Pirro XIII
Dopo la battaglia di Maleventum, tra Pirro e Romani si raggiunse una situazione di stallo: il re epirota con le truppe che aveva a disposizione, poteva resistere in Italia a tempo indefinito, ma certo non costringere il nemico a un accordo.
D’altra parte i Romani, che non potevano essere sconfigge, non erano riusciti ad annientare Pirro, né avevano ancora le capacità per costituire un pericolo per l’Epiro. Per cui, il nostro eroe, dopo avere fatto un vano tentativo per indurre Antigono Gonata e Antioco Sotere di Siria a inviargli rinforzi, i due re furono così miopi da non rendersi conto che più tempo e risorse Pirro impiegava in Italia, meno le avrebbe avute per danneggiare i loro interessi, decise di raggiungere un tacito compromesso con i romani. Si imbarcò con le truppe per tornare a casa, lasciando a Taranto un presidio comandato dal figlio Eleno e dal suo luogotenente Milone.
Roma, felice per l’allontanarsi di un avversario così formidabile, si guardò bene dall’infastidire la polis pugliese. Pirro, nonostante non avesse realizzato i suoi obiettivi strategici, la conquista della Magna Grecia e della Sicilia, però in fondo non tornava con un pugno di mosche: per prima cosa, aveva a disposizione le grandi ricchezze tarantine, che risolveva il tradizionale problema della mancanza di fondi dell’Epiro.
Poi, aveva fatto tesoro dell’esperienza: non solo aveva testato i limiti della falange, di cui tutti i generali dell’epoca erano più o meno consapevoli, ma, memore delle tattiche romane, aveva anche capito come superarli.
Tornata a casa, però, Pirro si era trovato in situazione geopolitica assai complicata: Antigono Gonata, il figlio di Demetrio Poliorcete, aveva fatto pace con Antioco Sotere rinunciando a ogni pretesa sull’Asia Minore, aveva acquistato prestigio con una grande vittoria sui Galli presso Lisimachia, e poi, invasa la Macedonia, aveva ricuperato il regno paterno e posto fine all’anarchia, ponendo un’ipoteca a tutte le ambizione sull’area dell’Epiro.
Anche le condizioni della Grecia erano assai migliorate. Respinta l’invasione celtica, gli Etoli erano divenuti la potenza preponderante della Grecia settentrionale, la Beozia e l’Attica erano indipendenti, sebbene deboli e sebbene Antigono avesse conservato il possesso del Pireo. Nel Peloponneso si equilibravano gli Spartani, che avevano ripreso alquanto vigore sotto il governo energico di re Areo, e gli alleati della Macedonia, e qualche conato di rinnovata libertà repubblicana si cominciava ad attuare in Acaia. Di conseguenza, l’Epiro rischiava di tornare a essere quello che era sempre stato, una potenza di secondo ordine.
Per cui, Pirro decise di agire da par suo: riorganizzò l’esercito e nel 274, invase la Macedonia: Antigono Gonata sottovalutando l’avversario, decise di affrontarlo in battaglia nella stretta gola del fiume Aoos. Fu un colossale disastro, per Antigono. Il re macedone decise di sfondare lo schieramento con la falange, ma questa fu messa in grande difficoltà dagli arcieri italici, non riuscendo ad avanzare.
Per cui Antigono ebbe l’idea di utilizzare i suoi elefanti contro l’epirota, ma questo lo sorprese utilizzando le stesse tattiche che Publio Sulpicio Saverrione aveva utilizzato contro Pirro: i pachidermi macedoni, ridotti a puntaspilli, voltarono le terga e in fuga, travolsero la loro falange. A peggiorare la situazione, inoltre, un contingente di celti e mercenari italici avevano attaccato la retroguardia di Antigono, massacrandola. Presi tra i due fuochi, i pezeteri macedoni si arresero in massa a il loro re, temendo di essere catturato, abbandonò la sua ricca panoplia, fuggendo travestito da soldato semplice.
Pirro conquistò la Tessaglia e la Macedonia Superiore, ma ebbe enormi difficoltà a espugnare le città marittime, fedeli ad Antigono, dato che queste, visto che Pirro era privo di una flotta decente, potevano resistere a tempo indefinito a qualsiasi assedio. In più Antigono, nonostante le vecchie ruggini stava trattando un’alleanza con Areo di Sparta, per stringere in una morsa l’epirota. Il quale decise di agire da par suo.
Approfittando del fatto che Areo aveva guidato gran parte delle sue truppe a Creta, partecipando come mercenario in una delle strampalate guerre civili locali, azzardò un blitz verso Sparta: nell’ipotesi migliore avrebbe conquistato senza colpo ferire la Laconia, in quella peggiore, avrebbe stanato Antigono, costringendolo a una battaglia campale che Pirro era convinto di vincere.
Con grande rapidità di mosse, attraverso l’Etolia che gli era amica, condusse l’esercito sulle sponde del golfo corinzio e lo tragittò nel Peloponneso. Qui fu accolto a braccia aperte dagli Achei, dagli Elei e da parte degli Arcadi che speravano in lui il tutore della propria libertà. Gli si diede perfino Megalopoli, che da tempo era come la cittadella del dominio macedonico nel Peloponneso; e Pirro invase la Laconia portando con sé un pretendente di sangue reale, Cleonimo, che voleva sostituire ad Areo. Sì, proprio il genialoide che dopo essere stato cacciato a pedate da Thurii dalle legioni romane, aveva tentato di conquistare Padova, per essere preso a randellate in capo dai veneti.
Così Pirro giunse nei pressi di Sparta con con un esercito di 25 500 uomini e 24 elefanti. Secondo il racconto di Plutarco, che cita a sua volta Filarco, mentre gli Spartani stavano per prendere la decisione di inviare le donne al sicuro a Creta, Archidamia, la vedova del re Eudamida I piombò nella Gherusia con la spada sguainata, rimproverando gli anziani perché pensavano che le Spartane avrebbero tollerato di poter sopravvivere alla distruzione di Sparta.
Quella notte, le donne di Sparta scavarono una profonda fossa davanti alla città, che al tempo non aveva alcun tipo di mura o fortificazione difensiva, consentendo agli uomini rimasti in città di riposarsi in vista della battaglia imminente. Chilonide invece, non volendo ad alcun costo tornare col marito in caso di sconfitta, si mise un cappio al collo pronta al suicidio.
Il giorno seguente, la fossa scavata dalle donne di Sparta nella notte ostacolò l’assalto dell’esercito di Pirro in maniera decisiva, e nella battaglia che ne seguì, dove Acrotato si distinse in modo esemplare, gli Spartani riuscirono a respingere i nemici, con l’aiuto e il supporto delle donne che, pur non partecipando direttamente alle azioni belliche, aiutavano nelle operazioni logistiche.
Nei giorni successivi, l’arrivo da Corinto dei mercenari di Aminia Foceo, generale di Antigono II Gonata, e il successivo ritorno del re Areo I da Gortyna, misero in difficoltà Pirro, che rischiava di essere preso tra due fuochi, come a Maleventum. Il sovrano epirota, però, mantenne il sangue freddo e decise di procedere per linee interne: con massima rapidità, avrebbe sconfitto il nemico principale, Antigono, per poi rivolgersi con tutta calma contro Areo.
Antigono, però, memore della batosta sul fiume Aoos, invece di affrontare Pirro in battaglia, si asserragliò ad Argo, nella speranza che Areo prendesse alle spalle le truppe epirote. Ma il macedone, per l’ennesima volta aveva sottovalutato l’avversario.
Grazie a una spia, Pirro entrò nella notte con le sue truppe ad Argo, prendendo di sorpresa Antigono e massacrando le sue truppe in una mischia furibonda. Intravedendo da lontano il re macedone, Pirro si tolse l’elmo, che gli era d’impaccio, e si lanciò a cavallo nel cuore della battaglia. Un colpo di lancia era riuscito a ferirlo; a menarlo era stato un giovane argivo, impegnato nel combattimento pur senza appartenere alle forze regolari. Pirro si era volto subito contro di lui, nel tentativo di neutralizzarlo. Mentre si preparava a ucciderlo, tuttavia, un colpo tremendo ricevuto al capo lo aveva costretto a lasciare le redini del cavallo facendolo cadere a terra disarcionato. Non era stato un guerriero a sferrarlo. Affacciata alla finestra sopra di lui, infatti, l’anziana madre del giovane argivo – temendo per l’incolumità del figlio, ormai spacciato – aveva afferrato il primo oggetto a portata di mano, una tegola, e con tutte le sue forze l’aveva scagliato contro l’invasore. Ormai quasi privo di sensi e con alcune vertebre spezzate, Pirro era stato riconosciuto da un soldato di Antigono, il quale lo aveva trascinato presso una porta che si trovava nelle vicinanze. Pur semisvenuto, il re epirota alla vista della spada che stava per abbattersi su di lui aveva provato a reagire, dimenandosi e cercando di schivare i colpi. Ogni sforzo, tuttavia, doveva risultare vano. Era quello il tragico epilogo della vita di un grande condottiero, a cui la sorte aveva negato perfino la consolazione di una morte gloriosa.
Alla vista della testa dell’avversario recisa dal corpo, recatagli come trofeo, si racconta che Antigono versasse calde lacrime, consapevole della capricciosa mutevolezza della fortuna che si era accanita questa volta contro Pirro, ma avrebbe potuto presto riservare anche a lui il medesimo destino. Con tutti gli onori, quindi, egli diede l’ordine di bruciare il capo e le membra del valoroso nemico, come si conviene a un degno contendente. Poi, stipulò la pace con i figli di Pirro: questa ridava ad Antigono la Macedonia, ma lasciava loro l’Epiro coi territori acquistati dal padre in Grecia. Un compresso che era necessario alla Macedonia, la quale aveva bisogno di un periodo di raccoglimento e di consolidamento.
Alla notizia della morte del sovrano epirota, i romani mobilitarono le legioni, per chiudere definitivamente la partita con Taranto, i cui abitanti tentarono una mossa disperata, chiedendo la protezione a Cartagine. Il senato punico si perse in uno sproposito di discussioni: da una parte vi era il partito mercantile, a cui facevano gola le ricchezze tarantine e la possibilità di avere un hub commerciale diretto con la Grecia, dall’altra quello agricolo, che non voleva violare l’alleanza con i Romani.
Alla fine, prevalsero i primi, grazie a un’interpretazione alquanto capziosa del trattato, analoga a quella che ne daranno in futuro i Romani, che scatenerà la Prima Guerra Punica. Ma la notizia dell’arrivo di una flotta cartaginese preoccupò alquanto Milone, che nella campagna siciliana di Pirro ne aveva combinate di cotte e di crude e che temeva di essere condannato a una morte lenta e dolorosa come criminale di guerra da parte dei punici. Per cui, Milone, per salvarsi la pelle, aprì le porte alle legioni romane.
Fin qui la storia: ma dato che mi dedico all’ucronia, come testimonia il mio ultimo romanzo, Io Druso, possiamo interrogarci su come sarebbe cambiata la storia se Pirro non si fosse tolto l’elmo. Probabilmente, avrebbe sconfitto ed eliminato Antigono, avrebbe raggiunto un accordo con Arato, dato che Sparta, nella sua visione geopolitica, aveva un ruolo assai secondario. Da quel momento in poi, si sarebbe dedicato a rafforzare il suo predominio in Grecia.
Dato che tutto si può dire di Pirro, tranne che non fosse tenace o meglio, testardo come un mulo, probabilmente alla prima occasione possibile, avrebbe cercato la rivincita con Roma. Essendo il Senato ben consapevole di questo, di certo avrebbe evitato di servirgli l’occasione su un piatto d’argento. Per cui, nel dibattito se intervenire o no a favore dei Mamertini contro Cartagine in Sicilia, probabilmente sarebbe prevalsa la posizione più cauta e l’espansionismo romano si sarebbe concentrato a Nord, verso i liguri e la Gallia Cisalpina.
Ora, capiamoci, a causa degli interessi economici delle città campane e della Magna Grecia, la Prima Guerra Punica, ci sarebbe stata lo stesso, ma tardata di una o due generazioni. Se invece i senatori romani fossero stati così ottusi da impelagarsi lo stesso in Sicilia nel 264, Pirro ne avrebbe sicuramente approfittato, alleandosi con Cartagine e riportando la guerra in Italia… E per Roma, la situazione sarebbe diventata assai complicata…
Alessio Brugnoli's Blog

