Alessio Brugnoli's Blog, page 61
June 28, 2020
I musei civici di Vasto
Jacopo Caldora è assai poco noto, come capitano di ventura, eppure fu, a inizio Quattrocento tra i più famosi e rispettati condottieri: fu, ad esempio, colui che sconfisse e uccise Braccio da Montone e catturò Niccolò Piccinino ed il Gattamelata nella guerra dell’Aquila.
Questo immeritato oblio dipende forse dal fatto che la maggior parte delle sue imprese militari riguardarono le guerre civili del Regno di Napoli: argomento interessante, degno di un romanzo di Martin, ma che è poco bazzicato a scuola.
Come scrive bene Gothein ne Il Rinascimento nell’Italia meridionale
Caldora superava gli altri per fama di spirito cavalleresco e di magnanimità. Certamente non avea bisogno di procacciarsi la sussistenza, militando sempre ora per questo ora per quello stato; avendo per eredità una grande potenza – la sua casa era la più considerevole negli Abruzzi – poté fin da principio fare una politica propria. Diventò col tempo un forte guerriero, e, condottieri della sua scuola si sparsero e si fecero onore in tutta l’Italia; ma non condusse quasi mai una guerra che non fosse di suo interesse immediato, e che quindi non si combattesse a Napoli o ai suoi confini. Ciò nonostante la maggior parte degli stati gli mandarono stipendi regolari nel suo paese, solo per non essere attaccati da lui.
Da buon uomo del Rinascimento, amava la letteratura e l’arte, tanto da avere un suo architetto personale, il tanto geniale e misconosciuto Taccola, noto inventore di macchine: Caldora, oltre che utilizzarlo per le sue necessità belliche, Taccola era famoso per gli artifici con cui faceva crollare le mura delle fortezze nemiche, lo sfruttò, primo di una lunga serie di signori rinascimentali, per sistemare l’urbanistica di Vasto e trasformarla in una sorta di città ideale.
Taccola concepì il piano regolatore della città, ispirato ai principi di Ippodamo di Mileto, progettò il castello di Vasto, che adattava la pianta tipica delle costruzioni sveve all’architettura a bastioni del Quattrocento e una reggia, per testimoniare la ricchezza e la potenza del suo protettore. Sappiamo che Caldora nel 1427 pagò un indennizzo per i frati agostiniani, per comprare il loro giardino, allo scopo di realizzate il palazzo concepito dal Taccola, che Flavio Biondo, l’umanista autore tre guide documentate e sistematiche alle rovine dell’antica Roma, che gli diedero la fama di essere il primo degli archeologi, definì superbissimo.
Della costruzione originaria non rimangono altre descrizioni né in particolar modo immagini. Comunque l’esame dei muri fa intendere che il palazzo originario avesse all’incirca lo stesso perimetro, la stessa altezza e lo stesso numero di piani dell’attuale palazzo d’Avalos, che ha preso il suo posto. Però, negli ultimi anni i restauri hanno evidenziato come il Taccola tentò di realizzare una sintesi culturale, per l’epoca, audacissima, che è tra i modelli del complesso, variagato e, per colpa del solito Vasari, sottovalutato Rinascimento meridionale. Da una parte impostò un’articolazione degli spazi architettonici ispirata a Vitruvio, analoga a quanto concepito da Brunelleschi nel Palagio di Parte Guelfa a Firenze: dall’altra, adottò audacissime soluzioni strutturali derivate dal gotico catalano e maiorchino, che alleggerendo la struttura, rendeva più economica e veloce la costruzione rispetto ai modelli toscani. A tutto ciò si univa, nelle trifore e nei portali, una ricchezza decorativa ispirata invece al gotico francese.
Il 15 novembre 1439, Caldora fu colto improvvisamente da un’emorragia cerebrale o da un colpo apoplettico che lo portò alla morte:
«…E mentre quelli travagliavano di accordare i soldati, e ei passeggiava per lo piano, discorrendo co’l Conte d’Altavilla [Luigi di Capua], e con Cola di Ofieri, del modo che potea tenere per passar à Napoli, li cadde una goccia dal capo nel cuore, che bisognò che ‘l Conte lo sostenesse che non cadesse da cavallo, e disceso, da molti che concorsero fù portato al suo padiglione, dove poche hore dopò [alle ore 23:00] uscì di vita à 15 di novembre 1439. Visse più che settant’anni in tanta prospera salute, che quel dì medesimo si era vantato, che haveria di sua persona fatto quelle prove, che facea quando era di venticinque anni, fù magnanimo, e mai non volle chiamarsi, nè Principe, nè Duca possedendo quasi la maggior parte di Abruzzo, del contado di Molise, di Capitanata, e di Terra di Bari, con molte nobilissime città, mà li parea che chiamandosi Giacomo Caldora superasse ogni titolo, hebbe cognitione di lettere, e amava i capitani letterati più che gl’altri.»
Vasto fu lasciata in eredità al figlio primogenito Antonio Caldora, che ottenne dal Re Renato d’Angiò anche il titolo di viceré del Regno di Napoli: con la vittoria aragonese, Antonio perse tutto e il feudo fu affidato alla famiglia spagnola dei Guevara, che a quanto pare, completarono il palazzo. Dopo varie vicende Vasto nel 1496 passò ai d’Avalos, i quali si trasferirono in massa nell’ex Palazzo Caldora, che divenne il centro direzionale e amministrativo della città: oltre ai nobili, vi dimoravano ufficiali, assessori ed altri funzionari oltre al vice-marchese che curava la rappresentanza dei feudatari in loro assenza.
Nel 1456 forse il palazzo fu danneggiato da un terremoto, in seguito passò un periodo di oblio giacché il marchese Alfonso III si recava di rado nei suoi possedimenti abruzzesi. Per contro, nel 1552 furono ordinati dei restauri dal suo successore Francesco Ferdinando, un documento notarile custodito nell’Archivio di Stato di Lanciano attesta che i lavori principali interessarono volta, coperture, solai e tramezzature in legno. Successivamente Francesco Ferdinando, Gran Camerlengo del Regno di Napoli nel 1568, divenuto viceré di Sicilia, prese dimora a Palermo ed entro due anni dopo il palazzo di Vasto era stato distrutto dalle lotte degli Stati cristiani contro gli ottomani. Piyale Pascià, sconfitto l’anno precedente, volle prendersi nel 1566 una rivincita saccheggiando l’Italia meridionale assalendo anche Vasto approfittando dell’assenza del marchese. Il palazzo, quindi, fu assediato ed incendiato dalle truppe del pascià, indi bruciò per dieci ore.
Il palazzo rimase diroccato fino al 1573 quando l’Università, il comune per capirci, di Vasto ottenne da Isabella Gonzaga, vedova del marchese Francesco Ferdinando, il permesso di ristrutturare qualche locale dell’edificio come alloggio dell’ufficiale rappresentante, ma anche per restaurare alcuni ruderi che stavano minacciando di rovinarsi. Il rifacimento cominciò verosimilmente nell’angolo nord-ovest che corrisponde alla chiesa di sant’Agostino, attualmente chiamata chiesa di San Giuseppe, questi locali vennero chiamati, dopo il restauro, “quarto di Sant’Agostino”. I restauri furono continuati dal cardinale Innico d’Aragona fratello di Francesco Ferdinando e tutore del nipote Alfonso Felice, tuttavia, una sua lettera all’Università di Vasto afferma che i lavori non furono ultimati nel 1587. Il progetto della ricostruzione è ancora in fase di discussione, comunque Viti afferma fra Valerio de Sanctis, conventuale di San Francesco.
Il palazzo fu frequentato dai D’Avalos sino all’abolizione dei diritti feudali del 1799: da quel momento in poi cominciò la progressiva decadenza del complesso, che durò sino al 1974, quando il comune di Vasto acquistò il palazzo dalla famiglia d’Avalos ed in seguito l’ha fatto restaurare fondandovi vari musei
Il primo è il Museo Archeologico è uno dei più antichi d’Abruzzo, fondato nel 1849 come Gabinetto Archeologico Comunale di Vasto con manufatti messi a disposizione dai cittadini e ampliato con i reperti raccolti dallo storico direttore Luigi Marchesani nel corso di rinvenimenti in città e nel territorio. Ospitato inizialmente nel palazzo comunale, fu in seguito trasferito al piano terreno di Palazzo d’Avalos. Al suo interno sono conservati reperti archeologici che testimoniano fasi storiche dall’età del ferro al periodo frentano (dal IX al III sec a.C.), dalla fondazione e sviluppo della città romana di Histonium all’Altomedioevo. Da ricordare i corredi funebri delle necropoli del Tratturo e di Villalfonsina, i bronzetti votivi dei santuari locali tra cui il guerriero offerente con corazza anatomica e per la fase romana il sarcofago bisomo di Publius Paquius Scaeva. Quello attuale è il frutto dell’ultimo allestimento del 1998, quando il museo fu riaperto dopo un periodo di chiusura per consentire lavori di restauro e consolidamento del complesso architettonico.
Vi è poi il il Museo del Costume, istituito nel 2000 ad iniziativa del Lions Club Vasto Adriatica Vittoria Colonna, espone preziosi abiti e corredi abruzzesi databili dagli inizi dell’800 ai primi del 900, donati da famiglie vastesi che hanno così voluto contribuire alla costituzione di questa singolare raccolta. L’artista illustratore vastese operante a Genova Pier Canosa ha ulteriormente arricchito la raccolta con una serie di splendide litografie raffiguranti i tradizionali costumi dei centri dell’Abruzzo. Con “costume” si intende l’insieme di abbigliamento, lingérie, tovagliati, lenzuola, dunque il guardaroba di un tempo, e cioè il corredo che accompagnava le donne quando, spose, lasciavano la casa paterna. Ad affiancare il corredo ci sono culle, port-enfants, corredini per neonati, attrezzi da lavoro femminile. Inoltre rivivono sui manichini abiti da cerimonia, compreso un abito da sposa del ‘700, donato dalla famiglia Castelli, e abiti di carattere ufficiale.
Terzo museo è la Pinacoteca storica, fondata per custodire le opere donate alla città nel 1898 da Giuseppe, Filippo, Nicola e Francesco Paolo Palizzi e da alcuni privati. I quattro fratelli, tutti pittori, a partire dal 1836 si trasferirono a Napoli per completare la loro formazione artistica già iniziata a Vasto. Nel fervido ambiente napoletano entrarono in contatto con le idee innovative della Scuola di Posillipo, partecipando ai movimenti che miravano al rinnovamento della pittura di paesaggio rispetto al vedutismo settecentesco e alla pittura aulica neoclassica. Nel corso del tempo, grazie anche ai soggiorni parigini, giunsero tutti variamente a una maggiore aderenza ai modi della realtà, dipingendo dal vero e attraverso la conoscenza e lo scambio con artisti e movimenti europei. Fra le opere esposte ricordiamo di Filippo Palizzi, il più noto dei fratelli, i Due Pastorelli, Olanda, il Muletto. Oltre alle opere dei Palizzi la pinacoteca annovera anche opere di Gabriele Smargiassi, Francesco Paolo Michetti e Giulio Aristide Sartorio.
Infine, sempre nel palazzo è custodita la Collezione di Arte Contemporanea, che trae origine dalla mostra permanente Mediterrania, frutto della donazione Paglione-Olivares alla città di Vasto. Sono ottanta opere di quattro artisti italiani (Bonichi, Carmassi, De Stefano, Falconi) e quattro spagnoli (Mensa, Orellana, Ortega, Quetglas)
A suo modo, costituisce un museo anche lo spettacolare giardino napoletano, rivolto verso il mare, è stato riportato all’antico splendore da un restauro che gli ha restituito l’originale impianto tardo settecentesco. La suggestiva organizzazione del giardino, a croce con pergolato su colonne, è una soluzione molto frequente nei chiostri e nei giardini napoletani dell’età barocca (basti pensare al celeberrimo chiostro di Santa Chiara). Al centro, dove ancora si trova un pozzo fra quattro sedili ricoperti in maioliche (da restauro), sorgeva un padiglione sorretto da colonne, oltre a due fontane ornamentali con giochi d’acqua. In origine esisteva anche un ninfeo, nel piccolo ambiente che si apre sulla destra, coperto a volta, con due piccole nicchie laterali in origine rivestite in conchiglie. Lo spazio del giardino prosegue nel giardinetto, terrazza panoramica rivolta verso il mare.
June 27, 2020
L’oratorio di San Mercurio
L’oratorio dedicato alla Madonna del Deserto (o della Consolazione) in San Mercurio si trova all’estremità sud-occidentale del Centro Storico della città di Palermo, a monte del quartiere dell’Albergheria, tra due complessi monumentali di grande importanza che sono quelli del Palazzo dei Normanni (a nord) e degli Eremiti (a sud). Secondo la divisione seicentesca della città in quattro parti dette Mandamenti, si tratta del margine estremo del Mandamento Palazzo Reale, ai limiti del tracciato delle mura cinquecentesche, in un’area che confinava con la Galka, il centro del potere sia arabo, sia normanno.
Oratorio che è l’unico esistente dei due che erano posseduti dall’antica compagnia della Madonna della Consolazione in San Mercurio fondata nel 1572 e che svolge un ruolo importantissimo nella storia dell’arte palermitana: secondo Donald Garstang, uno dei massimi esperti della famiglia Serpotta, è la prima importante commissione di un Giacomo poco più che ventiduenne; il putto tipico di Giacomo qui è nella sua fase primordiale
con testa grossa, capelli soffici e ricciuti, arti paffuti e addome pronunciato.
Nell’oratorio di San Mercurio si nota la commissione in più anni secondo le disponibilità economiche della Compagnia della Madonna del Deserto; esso comunque rappresenta il summa dell’operato, nell’arco di 100 anni e a cavallo tra due secoli, della bottega Serpotta (Giacomo, il fratello Giuseppe, il figlio Procopio e il genero di quest’ultimo Gaspare Firriolo).
In epoca punica e romana, in cui Panormos era delimitata in quel lato dal letto del fiume Kemonia, l’area in cui sorge l’oratorio era di fatto campagna: le cose cambiarono progressivamente in epoca paleocristiana e bizantina. Da una parte, essendo isolata, garantiva la zona garantiva un minimo di tranquillità a monaci ed eremiti, dall’altra la ricchezza della presenza di sorgenti, permetteva di risolvere il problema di rifornimento idrico dei vari cenobi.
Di conseguenza, non più tardi del IV secolo dovrebbe essere stata edificata una chiesetta che occupava approssimativamente il sito dell’attuale San Giuseppe Cafasso, ossia San Giorgio in Kemonia, di cui parlero in futuro, un convento dedicato a Sant’Ermete, dove è il nostro San Giovanni degli eremiti, convento ampliato e ristrutturato da papa Gregorio Magno e la chiesa della Pinta, voluta da Belisario.
Ai tempi di Balarm, la zona divenne parte di un ribat, i cui ghazi, combattenti per le fede islamica, provocarono uno sproposito di grattacapi agli emiri locali.Durante il periodo normanno l’area, a causa della vicinanza al Palazzo Reale, crebbe d’importanza, diventando sede di un importante cimitero destinato alle persone di corte con la sola esclusione dei re e dei principi ereditari, alla cui sepoltura era riservata la cattedrale.
I Normanni si preoccuparono inolte di racchiudere la città in una cinta muraria più ampia proteggendo i borghi sorti frattanto fuori le mura. Tale cinta muraria fu nel tempo variamente rinforzata e munita di torri e di nuovi accessi; tra questi, era la porta Mazara, che aperta nella prima metà XIII sec. fu restaurata nel 1326 da Federico d’Aragona, di cui parlerò le prossime settimane
Da questo momento, le mura che correvano lungo il fronte verso la campagna sud-occidentale cominciarono a rappresentare un motivo unificante per la frangia estrema del tessuto edilizio cittadino, allo stesso tempo, contrapponendosi alla direzione del torrente Kemonia, come una cesura – non ancora definitiva – tra la parte alta del fiume (la cosiddetta Fossa della Garofala) e quello che era stato il suo letto naturale fino alla foce.
All’interno delle mura normanne, nel 1148, per volontà del Re Ruggero II, il complesso di San Giovanni degli Eremiti fu riedificato sulle rovine del precedente monastero di Sant’Ermete ed affidato ai Benedettini. La chiesetta di San Giorgio in Kemonia dopo essere stata
“profanata e rovinata da’ saraceni fu da Principi Normanni riedificata e data a monaci Basiliani Greci”
e dal 1307 divenne gancia dei Cistercensi.
Le cose cambiarono ulteriormente nel Cinquecento, sia per gli interventi idraulici per regolare il corso del Kemonia, sia per la costruzione dei bastioni spagnoli. Così, quando nel 1557, per celebrare il ritrovamento di un’antica icona bizantina, venne monumentalizzata un’antica chiesetta ipogea di epoca paleocristiana dedicata a San Mercurio che sostituì l’antro di epoca romana dedicato al dio Hermes, protettore della salute, la nuova struttura si adeguò all’andamento delle mura. Chiesa, quella ipogea, attualmente inaccessibile, dato che nel 1782 ne fu murato l’ingresso, con la costruzione dell’attuale pavimento.L’oratorio di San Mercurio era, a metà Cinquecento di proprietà della Compagnia degli Infermi, che aveva il compito di aiutare a ben morire gli ammalati del vicino Spedale Grande.
Altre trasformazioni seguirono in zona: la chiesa del convento di San Giovanni degli Eremiti, già in decadenza, fu inglobata in un nuovo edificio che occupava l’area dell’attuale giardino; nel 1620 sorse la chiesa della Madonna dell’Itria o della Pinta, riedificata nel 1670. Sul fronte opposto della via dei Benedettini, nel corso del XVII sec., furono edificati il Convento e la chiesa dell’Annunziata e, nel 1680, fu fondato il reclusorio femminile detto “Ritiro delle Zingare”, rinnovato nel 1749. Nel 1765, i padri Olivetani dello Spasimo, succeduti ai Cistercensi, riedificarono la chiesa di San Giorgio.
Nel frattempo, nel 1640, la compagnia di San Mercurio fece costruire un secondo oratorio, parallelo alle mura: se quello più antico fungeva da luogo di custodia e devozione per l’antica icona bizantina, il nuovo edificio svolgeva il ruolo di sede sociale. Nel 1670 l’incarico di decorare l’altare del nuovo oratorio a Giovan Battista Firrera, impegnato nella realizzazione di diverse statue nella cattedrale: nel contratto è specificato come l’artista sia incaricato di realizzare stucchi, colonne tortili e decorazioni dell’arco trionfale. Il tutto sarà perduto nel XVIII secolo.
A quanto pare, Firrera morì intorno al 1675: per il completare il lavoro, la compagnia ingaggio nel 1677 Antonio Pisano, il quale, però dopo un paio di mesi, tirò le cuoia. Dato che si era sparsa la voce tra gli artisti palermitani che tale commissione portasse iella, i confrati dovettero sudare le sette camicie per trovare degli stuccatori. Alla fine, si rassegnarono a ingaggiare a Giacomo Serpotta e al fratello Giuseppe Serpotta, all’epoca perfetti sconosciuti, i quali terminano il lavoro nel 1682.
Dato che, per i successi professionali, Giacomo stava diventando esoso, nel 1686 l’incarico di decorare l’antioratorio fu affidato al solo Giuseppe Serpotta. Nuovi lavori furono eseguiti nel 1719. Sempre per colpa del solito Kemonia, il piano stradale si abbassò di colpo: di conseguenza, per accedere all’oratorio, fu costruito lo scalone monumentale. Inoltre, l’anno successivo, Procopio Serpotta, figlio di Giacomo, decorò la controfacciata.
Nel 1851, l’oratorio più antico, quello dell’icona bizantina fu reso impraticabile dall’alluvione del Kemonia: grazie a Gaspare Palermo, che nel 1858 cità i due oratorio
“in sito basso contiguo al Monistero di San Giovanni degli Eremiti e l’altro dirimpetto al primo”
quello più antico dovrebbe coincidere con il nostro pub lo Spillo, cosa non c’entra nulla, che consiglio per la birra. Dalle piante della seconda metà dell’Ottocento, parrebbe che, poco prima del 1890, sia stata realizzata l’attuale piazzetta la relativa ristrutturazione della facciata, che non è quella originale barocca.
In San Mercurio, come negli altri oratori serpottiani, troviamo lo schema architettonico tipico degli oratori del periodo, nonostante leggere variazioni dovute perlopiù alle esigenze degli spazi urbani. La tipologia adottata è molto semplice e standardizzata, ma dal punto di vista architettonico è interessante scoprire come, proprio a partire da una scatola muraria sempre uguale, costituita una semplice aula unica rettangolare (oratorio), preceduta da un vestibolo d’ingresso (antioratorio) e seguita da un vano minore che ospita l’altare (presbiterio), si sia riusciti ad inventare maniere nuove di cadenzare lo spazio e di rapportare questo alla veste decorativa.
L’antioratorio, dotato di un ingresso posto sempre ad una quota superiore al livello stradale, è disposto in modo trasversale rispetto all’aula, sulla quale si apre con un doppio ingresso, realizzato da due porte simmetriche. L’aula unica aveva sia una funzione di culto, durante le celebrazioni, che una funzione laica, come spazio di riunione per le Confraternite. Queste due funzioni influenzavano l’articolazione e la fruizione dello spazio interno. Infatti, sebbene oggi spesso siano andati persi alcuni arredi, sappiamo che tra le due porte si trovava un seggio dei superiori della Confraternita, mentre sui lati lunghi erano simmetricamente disposte le panche lignee per le assemblee; al di sopra delle panche correva una cornice continua in aggetto che delimitava lo schienale, solitamente rivestito in stoffa.
Al di sopra di tale alta finitura basamentale si aprivano ampie finestre, 3 o 4 per lato, sebbene l’ostruzione da parte di altri edifici abbia a volte costretto a realizzare su di un lato delle false finestre per rispettare comunque la simmetria della navata. L’aula unica con unica copertura, la disposizione delle panche fronteggianti e la luminosità diffusa facevano di tale spazio un perfetto luogo di confronto tra pari (i confratelli), con la sola eccezione dei superiori. D’altra parte, il vano che ospitava l’altare rimaneva distinto dall’aula dietro un’apertura riproducente il motivo dell’arco trionfale; oltre a ciò il presbiterio era impostato su di una quota leggermente superiore ed aveva una copertura a parte (volta o cupola) ed una illuminazione indipendente (diretta o indiretta a seconda della soluzione architettonica scelta). Al momento della celebrazione, invece, lo spazio interno doveva essere vissuto con una maggiore direzionalità longitudinale, secondo l’asse ingresso-altare.
Come si declina questa struttura in San Mercurio? Purtroppo, a causa delle complesse vicende dell’oratorio, molti elementi sono poco leggibili. Ad esempio, l’antioratorio è parzialmente occupato da un ingombrante meccanismo di collegamento verticale, costituito da una scala in legno e da un ponte, realizzato per permette l’accesso all’organo, che ha alterato i rapporti spaziali originali. Lo stesso si può dire per l’oratorio vero e proprio, in cui parte della cornice fu interrotta, dall’introduzione di altari laterali, oggi non più presenti.
Ora, rispetto altri oratori, la decorazione serpottiana è assai più sperimentale: sia perché l’artista doveva maturare il suo peculiare linguaggio, sia perché, probabilmente, doveva in qualche modo tenere conto di quanto realizzato dai precedenti decoratori. Sperimentalismo che si nota ad esempio dal fatto che la decorazione in stucco sia parzialmente slegata alla struttura architettonica dell’aula, utilizzando come riferimento solo le finestre e, cosa rarissima per Giacomo, per la presenza di una sorta di policromia, con la presenza di elementi decorativi color antracite.
L’articolazione delle pareti laterali è basata sul modulo ripetitivo della decorazione delle finestre, con doppie paraste ioniche, che reggono elaborate cornici accennando ad un movimento rotatorio, il quale fa dell’elemento verticale più interno quasi un pilastro a base romboidale: modulo che sappiamo essere stato impostato da Andrea Pisano e che Giacomo arricchisce e varia con l’introduzione dei suoi putti, che, con i loro diversi atteggiamenti, evitano la monotonia.
Abbiamo quindi
Prima finestra di destra: mostra un puttino impaurito aggrappato ad un angelo che scaccia i pericoli.
Seconda finestra di destra: mostra un puttino impaurito sostenuto da un angelo che preserva dal male.
Terza finestra di destra: mostra un puttino che rischia di cadere mentre un angelo lo salva legandolo con la propria veste e rischiando lui stesso di precipitare.
Prima finestra di sinistra: mostra un angelo che stimola al bene nell’azione di spingere un puttino indeciso. Ai lati due puttini in posizione particolare tentano di baciarsi, in riferimento alla frase contenuta nella Bibbia, Salmo 85, 11 Giustizia e Pace si baceranno.
Seconda finestra di sinistra: mostra un angelo e un puttino che indicano il cielo e richiamano a guardare in alto. Un cartiglio riporta la data 1678, scoperta da Donald Garstang.
Terza finestra di sinistra: mostra un angelo che rassicura un puttino; entrambi convergono legati da una veste.
Al di sopra delle finestre corre un’alta trabeazione decorata con dentelli ed ovuli, in un corretto stile ionico chiuso da una cornicetta lignea nera, su cui si imposta la volta del soffitto. Sulla parete dell’ingresso rigira il motivo dei lati lunghi e si intravvede un timido tentativo, poi riproposto in modo estremamente più consapevole a San Lorenzo, di strutturare il supporto murario coinvolgendolo nella decorazione con la presenza di una parasta angolare in leggero aggetto, poggiata su di un risvolto della cornice delle panche, prolungata fin sotto all’architrave ed avente aggettanti ripercussioni sulla trabeazione ionica.
Procopio Serpotta completò la decorazione mostra un organo dipinto con attorno angeli musici (che suonano un violoncello e un cembalo) e putti cantori con spartiti. La cantoria in ferro battuto sovrasta un cartiglio, con inciso l’appello di unità che San Paolo rivolge ai cristiani di Efeso, e una nicchia che ospita lo scranno dei superiori della Compagnia.
Sul lato opposto,invece, il presbiterio si apre sull’aula con un arco trionfale su di una parete che poco ha in comune con la sistemazione degli altri tre lati: sono qui eccezionalmente presenti motivi dorati (questo fatto può essere, però, conseguente al restauro) e modanature notevolmente semplificate.
Le decorazioni dell’arco trionfale e delle pareti attigue fu infatti realizzata da Gaspare Firriolo, genero di Procopio Serpotta e raffigura festoni che intrecciano Palme del martirio, lance, altre armi ed ulteriori emblemi di San Mercurio. Al centro dell’arco vi è un cartiglio con inciso in latino ”di lui è la cura per voi”, frase di protezione da parte del Santo che allude anche alla missione principale della Compagnia della Madonna della Consolazione. Di fatto, la semplificazione dell’apparato decorativo, ispirato a quello di Santa Cita è una testimonianza del passaggio della sensibilità rococò a quella neoclassica.
A completare il tutto, il pavimento, risalente al 1714, realizzato in maioliche da Lorenzo Gulotta (o Maurizio Vagolotta) e da Sebastiano Gurrello, purtroppo danneggiato dallo scorrere del Tempo.
June 26, 2020
La tomba di Seti I
Il vecchio faraone Horemheb, il generale asceso al trono, era stato un nobile senza legami di parentela con la famiglia reale e, partendo dall’esercito, si era fatto strada nella corte come consigliere di Tutankhamon e del suo successore, il vecchio Ay: non avendo figli, decise di scegliere come successore un altro esponente della classe militare, Paramesse.
Questo apparteneva famiglia della aristocrazia guerriera oriunda del delta del Nilo, probabilmente della città di Avaris, l’antica capitale degli invasori hyksos e centro del culto di Seth, che si era fatta strada sia nella burocrazia, sia nell’esercito. Era figlio di un comandante di nome Seti, capo degli arcieri. Suo zio, l’ufficiale Khaemuaset, era marito di Tamuadjesi, una parente del viceré di Kush e donna a capo dell’harem di Amon.
Lo stesso Paramesse ricoprì parecchie cariche prestigiose quali: Comandante delle truppe, Capo degli arcieri, Capo dei carri di Sua Maestà, Soprintendente della cavalleria, Capo delle fortezze di Sua Maestà, Soprintendente delle Bocche del Nilo, Scudiero di Sua Maestà, Scriba reale, Capo dei giudici, Luogotenente del Re dell’Alto e Basso Egitto, Messaggero del Re per tutti i Paesi stranieri.
Alla sua accessione al trono, Ramses assunse il nome regale mn-pḥty-r‘, traslitterato Menpehtira, che significa Ra è durevole di forza. È comunque conosciuto con il suo nome di nascita, Ramses (r‘-ms-sw), traducibile come Ra Lo ha generato. Nomi che indicano una precisa scelta politica religiosa: nelle generazione precedenti, l’Egitto era stato sconquassato dallo scontro tra l’avido e ambizioso clero di Amon, il dio protettore di Tebe e la dinastia regnante, che appoggiava una riforma religiosa, incentrata sul culto del dio del disco solare Aton.
Paramesse propose una terza via, rilanciare le divinità tradizionale del Delta, a cui la sua famiglia era alquanto devota. Strategia perseguita anche dal figlio e successore Seti I, il cui noem è traducibile come Uomo di Seth, per porsi sotto la protezione di tale dio. Come ogni faraone, Seti aveva numerosi nomi. Al momento della ascesa al trono assunse il nome regale Menmaatra (mn-m3‘t-r‘), che significa Stabile è la Giustizia di Ra. È comunemente noto con il suo nome di nascita, Seti, che per esteso era Seti-Merenptah (sty mry-n-ptḥ), traducibile come Uomo di Seth-amato da Ptah. Tutte divinità tradizionali, altrettante alternative ad Amon, di Aton.
Seti I inaugurò una politica, basata sul rafforzamento del potere militare, sulla difesa delle preminenza egiziana nella Siria meridionale e sul culto della personalità, che sarà portata all’eccesso dal figlio Ramses II.
Nel suo primo anno di regno, Seti guidò le sue truppe lungo la cosiddetta via di Horus, la strada militare che partiva dalla fortezza egizia di Tjaru, nell’estremità nord-orientale del delta del Nilo, e terminava in Palestina, nell’odierna Striscia di Gaza; la strada era costellata di fortezze e pozzi, che figurano dettagliatamente nelle rappresentazioni belliche del tempio di Karnak. Marciando attraverso il Sinai, l’armata combatté contro i beduini locali, chiamati Shasu, che avendo come dio tribale Yhw, ad alcuni studiosi ha fatto balenare l’ipotesi che si trattasse degli antenati del popolo ebraico
Nella regione di Canaan, Seti I ricevette i tributi di alcune Città-Stato che ebbe modo di visitare. Altre, come Beit She’an e Yenoam, dovettero essere assediate e furono espugnate con facilità. Mentre esistono rappresentazioni della presa di Yenoam, non risultano immagini simili per Beit She’an, poiché il faraone non vi partecipò, preferendo inviare una divisione. La spedizione del 1º anno di regno si spinse poi fino al Libano, dove il re ricevette l’atto di sottomissione dei sovrani locali che furono costretti a donargli, come tributo, molto pregiato legname di cedro.
In un momento imprecisato del suo regno, Seti I sconfisse di alcune tribù libiche – Tehenu, Libu, Mashuash – che avevano invaso il confine occidentale dell’Egitto. Infine, resosi conto della difficoltà logistica di mantenere il possesso della città siriana di Qadeš e del vicino regno di Amurru, si rassegnò, a differenza dei predecessori a stringere un accordo con il re Muwatalli II; il faraone, in cambio della pace, accettava che tali località fossero parte della sfera d’influenza ittita. Cosa che non fu accettata dal figlio Ramses II, cosa che gli fece subire una grossa sconfitta proprio a Qadeš.
L’attività di costruttore di Seti I fu poi notevole, tra le opere più importanti: il completamento della sala ipostila di Karnak ed il suo tempio funerario ad Abido dove fece realizzare un rilievo in cui egli stesso compare mentre compie un omaggio nei confronti di 76 suoi predecessori; è questa la famosa “Lista reale di Abido” che inizia da Narmer ed una delle fonti di maggior importanza per la cronologia dei sovrani egizi. Promosse la realizzazione di obelischi in onore di Ra per abbellire il tempio di Eliopoli, di cui resta l’obelisco flaminio, che sarà completato dal figlio Ramses II e poi trasportato a Roma da Augusto.
Paradossalmente, uno dei suoi monumenti più noti è la KV17, la sua straordinaria tomba nella valle dei Re, che fu scoperta da quel grandioso personaggio che era Belzoni. Nel settembre 1817, il padovano aveva già scoperto, al servizio del console Salt, tomba di Ramesse I. Invece di tornarsene ad Alessandria, appagato dal successo, Belzoni aveva continuato a scavare.
Il 17 settembre gli operai avevano asportato altri tre metri di ciottoli e ghiaia quando, verso sera, si imbatterono con grande sorpresa in un blocco di roccia compatta che sembrava l’architrave di una porta. L’indomani mattina, il 18 ottobre, in quello che Belzoni definì «il giorno più bello della mia vita», gli scavi misero alla luce l’ingresso di una tomba.
Dopo aver praticato un pertugio e averlo allargato in modo tale da permettere il passaggio alla sua colossale figura, Belzoni, brandendo una fiaccola, penetrò all’interno dell’ipogeo trovandosi all’interno di un lungo corridoio che, con il soffitto decorato da immagini di un avvoltoio con le ali spiegate in segno di protezione, scendeva nel cuore della montagna tebana. Aveva scoperto l’unica tomba della Valle in cui tutte le pareti, dei corridoi e delle camere, erano ricoperte di decorazioni e che presenta il panorama completo dei testi religiosi connessi al culto dei defunti.
Le Litanie di Ra, unite a capitoli dell’Amduat, a ricordo della devozione della sua famiglia appaiono sulle pareti dell’ingresso e del primo corridoio e non solo nella camera funeraria. Nel secondo corridoio proseguono testi delle Litanie e dell’Amduat. Il pozzo, come in altre tombe, presenta dipinti parietali del re Seti I in presenza di alcune divinità.
Nella prima camera con quattro pilastri, subito oltre il pozzo, sono rappresentati capitoli del Libro delle Porte e si trova una cappella dedicata ad Osiride. Su una parete la descrizione della Quinta ora del Libro delle Porte in cui in lunghissimo serpente attraversa personaggi rivestiti di bianco identificabili come mummie resuscitate; su un’altra la barca di Ra nella sua navigazione notturna.
La camera a due pilastri annessa alla precedente, venne denominata da Belzoni Sala dei disegni poiché le pareti sono ricoperte da disegni, relativi ancora all’Amduat, non portati a compimento. Sono rappresentate le ore Nona, Decima e Undicesima dell’Amduat ed il re Seti I in presenza di Ra-Horakhti. Nel terzo corridoio, che dalla camera a quattro pilastri porta verso la camera funeraria, sono rappresentate scene della Cerimonia di apertura della bocca e degli occhi; scene che proseguono nel passaggio successivo. L’anticamera è decorata con scene di divinità.
Nella camera funeraria, il soffitto a volta, di un blu intenso, è decorato con la riproduzione del cielo, degli astri e delle maggiori costellazioni. È questa, peraltro, l’unica decorazione della tomba non realizzata in bassorilievo. Alle pareti, capitoli del Libro delle Porte e dell’Amduat, nonché varie rappresentazioni di divinità tra cui: Nephtys, tra i cartigli reali, che distende le sue ali a protezione del defunto; raffigurazioni relative alla Seconda e Terza ora del libro dell’Amduat che descrivono il viaggio della barca solare nel mondo dell’aldilà; la barca di Ra nel suo percorso notturno nel mondo sotterraneo; Anubi che effettua la cerimonia di apertura della bocca alla presenza di Osiride. Nel piccolo annesso laterale la Quarta ora del Libro delle Porte in cui geni minori alimentano il fuoco dei pozzi ardenti nel quale saranno precipitati i dannati che non supereranno il giudizio degli dei.
June 25, 2020
La Basilica Martyrum di Mediolanum
Non era molto che la chiesa di Milano aveva introdotto questo rito carico di suggestione e conforto, con l’intensa partecipazione dei fratelli che cantavano in armonia di voci e sentimenti. Era un anno o poco più che Giustina, madre dell’imperatore bambino Valentiniano, perseguitava Ambrogio, quest’uomo tuo, a causa dell’eresia in cui s’era lasciata trascinare dagli ariani. Il popolo cristiano vegliava in chiesa, pronto a morire con il suo vescovo e tuo servo. Là mia madre, ancella tua, ai primi posti nelle veglie e nello zelo, viveva di preghiere. Noi, benché ancora poco sensibili al calore del tuo spirito, ci sentivamo tuttavia coinvolti nello smarrimento e nell’emozione di tutta la città. Fu allora che si introdusse l’uso delle regioni orientali di far cantare gli inni e i salmi, perché il popolo non si adagiasse nell’inerzia dello sconforto: un uso che da allora ai giorni nostri molti hanno già adottato e che quasi tutti i tuoi greggi imitano, in tutto il mondo.
Tu allora con una visione rivelasti al tuo vescovo il luogo in cui erano nascosti i corpi dei martiri Protasio e Gervasio, che per tanti anni avevi conservato intatti nel tesoro del tuo segreto, per tirarli fuori al momento opportuno a mo’ di argine alla rabbia di una femmina, sì, ma potente come un re. Furono esumati, e durante il trasporto che se ne fece con i dovuti onori alla basilica di Ambrogio, non solo guarivano gli indemoniati – per esplicita confessione degli stessi demoni – ma accadde anche che un uomo cieco da molti anni, conosciutissimo in città, fattasi dire la ragione di quell’esplosione di gioia popolare, balzò in piedi e si fece portare sul posto. E là ottenne di essere ammesso a toccare con un fazzoletto le spoglie della morte dei tuoi santi, preziosa ai tuoi occhi. Lo fece, si accostò il fazzoletto agli occhi, e subito questi si aprirono. La fama si diffonde, a te si leva un coro altissimo e raggiante di lodi, quell’avversaria tua si vede, se non indotta a credere, almeno a soffocare la sua furia di persecuzione. Grazie a te, Dio mio! Da dove l’hai cavato questo mio ricordo, e dove lo porti ora che anche questi eventi mi hai fatto confessare? Son grandi cose: come avevo potuto trascurarle, dimenticarle? Eppure allora, quand’era così intenso il profumo dei tuoi unguenti, non correvamo dietro a te, e perciò il mio pianto di ora, quando ascoltavo cantare i tuoi inni. Avevo sospirato per te un tempo, e ora finalmente respiravo – per poco che si possa aprire all’aria, al vento, una dimora d’erba.
E’ una dei brani delle Confessioni di Agostino, in cui si parla delle origini di una delle chiese più famose di Mediolanum, la Basilica Martyrum, la nostra Sant’Ambrogio. Il nostro Ambrogio, rispetto ad altre sedi episcopali, aveva un grosso problema, che ne minava il prestigio e la credibilità: la diocesi milanese soffriva di una grossa carenza di martiri da venerare.
I motivi erano abbastanza immediati: da una parte, la percentuale di cristiani nella città era sempre stata bassa, dall’altra, Massimiano, a differenza di Diocleziano, preferiva colpire i loro portafogli, piuttosto che eliminarli fisicamente. Nonostante questo, Ambrogio decise di fondare un basilica dedicata ai poco prestigiosi caduti per la fede di Mediolanum, attorno al 380, accanto a una necropoli fuori porta Vercellina (il coemeterium ad martyres): il suo scopo originale era probabilmente quello di fungere da mausoleo per la sua famiglia, cosa che lo fece sbeffeggiare in lungo e in largo dagli ariani locali.
Non per pensare al male, ma in una situazione del genere, un tizio alquanto cinico come il sottoscritto, avrebbe applicato il principio
“Se proprio manca un martire, costruiamolo a tavolino”.
Invece a quanto pare intervenne la grazia divina, con l’improvvisa scoperta dei corpi di Gervasio e Protasio, due fratelli gemelli, presunti figli di san Vitale e santa Valeria. Secondo una tradizione, alquanto tarda, tutta la famiglia si sarebbe stat convertita al Cristianesimo, assieme ai loro genitori, dal vescovo di Milano san Caio, ai tempi di Nerone. Più probabile invece posizionare temporalmente le loro vite nella metà del III secolo, durante le persecuzioni nei confronti dei cristiani di Decio o Valeriano.
Durante il V secolo un autore anonimo ne ha composto la Passio, dalla quale è possibile ricavare alcune notizie sulla loro esistenza, rimanendo però sempre al limite tra leggenda e realtà. La Passio racconta che anche i loro genitori furono martiri della cristianità. Il padre Vitale di Milano venne ucciso mentre si trovava a Ravenna e la madre Valeria fu assassinata sulla via di ritorno per Milano. Appena venuti a conoscenza della morte dei genitori non pianificarono nessuna vendetta, anzi decisero di vendere tutti i beni di famiglia per distribuire il ricavato ai poveri di Milano. Passarono poi dieci anni della loro vita a pregare, meditare e professare tutti i dettami della cristianità. Quando il generale Anastaso passò con le sue truppe nella città, li denunciò come cristiani e li additò come persone da punire e da redimere. I due fratelli furono arrestati, torturati ed umiliati. A Protasio fu tagliata la testa con un colpo di spada, mentre Gervasio morì a seguito dei numerosi colpi di flagello ricevuti.
La loro memoria era totalmente dimenticata, finchè i loro corpi furono ritrovati il 17 giugno 386 nell’antica zona cimiteriale, che oggi è compresa tra la caserma Garibaldi della Polizia di Stato e l’Università Cattolica, grazie ad uno scavo commissionato dal vescovo Ambrogio di Milano. Nessuno, ovviamente, conosceva l’identità delle due spoglie. Sappiamo anche il luogo preciso del ritrovamento, ante cancellos Felicis et Naboris, davanti l’ingresso della basilica dei Santi Nabore e Felice,su cui venne in seguito costruita San Francesco Grande. Probabilmente nel 378, Ambrogio aveva deposto nello stesso cimitero il corpo del fratello Satiro, la cui iscrizione sepolcrale ricordava come fosse stato sepolto “alla sinistra” di un martire, quasi certamente Vittore.
Paolino di Milano, segretario e biografo di Ambrogio, narra che i due corpi furono riconosciuti grazie a una rivelazione che lo stesso Ambrogio ebbe; in realtà Ambrogio, nelle lettere alla sorella Marcellina, affermò di avere avuto un presentimento e non una vera e propria rivelazione:
Penetrò in me come l’ardore di un presagio. In breve: il Signore mi concesse la grazia. Nonostante che lo stesso clero manifestasse qualche timore, feci scavare la terra nella zona davanti ai cancelli dei santi Felice e Nabore
Ambrogio descrive il ritrovamento dei corpi di «due uomini di straordinaria statura», dei quali «tutte le ossa erano intatte, moltissimo era il sangue». All’immediato concorso dei fedeli seguì la profumazione dei corpi e il trasferimento nella basilica di Fausta, fatta erigere dalla sorella di Massenzio e moglie di Costantino, sulla sua collocazione a Mediolanum, è uno dei tanti misteri della città.
Il giorno successivo le salme vennero traslate nella Basilica Martyrum, che finalmente potè onorare il suo nome. Con la deposizione delle reliquie di Gervasio e Protasio nella nuova basilica Ambrogio introdusse, per la prima volta nella tradizione della Chiesa occidentale, la traslazione dei corpi dei martiri a scopo liturgico, secondo quanto già in uso in Oriente. Egli stesso racconta nei suoi scritti che alla traslazione delle reliquie partecipò una grande folla e che durante la traslazione avvenne la guarigione di un cieco di nome Severo, che affermò di avere riacquistato la vista dopo avere toccato la veste che copriva una delle reliquie. Il 19 giugno Ambrogio consacrò ufficialmente la Basilica Martyrum con l’elezione a santi di Gervasio e Protasio e con la deposizione delle loro reliquie in un grande loculo posto sotto l’altare, accanto.
Probabilmente, qualche tempo dopo il corpo di Vittore fu traslato nella Basilica Martyrum. Alla morte del fondatore, avvenuta nel 397, le sue spoglie furono collocate sotto l’altare maggiore, a fianco di Gervasio e Protasio, così come aveva lui stesso disposto. Nel 400, anche la sorella Marcellina venne sepolta “confidando nella compagnia del riposo dei fratelli”, chiudendo così il cerchio di una serie di depositi funebri di carattere accentuatamente parentale.
Le prime modifiche la basilica le subì nel V secolo, quando era vescovo di Milano Lorenzo I di Milano, che decise di elevare il pavimento del presbiterio dotandolo di lastre di marmo accostate con la tecnica di opus sectile e di realizzare due cappelle funerarie absidate, una della quali è il sacello di San Vittore in ciel d’oro, che è giunto sino a noi, originariamente indipendente rispetto alla basilica
Nel 784 l’arcivescovo di Milano Pietro I fondò un’abbazia benedettina, approvata da Carlo Magno nel 789. A questa fu aggiunta una canonica, che doveva servire le necessità della comunità laica della città. Il vescovo Angilberto II (824-859)fece aggiungere una grande abside, preceduta da un ambiente sovrastato da volta a botte, sotto il quale si svolgevano le funzioni liturgiche. Nello stesso periodo, il catino dell’abside venne decorato da un grande mosaico ancora esistente, il Redentore in trono tra i martiri Protasio e Gervasio e con gli arcangeli Michele e Gabriele, corredato da due episodi della vita di Sant’Ambrogio. A questo periodo risale il campanile di destra (quello più basso) ispirato a quello della Basilica di San Pietro a Roma costruito qualche tempo prima. Al ciborio, di epoca ottoniana, vennero aggiunti quattro fastigi con timpano, decorati con stucchi nel X secolo ed ancora eccellentemente conservati. Sotto il ciborio venne collocato l’altare di Sant’Ambrogio, capolavoro dell’oreficeria carolingia, in oro, argento, pietre preziose e smalti, quale vistoso segnale della presenza delle reliquie dei santi, collocate al di sotto dell’altare stesso e visibili da una finestrella sul lato posteriore.
Ora, tra il 1088 e il 1099 la basilica, sulla spinta del vescovo Anselmo III da Rho, venne radicalmente ricostruita secondo schemi dell’architettura romanica, per cui, della fase paleocristiana è rimasto ben poco e dell’aspetto originale dell’edificio abbiamo idee abbastanza vaghe, anche a causa degli scavi ottocenteschi dell’abate Rossi, che compromisero irrimediabilmente il deposito stratigrafico paleocristiano. L’unico appiglio alle ipotesi interpretative, ancora oggi discusse e incerte, è dato però dai risultati delle indagini effettuate dall’architetto Landriani all’interno della basilica nella seconda metà del XIX secolo, che consentirono l’individuazione dei basamenti di un colonnato più antico verosimilmente quello originario, utili alla ricostruzione dell’orientamento dell’edificio primigenio.
Fu infatti proprio alla luce di questa scoperta, e degli scavi che lo stesso architetto effettuò lungo il perimetrale della chiesa, che la critica successiva ipotizzò che la ricostruzione romanica avesse ricalcato il perimetro della basilica paleocristiana, nonostante il Landriani non avesse mai pubblicato i rilievi delle fondazioni messe in luce nel corso di quegli interventi. Dell’impianto originario è stato poi ipotizzato che siano sopravvissuti un tratto del perimetrale laterale nord del settore absidale e lo stesso arco trionfale sorretto da due colonne di marmo caristio sul quale si imposta quello più recente della ricostruzione romanica. Un ruolo fondamentale nella storia degli studi, che ormai da circa duecento anni concentrano la loro attenzione sull’evoluzione del monumento, ebbero poi certamente gli interventi di restauro coordinati da Ferdinando Reggiori a cavallo del secondo conflitto mondiale che contribuirono a convalidare l’estraneità del corpo absidale rispetto al corpo longitudinale, oggi comunemente ritenuto posteriore.
L’area della basilica in cui, più che altrove, è stato possibile ricostruire le principali trasformazioni è proprio quella del settore presbiteriale, occupata dalla depositio dei santi e per questo oggetto di interesse privilegiato e di trasformazioni nei secoli. Gli scavi condotti principalmente nel secolo scorso e la documentazione lasciata da Rossi e dal Biraghi, hanno consentito alcune riflessioni in merito all’evoluzione dell’area che, a partire dalla fine del IV secolo, fu destinata ad accogliere le sepolture dei martiri Gervasio e Protasio e dello stesso Ambrogio, anche se il progetto iniziale doveva prevedere la sola sepoltura del vescovo e dei suoi famigliari. Tra le ricognizioni nell’area dei sepolcri, la più antica, verosimilmente attribuibile ad un intervento del vescovo Lorenzo, è documentata archeologicamente dal ritrovamento, segnalato dal Biraghi, di alcune monete di età teodoriciana e dal recente riesame, effettuato da Claudia Perassi, di un’altra moneta bronzea rinvenuta nel contenitore con i resti prelevati nell’800 dal sepolcro dei santi. L’intervento più monumentale è però certamente quello promosso dal vescovo Angilberto II quando, nella prima metà del IX secolo, fece traslare le reliquie dei martiri e del santo all’interno di un sarcofago in porfido rosso posto orizzontalmente sugli avelli più antichi e destinato ad essere rivestito dall’altare d’oro di Vuolvino. Ad età carolingia deve poi essere datato anche il livello pavimentale in sectile rinvenuto durante gli scavi del Rossi nei pressi dell’altare, che non presenta affinità con le tipologie documentate a Milano nel IV-VI secolo e che sigillava una tomba intonacata e dipinta nell’area prospiciente l’altare d’oro
Per cui, la Basilica Martyrum era una basilica colonnata, ad andamento longitudinale, con due file di tredici colonne per parte che la ripartivano in tre navi, di cui la centrale, maggiore, ampia il doppio delle laterali (12,50/6,22 m). Assai probabilmente la copertura era lignea, a doppio spiovente per il corpo centrale e a spiovente singolo per quelli laterali. All’interno è ancora visibile la base originaria di una delle colonne della navata sinistra (nella seconda campata, presso la colonna del serpente). Di livello altissimo era ancora l’ornato della porta in legno d’ingresso della basilica di età ambrosiana: i due pannelli superstiti, ora esposti al Museo Diocesano, comprendevano ciascuno quattro formelle intagliate con il ciclo delle storie di Davide, scelte da Ambrogio in un momento di durissimo scontro con l’imperatore Valentiniano II.
Alla fase più antica della Basilica Martyrum, appartiene anche il cosiddetto “sarcofago di Stilicone”, attribuito dalla tradizione al generale dell’imperatore Teodosio, ma probabilmente commissionato da un personaggio della corte milanese. Il marmo è scolpito a bassorilievo su ognuno dei quattro lati, con scene che rappresentano episodi della vita di Gesù e con numerosi rimandi simbolici alla vita di fede. La decorazione del coro era a tarsie marmoree, della quale si conservano le gure di un agnello e di un angelo, ora visibili nell’Antiquarium del Tesoro della Basilica. La zona dell’altare era delimitata da una balaustra in marmo, decorata “a giorno” con un motivo a squame e recante il cristogramma con Alfa e Omega (anch’essa conservata nell’Antiquarium). Anche le quattro colonne di porfido, che tutt’oggi sostengono il ciborio sopra l’altare, sono elementi pertinenti all’antico arredo paleocristiano.
Infine, come ipotizzato da Cagiano de Azevedo e di recente ribadito da Visonà, i tituli ambrosiani, 21 coppie di esametri di paternità ambrosiana, potevano nelle intenzioni essere destinati a una decorazione parietale con scene dell’Antico e del Nuovo Testamento. Un accenno merita infine la colonna con capitello corinzio collocata in piazza Sant’Ambrogio presso l’ingresso della basilica, denominata dai milanesi “del diavolo”, a causa di due fori che secondo la leggenda sarebbero stati provocati da una testata del Maligno alle prese con il vescovo Ambrogio. Il manufatto, in realtà, fu rinvenuto durante le indagini di ne Ottocento quando fu messo in luce un nucleo di sepolture nelle sue immediate vicinanze. La colonna era allora interrata fino a metà del fusto e inclinata verso ovest: secondo gli
archeologi essa era stata reimpiegata come segnacolo di una tomba.
[image error]Mosaici San Vittore in Ciel d’Oro
La principale testimonianza paleocristiana della Basilica è il sacello di San Vittore in ciel d’oro, noto con questa intitolazione almeno dal XII sec., come detto era in origine indipendente dalla basilica ambrosiana, ma controversa è la sua origine, destinazione e cronologia. In generale se riconoscono due fasi: la prima con copertura piana a capriate e due finestre nei muri nord e sud, attribuita alla committenza di Merocle (inizi IV sec.) e la seconda con il riempimento delle precedenti aperture e la realizzazione di quattro finestre per lato, la copertura con volta in tubuli fittili e la realizzazione del rivestimento musivo, ai tempi del vescovo Lorenzo (V-VI sec.), dì cui sono committenti Faustino e Panecirya, personaggi di incerta identità forse di età gota, che si propongono come organizzatori del culto di Vittore e poco modesti continuatori dell’operato di Materno e Ambrogio: organizzatori del culto dei martiri.
La cappella presenta pianta trapezoidale ed è fornita di una cripta. La struttura era originariamente indipendente dalla basilica e chiusa da un’abside. I muri, poco spessi, sono costituiti da un alzato con paramento a lari di laterizi e nucleo in conglomerato. La splendida decorazione musiva costituisce una delle poche testimonianze sopravvissute di un’arte che doveva abbellire frequentemente le grandi basiliche milanesi. La volta brilla ancora oggi delle tessere dorate che fanno da sfondo al busto di VICTOR (Martire Vittore), incorniciato da un nastro con un grande rubino e coi frutti delle quattro stagioni (che simboleggiano l’anno solare). Sulle pareti laterali, decorate di un blu intenso, appaiono le immagini del vescovo Ambrogio, tra i Santi Gervasio e Protasio, e del vescovo Materno, tra i Santi Nabore e Felice.
Sotto il sacello di San Vittore in Ciel d’Oro e accessibile mediante una piccola scaletta è la cripta cosiddetta di San Satiro, fratello di Ambrogio.Qui sono custoditi numerosi sarcofagi, tra i quali uno di IV secolo d.C., utilizzato per più sepolture: questo fatto ha contribuito ad identicare questo luogo come cella memoriae dei santi Satiro e Vittore. La deposizione fu interpretata come il risultato di una traslazione avvenuta nel IX secolo delle spoglie dei due santi milanesi dalla collocazione originaria nei pressi della chiesa di San Vittore al Corpo. L’unico tratto di muratura originario ancora in alzato è visibile sul lato sinistro guardando verso l’abside. Esso è conservato per un’altezza di poco più di 3 metri. Sebbene in alcuni tratti sia poco leggibile a causa dell’intonaco non originale che lo ricopre, si può riconoscerne la tecnica muraria che utilizza mattoni sesquipedali legati da malta. I laterizi sono disposti sia a filari orizzontali regolari sia a lisca di pesce (opus spicatum), secondo un uso comune in quest’epoca
Nei presso della basilica, il toponimo di via Santa Valeria custodisce nella sua memoria la presenza della chiesa omonima, sorta sul lato sud della strada, poco oltre l’incrocio con via Necchi: quest’area del suburbio occidentale era occupata in epoca paleocristiana dal cimitero ad Martyres. L’edificio di culto viene citato più volte nelle fonti antiche milanesi, a partire dal VII secolo: concessa nel XVI secolo al Convento delle Convertite, la chiesa fu infine demolita nel 1786. La vicenda del culto di Valeria, santa milanese, è piuttosto complessa: Ambrogio, a differenza degli figli, non le diede mai giusta evidenza.
Anche l’aspetto altomedievale dell’edificio risulta problematico e non è stato ancora identicato; è stata invece confermata la sua origine paleocristiana, anche grazie alle strutture tardoantiche rinvenute negli anni Sessanta. Si tratta essenzialmente di un grande ambiente rettangolare di 7,50 x 7,25 metri incorniciato da vani a probabile destinazione funeraria. Le strutture presentano nella maggior parte dei casi fondazioni in conglomerato di ciottoli e alzati a filari regolari di mattoni. Oltre ai resti di strutture murarie furono rinvenuti altri reperti purtroppo asportati durante le prime indagini, come sepolture in mattoni coperte da lastroni in serizzo, una tomba alla cappuccina e un sarcofago non decorato. Ancora da questa area della città provengono numerose epigrafi sepolcrali sia pagane sia cristiane. Spesso in questi manufatti compare il nome della gens Valeria, tanto che è lecito
ipotizzare che la basilica cristiana si sia sviluppata da un mausoleo o cella memoriae di questa famiglia, tra le più ragguardevoli a Milano e tra le prime convertitesi alla nuova fede.
June 23, 2020
Villa Madama (Parte III)
Come raccontato la scorsa settimana, abbiamo un’idea precisa del progetto iniziale Villa Madama grazie proprio a una lettesa scritta dallo stesso Raffaello. Ora, nell’agosto del 1522 il conte Baldassarre Castiglione, autore de Il Cortigiano e grande amico dell’Urbinate, scrisse a Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino:
Ho ricevuto una […] lettera di Raffaello dove egli descrive la casa, che fa edificare monsignore Reverendissimo de Medici: questa io non la mando perché non ho copia alcuna qui, perché mi restò a Mantova […] ma questi dì si è partito di qua D. Jeronimo fratello cugino del Prefato Raffaello, il quale stimo che abbia copia di essa lettera e Vostra Excellenza potrà da lui essere satisfatto: perché partito per venire a Urbino […]
Per secoli, queta lettera di Raffaello fu ritenuta perduta, per essere riscoperta nel 1967 da Forster, Il destinatario eraprobabilmente Castiglione stesso; il vocativo frequente, usato nel testo, «Vostra signoria» fa pensare, infatti, a un personaggio nobile del suo calibro. Eventuali dubbi sulla paternità di Raffaello sono, invece, sgombrati dalle allusioni a precise scelte architettoniche e dall’intima conoscenza dello stato della progettazione nella primavera 1519: quasi tutte le parti descritte trovano riscontro sia nel primo progetto, sia nella rielaborazione esecutiva di Sangallo
Le fonti a cui Raffaello si ispirò nella progettazione, facilmente identificabili attraverso la lettera descrittiva, sono Vitruvio, l’Alberti e Plinio. Dall’Alberti e da Vitruvio deriva l’accuratissima scelta della collocazione della villa e di ciascuno dei suoi ambienti rispetto ai venti dominanti e all’esposizione, cosi descritta dall’Urbinate
La Villa è posta a mezzo la costa di Monte Mario che guarda per linea recta a greco (NE). Et perch’el monte gira, dalla parte che guarda Roma scopre il mezzodì et da la opposita scopre maestro (NO) et alle spalle del monte restano lybicco (SO) et ponente (O), et greco et tramontana (N) et maestro; a che V.S. può considerare come gira il sityo. Ma per porre la villa a venti più sani ho volta la sua lunghezza per diretta linea a syrocco (SE) et a maestro, con questa advententia che a syrocco non vengano finestra né habitatione alcune se non quelle che ànno di bisogno del caldo.
Ancora da Vitruvio deriva la struttura di molti ambienti e in particolare dell’atrio ionico; da Plinio e precisamente dalla descrizione delle sue ville contenute nelle lettere familiari deriva invece l’impostazione generale del rapporto villa-giardini, la differenziazione degli ambienti estivi da quelli invernali, l’idea dell’ippodromo che doveva estendersi verso Est e degli ambienti termali.
La lettera si dilunga soprattutto nella descrizione dei vari ambienti e delle parti del giardino e permette di ricostruire una sequenza di spazi interni coincidente con il primo progetto degli Uffici
El secondo cortile ch’è in nel mezo dello edificio è tondo e ‘l suo diametro è di 15 canne et à da man dextra una fran porta dritta a greco, simile a quella della entrata in epso, la quale porta da ogni lato trova una scala trianghulare et la largheza è 11 palmi, la quale salita ha intrata nel mezo d’una bellissima lhoggia, la quale guarda dritto a greco et è per longheza 14 canne, largha tre et alta 5. Da omne capo de questa loggia vi è uno belissimo nichio. La faccia è partita in tre archature. L’archo del mezo è tutto vano et esci fora sopra un poco de uno turrione quadro con li parapetti intorno […]. Da questo loco si può vedere per retta linea la strada che va dalla villa al Ponte Molle, el bel paese, el Tivere et Roma.
A piè di questa lhoggia se extende lo hypodromo […]. Discontro alla porta del atrio ve n’è un’altra volta verso maestro, la quale intra in una bellissima loggia lunga 14 canne, la quale fa tre vanj, et in quel del mezo è l’intrata. […] Questa loggia verso il monte fa un semicirculo […]. Da questa si va in un xyxto cusì chiamato da li antiqui, loco pieno d’arbori posti ad ordine, il quale xyxto è de longheza et larghezza del primo cortile tal che questa villa è partita in tre, come V. S. ha inteso. Ha il xyxto certe sponde che guardano quattro canne et vede in quella baseza una peschiera longha quanto il sito [xyxto] et largha cinquantacinque palmi con certi gradi da sedervi et distendervi fino in fondo, e vi si viene dal sito con due larghe scale, una da chapo e l’altra da piè.
L’ingresso principale, rivolto verso la città, era compreso tra due torrioni giustificati nella lettera sia con motivazioni estetiche che funzionali:
Et sono nella prima apparentia di là et de qua da questa entrata doi torrioni tondi che, oltre la bellezza et superbia che danno all’entrata, servono ancora un poco de difesa
Varcato il portone si accedeva in un «cortile» rettangolare percorso il quale si entrava in un atrio vestibolo «con sei colonne ioniche con le loro ante» e quindi nell’«atrio alla greca, come quello che li thoscani chiamano androne», un piccolo spazio rettangolare che dava diretto accesso al cortile centrale rotondo.
Attorno a questo ambiente erano disposte sale di forma ed estensione volutamente variata, proporzionate sempre in modo rigoroso con rapporti numerici esatti. L’ambiente su cui la descrizione si sofferma di più prefigurandone poeticamente l’atmosfera è una saletta circolare di soggiorno inserita in una delle torrette. Scrive Raffaello:
Sopra il turrione che è da man diritta della intrata, ne l’angulo una bellissima dyeta vi è collocata, che così la chiamano li antiqui. La forma della quale è tonda et per diametro è 6 canne con un andito per venirne come al suo loco ragionerò, el quale copre detto giardino dal vento greco; da tre parti dello edifitio lo coprono da tramontana et maestro. La dyeta è, come ho detto, tonda et ha intorno finestre invetriate, le quali or l’una or l’altra dal nascente sole al suo occaso saranno tocche et traspaiano in modo che el loco sarà allegrissimo et per il continuo sole et per la veduta del paese et de Roma, perché, come Vostra Signoria sa, il vetro piano non occuperà alcuna parte. Sara veramente questo loco piacevolissimo a starvi d’inverno a ragionare con gentiluomini, ch’è l’uso che sol dare la dyeta.
Un’altra dyeta
fatta per l’hora delli estremi caldi
era situata in posizione appartata e ombrosa e per le comodità più raffinate erano previsti ambienti termali studiati con cura fino a prevedere l’illuminazione dei bagni in modo che il servo potesse lavare il padrone senza farsi ombra. Il teatro, invece, era progettato secondo i dettami vitruviani con il criterio dei triangoli equilateri:
Prima è fatto un circulo tanto grande quanto se ha da fare il theatro, nel quale sono desegnati quattro trianguli equilateri, li quali con le sue punte tochano le extreme linee del circulo. Et quel lato del triangulo che è volto a grecho et fa un angulo a syrocche e l’altro a maestro, quello fa la fronte della scientia [scena]. Et da quel loco tirando una parabella per il centro de mezo, la quale separa et divide il pulpito del proscenio et la regione de l’horcestra, et così divisa et partita l’area sopra a queste misure, ce sono fattj li gradi, la sciena, il pulpito et l’horchestra. Et de là quacede ce sono fatte le stantie dei scenici dove se habbiano a vestire, per non occupare la veduta del paese, il quale si serrerà solo con cose depinte quando se reciteranno le comedie
Infinem, alludendo alla costruzione geometrica Raffaello lo definisce:
un bello teatro fatto con questa mistura e ragione
June 22, 2020
Lettera di Millawata
Sino a qualche tempo fa, le fasi finali dello scontro tra Ittiti e Achei si ritenevano descritte nella cosiddetta Lettera di Millawata, inviata da un imperatore Ittita ad un sovrano suo vassallo dell’ovest anatolico; è così chiamata perché tra gli argomenti che tratta vi è la definizione dei nuovi confini dello stato di Millawata/Mileto. Il testo, redatto in lingua luvia/ittita, è stato molto probabilmente scritto da Tudhaliya IV, figlio di Hattusili, terz’ultimo sovrano dell’impero Ittita, in carica dal 1237 a.C. al 1209; quanto al destinatario si è a lungo speculato, ritenendo da subito che potesse essere un re di Mira, stato Arzawa che per secoli è stato vassallo degli Ittiti, e la scelta (in virtù dell’accenno ad una ribellione anti-Ittita perpetrata dal padre del destinatario) era inizialmente caduta su Kupanta-Kurunta; in anni più recenti, invece, a seguito della decifrazione dei Rilievi di Karabel da parte di Hawkins, la preferenza degli studiosi si è orientata su Tarkasnawa, nipote di Kupanta-Kurunta, e sovrano di Mira coevo appunto di Tudhaliya IV.
Tudhaliya IV apre ricordando a Tarkasnawa di essere stato lui a porlo sul trono di Mira, lui che era “un uomo ordinario”; il sovrano ricorda la ribellione del padre Alantalli, precedente re di Mira, che attaccò i territori confinanti Ittiti; così Tudhaliya scese in campo, lo sconfisse e lo rimosse elevando a re vassallo, dietro giuramento di fedeltà, il figlio Tarkasnawa. Agli studiosi ciò pare un implicito richiamo alla fedeltà verso un re vassallo probabilmente fin troppo scalpitante. Apprendiamo anche che Alantalli è deceduto, anche se il testo frammentario non ne chiarisce le circostanze né il tempo.
Al momento, e questo pare lo scopo principale della missiva, un certo Walmu, re dello stato anatolico di Wilusa (la Troia dei Greci), si trova presso Tarkasnawa, dopo essere stato cacciato (non è chiarito da chi) dal proprio trono; Tudhaliya ha così inviato un suo rappresentante, tale Kulana-Ziti, con delle tavolette di legno da lui stesso preparate, che attestano la legittimità delle pretese di Walmu su Wilusa ed esorta Tarkasnawa a inviargli quest’ultimo così che egli possa provvedere a reinstallarlo sul trono, affinché possa tornare ad essere il vassallo militare di entrambi com’era in passato.
Tudhaliya IV ricorda, come testimonianza della propria benevolenza, che i confini dello stato di Millawata (confinante a Sud di Mira) sono stati stabiliti assieme (il passaggio significa verosimilmente che il re Ittita ha consultato il suo vassallo prima di stabilire una demarcazione di confine dei territori a lui assegnati dopo la conquista, evidentemente avvenuta di recente, di Millawata, precedentemente in orbita Ahhiyawa e quindi anti-Ittita), circostanza da cui il documento prende oggi il proprio nome corrente.
Un documento, insomma, che ci forniva un’interessante ricostruzione di quanto avvenuto tra il 1235 e il 1230 a.C. Per prima cosa, probabilmente istigata dai soliti Achei, alla morte di Hattusili, ci fu l’ennesima rivolta dei Luvi e dei Lukka. Il Lugal degli Ahhiyawa, non abbiamo ancora sufficienti elementi per identificarlo con il Wanax delle tavolette in Lineare B, ne approfittò immediatamente, per cacciare il re di Wilusa, la nostra Troia, e sostituirlo con un suo alleato.
Tudhaliya IV, dopo avere domato la rivolta, invece di procedere nel modo tradizionale, ossia cacciare l’intruso da Wilusa e trovare un compromesso con gli Achei, decise di agire in maniera differente: strinse d’assedio e conquistò Millawata, la nostra Mileto, che era il centro degli interessi Ahhiyawa sulla costa anatolica.
Ora, il 1230 a.C. è la data stimata dagli archeologici in cui dovrebbero essere avvenuti i torbidi che distrussero la società palatina del Peloponneso: che l’occupazione ittita di Mileto sia stata la causa del crollo “miceneo”, facendo saltare tutti gli equilibri di quella complessa società, o ne sia stato effetto, con gli Achei troppo in difficoltà a causa della crisi, per aiutare la loro colonia, è stato a lungo dibattuto dagli archeologi.
Dopo avere eliminato il centro di potere Ahhiyawa, Tudhaliya IV, incaricò Tarkasnawa, che aveva sostituito al padre probabilmente coinvolto nella rivolta e alleato ndegli Achei, di riportare Walmu sul trono di Wilusa: per anni gli studiosi hanno interpretato questo gesto come un segno di debolezza da parte degli Ittiti, quando poi l’indirect rules era una prassi consolidata di quel popolo.
Anche perchè Tudhaliya aveva problemi ben più grandi che impelagarsi nelle infinite faide dell’Anatolia: durante il regno di Mursili III gli Ittiti avevano perduto parte dello stato vassallo e assai ricco del Mitanni/Hanigalbat per mano degli aggressivi Assiri, da decenni in costante ascesa e giunti ormai a minacciare le due superpotenze dell’era, Ittiti ed Egizi. Dopo pochi anni dall’insediamento di Tudhaliya, ascese al trono mesopomatico Tukulti-Ninurta (1233), con il quale il sovrano ittita provò a intrattenere rapporti migliori dei precedenti sovrani; ma le mire espansionistiche assire furono chiare quando il neo-sovrano (1228 ca.) invase la ricca zona mineraria di Nihriya, nominalmente indipendente ma in realtà vicinissima per influenza politica e collocazione geografica al cuore del regno ittita. Tudhaliya allora rispose militarmente, convinto di poter contare sull’appoggio dei vassalli siriani e dei principati dell’area occupata, che invece non arrivò; lasciato da solo, l’esercito ittita andò incontro ad una cocente sconfitta a Nihriya, sotto il profilo del prestigio internazionale, enfatizzata oltre ogni limite dal sovrano assiro.
Per fortuna degli Ittiti, gli Assiri, invece di approfittare della vittoria per strappare loro la ricchissima Siria, decisero invece di invadere la Babilonia, impresa militare dispendiosa sia sotto il profilo economico che umano, il cui fallimento scatentò una guerra civile tra le loro. Così Tudhaliya ne approfittò per imporre agli Assiri un trattato molto favorevole ad Hattusa.
Però, la sconfitta provocò una nuova ondata di caos in Anatolia… A quanto pare, l’indomabile Mursili III, sempre voglioso di riprendersi il trono rubato da Hattusili, padre di Tudhaliya, si era rifuggiato, assieme al figlio Hartaparu, presso il fratello Kurunta, che svolgeva il ruolo di vicerè ittita a Tarhuntassa. Ora Mursili convinse Kurunta ad appoggiarlo nelle sue prese dinastiche e approfittando della batosta subita contro gli Assiri da Tudhaliya, marciarono entrambi su Hattusa, conquistandola.
Però, come un personaggio di una tragedia elisabettiana, Mursili morì di morte naturale subito dopo la presa della città, tanto che fu Kurunta a proclamarsi imperatore: solo dopo un’aspra e sanguinosa campagna, Tudhaliya riconquistò Hattusa, ma fu sconfitto nel tentativo di imporre il suo potere su Tarhuntassa, che proclamò la sua secessione.
In una tavoletta ittita recentemente decifrata, datata intorno al 1210, ha però mutato la precedente intepretazione dei fatti. Nel documentosono elencati gli alleati del ribelle Kurunta: si citano anche Sipa-Ziti (generale di Mursili III nella guerra civile persa contro Hattusili), Talmi-Teshub (viceré di Carchemish nella parte finale del XIII secolo a.C. e imparentato con la famiglia reale ittita), il “re di Ahhiyawa”, vent’anni dopo la presunta distruzione del regno achei.
Per cui, i torbidi del 1230 nel Peloponneso potrebbero non essere coincisi con la caduta della civiltà micenea, ma con un sanguinoso cambio di dinastia. Il nuovo clan reale, con sede forse a Tirinto o ad Atene, approfittando di una fase di relativo boom economico, riprese la tradizionale politica anatolica degli Achei, provocando la spaccatura dello stato ittita…
Di conseguenza, il collasso miceneo deve essere essere avvenuto, non per invasioni, ma per crisi economica e carestie, intorno al 1290, costituendo un nuovo indizio a favore della provenienza egeo anatolica dei Popoli del Mare.
June 21, 2020
Italcon 2020
Come raccontato altre volte, il mio rapporto con pandemia è stato una sorta di Giano bifronte. Da una parte, avendo avuto la fortuna di conoscere la mia bisnonna, sopravvissuta alla Spagnola, ho rivissuto i suoi racconti, che da ragazzo mi parevano irreali, sulle mascherine, sulla quarantena e sulle polemiche. Dall’altra, è innegabile, è stata anche un tuffo forzato verso il futuro, che spesso ci ha preso impreparati.
Perché diciamola tutta, sotto molti aspetti, nell’ambito della rivoluzione digitale, l’Italia, rispetto ad altri paesi, era parecchi passi indietro. Sino a febbraio, la didattica a distanza era un’utopia, lo smart working una parolaccia, buona parte della popolazione ignorava cosa fosse di preciso il commercio elettronico: insomma, non avrei mai scommesso un centesimo sul fatto che mia mamma, a settanta anni suonati, fosse entusiasta di comprarsi una lavastoviglie su Amazon.
In più, dopo anni di colpevole latitanza, dove per il Governo, qualsiasi fosse la sua maggioranza, la questione strategica delle Telco e dell’ICT in Italia era riconducibile a “come ci spartiamo le poltrone in RAI”, il problema modernizzazione delle infrastrutture di rete è tornato al centro dell’attenzione.
Ora, il cambiamento è stato avviato: dovrà sempre affrontare l’inerzia di abitudine consolidate, ad esempio qualche presunto manager, incapace di organizzare in modalità agile il lavoro, continuerà sempre a convocare riunioni improbabili, più per soddisfare il suo ego, che per effettiva necessità, ma non si potrà tornare indietro.
Una delle esperienze più particolari di questo periodo, è stata la partecipazione all’edizione “virtuale” dell’Italcon 2020. Diciamola tutta: come sapete, non sono un animale da convention. Per la mia leggendaria pigrizia, che spaccio per lotta contro l’entropia, e il fatto che spesso e volentieri coincidono con il periodo in cui impelagato nell’organizzazione della festa di San Giovanni, in cui le mie principali preoccupazioni sono i permessi che non arrivano dal I Municipio, il montare luci e gazebo e la quantità di lumache da fare preparare, tutte le volte ho dato buca.
Quest’anno invece, con la modalità on line, non ho avuto alibi… Ed è stata una bella esperienza: con Davide e Pier Luigi mi sono divertito a registrare la presentazione di Operazione Europa 2, l’antologia di ucronie che a breve sarà pubblicata da Elara, curata proprio da Pier Luigi, a cui parteciperò con un racconto ambientato nel mondo de Il Canto Oscuro.
Presentazione che, tra qualche inconveniente tecnico e le strane iniziative dei miei pappagalli, spero che abbia interessato e sia stata gradita. Ho assistito tanti interventi veramente interessanti, complimenti ad Armando Corridore e a Silvio Sosio per avere gestito tutto al meglio, ho esultato alla notizia della vittoria della vittoria del buon Davide al Premio Italia come miglior romanzo per il suo splendido Übermensch, prima o poi riuscirò a pronunciare bene il suo titolo.
Vittoria che ha trasformato Davide in una sorta di Eddy Merckx della fantascienza italiana… Non sono esperto di statistiche e annuari, ma, se consideriamo anche il Premio Viviani, a occhio, dovrebbe avere messo una sorta di record.
Insomma, una bellissima esperienza, che prima o poi conto di ripetere dal vivo !
June 20, 2020
Madonna dell’Itria
In quella porzione d’Italia che fu a lungo di lingua e cultura greca, vi è una grandissima devozione per la Madonna d’Itria, ossia l’Odighítria, dal bizantino colei che conduce, mostrando la direzione, la cui iconografia è costituita dalla Madonna con in braccio il Bambino Gesù, seduto in atto benedicente, che tiene in mano una pergamena arrotolata e che la Vergine indica con la mano destra.
La sua orgine risale al 431, all’ epoca in cui Nestorio, patriarca di Costantinopoli, sosteneva che la Santissima Vergine si dovesse chiamare Madre di Cristo, non Madre di Dio. Per dirimere la questione semantica venne convocato il Concilio di Efeso, sotto il papato di Celestino e negli anni dell’ imperatore Teodosio II, e il 22 giugno del 421 l’opinione di Nestorio fu dichiarata eretica e il patriarca cacciato a pedate in Egitto.
Pulcheria, sorella di Teodosio, a cui Nestorio stava particolarmente antipatico, per celebrare la sua epurazione volle erigere a Costantinopoli due magnifiche chiese, nelle Blacherne, dove nei secoli futuri sorgerà il palazzo dei Comneni, e presso il palazzo imperiale. La seconda chiesa nel tempo fu conosciuta con il nome di Odighitria, cioè la chiesa degli Odelghi, delle guide o dei condottieri dell’ esercito che, a quanto pare, prima della battaglia, si recavano ad invocarvi la protezione della Vergine.
Eudossia, moglie di Teodosio, recatasi in Terrasanta, ne ritornò con alcune reliquie tra cui una tavola dipinta che rappresentava la Gran Madre di Dio, che come accadeva spesso e volentieri in quegli anni, fu attribuita a San Luca. Ora se l’evangelista avesse dipinto tutti i quadri che gli sono stati attribuiti, risulterebbe tra i pittori più produttivi della Storia…
Eudossia donò il quadro alla chiesa di Blacherne e decine di copie, da allora, alcune con la presunzione di essere l’ originale di San Luca, si trovano in chiese, musei della vecchia Europa. Ma ne1 718 gli Arabi cinsero d’assedio Costantinopoli, i cittadini, non sapendo più a chi votarsi, ricorsero alla Vergine per aiuto, e portarono l’antico quadro in solenne processione attorno alle mura. I due monaci basiliani, che custodivano la chiesa, sistemarono la Sacra Icona tra due tavole, come accomodata in una cassa e, volgendola al mare, mostrarono alla Vergine la numerosa flotta rivolgendole fervide preghiere per invocarne la liberazione. Un’improvvisa tempesta distrusse le navi arabe. I soldati siciliani, che militavano nell’esercito imperiale a difesa di Costantinopoli, sbarcando dopo alcuni mesi a Messina, portarono nell’isola copie dell’icona, diffondendone il culto e la devozione.
Culto che a Palermo era celebrato nell’antica chiesa bizantina di Santa Maria la Pinta, di cui ho parlato in passato, sede di un’influente confraternita: quando la Pinta fu demolita nel 1648 per far posto all’erigenda Porta di Castro (progettata da Mariano Smiriglio e demolita nel 1879), la confraternita tanto ruppe le scatole che riuscì a fare ricostruire, poco distante, una nuova chiesa, chiesa, dedicata proprio alla Madonna dell’Itria.
Sino a qualche anno fa, si riteneva come questa chiesa fosse stata costruita sopra il vecchio letto del Kemonia: ma nel 2015, scavi archeologici hanno rivelato che i livelli di occupazione di età islamica e normanna in questa zona si trovavano ben al di sotto delle attuali quote di calpestio; si tratta di strutture murarie, adiacenti alle vecchie mura medievali. Dato il grande numero di frammenti di ceramica invetriata ritrovati, è possibile che all’epoca di Balarm, l’area fosse occupata da un’officina di vasai.
Per cui, questo benedetto Kemonia dove scorreva ? Secondo le fonti documentarie disponibili recentemente riprese in considerazione dagli studiosi (D’Angelo, Pezzini), il Kemonia passava tra la chiesa di San Giovanni degli Eremiti e la chiesa di Sant’ Andrea; quest’ultima non è più esistente, ma sorgeva in prossimità della porta Bab al Abna (nel XIV secolo chiamata Porta Palacii), non più individuabile con precisione, che si apriva a Sud del Palazzo Reale. Chiesa, quella di Sant’Andrea, che era al fianco della vecchia Pinta.
Alla luce di quanto esposto, per quanto riguarda l’età medievale, e forse specificatamente per il periodo arabo normanno, lo spazio disponibile per il passaggio del torrente sembra, in questo tratto, restringersi ulteriormente, sicché se ne potrebbe ipotizzare la localizzazione tra San Giovanni degli Eremiti e l’attuale oratorio serpottiano di San Mercurio, che si ergono, tra l’altro, in posizione elevata su due modesti speroni rocciosi.
Tornando alla chiesa della Madonna dell’Itria, i lavori cominciarono nel 1662 e terminarono nel 1670. Nel 1682, invece, fu commissionata la decorazione interna. I restauri della chiesa, abbandonata da anni, cominciarono nel 2006, ma furono così scandalosamente lenti, che nel novembre del 2012, perchè versava in un avanzato stato di degrado, venne messa sotto sequestro per il reato d’omissione di lavori e danneggiamento di beni culturale. Solo nel 2014, questi restauri ebbero fine: da quel momento in poi, la chiesa è aperta saltuariamente, in occasione di mostre di arte contemporanea.
La facciata della Madonna dell’Itria, assai semplice, ispirata all’arte rinascimentale, anche per la propensione al risparmio dei confrati dell’epoca, è caratterizzata da un portale a tutto sesto inquadrato da lesene scanalate e da una cornice con testine di cherubini, conclusa dal timpano spezzato, su cui poggia la sovrastante finestra architravata.
Nello scabro fronte su via dei Benedettini si nota un arco a sesto acuto, forse resto di un precedente edificio. L’interno è una piccola aula con quattro altari laterali: la decorazione è opera di Giuseppe Serpotta, ottimo stuccatore, meno geniale, ma assai più meno costoso del fratello Giacomo. Giuseppe fece uno splendido lavoro, in cui il suo repertorio, alquanto standardizzato, di putti, festoni e satiri si arricchisce di due nicchie con San Pietro e Paolo e dialoga con gli affreschi di Pietro Novelli: stucco e pittura così si valorizzano a vicenda. I quadri che erano presenti, come l’Annunciazione sull’altare maggiore, ispirata a Polidoro da Caravaggio, opera forse di Vincenzo da Pavia, la Madonna con Sant’Agata e Caterina, provengono dalla precedente chiesa…
June 19, 2020
Lettera di Tawagalawa
Cosa successe, tra Ittiti e Achei, dopo il compromesso diplomatico che portò al trattato di Alaksandu è noto grazie a un ulteriore documento della cancelleria ittita, chiamata impropriamente Lettera di Tawagalawa, la KUB 143.
Ora, gli Ittiti avevano vissuto uno dei suoi tradizionali periodi di confusione dinastica: Mutawalli, per capirci il vincitore della battaglia di Kadesh, anche se subì una disfatta in termini di propaganda da parte del buon Ramses, per avere una base strategica per la sua grande campagna siriana contro gli egiziani, trasferì la capitale da Hattusa, la tradizionale sede regale, a posizionata nell’estremo nord del proprio regno, a Tarḫuntašša, più prossima al teatro siriano del probabile scontro.
Benché, la questione della discendenza di Mutawalli sia causa di infinite lite tra gli esperti del settore, la spiegazione più logica per il caos che sì scatenerà, potrebbe essere la seguente: dopo secoli di guerre civili che non avrebbero sfigurato in un libro di Martin, nella testa dura degli Ittiti era entrato il principio che l’erede al trono designato non doveva essere lo zio, il lontano cugino, il cognato o il vicino di casa del re, ma il figlio primogenito, nato dalla moglie legittima.
A quanto pare, la moglie legittima di Mutawilli era sterile: in compenso il re ittita ebbe due figli dall’amante, pardon concubina, Urhi-Teshub, il maggiore, e Ulmi-Teshub, il minore. Sembra assurdo, ma la legge ittita non contemplava una situazione di questo tipo. Per cui, il la probabilità che alla morte di Mutawalli il suo parentado tornasse all’antica abitudine di scannarsi a vicenda, era assai alta. Di conseguenza, per eliminarla, il re agì da par suo.
Il fratello Hattusili, sacerdote della dea “Ishtar di Samuha”, pareva abbastanza innocuo: anche perché, essendo governatore del Nord, aveva uno sproposito di problemi da gestire, dallo sciopero fiscale degli abitanti di Hattusa, che non avevano gradito il trasferimento della corte, al convincere i Kaska a non fare pascolare le pecore nei campi d’orzo ittiti.
Il problema grosso, invece, era la matrigna Danuhepa e i suoi fratellastri, che stavano già affilando i pugnali: Mutawilli, per prima cosa, designò Urhi-Teshub, essendo il più vecchio tra i due figli, tuhkanti, erede al trono, poi per una sorta di back-up spedì Ulmi-Teshub, che passerà alla storia come Kurunta, ospite di Hattusili. Infine, con una sorta di notte dei lunghi coltelli, uccise i fratellastri, arrestò la matrigna e dopo un processo farsa, la spedì in esilio. Successivamente, per rafforzare la posizione di Urhi-Teshub, decise di associarlo al trono, cosa che però portò a diversi contrasti politici tra padre e figlio.
Urhi-Teshub, salito al trono con il nome di Muršili III, tenne sin dall’inizio una politica opposta a quella paterna, per recuperare il favore di quella nobiltà che si era progressivamente allontanata da Mutawilli e rafforzare la posizione personale che, proprio a causa delle origini natali, sentiva precaria. In tal senso va intesa la decisione di riportare la capitale nella sede storica di Hattusa, ben più di una semplice città per gli Ittiti, ma vera e propria Patria ancestrale.
Mursili però non aveva valutato che così facendo, avrebbe ridotto in modo considerevole i territori soggetti al controllo dello zio, Hattusili, che era diventato la figura più stimata dell’impero, del cui sostegno aveva viceversa assoluto bisogno, soprattutto dopo la disastrosa campagna militare che costò agli Ittiti il controllo del Mitanni, passato all’Assiria. Quando pochi anni dopo Mursili III revocò allo zio anche il controllo del feudo di Hakpis, probabilmente spaventato dalla notorietà di questi per il suo rimarchevole passato militare e temendo che potesse diventare un pretendente al trono, provocò la ribellione di Hattusili, che così giustificò
Per sette anni sono stato sottomesso al re. Ma con stimolo umano Muršili provò a distruggermi, prendendomi Hakpis e Nerik. Ora non mi sottometterò più a lui. Ho ingaggiato guerra contro di lui. Ma non ho commesso alcun crimine facendo ciò, ribellandomi a lui con la cavalleria nel suo palazzo. In maniera civilizzata comunicai con lui così: Tu hai iniziato le ostilità contro di me. Ora tu sei Gran Re, e io sono re di una sola fortezza. Questo è tutto quello che mi hai lasciato. Vieni! Istar di Samuha e il Dio Tempesta di Nerik decideranno il nostro destino per noi! Da quando scrissi così a lui, se qualcuno ora dice: Perché dopo averlo fatto re precedentemente, ora gli rivolgi parole di guerra? (la mia replica sarebbe questa): Se non avesse iniziato contro di me le ostilità, sarebbero Istar e il Dio Tempesta soggetti ora a un così piccolo re? Poiché lui iniziò a combattere contro di me, gli dei lo hanno soggetto alla mia autorità
Mursili III salì al Nord, confidando di avere l’appoggio delle popolazioni suddite dell’area, ma commise un grave errore di sottovalutazione del prestigio di Hattusili, trovandosi così a combattere in territorio ostile e per giunta contro un avversario stimato, appoggiato dalla nobiltà Ittita e molto più esperto di lui. Hattušili radunò un esercito considerevole, inclusi appunto gli alleati dei suoi feudi locali e i Kaska. Così per lui fu facoile sconfiggere Mursili, facendolo riparare nella città di Samuha, dove, dopo un rapido assedio, lo costrinse alla resa; ottenuta la tregua lo spodestò dal trono, occupandolo come re Hattušili III. Dopo la sua vittoria, Hattušili incoronò l’altro nipote Kurunta, fratello di Mursili ma schieratosi al suo fianco nella guerra, re vassallo della capitale secondaria Tarhuntassa, nel Sud dell’impero.
Hattušili III fu magnanimo col nipote sconfitto, e lo risparmiò, inviandolo inizialmente nell’area siriana, a Nuhashshi, come amministratore; ma Muršili tentò di riconquistare il trono intessendo relazioni diplomatiche private con altre potenze dell’epoca, in particolare con i Babilonesi e gli Assiri di Salmanassar I; venuto alla luce ciò, Hattusili lo esiliò, probabilmente nell’isola di Alasiya (Cipro) da dove però Mursili scappò, riparando in Egitto, la terra del suo nemico Ramses II, da dove passerà la vita a complottare per recuperare il trono. Ovviamente, gli Achei non potevano non approfittare di questa confusione: dato che però non volevano impegnarsi in una nuova guerra, tirarono fuori dallo sgabuzzino Piyama-Radu, lo armarono di tutto punto e gli fecero sobillare la rivolta generale anti ittita tra i luvi e i lukka, gli antenati dei lici.
Hattušili III cercò di domare le rivolta con le armi, ma non ne venne a capo: per cui, decise di ricorrere alla diplomazia: di conseguenza, contattò il grande re degli Achei, promettendogli ampie concessioni economiche e di influenza politica presso i luvi, se avesse smesso di appoggiare Piyama-Radu e l’avesse estradato presso gli ittiti.
Per lusingare l’interlocutore, il re ittita lo definì fratello e Lugal, gran re, mossa diplomatica, cosa che ha scatenato uno sproposito di falsi problemi tra gli studiosi. Ora, anche il titolo di Lu, re, utilizzato in altre occasioni, implica l’esistenza di uno stato unitario acheo, la cui organizzazione era meglio conosciuta agli ittiti, che ne avevano a che fare da un paio di secoli, che a noi; di conseguenza, l’ipotesi che non comprendessero cosa fosse l’interlocutore e che vi proiettassero gli schemi mentali con cui interpretavano gli altri stati del Vicino Oriente, è abbastanza campata in aria… Anche perché, diciamola tutta, neppure il regno ittita, con il suo predominio dell’indirect rule, era proprio tipico di quell’area geopolitica.
Sempre in ottica di captatio benevolentiae, Hattusili chiuse un occhio sulle violazione del protocollo diplomatico da parte degli Achei, i cui messaggeri non avevano portato i saluti formali del re in persona, e doni di pregio a suggello dei buoni rapporti. In più, si scusò in maniera invereconda per le vicende passate, scrivendo ad esempio
…di aver già ammesso le mie cattive azioni verso di te, fratello…. “
e che
“…mi hai giustamente rimproverato di aver usato la forza contro di te. Ma io ero ancora giovane all’epoca…”
Secondo quanto leggiamo nel testo KUB 143, Hattusili III, arrivato a Milawanda, la mostra Mileto viene a conoscenza del fatto che il sovrano di Ahhiyawa avesse ordinato al signore di questa città di consegnare Piyamaradu al re ittita, ben felice di quanto ottenuto
Piyamaradu,però, aveva mangiato la foglia e si era dato alla fuga, evitando così la cattura. In questo stesso passo si menziona un “vertice politico” che si era tenuto precedentemente a Milawanda per risolvere la difficile situazione relativa a Piyamaradu, al quale avevano un personaggio di nome Tawagalawa e Kuruntiya.
L’identità di Tawagalawa è tutt’ora oggetto di discussione: egli è verosimilmente il fratello del re di Ahhiyawa destinatario del messaggio. Il nome tra l’altro è la trascrizione in Ittita del luvia del nome greco Etewo-kleves, il nostro Eteocle. Questo non vuol dire che il mito di Edipo abbia basi storiche. Semplicemente era tra i nomi diffusi nelle élites achee; inoltre il loro clan dinastico era abbastanza forte e unito da monopolizzare tutte le cariche politiche
Kuruntiya è, invece, il nipote di Hattusili III, a cui il re aveva affidato un’importante missione diplomatica: questo dimostra la fiducia che il re di Hatti riponeva in suo nipote ed è anche un indizio del fatto che quest’ultimo ricoprisse il ruolo di rappresentante del sovrano ittita nelle questioni dell’Anatolia occidentale, una sorta di vicere. Sempre nella tavoletta KUB 143 si dice che vi era stata una conflittualità tra Hatti e Ahhiyawa relativamente alla città di Wilusa, dato che appare scritto
Ora abbiamo raggiunto un accordo sulla questione di Wilusa, rispetto a cui ci trovavamo in inimicizia.
Il nuovo compromesso, nonostante Piyamaradu continuasse a sobillare rivolte, però non calmò i rapporti tra Achei e Ittitii…
June 18, 2020
San Giovanni delle Fonti
Il nostro viaggio indietro nel tempo, a cosa vi era a prima del Duomo, termina al battistero di San Giovanni delle Fonti. In origine, fu fatto costruire dal vescovo ariano Aussenzio, che come farà Teodorico a Ravenna, desiderava avere un battistero dedicato appositamente agli ariani e distinto da Santo Stefano, utilizzato dagli ortodossi.
Il vescovo morì nel 374 lasciando il lavoro incompiuto, ma la successione di Ambrogio vanificò il progetto di un battistero ariano. Ambrogio modificò sostanzialmente la costruzione, perché trasformò l’edificio circolare in un martyrion ottagono, simile ai mausolei costruiti in quegli anni a Milano, ossia quelli di S. Gregorio in S. Vittore al corpo e di S. Aquilino in S. Lorenzo, ottenendo così il significato simbolico di morte alla vecchia vita e resurrezione a quella eterna attraverso l’acqua salvifica del battesimo.
Così come avvenne per la basilica Apostolorum, costruita da Ambrogio intorno al 382, anche il battistero fu edificato col massimo del risparmio, utilizzando materiali ed elementi architettonici di reimpiego insieme ai laterizi nuovi.
L’esterno, simile nell’aspetto al meglio conservato Sant’Aquilino, era in semplici mattoni con delle lesene agli angoli che esaltavano la pianta ottagonale. Il battistero aveva i lati all’esterno di m 7,40, con quattro ingressi; nello spessore della muratura (m si erano ricavate otto nicchie alternatamente rettangolari e semicircolari, ampie m 3,50, decorate con motivi a scacchiera; in ogni angolo tra le nicchie erano collocate otto colonne, in porfido rosso, con capitelli corinzi, che reggevano una pergula, in cui correva forse il titulus Ambrosii, nota iscrizione, il cui testo raccolto nella silloge di Lorsch.
Questo un codice composito di età carolingia, che raccoglie un cospicuo numero di epigrafi paleocristiane e altomedievali. La silloge è suddivisa in quattro specifiche sezioni: la prima con iscrizioni cristiane delle basiliche di Roma, la seconda con tredici documenti di pontefici sepolti nell’atrio della basilica vaticana, la terza con trentasei tituli pertinenti a città dell’Italia settentrionale, la quarta, scritta da mano diversa da quella che aveva redatto le prime tre sezioni,consegna una ricca raccolta di iscrizioni metriche, in gran parte cristiane,di monumenti soprattutto di Roma, Ravenna e Spoleto
Le due mani principali che hanno scrittoi testi vengono da due ambienti diversi: la prima trascrive le epigrafi in un centro grafico di area lotaringia e la seconda è attiva nell’Abbazia di Lorsch. n ogni caso ambedue i copisti riprendono, a loro volta, precedenti antologie epigrafiche che risalgono almeno al sec. VII.
La silloge cosi riporta il Titulus Ambrosii
“Il settimo giorno della creazione indica il mistero della legge, l’ottavo quello della risurrezione di Gesù e quindi dell’eternità”
Il numero otto, nella teologia cristiana, ricorda anche le otto beatitudini evangeliche. A questa iscrizione potrebbe appartenere un piccolo frammento di fregio o di architrave con incisa la lettera “S”Tornando al nostro battistero, all’esterno le sue nicchie erano invece rinforzate da contrafforti
Al centro del vano era la vasca, parimenti ottagonale, larga m 5,50 e profonda cm 80, con gradini in mattoni per la discesa: il battezzando entrava nella vasca da oriente, attraverso due gradini di accesso, e si portava verso il lato opposto, dove i resti di due incassi, previsti nel pavimento in opus sectile, fanno pensare all’esistenza di transenne o di un dispositivo liturgico funzionale al rito e indicante l’ubicazione del vescovo durante la cerimonia; tale dispositivo si trova in corrispondenza dell’ingresso occidentale. La decorazione originaria ambrosiana è andata persa, ma dagli scarsi frammenti sembrerebbe come il battistero fosse intonacato di bianco, con il pavimento in cocciopesto
Uno fra i primi a utilizzare il nuovo battistero fu Agostino, battezzato nel 387 da Ambrogio, il quale così racconta l’evento nelle sue Confessioni
Giunto il momento in cui dovevo dare il mio nome per il battesimo, lasciammo la campagna e facemmo ritorno a Milano. Alipio volle rinascere anch’egli in te con me. Era già rivestito dell’umiltà conveniente ai tuoi sacramenti e dominava così saldamente il proprio corpo, da calpestare il suolo italico ghiacciato a piedi nudi, il che richiede un coraggio non comune. Prendemmo con noi anche il giovane Adeodato, nato dalla mia carne …
E fummo battezzati, e si dileguò da noi l’inquietudine della vita passata. In quei giorni non mi saziavo di considerare con mirabile dolcezza i tuoi profondi disegni sulla salute del genere umano. Quante lacrime versate ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici, che risuonavano dolcemente nella tua chiesa!
Accanto al battistero venne costituito un sacello quadrato e porticato che doveva servire per gli esorcismi precedenti il battesimo e per la cresima dopo il battesimo. Resta da comprendere come venissero utilizzati gli spazi analoghi nella vetus dopo che il cattolicesimo si era imposto definitivamente a scapito del culto ariano.
Agli inizi del VI secolo d.C. il battistero fu ristrutturato da Lorenzo I (vescovo di Milano dal 489 al 510-512 d.C.), che finanziò il costoso abbellimento dell’ottagono ambrosiano, danneggiato a seguito dei torbiti susseguiti alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente.
È Ennodio, retore contemporaneo agli eventi, che ne celebra il restauro, dicendoci che
marmi, pitture, quadri, un soffitto incomparabile
impreziosivano le sue pareti. Di questa ricca decorazione sono ancora nella loro collocazione originaria, seppur parzialmente conservati, la vasca ottagonale rivestita in marmo, il pavimento a motivi geometrici e, solo in una nicchia, minuti resti delle tarsie parietali marmoree. Preziosi frammenti di mosaici, affreschi e marmi colorati – oggi in parte visibili nelle vetrine dell’area espositiva – non solo confermano le parole di Ennodio, ma permettono di precisare l’immagine da lui consegnata ai posteri.
Sul pavimento a rombi bianchi e neri poggiava uno zoccolo in marmo grigio coronato da una cornice. Sopra questo la decorazione era organizzata in grandi riquadri con cornici in porfido verde e rosso e campi in marmo chiaro su cui si stagliavano grandi figure geometriche (rombi, dischi…) anch’esse rosse e verdi. Motivi aniconici più complessi e composizioni con elementi naturalistici realizzati in marmi di importazione e in pietre locali caratterizzavano altre partizioni della decorazione marmorea. Una cornice in stucco scandiva il passaggio all’ornamento musivo. Nella parte alta delle pareti, nelle nicchie e nella volta scintillavano, infatti, i mosaici in pasta vitrea. Racemi vegetali, decorazioni floreali, prati verdi con specchi d’acqua si stagliavano probabilmente su uno sfondo oro, che da solo rendeva preziosissimo il soffitto
Decorazione, che stranamente, si conservò per tutto il Medioevo, finché il battistero non fu demolito nel 1394 in epoca viscontea per poter permettere la costruzione del Duomo di Milano. Il monumento fu riportato alla luce da Mario Mirabella Roberti durante gli scavi del 1961-63 per la costruzione della prima linea metropolitana milanese ed è visitabile nell’area archeologica del Duomo.
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