Pirro XI

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Di fatto l’intervento diplomatico di Cartagine, aveva messo Pirro in una situazione difficile: dinanzi al rifiuto romano di un compromesso, le truppe e le finanze epirote sarebbero state progressivamente logorate in una guerra d’attrito, che il greco non era pronto a combattere, anche in presenza di alleati italici poco propensi a fornire soldati e oro.





A differenza di Annibale, che si trovò nella stessa situazione, invece di fare la fine del topo, Pirro ebbe l’intuizione di cambiare strategia: invece di cercare di condurre alla ragione i romani, avrebbe colpito al cuore gli interessi dei loro alleati.





I cartaginesi, messi alle strette, avrebbero così smesso di foraggiare i senatori, che avrebbero finalmente accettato la divisione in sfere d’influenza della Magna Grecia. Di conseguenza, la nuova strategia epirota venne articolata in tre punti





a) Contenimento dell’avanzata romana a sud, grazie all’alleanza con i Sanniti e le altre popolazioni italiche
b) Sottomissione, con le buone o con le cattive, delle città greche della Sicilia, sfruttando la sua parentela con Agatocle
c) Conquista dell’Epicrazia cartaginese: ricordiamo come Zyz, la nostra Palermo, era la seconda città dell’impero punico e tra le sue più importanti fonti di entrate fiscali.





Con Cartagine fuori dei giochi e le risorse siciliane a disposizione, Pirro era poi convinto di chiudere la partita con Roma: consolidata così la sua posizione in Italia, avrebbe potuto ampliare la sua sfere d’influenza in Macedonia e in Grecia.





Disegno forse troppo ambizioso, ma che era facilitato dal manicomio che si era creato in Sicilia alla morte di Agatocle. Le maggiori poleis erano in mano di signori locali (un Eracleide a Leontinoi, un Tindaro a Tauromenion, un Onomarco a Katane), mentre a Siracusa era stato eletto strategòs aurokrátor Iceta di Siracusa, che ricoprì la carica fino al 279 a.C. A Siracusa era in atto un conflitto interno, motivato dal rifiuto di concedere la cittadinanza ai mercenari di Agatocle ora senza padrone.





Concordato con essi che avrebbero potuto vendere i propri beni e lasciare la Sicilia, essi si allontanarono da Siracusa, ma razziarono Gela e Camarina, per poi volgersi verso Messana, che fu occupata e ribattezzata Mamertina, dal nome che essi stessi si erano dato, “Mamertini”, nel sogno, condiviso con Tauriani di Mamertion e Decio Vibellio di Rhegion, di creare una sorta di federazione osca, che controllasse le due rive delle Stretto.





In questo panorama, i Cartaginesi erano riusciti ad imporsi in tutta l’isola (segnatamente ad Akragas, ma anche a Gela, dove poi sarebbe passato il tiranno Finzia, che avrebbe raso al suolo la città e deportato la popolazione per fondare, nei pressi dell’odierna Licata, il centro di Finziade): solo Mamertina e Siracusa erano rimaste libere. Quando i Mamertini decisero di scagliarsi contro quest’ultima, Siracusa, insieme ad Akragas e Leontini, ricorse a Pirro, sperando, probabilmente, che l’intervento del condottiero epirota rappresentasse una fase transitoria.





Nel 278 a.C. Pirro, dopo aver preparato la spedizione con l’invio di ambasciatori, riuscì a sfuggire alla flotta punica e ad approdare con 10.000 uomini a Tauromenion, appoggiato dal tiranno Tindaro.





Di qui, seguito via mare dalla flotta, giunse trionfalmente a Siracusa, accolto come un liberatore. Nella polis aretusea riuscì a mediare tra Thoinon e Sosistrato: il primo è fatto phróurarchos (cioè sovrintendente ai phrouria), il secondo è posto al comando dei mercenari. Stando a Polibio, ricevette la carica di eghemon e di basileus. Riprese la simbologia usata da Agatocle nella coniazione di monete d’argento (la testa di kore), segno del desiderio di richiamarsi all’ex suocero. Stessa cosa accade per le pregiatissime monete d’oro, con l’immagine della dea Nike.





Pirro inglobò la propria flotta con quella di stanza a Siracusa. La città possedeva oltre 120 navi, di cui 20 senza ponti, e un enneres reale; Pirro così aumentò la sua flotta di oltre 200 navi. Eraclide di Leontini presentò a lui le sue città e l’esercito di 4.000 fanti e 500 cavalieri. Arrivato a comandare un esercito di 37.000 uomini, il sovrano epirota fece partire la terza fase del suo piano. Per prima cosa, mise a ferro e fuoco le campagne di Messina, per evitare che i Mamertini prendessero strane iniziative, distruggendone le piazzeforti e uccidendone gli esattori





Poi, si diresse contro l’Epicrazie e i suoi alleati: nel 277 a.C. catturò Erice, la più munita fortezza filo-cartaginese sull’isola. A ruota seguirono le conquiste di Zyz, Eraclea Minoa ed Azone e la resa di altre città filo-puniche come Segesta, Iato e Selinunte nel 276 a.C. Come previsto da Pirro, dinanzi a questa ecatombe, Cartagine decise di sedersi al tavolo delle trattative.





La città punica, in cambio della pace, avrebbe riconosciuto a Pirro il dominio su Siracusa e sui suoi alleati, mano libera con i Mamertini, un ricco tributo e neutralità nella sua disputa con Roma. Pirro invece chiedeva, oltre a questo, il dominio su tutte le città greche, comprese quelle sotto il controllo cartaginese, come Agrigento e Selinunte e una moral suasion sul Senato Romano, affinché firmasse la pace.





I punici, pur essendo disposti a mediare tra Pirro e Roma, anche perché erano abbastanza sicuri dell’inutilità dei loro sforzi, non transigevano su Agrigento: per cui, Pirro, per costringerli a cedere, decise di assediare Lilibeo, trovando gli stessi problemi che affronteranno i romani nella Prima Guerra Punica. Senza il controllo del mare, la città era imprendibile.





Di conseguenza, imitando il suocero Agatocle, Pirro, decise per un ulteriore azzardo: portare la guerra in Africa, attaccando la stessa Cartagine, che dinanzi a tale pericolo, di certo avrebbe accettato le condizioni epirote. Però, per un’impresa del genere, serviva una flotta imponente che provò a fare finanziare dalle città siciliane, che intrapresero una sorta di sciopero fiscale. Per vincere la loro opposizione, Pirro cercò di reagire imponendo una vera e propria dittatura su tutte le città greche, che fece presidiare con forti guarnigioni. Questo a sua volta, scatenò una rivolta generale. Insomma, non solo i cartaginesi stavano vincendo senza combattere, ma Pirro, invece che in Italia, stava rischiando di essere imbottigliato in Sicilia.





In più, la strategia di contenimento in Italia era fallita clamorosamente: Roma era tornata in campo contro i popoli del Mezzogiorno. Il console Fabrizio, nel 278, aveva vittoriosamente combattuto contro i Lucani, i Bruzii, i Salentini e i Tarentini ed Eraclea, quell’anno stesso, si era consegnata ai Romani.Nel 277 il console Publio Cornelio Lucino, antenato di Silla, aveva espugnato Crotone, mentre nel 276 era caduta Locri e Taranto stava per essere messa sotto assedio





Per cui, carico di bottino, con una flotta di 110 navi tento di ritornare in Italia: secondo la tradizione, imbarcandosi, disse ai suoi soldati





“Che meraviglioso campo di battaglia stiamo lasciando, amici miei, a Cartaginesi e Romani”





mostrandosi facile profeta… Intanto, però, passando lo stretto, la sua flotta improvvisata fu assalita e in gran parte affondata dai cartaginesi

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Published on November 16, 2020 13:45
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Alessio Brugnoli
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