L’arrivo di Michelangelo
[image error]
La morte improvvisa di Antonio di Sangallo, avvenuta nel settembre 1546, mise di nuovo in crisi il cantiere di San Pietro: Paolo III, nel tentativo di non bloccare i lavori, decise di affidare l’incarico di Primo Architetto a Giulio Romano, che, data la vicinanza con Raffaello, aveva un’idea abbastanza chiara di tutte le traversie progettuali subite dalla basilica vaticana. Tuttavia, Giulio non fece neppure in tempo a prendere possesso della carica, dato che morì anche lui, in maniera alquanto inaspettata, nel novembre 1546.
Paolo III, allora, provò ad attuare una soluzione di compromesso: da una parte, affidò la gestione la gestione quotidiana del cantiere, allo scopo di realizzare nel concreto quanto previsto nel modello ligneo a tutti l’equipe di collaboratori e apprendisti di Sangallo, dall’altra, come una sorta di manager e uomo immagine, per raccogliere più donazioni possibili, gli affiancò il buon Michelangelo Buonarroti, che per accettare l’incarico, fece anche il prezioso.
Michelangelo, inizialmente, fece finta di rifiutare l’incarico adducendo “che l’architettura non era arte sua propria”; solo dopo le insistenze papali, “non giovando i preghi” accettò a settantuno anni “con sommo suo dispiacere e contra sua voglia” l’incarico, che viene ratificato l’1 gennaio 1547. La cronologia degli avvenimenti è ricostruibile con precisione sulla base dei racconti del solito Vasari, alquanto di parte, e delle lettere, assai più oggettive, che i deputati Giovanni Arberino e Antonio Massimi inviarono da Roma al loro collega Filippo Archinto, uno dei più influenti deputati della Fabbrica, che alla fine di novembre 1546 si era trasferito a Trento per seguire il concilio e gestirne la logistica, per non fare morire di fame e di sete i cardinali.
Il problema è che Paolo III non aveva considerato né il pessimo carattere di Michelangelo, né la sua avidità di denaro: il primo obiettivo dell’artista fiorentino fu quindi cacciare quella che Vasari definì impropriamente la “setta sangallesca”, composta dai deputati della Fabbrica e da una vasta schiera di imprenditori, commercianti e e capomastri, che seguivano il cantiere dai tempi di Bramante e che erano consapevoli le evoluzioni, i problemi e i compromessi che erano dietro al progetto, allo scopo di gestire personalmente gli appalti e il relativo, fisiologico, giro di bustarelle.
Vasari narra che durante una visita di Michelangelo a San Pietro, per vedere il modello di Sangallo e la Fabbrica, tutta la setta sangallesca si rallegrò in buonafede con il maestro per l’incarico ricevuto, affermando che quel modello è “un prato che non vi mancherebbe mai da pascere”; conoscendo, infatti la pessima fama dell’artista, si erano mostrati disposti a metterselo a libro paga, pur di non avere rotture di scatole e lavorare tranquilli.
Michelangelo, che puntava a tutto il banco, scese sul piede di guerra, replicando che la cosa risponde al vero “per le pecore e buoi che non intendono l’arte”.
In quell’occasione, poi, Michelangelo criticò pubblicamente il progetto sangallesco, con argomenti, per i paradossi della storia, molto simili a quelli utilizzati da Antonio nel suo memoriale contro Raffaello: sostenne infatti come l’illuminazione fosse insufficiente, che vi fossero troppi ordini di colonne all’esterno e che gli aggetti, le cuspidi e gli ornamenti dessero alla basilica un aspetto gotico,piuttosto che classico e moderno.
Infine, mentendo spudoratamente, conoscendo le preoccupazioni economiche di Paolo III, Michelangelo dichiarò che non terminando l’opera di Sangallo si potessero risparmiare trecentomila scudi e cinquanta anni di lavoro e edificare San Pietro con “più maestà e grandezza e facilità e maggior disegno di ordine, bellezza e comodità”
Per sottolineare ulteriormente tale concetto, presentò in un modello in legno costato 25 scudi e realizzato in quindici giorni, a ovvio discredito di quello realizzato da Sangallo, che era costato un occhio della testa.
Qualche giorno dopo, Michelangelo dichiarò pubblicamente di non volere più nessuno della setta sangallesca nella fabbrica; da quel momento la setta dichiarò guerra al fiorentino, con un odio che crescerà ogni giorno di più “nel veder mutare tutto quell’ordine drento e fuori, che non lo lassarono mai vivere, ricercando ogni dì varie e nuove invenzioni per travagliarlo”.
In pratica, oltre che applicare una sorta di sciopero bianco, nella spartizione degli appalti fecero terra bruciata a tutti i fornitori, legati, più o meno alla lontana, a Michelangelo, in modo da prosciugare le fonti delle bustarelle che riceveva.
Le critiche di Michelangelo al progetto sangallesco sono testimoniate anche da una lettera che alla fine del 1546 o nei primi giorni del 1547 inviò a un certo Bartolomeo, personaggio che era nelle grazie di Paolo III. Il fiorentino criticò come suo solito il modello di Sangallo, tirando fuori il suo asso nella manica, con il lodare spudoratamente Bramante “valente nella architectura quante ogni altro che sia stato dagli antichi in qua” e la “prima pianta di Santo Pietro” concepita dallo stesso Bramante “non piena di confusione ma chiara e schietta, luminosa e isolata a torno, in modo che non nuoceva a chosa nessuna del Palazzo”.
Con questa dichiarazione, Michelangelo toccò vette sublimi di cialtronaggine: era infatti sia consapevole della quantità industriale di progetti che il povero Bramante aveva dovuto presentate a Giulio II, sia del fatto che il progetto sangallesco era una naturale evoluzione di tali proposte, nel tentativo, anche velleitario, di conciliare le loro contraddizioni.
Per giustificare queste triplo tuffo carpiato, invece di riferirsi a questi progetti, Michelangelo si limitò a citare quanto effettivamente costruito da Bramante: i quattro pilastri di crociera e soprattutto il coro occidentale di Giulio II, che è “cosa bella, come ancora è manifesto”; quest’ultimo è a quel tempo l’unica struttura bramantesca visibile all’esterno, libero da ambulacri, cappelle e torri angolari e risolto con un unico ordine.
Elementi, ricordiamolo, che cozzavano tra loro e che erano stati eretti da una parte per coniugare le idee architettoniche di Bramante con le pressanti richieste di Giulio II di avere una sua cappella funebre, che ricalcava il progetto quattrocentesco del Rossellino; il coniugarli, aveva provocato una serie di esaurimenti nervosi a Fra Giocondo, a Giuliano da Sangallo, a Raffaello, a Peruzzi e ad Antonio da Sangallo.
Nella stessa lettera il fiorentino aggiunse “che chiunche s’è discostato da decto ordine di Bramante, come à facto il Sangallo, s’è discostato dalla verità”. Michelangelo toccò il culmine della malafede, re criticando la mancanza di luce del progetto sangallesco determinata dall’introduzione dei deambulatori, che si svolgevano lungo il perimetro della fabbrica, e avanzò con ironia il dubbio che i criminali possano essere invogliati a cercare rifugio in un edificio così pieno di “nascondigli fra di sopra e di socto, scuri, che fanno comodità grande a ’nfinite ribalderie”.
Insomma fece finta di dimenticare come questi fossero stati introdotti proprio dallo stesso Bramante: infine, mostrando di avere idee assai vaghe sulle dimensioni finali della basilica, accusò Sangallo di essere un grande distruttore poiché la sua pianta “nel circuire con la g[i]unta che ’l modello vi fa di fuora decta compositione di Bramante” interferirebbe con i Palazzi Vaticani e richiederebbe la demolizione di edifici importanti, come la Cappella Paolina, le Stanze del Piombo, la Ruota, la Cappella Sistina e le costruzioni adiacenti.
Nella chiusa della lettera Michelangelo chiese a Bartolomeo d’intercedere presso Paolo affinché acconsenta a far demolire il perimetro esterno delle absidi, mettendo in rilievo che la perdita sull’investimento costituito dal modello del Sangallo sarebbe stata più che compensata dalle economie consentite da una pianta più compatta.
Alessio Brugnoli's Blog

