erano saltate fuori quel giorni… Solo che, come dire, mi sono lasciato prendere le mano e il racconto che doveva essere si è trasformato in un romanzo, che sia ben chiaro, non è il seguito di De Bello Alieno: quello, spero più prima che poi, è compito di Davide scriverlo… Il mio è un omaggio, una storia ambientata nel suo fantastico mondo: non è neppure un apocrifo, perché bene o male, Davide, con somma pazienza, ha revisionato e corretto tutte le idee, anche le più strampalate, che ho tirato fuori, affinché fossero coerenti con il suo universo narrativo.





La mia storia è ambientata due generazioni dopo le vicende del suo romanzo e ha un protagonista che farebbe impallidire Aegon l’improbabile: per citare il grande Robert Graves, una delle mie fonti di ispirazione





Io, Tiberio Claudio Druso Nerone Germanico eccetera eccetera (perchè non voglio infastidirvi enumerando tutti i miei nomi), che era una volta, e non molto tempo addietro, noto a parenti e amici e conoscenti sotto gli appellativi di claudio l’idiota, o “quel claudio”, o claudio il balbuziente, o Cla-Cla-Claudio, o nel migliore dei casi “povero zio Claudio”





Un grande intellettuale, che, per non essere eliminato, anche in maniera alquanto dolorosa, a causa della faide famigliari di quell’orda di psicopatici che era la gens Giulio-Claudia, si finse idiota e per il capriccio del Fato si trovò imperatore, dimostrandosi tra i migliori. Il mio Claudio, invece, grazie all’eredità di un nonno acquisito dallo strambo carattere, che pur non diventando imperatore, qui la Repubblica continua a tirare a campare, è sempre ricco sfondato, va in esilio in una terra lontana, l’Iperborea.





Qui, in compagnia di un’eccentrica famiglia di pubblicani in esilio, confesso che non mi sono inventato nulla, ho solo lasciato la parola a Svetonio, di un inventore geniale, di due liberti cialtroni, senza di loro che fabula sarebbe e di un ebreo alquanto misantropo, vivrà avventure di tutti i tipi… Ora, confesso che nello scriverle, mi sono divertito senza ritegno… Spero, che lo stesso sia per voi, se mai vogliate leggere Io Druso… Altrimenti, come dice il buon Puck





Se l’ombre nostre offeso v’hanno
Pensate, per rimediare al danno,
che qui vi abbia colto il sonno
durante la visione del racconto
e questa vana e sciocca trama
non sia nulla più di un sogno





E ringraziate Iuppiter Optimus Maximus che non sia messo a scrivere tutto in latino !





Ah, dimenticavo: come bonus, nel libro, c’è anche un racconto di Davide, che narra le imprese di Sesto Aullio, il cosiddetto filosofo pratico, del suo biografo e amico, il medico ebreo Giovanni di Tiberiade, e del loro mortale nemico, l’Annibale del crimine, Lucio Massovio





Insomma, vale la pena comprarlo solo per questo gioiellino…

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Published on December 08, 2020 10:57

December 7, 2020

Pirro XII

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Pirro, dinanzi alla pressione romana su Taranto, decise di agire alla sua maniera: invece di rimanere sulla difensiva, portò la minaccia nel campo avversario. Avendo saputo come le legioni di Manio Curio Dentato fossero impegnate in una delle solite guerre con gli etruschi, decise di dividere il suo esercito in due.





Una contingente ridotto, sarebbe rimasto in Puglia, per impegnare le truppe dell’altro console, Lentulo: con i veterani, il sovrano epirota avrebbe marciato su Roma, che credeva sguarnita. Nell’ipotesi peggiore, dinanzi a tale minaccia, Lentulo avrebbe abbandonato la Puglia: in quella migliore, dinanzi a tale minaccia, il Senato si sarebbe finalmente deciso a trattare, anche perché i Cartaginesi, dopo la ritirata di Pirro dalla Sicilia, si erano rimangiati tutte le promesse di aiuto.





In realtà, il sovrano epirota era vittima di una ben congegnata trappola, basata sulla disinformazione e sulle fake news. La presunta guerra in Etruria non era assolutamente vera è i punici, pur non avendo messo a disposizione i loro mercenari, si erano fatti carico delle spese di guerra. Il piano romano era alquanto semplice.





Manio Curio Dentato avrebbe tenuto impegnate nel Sannio le truppe di Pirro, mentre Lentulo si sarebbe sganciato dalla Puglia e lo avrebbe preso alle spalle. Però, per far questo, era necessario capire l’esatto percorso che avrebbe intrapreso il sovrano epirota.





Grazie a una complessa operazione di intelligence, il console romano scoprì come Pirro avesse intenzione di procedere lungo la Valle Telesina, per poi procedere a nord, puntando verso Praeneste: per cui, il luogo migliore per intercettarlo era nei pressi del villaggio osco di Maloenton, che a seconda dei filiologi, potrebbe significare o luogo pietroso o luogo di tosatura delle pecore. Villaggio il cui nome i latini, nella loro differente pronuncia, avevano deformato in Maleventum, luogo battuto da venti fastidiosi o ricco di meleti, sempre per le diverse interpretazioni linguistiche.





Manio Curio Dentato aveva a disposizione 17.000 fanti e 1.200 cavalieri. Lievemente superiori erano le truppe di Pirro: poteva così disporre di forse 20 000 fanti, 3 000 cavalieri e una ventina di elefanti. Nel dettaglio: 3 000 fanti e 300 cavalieri tarantini; 3 000 fanti e 300 cavalieri apuli; 3 000 fanti e 300 cavalieri sanniti (esclusivamente irpini e caudini); i rimanenti erano veterani portati dall’Ellade nel 280 a.C.





Grazie a un’informatore sannita, però Pirro scoprì la presenza delle truppe romane: dinanzi all’alternativa, tornarsene indietro, accettando una sconfitta strategica o dare battaglia, decise di correre il rischio dello scontro, nella speranza che una vittoria potesse finalmente convincere il Senato a scendere a patti.





Però, era necessario ottenere un successo eclatante: per cui, per prima cosa tentò di prendere di sorpresa Manio Curio Dentato. Per ottenere questo scopo, invece di procedere per l’usuale tratturo, l’antenato della nostra via Telesina, decise di fare avanzare le sue truppe per sentieri di montagna, “appannaggio esclusivo delle capre”, come dice Polibio.





Pirro, però sottovalutò la logistica: se gli alleati italici non ebbero problemi a muoversi, i pezeteri incontrarono numerose difficoltà, facendo perdere uno sproposito di tempo: di conseguenza, il sovrano epirota si trovò davanti le legioni già schierate e soprattutto posizionate sopra un’altura, cosa che avrebbe reso difficoltosa l’azione della falange.





Era necessario quindi stanare i romani: per far questo, Pirro mandò all’assalto un piccolo contingente, che fu coinvolto in un breve, ma sanguinoso combattimento con i legionari. Questa piccola scaramuccia iniziale diede ai soldati romani un nuovo coraggio: Dentato si decise a scendere dalla sua posizione sopraelevata, si fece più audace e marciò direttamente contro il suo avversario. Pirro si fregò le mani, dato che il nemico aveva abboccato.





In più il sovrano epirota, date le esperienze passate, si era reso conto di come la falange macedone avesse una serie di problemi nel sovrastare le legioni. Per cui, introdusse una serie di innovazioni: sostituì agli ipaspisti le truppe degli alleati italici, più adatte al combattimento corpo a corpo e alternò alle taxis contingenti di arcieri e di lanciatori di giavellotto, in modo da controbilanciare i pilum dei romani e creare così “un’area di rispetto”, che impedisse alle sue falangi di essere coinvolte in uno scontro corpo a corpo.





Inoltre, Pirro aveva concepito un piano tattico che sotto certi aspetti è l’antenato di quello seguito da Annibale a Canne. Gli arcieri e i lanciatori di giavellotto, oltre a proteggere i pezeteri, avrebbero dato il tempo a questi di arretrare senza scomporre la formazione: il centro romano si sarebbe trovato così sbilanciato in avanti. A questo punto, gli alleati italici avrebbero lo avrebbero aggirato, attaccandolo ai lati, chiudendo così i romani in una morsa.





A differenza di Canne, però, Manio Curio Dentato, avendo meno uomini, aveva disposto i suoi uomini su una linea lunga e sottile, probabilmente anche lui con l’intenzione di aggirare l’avversario. Per cui fu facile, per il console, appena si accorse della manovra degli italici alleati di Pirro, rafforzare le ali. Però, questo indebolì il centro romano. Pirro se ne accorse e decise di ricorrere al piano B, facendo caricare in quel gli elefanti, che avrebbero così spezzato in due lo schieramento nemico. A questo sarebbero state le taxis a caricare di lato i romani.





Ma Pirro non aveva tenuto conto di Publio Sulpicio Saverrione, l’uomo che in qualche modo, aveva limitato i danni nella battaglia di Eraclea. Se Manio Curio Dentato era il classico romano tutto di un pezzo, Saverrione era, come dire, un personaggio da commedia plautina: donnaiolo, assai corruttibile, ubriacone e grande amante dei banchetti.





Però era il massimo esperto romano nel combattere gli elefanti: per cui, a malincuore, Manio Curio Dentato se l’era portato dietro. Saverrione, negli ultimi mesi, aveva ulteriormente perfezionato le tecniche che aveva ideato, facendo adottare ai velites giavellotti più pesanti e appuntiti e addestrandoli a mirare agli occhi degli elefanti. In più, aveva dotato gli arcieri alleati di frecce incendiarie





Nonostante le rassicurazioni di Saverrione, i legionari, memori delle esperienze passate, appena videro caricare gli elefanti epiroti, scapparono a gambe levate, dando la possibilità alle truppe italiche di Pirro di incalzarle, rifuggiandosi nell’accampamento. Saverrione, però, non perse la calma. Dopo avere svuotato un’anfora di vino, diede ordine ai velites e agli arcieri di bersagliare con i loro dardi i plantigradi nemici.





I fatti diedero ragione a Saverrione: gli elefanti epiroti, impazziti dal dolore, fuggirono, caricando le truppe di Pirro. Manio Curio Dentato approfittò del caos per riorganizzare i legionari e ripartire all’attacco: la battaglia così degenerò in una serie di mischie confuse, che terminarono al tramonto.





Pirro, però, nonostante non avesse annientato il nemico, era tutt’altro che demoralizzato: lui aveva perso 7000 uomini, i romani 9000. Di conseguenza, nonostante le perdite, la sua superiorità numerica si era ulteriormente ampliata. Per cui o romani si sarebbero ritirati, oppure il secondo giorno di battaglia avrebbe avuto un esito ancora più favorevole.





A rompere le uova nel paniere per il sovrano epirota fu la notizia che le legioni di Lentulo si stavano avvicinando a marce forzate a Maleventum. Pirro si rese conto che le sue forze non sarebbero state in grado di affrontare le due armate consolari riunite, avendo a disposizione metà delle truppe e decise di ritirarsi.





La situazione strategica era complicata: nonostante i successi, il sovrano epirota non era stato in grado di costringere il nemico alla pace. Inoltre doveva gestire un esercito gravemente logoro, una fronda sempre più pronunciata degli alleati greci e la sostanziale stanchezza degli Italici. Alla lunga, i romani avrebbero prevalso per la semplice forza dei numeri.





D’altra parte, per mancanza di una flotta decente e mancanza d’interesse per le vicende greche, Roma non costituiva una minaccia diretta per l’Epiro. In più i costi umani delle guerra e la dipendenza economica da Cartagine stava rafforzando la posizione della fazione del Senato favorevole alla pace. Per cui, si raggiunse un compromesso: Pirro se ne sarebbe tornato a casa tranquillo, mantenendo il possesso di Taranto. I romani avrebbero avuto invece mano libera nel resto della Magna Grecia.





Per assicurarsi il possesso di Benevento, venne dedotto nel 268 a.C. il primo stanziamento di coloni romani con diritto latino. A quest’epoca risale il nome di Beneventum, mutato da Maleventum, considerato di cattivo augurio.

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Published on December 07, 2020 04:58

December 6, 2020

Akragas (Parte II)

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Quella sorta di manuale Cencelli su base etnica con cui le grandi famiglie di Akragas si erano messe d’accordo per spartirsi il potere cittadino, però, non durò più di un paio di generazioni: le differenti origini dei coloni, che ne erano state alla base, si stavano affievolendo con il tempo e come in tutte altre polis greche, erano progressivamente sostituite da quelle economiche.





Da una parte, vi era la questione dei contadini poveri, le cui richieste, in fondo, erano riconducibili allo slogan





“più terra a chi lavora”





Dall’altra, invece, vi era una classe di nuovi ricchi, che in qualche modo, chiedeva di essere cooptata nella gestione del potere. Nuovi ricchi, la cui potenza economica, cosa per noi contemporanei assai strana, era basata sull’allevamento e sul commercio dei cavalli, i quali erano addirittura onorati con la costruzione di lussuosi mausolei.





Scrisse infatti Plinio:





Agrigentini complurium aequorum tumuli habent”





Anche Virgilio fece esclamare ad Enea veleggiante nei paraggi di Agrigento:





“Ardua inde Acragas ostentat maxime longa
Moenia magnanimum quondam generator aequorum”





ossia





Di poi l’alto Acragante ci mostra da lontano le mura grandiose della città,
un tempo madre di generosi cavalli





Inoltre Pindaro e Strabone attestano che una razza di cavalli bellissimi veniva allevata in territorio agrigentino e quando in Cappadocia vennero a mancare dei buoni cavalli, un oracolo ordinò di acquistare gli ottimi stalloni agrigentini.





A capo di questa sorta di UNIRE (Unione nazionale incremento razze equine… per un periodo ho avuto come cliente lo strano mondo dell’ippica e dell’equitazione, in tutte le loro variegate sfumature) vi era la famiglia degli Emmenidi, i cui antenati erano giunti con l’ondata migratoria tebana.





Un suo esponente, Senocrate si afferma con la quadriglia alle Pitiadi del 490 a.C. e la vittoria è cantata da Pindaro in un’ode in onore di Trasibulo, figlio di Senocrate. All’epoca, il capo di tale ghenos era Terone, così ricordarto da Diodoro Siculo





Terone agrigentino, non solo per stirpe e per ricchezza, ma anche per generosità nei confronti della plebe, di molto superava non solo i concittadini, bensì tutti i Sicelioti.





Non avendo le oligarchie agrigentine alcuna intenzione di cedere il potere, decisero di dare un contentino a Terone, nominandolo supervisore ai lavori per la costruzione del tempio di Athena Polias. Data la disponibilità di denaro, Terone decise di imitare Falaride: arruolò in segreto soldati mercenari e durante una festa, eseguì il suo colpo di stato. Il primo problema che il nuovo tiranno dovette affrontare fu legato proprio all’equivoco legato al suo golpe: gli altri allevatori di cavalli pensavano che dovesse semplicemente sostituire la vecchia gestione collegiale con una nuova, mentre Terone, al contrario, voleva accentrare il potere nelle sue mani. Per cui, gli ex alleati, guidati dai nipoti di Terone Capys e Ippocrate, cercarono subito di farlo fuori.





Salvatosi per il rotto della cuffia, Terone dovette poi cercare di raffreddare le tensioni interne ad Akragas, assicurando terra ai contadini, lavori pubblici per tenere buoni i disoccupati e l’aumento delle esportazioni per rafforzare il consenso tra i ceti commerciali. Per questo, dovette impostare una politica di espansione territoriale, il cui obietto primario era Imera.





Questa colonia greca, la nostra Termini Imerese, era stata fondata fondata da Zancle, la nostra Messina, nel VII sec.a.C per rispondere a una serie di specifiche esigenze degli immigrati calcidesi. Per prima cosa, rafforzare i commerci con l’epicrazia punica, la cui prima colonia, Solunto, era a pochissima distanza da Himera. Poi, alleggeriva la pressione commerciale sullo stretto, permetto alle poleis del Sud delle Sicilia di raggiungere la costa tirrenica attraverso vie fluviali, senza dover circumnavigare l’Isola, con il rischio di incappare nei pirati etruschi. Con Himera, Zancle, che già aveva fondato a sua difesa Mylae (Milazzo) poteva fare così concorrenza ai siracusani.





Terone, date le difficoltà di Akragas per la concorrenza commerciale di Siracusa e di Selinunte, decise di strappare Himera a Zancle, ottenendo così un emporio sul Tirreno, contando sul fatto che le sue truppe la potessero facilmente raggiungere attraverso le valli dei due fiumi l’Himera e il Salso. Così, oltre a incrementare le esportazioni, la nuova conquista avrebbe incrementato la Chora, il territorio cittadini, in modo da assegnare più terre ai nulla tenenti. Infine, il bottino avrebbe permesso di costruire templi e opere pubbliche, in un’ottica di stimolo keynesiano all’economia.





Terone, però, aveva fatto i conti senza l’oste: Anassila, tiranno di Rhegion e alleato di Cartagine, aveva l’ambizione di costruire un blocco di potere alternativo a quello siracusano, imponendo il suo dominio sulle colonie greche della Calabria e al contempo, con l’appoggio delle città etrusche, monopolizzando il commercio sul Tirreno meridionale. Per questo occupò con un colpo di mano Zancle e impose a Himera il dominio di un suo alleato, Terillo.





Anassila, detto fra noi, era un personaggio alquanto peculiare. Nella 73ª olimpiade (480 a.C.), il tiranno di Reggio, entrò in competizione con altri greci nella gara dei carri trainati dai muli, che grazie alla sua abilità di auriga vince senza problemi.





Aristotele ci informa che dopo la vittoria egli organizzò un grande e sontuoso banchetto al quale invitò tutti i greci presenti ad Olimpia.





Rientrato a Reggio per celebrare il suo trionfo coniò una moneta d’argento in cui è raffigurato un auriga seduto nella biga alla guida della baldanzosa coppia di mule. Infine chiese al famoso poeta Simonide di Ceo di comporre un epinicio per la sua vittoria, del quale ci resta solo il primo verso tramandatoci da Aristotele:





«Salve, o Figlie delle Cavalle dai piedi di procella…»





Aristotele ci informa inoltre che Simonide, a causa della poca generosità nella ricompensa da parte di Anassila, non voleva comporre alcuna ode. Ma alla fine l’epinicio fu composto. Chiusa la parentesi del pettegolezzo, torniamo a parlare del nostro Terone, che non gradendo la politica di Reghion, a sua volta marciò su Himera, cacciò Terillo e vi impose come tiranno il figlio Trasideo.





Anassila, ovviamente non gradì la mossa e chiese aiuto ai cartaginesi, i quali, preoccupati anche dell’espansionismo siracusano, decisero un intervento militare per cambiare a loro favore gli equilibri di potere tra le polis siracusane

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Published on December 06, 2020 06:15

December 5, 2020

Porta Felice

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Come accennato altre volte, Marco Antonio Colonna, il vincitore di Lepanto, si impegnò a fondo in un’opera di ristrutturazione urbanistica di Palermo. Per prima cosa, fece realizzare la Via Colonna, l’antenata del nostro Foro Italico, con un triplice scopo: semplificare le comunicazioni terrestri con Messina, facilitare l’accesso al porto della Cala, costituire una sorta di quinta scenografica della città verso il mare, che potesse fungere da fondale per parate militari e cerimonie civili.





Poi, prolungò il via Toledo, il Cassaro, verso il mare: questo sia per facilitare l’accesso al porto della produzione agricola della Conca d’Oro, sia per costituire una sorta di decumano cittadino, destinato, questa volta, alle processioni religiose provenienti dal Piano della Cattedrale.





Per nobilitare questi interventi urbanistici, lato Palazzo Reale fece costruire Porta Nuova, mentre, lato mare, decise di far cominciare la contestuale edificazione di Porta Felice, così chiamata in onore della moglie di Marco Antonio, Donna Felice Orsini.





Nel 1582, precisamente il 6 luglio, egli pose la prima pietra della porta. Questa data ci viene testimoniata nel Diario di Paruta e Palmerino:





A 6 di giugnetto, sabato. L’ecc. del sig. Marco Antonio Colonna vicerè buttao la prima pietra alla porta Felice, onde ci mese 8 medaglie d’argento dorate, una esso, ed una il pretore, e sei li giurati, ognuno la sua. E si spararono molte artiglierie





Marco Antonio, benché inizialmente avesse deciso di fare procedere in parallelo i cantieri di Porta Felice e Porta Nuova, distribuendo equamente i fondi tra le due costruzione, cambiò idea in corso d’opera: deciso a riqualificare Palazzo dei Normanni, concentrò le risorse su Porta Nuova.





Così, i lavori per Porta Felice proseguirono a rilento: a peggiorare la situazione ci si misero anche le vicende personali del viceré, che tra le tante cose, era anche un gran donnaiolo. Marco Antonio aveva una tresca con Eufrosina Siracusa Valdaura, baronessa del Miserendino, bellissima e di trent’anni più giovane.





Si racconta come una notte donna Felice Orsini sorprese i due amanti nella camera del marito, la giovane confusa e in preda alla paura, afferrò le sue vesti frettolosamente e si nascose nel balcone, ma per la fretta dimenticò le pianelle davanti al letto, donna Felice le vide, le prese in mano e rivolgendosi al consorte disse:





”Ora conosco che siete diventato un marito amorevole. Le avete comprato per me queste pianelle?”





Sfacciatamente il vicerè annuì. Allora la viceregina, che aveva capito tutto, apri il balcone dove trovò la baronessa tutta infreddolita, la fece entrare e dimostrando grande saggezza disse alla giovane baronessa;





”abbiate pazienza, che per questa notte mio marito lo voglio per me”





e magnanimamente dispose di farla accompagnare a casa sua.





Marco Antonio Colonna ormai reso cieco dalla funesta passione per la sua amante, arrivò al punto di far immortalare le sembianze della sua amata nella statua di una bellissima sirena dal cui seno zampillavano due getti d’acqua, che regalò alla città collocandola nella strada Colonna.





Ovviamente, questa storia non poteva rimanere a lungo nascosta. Con il tempo i pettegolezzi iniziano a girare e la notizia della tresca arriva all’orecchio del suocero della baronessa – don Antonio De Corbera – odiato da Eufrosina e per questo allontanato da Palermo dal viceré. Tornato in città per salvare l’onore della sua famiglia, venne arrestato per insolvenza finendo poi i suoi giorni in carcere, con un sospetto di avvelenamento mai accertato





Quella del barone è solo la prima di una lunga scia di sangue. La stessa sorte toccò poi all’ingenuo marito della baronessa che, con una scusa, venne inviato in missione diplomatica a Malta dove venne trovato “ucciso a pugnalate” da un sicario di professione che venne ucciso, affogato in un canale.





Le notizie di queste morti misteriosi arrivarono alla corte di Madrid, dove Re Filippo convocò Colonna perché si potesse discolpare. Il viceré però non giunse mai a Madrid. Morì improvvisamente durante il viaggio, anche lui in circostanze misteriose.





Come conseguenza di questa telenovela, i lavori di Porta Felice furono interrotti: ora, sappiamo ben poco del suo progetto originale, dovuto probabilmente a Giovan Battista Collipietra. Probabilmente, doveva, per l’amore di Marco Antonio per la simmetria, molto simile a quello di Porta Nuova.





Nel ventennio successivo all’interruzione dei lavori, sulle fondamenta della Porta furono eretti più volte degli archi trionfali temporanei, in linea con il gusto barocco dell’effimero. Nel 1592, per celebrare la fine della grande carestia siciliana, attribuita a un miracolo di Santa Lucia, ne fu eretto uno in onore del nuovo viceré, il Conte d’Olivares, decorato con una ricca simbologia, che verteva sui temi dell’agricoltura e dello sviluppo degli studi: tale incarico fu affidato a Collipietra.





Nel 1593 fu costruita un’altra architettura effimera, in occasione della processione per Santa Ninfa, patrona della città insieme a Santa Cristina, Sant’Agata e Sant’Oliva prima della nascita del culto di Santa Rosalia e la sua proclamazione nel 1627 a unica Santa Patrona di Palermo. Sempre nella speranza che la carestia potesse finire, il Senato palermitano e la moglie del viceré Olivares insistettero con la chiesa di Santa Maria in Monticelli a Roma, per avere a Palermo le reliquie della santa, che arrivarono il 10 giugno, dopo diverse contrattazione.





Nonostante la reliquia provenisse da Roma, e quindi ci fosse stato un certo preavviso sul suo arrivo, quando finalmente questa sbarcò a Palermo i preparativi per la festa non erano ancora pronti, e la processione quindi si svolse a settembre, ovvero tre mesi dopo il suo arrivo. È curioso che si dovettero aspettare ben tre mesi per portare la reliquia in processione, se si pensa che per i preparativi in vista dell’ingresso di Carlo V in città servirono solo otto giorni. Si prepararono grandi e fastosi carri, e accanto a quello di Santa Ninfa si decise di far sfilare un altro carro, in onore di Santa Cristina. La festa fu grandiosa, e di nuovo Collipietra venne chiamato per edificare un apparato festivo sul sito di Porta Felice. Egli decise di costruire due basamenti, decorati con varie statue rappresentanti fiumi e balaustre con vasi. Sui basamenti si ergevano due obelischi con geroglifici in onore di Santa Ninfa, e come simbolica meta del Cassaro venne innalzato un terzo obelisco, alto ben 31 metri.





Questa peculiare scelta era dovuto alla necessità di fare passare senza problemi le colossali macchine processionali, simili a quelle di Santa Rosa a Viterbo, che fanno impallidire il nostro carro di Santa Rosalia.





Nel 1602 i lavori ripresero per volere della Deputazione per il Nuovo Molo, che voleva in questo modo celebrare la conclusione dei lavori per il nuovo Porto: volendo fare le cose in grande, si rivolsero a Mariano Smiriglio, che era appena diventato architetto del Senato palermitano e si era impegnato nel dare un volto barocco a Palermo.





Però, nonostante i buoni propositi, i tarì cominciarono a scarseggiare e anche stavolta i lavori andarono a rilento, anche perché Mariano, in tutt’altre faccende affaccendato, poco si dedicava al cantiere. Nel 1615 infatti era stato costruito solamente un livello. Secondo il progetto di allora, i piloni avrebbero dovuto sorreggere due piramidi.





Nel 1636, il Senato Palermitano fece un grossa liscio e busso a Mariano, che per non sentire le lamentele dei suoi datori di lavoro, tornò a dedicarsi seriamente alla Porta: purtroppo, l’architetto non fece in tempo a cominciare, che il 10 settembre dello stesso anno morì all’improvviso. Così la grana fu appioppata al buon Pietro Novelli, che, ahimè, come architetto se la cavava assai peggio che come pittore.





Pietro sostituì le piramidi che Mariano aveva progettato con due attici, suggellati sul prospetto verso il mare da due grandi aquile marmoree, commissionate a tali Nicolò Travaglia e Paolo Frangipane. Alla porta vennero aggiunti due massicci volumi laterali, che oltre a fornire una maggiore stabilità all’edificio, fungono da corpi scala, permettendo l’accesso al primo piano dove sono collocati due vani con terrazza. Quello sud è affrescato dallo stesso Pietro, mentre quello nord dal suo amico Gerardo Astorino, un pittore palermitano.





Solo che la nuova struttura sembrava avere diversi problemi statici, in più ci furono diversi malumori nella gestione del cantiere, che portarono allo sciopero a oltranza dei muratori palermitani: di conseguenza, non solo Pietro fu sostituito da un suo rivale Vincenzo Tedeschi, che ne capiva molto più di architettura, ma fu anche licenziato come architetto del Senato





I lavori finalmente si conclusero nel 1637 sotto il governo del viceré Luigi Moncada duca di Montalto, come testimonia l’insegna in marmo apposta nel lato esterno della porta





Felix Porta, cujus tantum annis superioribus extabant fundamenta.
Loquitur porta ad D. Felicem Marco felices nectunt dum stamina Parcae
Ambo felices dicimur a Siculis. Marco infelices truncant dum stamina Parcae
Ambo infelices dicimus a Siculis, Tolle mihi nomen, tibi, quod tua fata tulerunt
Nec mihi des nomen, quod tibi fata negant.





Versi che furono composti dal povero Antonio Veneziano, padre della poesia dialettale siciliana e grande amico di Cervantes, che imprigionato a Castello a Mare per una pasquinata contro il governo spagnolo, morì nell’esplosione della sua polveriera. La leggenda narra che il suo corpo fu rinvenuto tra le macerie con un grappolo di uva in mano.





I piloni rivestiti di marmi, decorati con colonne, balconi, logge, architravi, balaustre, capitelli, cornici, fasce, festoni, ghirlande, mascheroni, piedistalli, plinti, gradini, fregi, riccioli, volute e pigne sommitali, furono ulteriormente arricchiti sul prospetto alla Marina, da due fonti dal viceré di Sicilia Giovanni Alfonso Enriquez de Cabrera, conte di Modica e grande ammiraglio di Castiglia nel 1644. Durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, nel 1943, il pilone nord fu completamente distrutto, ma la sua ricostruzione è stata il più possibile fedele all’aspetto originario.





L’intervallo di tempo trascorso permise la differenziazione delle facciate dei piloni: così abbiamo il prospetto interno (affacciato sulla città) con caratteristiche più tendenti agli stilemi rinascimentali, mentre il secondo (successivo al primo, terminato dagli architetti Pietro Novelli, Smiriglio e Vincenzo Tedeschi, prospiciente al mare), realizzato con rivestimenti e sculture in marmo grigio dai caratteri e dalle connotazioni tipicamente barocchi.





La porta si erge su due livelli. Nel lato esterno – che si avvicina molto al gusto barocco – il primo livello, di ordine dorico, presenta due coppie di colonne architravate poste su piedistalli. Al centro delle colonne stanno in basso le due fontane, e al centro le due nicchie con statue di canefore. Al di sopra delle nicchie vi sono due lastre commemorative, con epigrafi magnificanti Filippo IV di Spagna.





Il secondo livello, quello su cui si trovano i terrazzi e i vani affrescati da Pietro Novelli e Gerardo Astorino, è scandito da lesene, tra le quali si aprono due grandi porte finestre sormontate da mascheroni e arpie. Al di sopra delle finestre, tra riccioli e volute di raccordo, stanno le due grandi aquile coronate marmoree, simbolo della città, che reggono le insegne reali e l’acronimo SPQP (Senatus PopulusQue Panormitanus).Ai lati sono incastonati i doppi scudi con le armi del viceré e della città.Infine, al di sopra del secondo livello, delle balaustre in marmo creano due ulteriori terrazzi. A ridosso dei due piloni della porta si trovano i due corpi scala, in semplice muratura, alla cui sommità sulle balaustre troviamo le due statue di Santa Cristina e Santa Ninfa





La facciata interna, realizzata in conci intagliati, per mancanza di particolari scultorei e marmorei , presenta la ripartizione su tre ordini. Al piano terra le porte d’accesso ai piloni. Nel secondo ordine un balcone e una finestra incorniciati da dettami in stile rinascimentale. Al terzo la balconata belvedere con contrafforte a ricciolo. I vani costituivano appartamenti ad uso dei pretori cittadini. Il varco interno nella sua profondità non presenta alcun rilievo se non i cornicioni marcapiano fra il secondo e il terzo ordine sui quale si sviluppano i balconi con porte sormontate da timpani. Il manufatto misurava 92 palmi d’altezza per 54 di larghezza, con un vano di passaggio largo 32 palmi.





La peculiare struttura della Porta, fatta apposta per fare passare senza problemi le macchine processionali, ha dato adito parecchie storielle: la più famose riguarda Patrik Brydone, scrittore, scienziato, militare e viaggiatore scozzese, che in visita a Palermo nel 1770, rimase sorpreso dalle abitudini sentimentali locali, tanto da dire a un suo ospite palermitano





“La passeggiata ribocca di vetture e di pedoni. A fine di meglio favorire gli intrighi amorosi
è espressamente vietato a chicchessia di portar lume. Tutte le torce si spengono a Porta Felice, ove i lacchè attendono il ritorno dei loro padroni e la intera adunanza resta per un’ora o due nelle tenebre, a meno che le caste corna della luna, mostrandosi ad intervalli, non vengano a dissiparle”.





Il suo interlocutore rispose che, oltre a quelle della casta luna, di corna ce ne erano ben altre: quelle dei mariti delle nobili dame che frequentavano la passeggiata notturna alla Marina e che quindi era stato necessario non costruire l’arco della porta, per dar modo ai poveri mariti di passare tranquillamente senza il rischio di rimanervi intrappolati a cause delle escrescenze della loro testa.

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Published on December 05, 2020 04:25

Alessio Brugnoli's Blog

Alessio Brugnoli
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