Alessio Brugnoli's Blog, page 63

June 7, 2020

Atessa Museo Aligi Sassu

[image error]Sassu Come acqua nel fuggire



Aligi Sassu, nella sua lunga e complessa esperienza artistica, in cui ha attraversato e sperimentato il futurismo all’età di 15 anni, il movimento col Mito del cavallo all’età di 19 anni e la Denuncia Sociale nel periodo di reclusione nel ’37, perchè antifascista, il Realismo nel rappresentare eventi reali e infine intriso nella fantasia dei colori, sperimentando, curioso come un bambino, tutte le possibili tecniche, ha sempre avuto un rapporto assai stretto con l’Abruzzo.





Ad esempio, nel 1964 vi realizza una grande opera murale Il Concilio Vaticano II, presso la Chiesa di S. Andrea a Pescara, nel 1987 in anteprima assoluta espone la Divina Commedia, una raccolta di 112 olii, al Castello Gizzi di Torre De’ Passeri (Pe) e nel 1997 realizza la mostra di arte sacra con cui viene aperto il Museo dello Splendore di Giulianova.





Per celebrare e ricordare questo legame, è nato il museo di Atessa, dedicato all’artista, la cui fondazione è figlia di una serie di fortunate coincidenze: Alfredo Paglione, il gallerista cognato di Sassu, decise nel 2000 di donare gran parte delle opere originariamente esposte nella sua galleria milanese “Appiano Arte trentadue” a numerose istituzioni sparse sul territorio italiano.





Paglione, abruzzese, nativo di Tornareccio, nel 2003 donò 58 acquerelli alla Carichieti, ispirati ai Promessi Sposi: con il senno di poi, vista la fine che fece questa banca, nel 2014 risultò insolvente e il 22 novembre 2015 fu posta in liquidazione coatta amministrativa e dopo numerose traversie fu assorbita da UBI, non fu una mossa fortunata, però fece nascere l’idea di dedicare un museo a Sassu nella provincia di Chieti.





Nel 2010, Paglione, assieme alla moglie Teresita, decise quindi, con il supporto della locale Banca di Credito Cooperativo, di fondare ad Atessa questo museo, che trovò sede nel Palazzo Coccia-Ferri edificato nel 1569 come palazzo signorile, di proprietà dei ricchi borghesi, probabilmente utilizzando la struttura di un edificio fortificato preesistente.





La collezione permanente di opere di Aligi Sassu, costituita da novanta lavori su carta, per lo più inediti – disegni, acquerelli, pastelli e tempere – e centoventi opere grafiche scelte – acqueforti, acquetinte, litografie e serigrafie. La rassegna ripercorre le tappe più importanti della vita e della produzione artistica di Aligi Sassu a partire dalle opere futuriste del 1927-28, per poi soffermarsi sui lavori degli anni ’30, tra cui i famosi ‘Uomini rossi’ e i ‘Ciclisti’, i ‘Caffè’, le ‘Battaglie’, i disegni del carcere di Fossano realizzati tra il 1937 e il 1938, le Crocifissioni’ e i ‘Concilii’ degli anni ‘40, fino alle ‘Corride’ spagnole degli anni ‘60, figlie del suo soggiorno alle Baleari

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Published on June 07, 2020 07:35

June 6, 2020

Reale Albergo dei Poveri

[image error]Facciata



Dalla seconda metà del Cinquecento, nonostante i tentativi dell’amministrazione spagnola di rilanciare il commercio e ammodernare il porto, Palermo è vittima di una lunga recessione economica, dovuta anche al crollo della sua principale fonte di ricchezza del Medioevo, la produzione dello zucchero. Di conseguenza, crebbe in maniera esponenziale il numero dei poveri e dei diseredate, causando notevoli problemi di ordine pubblico.





Per cercare di risolverli, i vari vicerè che si succedettero nella città, tentarono un mix tra due diverse politiche: da una parte, applicarono un approccio keynesiano, promuovendo una serie di lavori pubblici, in modo che parte del sottoproletariato trovasse un impiego nell’edilizia. Dall’altra misero in piedi un complesso sistema di welfare, in parte delegato alle istitituzioni religiose a alle confraternite, in parte amministrato direttamente dallo Stato.





Questo portò alla nascita di numerose strutture deputate all’assistenza e all’accoglienza dei più sfortunati: ad esempio il “Conservatorio di Santa Lucia al Papireto” (1531), il “Conservatorio delle male maritate di Santa Maria Maggiore” ubicato inizialmente presso il monastero di Montevergine e successivamente trasferito nei pressi dello Spasimo (1592), “La Casa dei pezzenti” pure nei pressi dello Spasimo (1605), il “Rifugio dei Poveri dietro Santa Cita” (1616), il “Conservatorio di donne Santa Rosalia” ubicato approssimativamente fra le odierne vie Divisi e Torino (1624), la “Casa delle donne riparate della Santissima Concezione” in una parte del Palazzo Ajutamicristo (1624), la “Confraternita del Rifugio dei Poveri” presso la chiesa della Madonna dell’Itra a Palazzo Reale (1632), il “Conservatorio di donne tolte dal peccato” presso San Francesco Saverio all’Albergheria (1700), e tante altre istituzioni ancora.





Tutto questo fiorire di iniziative, oltre a testimoniare il grande cuore di Palermo, però ponevano una serie di problemi di gestione e amministrativi: per cui, il governo spagnolo, per semplificarsi la vita, decise di applicare una politica di accentramento e razionalizzazione delle strutture deputate all’assistenza.





Per cui, dal 1633, sotto il regno di Filippo IV di Spagna, i poveri della città di Palermo, distribuiti in questi numerose strutture, furono trasferiti, spesso a forza, in un ospizio posto nell’odierno corso dei Mille, nei pressi dell’attuale Stazione Centrale. Questo edificio, situato fuori dalle mura cittadine, era anche conosciuto con il nome di “Serraglio Vecchio” ed era circondato da campagne e da un piccolo cimitero per gente povera, conosciuto con il nome di “Santo Antoninello lo Sicco”, le cui tracce si sono perse durante la costruzione della piazza Giulio Cesare. L’edificio faceva parte di un complesso conventuale costruito dai Padri Agostiniani della Congregazione dei Centorbi attorno ad un’antica chiesetta dedicata a S. Cristoforo, da loro rinominata “Madonna della Provvidenza” ed oggi conosciuta come “S. Maria dei Naufragati”.





Edificio che però si mostrò fin da subito inadeguato a rispondere alle esigenze assistenziali, tanto che, nel corso del 1728, sotto Carlo VI d’Austria, si cominciò a pensare a una soluzione alternativa. Fu quindi incaricata una deputazione di otto notabili di procedere alla scelta del luogo da destinare a tale incombenza, alla individuazione delle necessarie risorse economiche per i lavori di ristrutturazione ed a tutto quanto l’intendimento richiedesse. Furono così individuati dei locali nei pressi di Porta di Termini adibiti, a quel momento, a depositi e laboratori di polvere da sparo. Si procedette quindi ad un censimento dei poveri nonché ai necessari lavori per rendere i locali reperiti atti allo scopo e l’edificio,in seguito denominato Albergo vecchio entrò in funzione, dopo una solenne cerimonia, il 28 febbraio 1733.





Anche in questo caso, però, ci si rese conto che la struttura a tutto poteva servire, tranne che a ospitare uomini e donne: il governo borbonico, facendosi due conti, si accorse che sarebbe costato più ristrutturare l’Albergo Vecchio, che costruire un nuovo edificio. Per cui, si decise di tagliare la testa al toro e nel 1746, furono così intrapresi i lavori per una nuova struttura di accoglienza, finanziata da re Carlo III, che doveva rispondere ai principi di razionalità ed efficienza tipici dell’Illuminismo. Per avere sia lo spazio necessario per realizzare un edificio adeguato come servizi e dimensioni, sia per risparmiare come costi per l’acquisto dei terreni, fu scelto come sede del nuovo ospizio lo “stradone di Mezzo Monreale”. Nacque così il Reale Albergo dei Poveri.





Ora, la scelta del progetto del Reale Albergo è una delle solite vicende all’italiana: in teoria, il vicerè borbonico aveva bandito un concorso nel gennaio del 1745, in cui, per evitare le solite beghe locali tra gli architetti palermitani, la decisione del vincitore dell’appalto sarebbe stata affidata a una commissione esterna, costituita da artisti romani.





In realtà, i deputati dell’Albergo, ossia gli amministratori dell’istituzione benefica, avevano già un loro candidato, Orazio Furetto, palermitano: un architetto snobbato a torto dagli storici dell’arte, che hanno ben poco approfondito sia la sua biografia, sia la sua evoluzione artistica, dato che nelle opere attribuite presenta spesso dei lampi di genio. Orazio, pagava il dazio di non avere avuto una formazione accademica, ma come dire, di tipo empirico, essendo nato e cresciuto tra i cantieri. Quel che conosceva del barocco romano, nasceva dal suo apprendistato presso il buon Paolo Amato.





Orazio, però era amico intimo del principe Alessandro Vanni di San Vincenzo, presidente dell’Ospizio Vecchio, che volle dargli l’occasione della vita: per cui, fu scrutto un disciplinare di gara alquanto capzioso, che, con le sue clausole vessatorie, avrebbe permesso la partecipazione del solo Orazio, cosa che avrebbe reso inutile il giudizio della commissione romana.





Il caso volle che però questi requisiti stringenti fossero soddisfatti anche da un secondo architetto, Giovan Battista Vaccarini, con un curriculum ben più corposo di Orazio, essendo impegnato nella ricostruzione di Catania e con forti legami con l’ambiente artistico romano: per cui, se si fosse seguito l’iter iniziale del concorso, Orazio avrebbe sicuramente perso. Per cui, nonostante le proteste e le polemiche, i deputati, minacciando le dimissioni in massa, costrinsero il vicerè Corsini a cambiare le regole del concorso: la commissione romana fu sostituta da una palermitana, formata da Giuseppe Abbate, Giovan Battista Amico e dallo stesso principe Alessandro Vanni di San Vincenzo, tutti e tre amici intimi di Orazio, che ovviamente, vinse. Dato che Vaccarini minacciò di ricorrere a Carlo III, per evitare lo scandalo, si trovò una soluzione di compromesso: l’architetto catanese ottenne un ricco indennizzo e Orazio dovette modificare il suo progetto iniziale, accogliendo alcune idee elaborate dal rivale: dato il ricco stipendio di 30 onze annuali, il nostro architetto se ne fece una ragione.





Così il 22 di aprile 1746, gli ospiti del Serraglio Vecchio andarono a piantare una croce sul luogo prescelto per la costruzione e il giorno dopo il vicerè Corsini, andò a porre la prima pietra, accompagnato dal Principe Lancillotto Castelli di Torremuzza. Nonostante l’entusiasmo iniziale i lavori procedettero lentamente, sia per la mancanza di fondi,sia per il ritrovamento di numerose tombe puniche, fino a quando il re decise di finanziare personalmente il progetto, stanziando 5000 scudi all’anno, cifra che fu mantenuta anche dal suo successore, Ferdinando III, fino alla fine dei lavori.





Nel 1772, con una solenne processione, i poveri vennero trasferiti dal vecchio ospizio al nuovo Real Albergo dei Poveri trovando, tuttavia, qualche spiacevole sorpresa. Infatti, del grande progetto iniziale, ben poco era stato realizzato e i lavori erano fermi circa a metà, ovvero alla facciata e a parte degli ospizi, lasciando incompiuta la chiesa e gran parte degli edifici circostanti previsti dall’architetto Furetto. Ciò non impedì al governo borbonico di bearsi del risultato e della grande generosità del re Ferdinando, che fu immortalato, insieme all’effige del padre Carlo III e alla facciata del nuovo edificio, in una medaglia commemorativa che fece il giro della città e dell’intero regno.





Per risolvere questo ehm piccolo problema, Orazio fu affiancato, con il ruolo di assistente alle misurazioni della fabbrica, ossia capo ingegnere e direttore dei lavori, dal buon Nicolò Palma, uomo dalla pazienza infinita. Alla morte di Nicolò, il 9 dicembre 1779, Orazio si trovo poi a collaborare con il solito Giuseppe Venanzio Marvuglia, che all’epoca aveva il monopolio dei principali cantieri. Quando il 7 e l’8 agosto del 1785 morì Orazio Furetto, fu proprio Giuseppe a prendere il suo posto, ricoprendo l’incarico di architetto della Deputazione dell’Albergo dei Poveri dal 1785 al 1814, sovrintendendo ai lavori di avanzamento della fabbrica per il completamento della parte destra dell’edificio, dirigendo i lavori del faber murarius Carlo Catalano, impegnato, oltre che nella realizzazione dei cameroni del primo ordine della parte dell’edificio che si estende verso Palermo, anche nella manutenzione dei locali già abitati.





Oltre a questo, provvide alla sistemazione della fontana dei Grifi, che pose davanti all’ingresso principale del Reale Albergo dei Poveri, al fianco dell’Educandato; in più, dato che i Borboni, nelle loro manie illuministiche, volevano rendere produttivi i poveri, Giuseppe attrezzò parte del complesso a scuola professionale e ad opificio della seta, in maniera analoga a San Michele a Ripa a Roma. In questi lavori “industriali”, furono coinvolti anche Domenico Marabitti, il quale si occupò di soprintendere alla costruzione dei macchinari fondamentali alla filatura e alla tessitura, e Salvatore Attinelli, il quale invece curò la realizzazione di un acquedotto che permettesse il funzionamento dei macchinari.





Da quel momento in poi, il Reale Albergo dei Poveri divenne il principale fornitore di tende ed abiti per i palermitani. Con il miglioramento dei macchinari e delle competenze dei lavoranti, si intraprese anche la fabbricazione di stoffe in stile francese, sotto la direzione di un tessitore proveniente dalla Francia. Un ulteriore slancio alle attività del Reale Albergo fu dato dal Principe di Palagonia, che introdusse altre fabbriche, un panificio ed un mulino, trasferì nella sua villa di Malaspina gli uomini, ahimè, come tutti i santi, era anche alquanto bigotto, organizzò un gruppo di suore per l’assistenza agli infermi e trasformò l’edificio in un centro vitale di accoglienza e recupero delle donne e dei fanciulli sfortunati della Palermo dei primi dell’800. Da quel momento l’edificio prese il nome di “Albergo delle Povere”. Il Principe diede tutti i suoi averi all’ospizio e con il passate del tempo, la Congregazione dell’Opera Pia continuò a mantenere questa Istituzione.





Durante i bombardamenti del 1943 l’edificio fu seriamente danneggiato ma, grazie alla sua utilità per fini assistenziali, al termine della guerra fu prontamente restaurato e riprese la sua funzione. Oggi, dopo aver ospitato a lungo le monache, l’Albergo delle Povere, di proprietà, per metà dell’Istituto Principe di Palagonia e Conte Ventimiglia e per metà della Regione Sicilia. Oggi una parte dell’edificio ospita ancora anziane povere amorevolmente assistite dalle Suore della Carità. Un’altra parte è adibita a mostre e saloni di rappresentanza.





[image error]Cortile



Il complesso, che rappresenta bene il momento storico in cui la ragione illumistica tempera gli estri fantasiosi del rococò, preparando la strada al neoclassicismo, si articola principalmente attorno a tre grandi cortili per una estensione di circa 12.000 mq e uno sviluppo su due elevazioni, oltre un piano cantinato ed un piano attico, per una altezza dell’edificio di ca. 20 mt. L’assoluto assetto simmetrico rispetto all’asse centrale si riscontra sia nello sviluppo planimetrico che in tutti e quattro i fronti esterni. L’edificio si articola attorno a un cortile centrale d’ingresso al quale si attestano: la chiesa in posizione centrale; gli ingressi ai due più ampi cortili porticati laterali; l’avvio, ai due lati della chiesa, dei due scaloni monumentali che conducono al piano superiore; dei locali che avevano funzione di prima accoglienza; gli accessi agli ambienti dell’amministrazione posti al primo piano di questo settore. Mentre il cortile centrale presenta solo il porticato al piano terra, interrotto sul lato della chiesa, i cortili laterali sono interamente porticati e soprastati, al piano superiore, da loggiati. Un sistema di colonne in pietra di Billiemi è alla base della struttura di tutti e tre i cortili e dei loggiati, con archi in conci di calcarenite modanati.





La facciata, disposta lungo il Corso Calatafimi, è caratterizzata dalla scansione verticale delle paraste e orizzontale dell’alta fascia marcapiano, il tutto impostato tra un robusto basamento (data la pendenza della strada quest’ultimo è ben visibile solo sulla metà destra del fronte) e un marcato e aggettante cornicione sommitale. Sull’asse mediano del prospetto è posto il portale, incorniciato da semicolonne e sormontato dal balcone d’onore del primo piano. La tecnica costruttiva, è costituita da un sistema di grandi blocchi in calcarenite marcati da leggere listature dei giunti. Una impostazione più semplificata assume il fronte posteriore su via Cappuccini dove non sono presenti le partiture verticali delle paraste,e le modanature di tutte le aperture sono meno elaborate. I fronti laterali, orientale e occidentale presentano corpi avanzati coperti a terrazzo, al livello del primo piano racchiudono al centro un loggiato ad archi su colonne in pietra.





[image error]Santa Maria della Purificazione



Fra le ali interne del grandioso edificio è presente la chiesa di Santa Maria della Purificazione: il progetto iniziale di Orazio prevedeva una pianta di tipo ottagonale, ma Tempi lunghi di realizzazione, fondi insufficienti e l’alternanza di maestranze fecero propendere ad un impianto con sviluppo a navata unica rettangolare, sei cappelle laterali (tre ambienti con altari per lato), un cappellone con presbiterio rialzato sormontato da cupola colorata con lanternino, apparato decorativo in stucco, pavimento in marmi di Carrara, ordini di matronei sovrastanti la navata.





La facciata è ripartita in due ordini per mezzo di un elaborato cornicione marcapiano, al primo livello sei colonne ioniche con capitelli dorici, al secondo quattro colonne sormont,ate da capitelli ionici delimitate da volute e vasi acroteriali alle estremità. Sull’asse mediano le coppie di colonne interne, avanzate prospetticamente incorniciano rispettivamente il portale a piano terreno, e una grande finestra a livello superiore. Chiude la prospettiva un animato frontone con oculo centrale, sulla sommità un pinnacolo con volute regge la croce in ferro battuto.





L’interno è invece decorato con gli stucchi di Stefano Manzella e sono presenti dipinti di Gioacchino Martorana, genero dell’incisore Giuseppe Vasi, famoso per le sue straordinarie vedute della Roma del Settecento: Gioacchino, che divenne ricco affrescando i saloni dei palazzi nobiliari palermitani, sviluppò un linguaggio che coniugava l’eleganza del rococò francese con la solennità e le citazioni classicistiche di Sebastiano Conca.

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Published on June 06, 2020 07:05

June 5, 2020

Il Castra di Amba Aradam-Ipponio

[image error]Mosaici del Castra



Come accennato parlando del Clivus Scauri, il Celio era una sorta di Cecchignola dell’Antica Roma: un quartiere pieno di caserme, che di fatto condizionavano la sua economia e il suo tessuto sociale. Le fonti ci parlano dei Castra Nova Equitum Singularium, che si trovano sotto la Basilica di San Giovanni in Laterano, dei Castra Priora Equitum Singularium all’imbocco di Via Tasso, le caserme delle guardie a cavallo dell’ Imperatore e dei Castra Peregrina presso la chiesa di Santo Stefano Rotondo. Inoltre, un frammento recentemente trovato della Forma Urbis, la grande pianta marmorea di Roma di epoca severiana, riproduce la planimetria di un’altra caserma ubicata presso villa Celimontana.





Infine, sono riconducibile a tale funzione anche i resti archeologici ritrovati durante gli scavi eseguiti durante la realizzazione stazione Amba Aradam/Ipponio: si tratta di un complesso costituito da di oltre trenta vani articolati lungo un corridoio, decorati con affreschi parietali e pavimenti a mosaico. La fase di occupazione del sito che ha restituito le evidenze più consistenti è quella compresa tra il I e il III secolo d.C. Nella metà occidentale del corpo stazione è stato rinvenuto un vasto complesso abitativo, articolato su due livelli, mentre nella metà orientale si sviluppava un ampio settore a giardino, allestito su terrazze degradanti verso il fosso dell’Acqua Crabra.





Questo era un antico ruscello, poi utilizzato nel Medievo per la realizzazione del canale dell’Acqua Mariana, le cui sorgenti erano nei pressi della città di Tusculum: Cicerone ne parla nella sua orazione De Lege Agraria, affermando come le sue acque irrigavano i giardini della sua villa di campagna. Sempre i lavori della metro C, in cui, grazie a Dio, non è stato applicata la brillante proposta di Roma fa Schifo, riconducibile a





“Buttate giù ‘ste muraccia”





sono state trovate diverse infrastrutture connesse a tale fosso: un serbatoio a supporto dell’irrigazione dei campi, forse il più grande conosciuto nella città antica, insieme a una ruota idraulica e attrezzi agricoli.





Tornando alla nostro complesso archeologici, nella seconda metà del I sec. d.C. vengono realizzate le strutture perimetrali che definiscono i limiti dei lotti da edificare, a testimonianza della riurbanizzazione dell’area, a seguito dei danni dell’incendio del 27 d.C. ricordato da Tacito, che distrusse tutto, risparmiando solo una statua di Tiberio.





A questa fase risale un prima domus, del quale sono stati trovati i resti asportando i livelli pavimentali della Domus del Comandante, a quote comprese tra m 19.15 e 18.50 s.l.m. Questa domus, all’epoca di Traiano, fu incorporata nel demanio imperiale. Tra la fine del I secolo d.C. e l’inizio del II secolo d.C., in epoca adrianea, questo edificio viene demolito e sulle sue fondamenta vengono costruite, la probabile caserma e la domus in cui abitava l’ufficiale che vi era al comando.Nella terza fase, databile tra l’età adrianea e la seconda metà del II sec. d.C. vengono effettuate altre modifiche interne agli ambienti e viene contestualmente sistemata l’area a giardino che si sviluppa ad est del complesso.





Relativamente all’edificio chiamato “caserma”, ricadono nel corpo stazione 22 piccoli ambienti a pianta quadrata (m 4 x 4) identificabili come alloggi posti ai lati di uno stretto corridoio, accanto ad altri 7 vani di carattere funzionale. Questo corpo di fabbrica, concepito unitariamente, è delimitato a nord da una struttura di terrazzamento in opera mista e a est da un poderoso muro di confine in opera reticolata. Sul lato sud del corridoio vi sono 15 vani; di fronte, a nord del corridoio, si dispongono altri 14 ambienti e un’area a cielo aperto pavimentata in opus spicatum; un braccio ortogonale, articolato in 5 vani chiude l’edificio est. Il piano di calpestio di questi ambienti si colloca ad una quota media di m 22.00 s.l.m. In alcuni casi le pareti interne degli ambienti conservano ampi tratti di rivestimento parietale dipinto. Per quanto riguarda le pavimentazioni sono stati rinvenuti mosaici, tratti in lastre marmoree irregolari e laterizi frammentari, pavimentazioni in opus spicatum.





Circa tre metri più in basso dell’ala dei “dormitori” si sviluppa un complesso edificio abitativo articolato in due nuclei distinti: il primo è la cosiddetta Domus del Comandante, dato che da escludere l’eventualità che un privato cittadino potesse costruire la sua domus a contatto con un edificio militare di proprietà imperiale.





Questa domus consiste in un un edificio rettangolare di circa 300 mq, che prosegue oltre la paratia nord della stazione, limite dello scavo: vi si accede da un’ampia area all’aperto, per mezzo di gradini che immettono in un corridoio con pavimento in opus spicatum (mattoncini disposti a spina di pesce). In questa area sono stati rinvenuti 14 ambienti, che si dispongono attorno ad un cortile centrale con fontana e vasche, anch’esso con l’opera spicata a terra. I pavimenti sono di buona fattura in opus sectile a quadrati di marmo bianco e ardesia grigia, a mosaico (anche figurato) o in cocciopesto, mentre le pareti sono decorate con intonaci dipinti o bianchi.





Gli archeologi hanno inoltre rilevato la presenza di suspensurae, cioè di pile di mattoni che dovevano formare un’intercapedine al di sotto del pavimento per il passaggio di aria calda. La domus sembra sia incorsa a diverse ristrutturazioni nell’arco del tempo, sia dei pavimenti sia dei rivestimenti parietali che sono stati rifatti più volte con l’intento di mantenere in buono stato l’edificio. I lavori hanno interessato anche la forma della struttura e le dimensioni degli ambienti, nonché le aperture di passaggio. Nell’ultima fase di vita, una scala doveva portare al piano superiore, probabilmente un accesso ad uffici o al dormitorio dei soldati, posto più in alto.





Il secondo è edificio, nell’ala ovest, è una sorta di area di servizio, con pavimenti in opera spicata, vasche e complesse canalizzazioni idriche, forse alimentate dall’Acqua Cabra. Quest’ala, attraverso una soglia in blocchi di travertino, era in comunicazione con un tracciato viario in basoli e probabilmente accoglieva merci da stoccare, forse temporaneamente. Per cui, si può ipotizzare come fosse una sorta di horrea militaria.





Di particolare importanza, il rinvenimento di elementi lignei come i resti delle cassaforme utilizzate per edificare le fondazioni dei muri con tavole e ritti ritrovati ancora in situ sulle fondazioni ed elementi di carpenteria (tavole, travi, travetti) accatastati o buttati in fosse, cosa che a Roma, per il clima, è rarissimo.





I due nuovi edifici, come il dormitorio dei soldati, sono stati abbandonati e messi fuori uso intenzionalmente: i muri rasati a un’altezza massima di 1,5 metri, gli ambienti spoliati e interrati. Questo radicale e massiccio intervento, databile a poco dopo la metà del III secolo d.C., può essere messo in relazione con la costruzione delle vicine Mura Aureliane (271-275 d.C.), che doveva prevedere la dismissione degli edifici esterni e prossimi, possibile riparo o nascondiglio per eventuali nemici.

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Published on June 05, 2020 12:25

June 4, 2020

La Basilica Vetus di Mediolanum

[image error]Basilica Vetus ai tempi di Costantino



Dopo le persecuzioni di Decio e di Valeriano, Gallieno, che oggettivamente aveva ben altri problemi a cui pensare, che mettere a morte i contribuenti romani per le loro opinioni religiose, decise di proclamare una serie di editti, per ristabilire una tolleranza de facto per i cristiani, che prevedevano la fine delle persecuzioni e la restituzione dei luoghi di culto e dei cimiteri sequestrati dal predecessore.





Politica che fu seguita anche dai suoi successori, tanto che alcuni, come Aureliano, tentarono di integrare le gerarchie ecclesiastiche nel sistema di potere imperiale: tolleranza dal sincretismo del “summus deus”, molto gradito agli imperatori di questo periodo e associato nell’iconografia all’immagine del sole, che riusciva apprezzabile anche per i Cristiani stessi: era il simbolo del cosiddetto Sol Iustitiae. A riprova di questo fatto, Tertulliano definiva “plane humanius ac verisimilius” l’errore di quanti, fraintendendo il nome della domenica (dies solis), credevano che i Cristiani adorassero il sole.





Le cose cambiarono con Diocleziano, che, essendo un parvenu, per legittimare la sua posizione politica, rilanciò la religiosità tradizionale pagana. In un panegirico, lui e Massimiano sono infatti lodati per





Tu hai venerato gli dei con altari e statue, templi e offerte, che tu hai dedicato con il tuo nome e la tua immagine, la cui santità è aumentato dall’esempio che dai di venerazione per gli dei. Sicuramente, gli uomini ora dovranno capire quale potere risiede negli dei, se tu li adori con tanto fervore





Di conseguenza, tutte le religioni non riconducibili a tale paganesimo, il cristianesimo e il manicheismo, era viste come disgreganti per la società e nemiche dello Stato. A peggiorare il tutto, parecchi ricchi senatori erano accusati, probabilmente a ragione, di utilizzare le donazioni alla Chiesa come strumento per l’elusione fiscale.





Di conseguenza, il 23 febbraio 303 Diocleziano decise di passare all’azione, emanando a Nicomedia il suo editto di persecuzione in cui ordinò la distruzione delle scritture cristiane, dei libri liturgici e delle chiese in tutto l’Impero, e proibì ai cristiani di radunarsi per il culto. I cristiani furono privati anche del diritto di petizione ai tribunali,cosa che li rendeva potenziali oggetti della tortura giudiziaria;i cristiani non potevano rispondere alle cause intentate contro di loro in tribunale. Infine i senatori cristiani, gli equites, i decurioni, i veterani, e i soldati furono privati dei loro ranghi, e i liberti imperiali furono nuovamente ridotti in schiavitù.





Se in Occidente l’editto fu applicato in maniera alquanto blanda, Massimiano non aveva voglia di fronteggiare rivolte a Roma e in altre città dell’Italia e Costanzo Cloro aveva le sue gatte da pelare con i barbari, tanto che entrambi si limitarono imporre il divieto del e a distruggere i luoghi in cui i cristiani erano soliti radunarsi, le cose andarono diversamente in Oriente.L’editto di Diocleziano scatenò delle vere e proprie rivolte, tanto che, per motivi di ordine pubblico, furono emessi ulteriori decreti, che prevedevano condanne a morte, di soliti al rogo e sequestro dei beni dei cristiani renitenti. Diocleziano, però, non si era reso conto di come l’opinione pubblica rispetto a quarant’anni prima era cambiata profondamente e considerava alquanto idiota ammazzare un uomo per le proprie idee religiose: per cui, avvennero una serie di episodi di “disobbedienza civile”, in cui i pagani nascosero i loro vicini cristiani.





La situazione peggiorò ulteriormente al ritiro di Massimiano e Diocleziano; Massenzio, nel tentativo di ottenere l’appoggio dei cristiani al suo tentativo secessionista, abolì l’editto di Nicomedia, restituendo loro beni e personalità giuridica. In più, ricollegandosi ad Aureliano, tentò di integrare le autorità ecclesiastiche nel sistema di potere imperiale e i la sua cerchia di architetti furono i fondatori dell’architettura ecclesiastica.Costantino, fu lesto ad imitare Massenzio, anche se, sino al 312, nonostante la madre Elena, non dichiarò pubblicamente di essersi posto sotto la protezione del Dio dei cristiani, né promosse in modo particolare il cristianesimo. Fece piuttosto annunciare pubblicamente il suo legame speciale con Apollo e il Sol Invictus. A riprova di questo, fece raccontare dai suoi panegeristi il seguente episodio.





Nella primavera del 310, o all’inizio dell’estate di quell’anno, Costantino si trovò a marciare lungo il Reno: era di ritorno dalla Gallia meridionale, dopo avere domato la rivolta di Massimiano, tutt’altro che felice di essere stato pensionato. Ligio ai comandi della Fortuna (ordinante Fortuna), devia dalla strada principale e si trova dinanzi a un santuario, dove vede Apollo, che, accompagnato dalla dea Victoria, gli consegna corone d’alloro con immagini di vota…





Dinanzi a tale caos, Galerio, che era stato tra i sostenitori della repressione anticristiana, gravemente malato, decise per un cambio repentino di politica, dichiarando il termine delle persecuzioni, con il cosiddetto Editto di Serdica, emesso il 30 aprile 311, che proclamava





Tra tutte le disposizioni che abbiamo preso nell’interesse e per il bene dello Stato, in primo luogo abbiamo voluto restaurare ogni cosa secondo le antiche leggi e le istituzioni romane, e fare in modo che anche i cristiani, che avevano abbandonato la religione degli antenati, ritornassero a sani propositi.





Ma, per varie ragioni, i cristiani erano stati colpiti da una tale ostinazione e da una tale follia che non vollero più seguire le tradizioni degli antichi, istituite forse dai loro stessi antenati. Essi adottarono a loro arbitrio, secondo il proprio intendimento, delle leggi che osservavano strettamente e riunirono folle di persone di ogni genere in vari luoghi.





Perciò quando noi promulgammo un editto con il quale si ingiungeva loro di conformarsi agli usi degli antenati, molti sono stati perseguiti, molti sono stati anche messi a morte. Ciononostante, sebbene la maggior parte di loro persistesse nel proprio convincimento, abbiamo visto che alcuni di essi né tributavano agli dèi la reverenza e il timore loro dovuti, né adoravano il Dio dei cristiani.





Considerando la nostra benevolenza e la consuetudine per la quale siamo soliti accordare il perdono a tutti, abbiamo ritenuto di estendere la nostra clemenza anche al loro caso, e senza ritardo alcuno, affinché vi siano di nuovo dei cristiani e [affinché] si ricostruiscano gli edifici nei quali erano soliti riunirsi, a condizione che essi non si abbandonino ad azioni contrarie all’ordine costituito.





Con altro documento daremo istruzioni ai governatori su ciò che dovranno osservare. Perciò, in conformità con questo nostro perdono, i cristiani dovranno pregare il loro dio per la nostra salute, quella dello Stato, e di loro stessi, in modo che l’integrità dello Stato sia ristabilita dappertutto ed essi possano condurre una vita pacifica nelle loro case.





Editto che fu ulteriormente rafforzato dall’emissione dell’editto di Milano del febbraio 313: tutto questo caos religioso, si ripercosse anche nell’urbanistica della Mediolanum romana. Ora, di cristiani, in questa città, ce ne erano stati ben pochi, tanto che ebbe un vescovo, Anatelone, tra l’altro a metà con Brescia, solo nel III secolo. Questa carenza di potenziali vittime e lo scarso entusiasmo di Massimiano per la politica religiosa di Diocleziano, da una parte causò la mancanza di martiri della chiesa milanese, di cui tanto si lamentò Ambrogio, dall’altra pose dei vincoli l’attività edilizia di Massenzio, il quale, invece di costruire una o due chiese, come a Roma, si limitò ad assegnare al clero milanese un’area, in cui avrebbe potuto realizzare un nuovo edificio di culto.





Area che coincideva con quella del vecchio santuario celtico di Medhelan, dedicato a Belisama, la dea della luce: scelta che fu puramente casuale, dato che dall’imperatore Augusto in poi, dopo il divieto dei culti dei galli, tale funzione venne gradualmente meno e l’area fu progressivamente lottizzata e urbanizzata. Le vicende delle guerra civile bloccarono qualsiasi iniziativa edilizia: le cose cambiarono proprio nel 314 a seguito di un’altra decisione costantiniana, la concessione a tutto il clero cattolico l’esenzione dai munera civilia. Per celebrare tale evento il vescovo Mirocle, su richiesta imperiale, costruì coi fondi del fisco una cattedrale doppia con battistero incluso, nelle linee generali assai simile a quella di Aquileia.





La basilica venne costruita con orientamento est-ovest; le due aule maggiori – senza abside – erano separate da un’aula intermedia in cui era inserito il battistero ed erano coperte verosimilmente da un soffitto piano affrescato sorretto da colonne; il pavimento doveva essere abbastanza semplice, come nelle restanti case milanesi. Paolino da Nola afferma che la disposizione gemina col battistero in mezzo era “conforme alle leggi sante”, quindi la cattedrale doppia era una regola e la separazione dei locali aveva uno scopo funzionale a noi parzialmente ignoto.





L’aula sud della vetus mediolanense era leggermente la più piccola delle due ed era preceduta da un atrio per i catecumeni che lasciavano la messa all’offertorio, per i non credenti e i postulanti. E’ quella che Ambrogio chiama la basilica minor, ossia la chiesa episcopale, dove lui salmodiava cum fratribus. Il vescovo vi si recava quattro volte al giorno: per le preghiere finali delle laudi, a Sesta, a Nona, per gli anni e i salmi del Lucernario. L’aula nord era più ampia perché serviva alla celebrazione eucaristica domenicale e festiva. E’ chiamata semplicemente basilica vetus.





Accanto al battistero sappiamo che esisteva anche uno spazio per gli esorcismi e il consignatorium ossia la sala riservata alla cresima, ma è fuori dubbio che questi spazi servissero anche per altri momenti della vita ecclesiastica. L’imperatore Costantino, di passaggio a Milano dal 7 settembre al 12 ottobre 318, riconobbe alla giurisdizione dei vescovi la stessa validità attribuita a quella della magistratura civile. Si può quindi supporre che un’aula della basilica, forse nello spazio intermedio, servisse per il disbrigo delle questioni di diritto ecclesiastico.





L’insieme doveva apparire all’esterno come un blocco massiccio, forato da piccole e alte finestre, molto simile all’horreum, il granaio pubblico, costruito sulla strada per il settentrione (via Broletto). E’ importante notare fin d’ora questa disposizione alla difesa del gruppo episcopale, che si renderà più evidente nei secoli successivi con la grande recinzione. Il vescovo Mirocle non vide la cattedrale terminata, perché morì nel 316, lasciando la consacrazione al successore Materno.





Battistero,quello della Basilca Vetus intitolato a Santo Stefano delle Fonti, che misurava m 17 x m 18 e con ingresso a nord. La vasca battesimale aveva una forma ottagonale irregolare, coi lati esterni che misuravano m 2 e un diametro massimo interno di circa 3,60 m; aveva due scalini per la discesa nel fonte e il rivestimento in marmo, con lastre disposte a croce, ed era otato di una stula (conduttura idrica) di adduzione delle acque a settentrione, a segnalare forse un percorso del battezzando orientato su un asse nord-sud.





A questo battistero allude anche l’entusiastica celebrazione del poeta retore Ennodio (474-521 d.C.) che racconta di un raffinato sistema commissionato dal vescovo Eustorgio II per far scendere l’acqua da colonne forate sui battezzandi. Era infatti esigenza fondamentale nella liturgia antica l’utilizzo dell’acqua zampillante per “lavare” il peccato originale attraverso il Battesimo che, in origine, si celebrava la vigilia di Pasqua per gli adulti tramite immersione. Proprio qui fu battezzato Ambrogio.





[image error]Basilica Vetus ai tempi di Ambrogio



Con la costruzione della Basilica Maior, sotto Costante, figlio di Costantino, marginalizzò progressivamente il ruolo delle Basiliche Vetus e Minor, processo che fu accentuato dal trasferimento nel 402 della corte imperiale a Ravenna. Nel 452 Mediolanum subì il saccheggio e l’incendio da parte delle orde di Attila: non fu quella distruzione tanto radicale tramandata nella memoria storica, ma il complesso cattedrale ne uscì molto danneggiato. La basilica doppia o vetus, che dopo il Concilio di Calcedonia del 432 risulta essere intitolata a Santa Maria e al protodiacono Santo Stefano, fu gravemente danneggiata insieme al battistero.





Nel 491 Milano fu invasa da Burgundi e Rugi, chiamati in soccorso dal generale Odoacre, re degli Eruli, contro i Goti di Teodorico. Ennodio scrive che l’irruzione dei nemici riempì la città di desolazione e di rovine. Molti abitanti fuggirono, altri furono fatti prigionieri, tra cui lo stesso vescovo Lorenzo, che patì freddo, ingiurie e aggravamento degli acciacchi dell’età avanzata. La città era ridotta al terrore e al disordine: ovunque lutti, un marcire d’immondizia e un ristagnare d’acqua putrida; le chiese servivano solo per albergare animali, ma ancora una volta i danni non furono irrimediabili. La cattedrale, identificata col potere del vescovo, venne intenzionalmente danneggiata e furono rotte alcune colonne rosse e verdi delle navate.





Terminata l’emergenza, dal 493 al vescovo Lorenzo spettò il restauro degli edifici religiosi rovinati, anche grazie alla sovvenzione del vittorioso Teodorico, che mise a disposizione della Chiesa i beni sequestrati ai milanesi che avevano parteggiato per Odoacre. Probabilmente a quell’epoca risale la costruzione degli oratori dedicati agli Arcangeli, come descritto dal Besta





era in mezzo a quattro chiese dedicate a quattr’Arcangeli. Quella verso l’Oriente a S. Rafaele, che era un poco più oltre al Camposanto dirimpetto al Monastero di S. Radegonda; et che fosse in detto luogo si è visto per i fondamenti che furno scoperti in tempo che si fece la scalinata di Marmo che è da quella parte .. La seconda di dette quattro Chiese era dedicata a S. Michele detta poi S. Michele sotto ‘l Duomo; quale pochi anni sono per l’antichità sua minacciando rovina fu profanata, e distrutta, et fabricatovi a spese della fabrica del Domo una gran casa con botteghe che guarda dritto alla Torre del Verzaro verso l’Occidente. Poco discosto dal Coperto delle bollette vi era la chiesa di S. Gabriel de Decumani et dall’altra banda che è hora in Domo dove s’insegna la Disciplina Christiana a i putti, che è la parte che guarda verso la corte dell’Arengo gli era la chiesa di S. Uriele.





Proprio la presenza di Uriel, il cui culto fu vietato concilio lateranense del 745 è testimone dell’antichità di questo intervento architettonico, data anche la decadenza dell’area ai tempi dei longobardi. La situazione della Basilica Vetus, chiamata all’epoca Santa Maria Maggiore, era talmente malridotta, che l’arcivescovo Angilberto I avviò una radicale ristrutturazione, terminata dal successore Angilberto II, con la consacrazione nell’836. Per la cerimonia l’imperatore e re d’Italia Ludovico II donò una croce gemmata e l’arcivescovo un altare d’oro, simile a quello realizzato da Volvinio in Sant’Ambrogio.





La basilica misurava m 65 x 30 m e aveva tre navate, coperte a capriata, con un deambulatorio che girava intorno all’altare; era dotata di un atrio, forse un quadriportico, citato da Landolfo sr, e da un altro atrio posto “a latere portae respicientis ad aquilonem” in cui erano ospitate le scuole del clero.Presso lo spigolo nord della basilica si ergeva un imponente campanile ottagono, del diametro di m 18.





Essendo di dimensioni più ridotte rispetto alla basilica di San Tecla, così venne chiamata la Basilica Maior divenne la cattedrale jemale o invernale, mentre la basilica di S. Tecla era considerata estiva. Il passaggio da una basilica all’altra – transmigratio – avveniva con grandi cerimoniali in periodi prefissati.





I manoscritti liturgici testimoniano due transmigrationes annuali da una basilica all’altra: dalla terza domenica di ottobre fino alla vigilia di Pasqua si stava nella cattedrale jemale, poi il clero si spostava in Santa Tecla. La transmigratio, anche nel nome, ricordava l’esodo pasquale ebraico attraverso il Mar Rosso, simboleggiato anche dal rito del battesimo alla vigilia. Nella processione veniva usata un’arca del Vecchio e Nuovo Testamento, custodita nella sacrestia di Santa Maria Maggiore.





In Santa Maria Maggiore si riuniva il Capitolo della cattedrale per eleggere l’arcivescovo. Il Capitolo era un’istituzione autonoma rispetto all’arcivescovo, possedeva beni propri e spesso esercitò un potere concorrenziale nei confronti dell’arcivescovo.





Nell’825 Lotario, figlio di Ludovico il Pio e re d’Italia, col Capitolare di Corte Olona, dovette ribadire ai vescovi l’ordine di preparare delle abitazioni accanto a ogni cattedrale perché il Capitolo della cattedrale potesse vivere “canonice”, ossia in vita comune secondo i canoni: di conseguenza fu costruito tale edificio adiacente al Santa Maria Maggiore, cosa che portò poi al restauro del battistero di Santo Stefano delle Fonti.





Da quel momento in poi, la documentazione sulla Basilica Vetus, cominciò a scarseggiare: sappiamo che bruciò fino alle fondamenta nell’incendio nel 1075. Andarono persi l’altare d’oro, la Biblioteca capitolare e tutti i documenti custoditi in sacrestia. Per la ricostruzione arrivarono forse maestranze prestate dal cantiere della cattedrale di Fidenza intorno al 1098 da Matilde di Canossa, come attesterebbe la presenza di una scultura coi Magi ritrovata in un pilone del Duomo.





Si può dire che non fossero ancora ultimati i restauri dopo l’incendio del 1075, che la Basilica Vetus rimase coinvolta nelle distruzioni degli imperiali al seguito del Barbarossa. I danni non dovettero essere imponenti e i lavori di restauro iniziarono nel 1169, secondo la tradizione con il fattivo supporto economico delle matrone di Milano. L’arcivescovo Algisio da Pirovano nel 1180 dotò la cattedrale nuovamente di libri per ricostituire la perduta Biblioteca. Alcuni di questi grandi codici miniati si trovano oggi divisi tra l’Ambrosiana e la Biblioteca Capitolare.





Il ciborio venne rifatto intorno al 1256, quando si trasferì dalla basilica dei SS. Nabore e Felice – allora in demolizione – il capo del vescovo Materno, custodito all’interno del sarcofago in marmo di Candoglia, datato 295-305, che ancora oggi figura come altare in Duomo. Due delle colonne del ciborio rifatto, scolpite con personaggi sotto nicchie sul modello del ciborio in alabastro di S. Marco a Venezia, sono state rimontate nella chiesa dei SS. Andrea e Rocco in via Crema.





Secondo la tradizione, in Santa Maria Maggiore si conservava il carroccio , difeso da una cancellata e sormontato da un cerchio a forma di scudo munito di lampade che venivano accese la domenica di Avvento, a Natale, all’Epifania e per tutta la Quaresima. A mantenere accese tali lampade dovevano contribuire il prevosto e il capitolo di S. Giorgio al Pozzo Bianco.





L’uscita del carroccio dalla cattedrale significava che il comune entrava in guerra. Ricomposto secondo un preciso cerimoniale, il carroccio veniva collocato nell’arengo al suono della campana bellica. Tutti i cives avevano un ruolo preciso in questa coreografia: alcuni portavano a spalla il pennone, altri lo fissavano alla base, altri ancora issavano il gonfalone; vi erano gli addetti all’altare e coloro che addobbavano il carroccio coi simboli della vittoria, la palma e l’ulivo.





[image error]Basilica Vetus nel 1333



Accanto a Santa Maria Maggiore era il campanile ottagonale smantellato nel 1162 dal Barbarossa; secondo quando racconta il Fiamma, questo sarebbe stato alto ben 135 metri. I blocchi rimasero fino al Trecento nella piazza dell’arengo, usati come sedili. Nel 1333 verrà fatto ricostruire da Azzone Visconti, allo scopo di fungere da nuova torre civica. Secondo la tradizione, doveva essere alta 100 metri e sulla cima doveva essere posto la statua equestre di Azzone come un segnale di svolta destinato ad eclissare l’antico monumento a Oldrado da Tresseno che si trovava sul fronte del Broletto Nuovo.





A causa di un difetto progettuale, il campanile crollò dopo una ventina d’anni dal suo completamento, seppellendo le case dei canonici, provocando una strage di persone nonché gravi danni alla facciata della basilica di Santa Maria Maggiore, che fu ricostruita in stile gotico.Dopo questa tragedia, nel 1386 la veneranda storia della basilica costantiniana, giunse al termine: l’arcivescovo Antonio de’ Saluzzi, sostenuto dalla popolazione, promosse la ricostruzione di una nuova e più grande cattedrale, in nostro Duomo.





La Basilica Vetus fu demolita con così grande impegno, che attualmente ne è rimasto ben poco… Solo i resti del muro della facciata rifatta nel IX secolo in stile romanico e gotico, sito archeologico che si trova in alcuni locali della Veneranda Fabbrica del Duomo e che non è aperto al pubblico e la vasca del battistero di Santo Stefano delle Fonti





[image error]Santa Tecla (Basilica Maior) e Basilica Vetus prima dell’inizio dei lavori del Duomo
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Published on June 04, 2020 11:37

June 3, 2020

Santi Giovanni e Paolo

[image error]Facciata Santi Giovanni e Paolo



Le case romane del Celio, dopo il martirio di Giovanni e Paolo, che diversi storici ritengono inventato, anche perché molti particolari non coincidono con quanto sappiamo storicamente della politica religiosa di Giuliano, divennero rapidamente meta di pellegrinaggio, anche perchè, rispetto a luoghi analoghi, queste avevano il vantaggio di non essere in estrema periferia, ma nei pressi del centro cittadino.





Fonti antiche attestano che Pammachio vir eruditus et nobilis, morto nel 410, avrebbe fondato una basilica, la cui prima menzione risale al tempo di Leone I (440‐461). Pammachio, per chi non lo conoscesse, figlio del senatore Bizante, era un grande amico di Girolamo, provando senza successo a renderlo meno polemico e più diplomatico, nel timore che qualche oppositore del santo lo prendesse giustamente a randellate in capo, e uno dei capi del partito cristiano in senato.





Nel 401 Agostino gli inviò una lettera (Ep. LVIII) per ringraziarlo di aver scritto ai cristiani di Numidia (dove Pammachio possedeva numerose proprietà) invitandoli ad abbandonare lo scisma donatista. Quando sua moglie morì di parto (387), Pammachio si fece monaco e iniziò a dedicarsi all’attività caritativa: fondò lo xenodochio di Porto, presso la foce del Tevere, destinato ad ospitare gratuitamente i pellegrini poveri e i malati.





Probabilmente, Pammachio non costruì una chiesa come la concepiamo noi, ma si limitò a ristrutturare il secondo piano del complesso del Clivus Scauri, restaurando o fondando un titulus, a seconda di come si voglia interpretare la precedente decorazione. In ogni caso, rispetto alla disposizione precedente, Pammachio fece realizzare una piccola stanza (“confessio”) con pareti affrescate, in cui vi era una finestrella consentiva ai fedeli di affacciarsi su una specie di pozzo e contemplare così le reliquie dei santi.





Soltanto all’inizio del V secolo, a seguito della morte di Pammachio, il complesso fu monumentalizzato: venne così costruita la basilica, che poggiava sugli edifici preesistenti. Questa consisteva in un’aula absidata tripartita da colonne; grandi finestre si aprivano nell’abside e lungo i fianchi. La facciata era invece completamente traforata da cinque arcate, sia al livello del suolo, sia a quello delle finestre. In una fase successiva, fu probabilmente costruito un nartece a tre piani, a protezione delle facciata.





La chiesa, citata per la prima volta negli atti di un sinodo celebrato da papa Simmaco nel 499 con il nome di Titulus Pammachii, o anche Titulus Byzantii, ebbe però una vita alquanto tormentata: la basilica non ebbe vita facile: saccheggiata e distrutta dai Visigoti nel 410, colpita da un terremoto nel 442, saccheggiata e nuovamente distrutta dai Normanni nel 1084, fu sempre restaurata fino alla totale ricostruzione del XII secolo per volere del cardinale titolare Teobaldo, che in quell’occasione riedificò anche il monastero e cominciò a costruire il campanile, poi terminato dal cardinale Giovanni di Sutri. Alla base del campanile fu eretto un basso arco che servì di sostegno a un’ala del monastero entro cui fu sistemata l’Aula Capitolare.





In questa occasione crollarono i sotterranei e i loro ambienti, riempiti di terra per fungere da fondamenta alla basilica, furono rapidamente dimenticati. In poco tempo fu anche fabbricato il portico avanti alla chiesa. Adriano IV (1154‐1159) completò l’opera del cardinale Giovanni di Sutri. Una nuova fase di lavori ebbe luogo nel 1216 a cura del cardinale Cencio Savelli, poi papa Onorio III, che sopraelevò il portico creandovi sopra una galleria; a lui si devono anche la suggestiva galleria ad archetti intorno all’abside, il portale cosmatesco, il pavimento in opus alexandrinum, il ciborio (rimasto in situ fino al 1725) e l’altare sul locus martyrii.





Nel 1448 ai canonici si sostituirono i Gesuati, che nel XVI secolo promossero importanti restauri. Dopo vari passaggi di proprietà, nel 1773 Clemente XIV affidò la chiesa ai Passionisti che tuttora la officiano. Ultimi eventi degni di menzione sono i grandi lavori effettuati tra il 1950 e il 1952, che portarono al ripristino della facciata paleocristiana, del portico, del monastero, del campanile e allo scavo dei resti del Tempio del Divo Claudio (sec. I d.C.) sotto il monastero, di cui parlerò la prossima settimana.





Il portico, del sec. XII, è sorretto da otto colonne (tre di granito rosso, tre di granito bigio e due di marmo); i capitelli sono ionici (medioevali) e corinzi. Sull’architrave corre la seguente iscrizione:





Presbiter ecclesi(a)e roman(a)e rite Johannes / h(a)ec animi voto dona vovenda dedit / martyribus Christi Paulo pariterque lo(h)anni passio quos eadem contulit esse pares.





Sul muro a destra è visibile lo stemma dipinto del cardinale Matteo Orsini, titolare dal 1327 al 1338. Sopra al portico è la galleria; essa era in origine più alta (l’altezza originaria è indicata dai due tronconi di muro che la sovrastano alle estremità); nel corso dei restauri del sec. XX essa fu abbassata per rendere visibile la soprastante polifora paleocristiana a cinque archi retti da colonne antiche con capitelli corinzi di spoglio e rozzi pulvini; i sottarchi sono dipinti. Sui fianchi sono visibili le finestre molto ravvicinate di epoca paleocristiana, sovrastate da oculi. Nella parete di fondo nel portico si conservano due delle colonne che sostenevano la serie di cinque archi che davano accesso alla basilica paleocristiana.





Il portale cosmatesco è del sec. XIII; ai piedi sono due leoni simbolo della Chiesa militante e giudicante; sull’architrave un’aquila ad ali aperte. Vi sono tracce di affreschi della metà del sec. XIII, che sovrastano alcuni stemmi dipinti precedentemente. A destra parte della facciata del convento del cardinal Teobaldo (primi anni del sec. XII) al quale il portico si è addossato.





L’interno della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo fu completamente rinnovato nel 1718. Le sedici colonne di granito bigio della basilica originaria furono allora addossate ai pilastri. Nel 1911 la decorazione fu rimaneggiata con false specchiature di marmi colorati. Il pavimento, rifatto nel sec. XVIII, incluse molte parti di quello in opus alexandrinum del sec. XIII. All’inizio della navata destra sono collocate due lapidi del sec. XI con un elenco di beni posseduti dalla Chiesa e una bolla pontificia di convalida del possesso.





Nella cappella del Santissimo Sacramento, in fondo alla navata sinistra, si conserva, dietro l’altare, un affresco raffigurante Cristo e sei Apostoli in un portico (datato 1255), che è in pratica tutto quello che rimane della decorazione duecentesca. Un ambiente ipogeo (situato sotto la navata sinistra della chiesa) fu nel Medioevo decorato ad affresco: si distinguono ancora una Crocifissione con soldati che giocano ai dadi la veste di Cristo (sec. IX) e un Cristo in trono tra i ss. Michele, Gabriele, Giovanni e Paolo (sec. XII).





[image error]Abside



Dal clivo di Scauro, scavalcata da archi di valico medioevali a blocchetti di peperino e cotto (sec. XIII o XIV, tranne quello più in basso che è del V secolo), si scorge l’abside della chiesa della fine del IV secolo, su cui Cencio Savelli nel sec. XIII eresse l’elegante galleria ad arcatelle. Il sovrastante timpano del tetto con cornice orizzontale laterizia è del tempo del cardinale Giovanni di Sutri.





Sulla chiesa si erge anche una cupola,finanziata dal Principe Torlonia, fatta costruire dai Padri Passionisti nel 1857 secondo un progetto di Filippo Marinucci. La cupola poggia su un alto tamburo cilindrico, sul quale si aprono otto finestre rettangolari; sopra si eleva la calotta, ricoperta con lastre di ardesia e sovrastata da una lanterna finestrata.





[image error]Presbiterio



La decorazione dell’abside è stata eseguita su disegno del pittore quadraturista bolognese Francesco Ferrari nel 1728, con gli stucchi e gli angeli realizzati da Pietro Bracci, straordinario, ma ahimé poco apprezzato dai critici, scultore rococò: probabilmente, se avesse lavorato a Parigi o a Vienna, invece che a Roma, oscurato dai giganti delle generazioni precedenti, sarebbe assai più noto.





L’affresco presbiteriale rappresenta tre scene della vita e del martirio dei Santi Giovanni e Paolo, e sono opera di Piastrini, Triga e Barbieri, pittori toscani di medio livello, che andando d’amore e d’accordo, spesso e volentieri prendevano le commissioni in società. Niccolò Circignani, detto il Pomarancio, affrescò nel catino dell’abside nel XVI secolo l’affresco “Cristo in gloria”: pittore instancabile, perfetto interprete delle esigenze propagandistiche della Controriforma, in questa opera compie una tappa importante del suo percorso artistico.





Il generico michelangiolismo della sua formazione, cui si era via via aggiunta una facile ed eclettica capacità di assimilazione delle tendenze più importanti del tardo manierismo romano, dal Muziano agli Zuccari e, sia pure limitatamente, anche al Barocci, viene infatti sostituita da una più chiara semplificazione dell’artificiosa e frammentaria figurazione del codice manieristico e dalla ricerca di una composizione più unitaria e monumentale.





Ispirato forse dalle opere del Correggio, supera la tradizione manieristica degli scomparti e dei riquadri per arrivare ad una decorazione che occupa per intero la superficie dell’abside con lo scopo, forse, di aumentarne le dimensioni e il volume. Sempre nel presbiterio, è custodita una vasca di porfido rosso dell’altare maggiore sono conservate le reliquie dei santi titolari.





Tra i quadri della chiesa, vi è la prima opera firmata di Marco Benefial, il San Saturnino: pittore sottovalutato, capace di alternare macchinose pale d’altare a straordinari brani di naturalismo ed empatia con l’osservatore. Il motivo di tale pittura ondivaga è alquanto banale, mettere assieme pranzo e cena. Marco non ebbe mai un grande successo commerciale e spesso e volentieri, pur di lavorare, dovettere o scendere a pesanti compromessi con la committenza o a mettersi in società con straordinari cialtroni, che in modo o nell’altro, lo truffavano sempre.





La cappella di San Paolo della Croce, fondatore dell’Ordine dei Passionisti, che si diparte dal fondo della navata destra, fu aggiunta alla basilica nel 1857, sempre con il contributo del principe Torlonia, che regalò l’altare con due colonne di alabastro d’Egitto: nella cappella sono custodite le reliquie di tale santo, noto per avere unito carità e misticismo.

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Published on June 03, 2020 05:02

June 2, 2020

Sant’Eligio degli Orefici

[image error]Esterno della chiesa



Una cosa che spesso non viene opportunamente evidenziata nei manuali di Storia dell’Arte delle Superiori, è come il cantiere di San Pietro dei primi del Cinquecento non sia stato una specie di compartimento stagno, ma abbia invece influenzato l’architettura di quegli anni. Da una parte, gli architetti riprendevano in altre commissioni le idee che proponevano nei progetti e sperimentavano nel cantiere; dall’altra, viceversa, usavano chiese secondarie come una sorta di prova generale di quello che avrebbero proposto a Giulio II e a Leone X.





Raffaello, ad esempio fece così, nell’assai poco nota, al grande pubblico, chiesa di Sant’Eligio degli orefici, commissionatagli dal “Nobil Collegio degli orefici, gioiellieri e argentieri”; questa associazione di categoria, tra le più ricche ed influenti della Roma dell’epoca, era però senza una chiesa di rappresentanza, che serviva sia come sede di riunione, sia per i riti religiosi, dal battesimo al funerale, che riguardavano i suoi membri.





Dal 1404 gli orefici, pur costituendo un’autonoma confraternita dopo l’uscita dalla VI Corporazione di cui fanno parte anche i Ferrari e i Sellari, erano infatti costretti, tuttavia, a condividere con quest’ultimi i comuni spazi di San Salvatore alle Coppelle. Dopo anni di discussioni e di polemiche, il 13 giugno 1508 gli orefici decisero di acquistare un terreno nei pressi dell’antica chiesa di Sant’Eusterio, che diventerà poi Spirito Santo dei Napoletani, la chiesa nazionale del Regno delle due Sicilia. Dieci giorni dopo quarantadue maestri orafi inoltrarono a papa Giulio II ufficiale richiesta per poter edificare una chiesa, da dedicare a quell’Eligio di Chapelat che, prima di essere uno dei più venerati santi francesi, fu un grande orafo, ammirato da re e principi.





Giulio II se la prese comoda a rispondere: concesse infatti l’autorizzazione solo il 20 giugno 1509, a un anno dalla richiesta. Da quel momento in poi, gli orefici si impegnarono da una parte a raccogliere i fondi per la nuova costruzione, dall’altra a trovare l’architetto più adeguato alle loro esigenze di rappresentanza. In più dovettero risolvere una nuova grana: Il 6 dicembre 1514 la Magistratura delle Strade in previsione della rettifica della strada che unisce Via Giulia al Tevere, gli espropriarono il terreno che avevano comprato: tanto protestarono, che gli orefici ottennero un’area adiacente al palazzetto che era diventato sede dei loro uffici amministrativi.





Il nuovo lotto si affacciava in quella che oggi è ovviamente nota come via di Sant’Eligio, ma che all’epoca era conosciuta me “vicolo che si dice strada nuova che conduce a piazza Padella”, una piazza scomparsa in seguito alle demolizioni avvenute nel 1939 per la costruzione dell’attiguo Liceo Classico Virgilio. Alle termine di tutte queste traversie, l’incarico della nuova chiesa fu affidato a Raffaello, che dovrebbe avere presentato il progetto a fine 1515: il primo documento che attesta la costruzione, conservato nell’Archivio storico di S. Eligio, è datato 11 Novembre 1516 a favore di Sebastiano da Como muratore. I muratori lombardi, infatti, almeno da metà Quattrocento, monopolizzano i cantieri edilizi a Roma.





Nel 1520, alla morte di Raffaello, l’incarico fu affidato al buon Baldassarre Peruzzi, il quale dovrebbe avere rispettato il progetto originale: Nel 1522 l’edificio è completato ad eccezione della cupola, come risulta dai documenti che testimoniano la prima riunione al suo interno. La costruzione della cupola inizia ne 1526, ne fa fede un atto notarile di quell’anno, conservato sempre nell’Archivio Storico, con cui Jacopo di Verolo da Caravaggio si obbliga di innalzarla per la somma di 100 ducati.





Alla morte di Peruzzi, il cantiere fu affidato ad Aristotile da Sangallo, cugino di Antonio, che completò l’edificio, seguendo sempre le indicazioni dell’Urbinate: Dal 1532 al 1542 vengono edificati la facciata, i prospetti, la volta interna, la tribuna ad opera di Antonio La Torre, la lanterna e la cornice a modiglioni in peperino della cupola ad opera di Giovanni di Santagata. Il 28 Agosto del 1551 viene messo in opera il portale di ingresso in travertino da “Francesco scalpellino” dietro pagamento di “scudi cinque”, il che indica il sostanziale completamento dei lavori





La chiesa, però, come tutti gli edifici della zona, dovette affrontare il grosso problema delle fondamenta instabili, essendo costruita sui banchi di sabbia delle rive del Tevere. Per cui, sin dal 1575, cominciarono ad apparire le prime crepe: nonostante nel 1599 fosse stato costruito lo sperone di rinforzo sull’angolo della chiesa, nel 1601 un crollo comportò la distruzione della facciata.
Dai documenti conservati nell’archivio risulta che fu effettuato un pagamento all’architetto milanese Flaminio Ponzio per la consulenza del lavoro di restauro della chiesa, lo stesso che costruì nel 1598 quella di Santa Maria di Grottapinta, nella piccola piazza omonima presso Via del Biscione, identica a quella di Sant’Eligio, per cui è probabile che sia stato lui a ricostruire la facciata e rinforzare la struttura.





La facciata è a due ordini, quello inferiore con portale d’ingresso in travertino originario del 1551 , affiancato da due coppie di paraste e sormontato da un timpano triangolare e dall’iscrizione, qui posta nella ricostruzione del 1620, che così recita:





SANCTO ELIGIO TEMPLUM PICTURIS SIGNIS VALVIS MARMORE ATQUE OMNI ORNAMENTO CORPUS AURIFICUM FECIT ET EXORNAVIT”,





ovvero





“La Compagnia degli Orefici costruì a S.Eligio una chiesa e l’adornò con pitture, immagini, porte, marmi, e con ogni altro ornamento”.





L’ordine superiore presenta un finestrone affiancato da due coppie di paraste, mentre un timpano triangolare, sormontato da una croce, conclude la facciata.





[image error]Interno della chiesa



L’interno mantiene quasi intatto il carattere cinquecentesco: pianta a croce greca con un’abside nel fondo,cupola poggiante su un tamburo rotondo che insiste sui quattro pilastri centrali, e sormontata da un lanternino su cui si aprono otto finestre. Alpunto di origine degli archi e dei pennacchi del tamburo corre una cornice con modanature che non è certo cinquecentesca, ma appartiene alla prima metà del secolo XVII.





Nei lunettoni che al di sopra di questa cornice si formano nelle pareti laterali si aprono due finestre del tipo cosiddetto “palladiano”, vale a dire con tre aperture, la centrale con arco a tutto sesto, le laterali con piattabande. Il pavimento, originariamente in cotto “arrotato tagliato con astrico sotto”, fu sostituito nel 1864 dall’attuale composto con lastre di marmo bianco e bardiglio recuperate dalla chiesa di San Paolo fuori le mura, distrutta nell’incendio del 1823.





Gli affreschi dell’abside sono di Taddeo Zuccari e di Matteo da Lecce. Il primo, pittore manierista, famoso più per la quantità, che per la qualità del lavoro, così fu descritto dal solito Vasari





..fu Taddeo molto fiero nelle sue cose, ed ebbe una maniera così dolce e pastosa, e tutto così lontano da certe crudezze, fu abbondante ne suoi componimenti, e fece molto belle le teste, le mani, e gl’ignudi, allontanandosi in essi da molte crudezze….colorì parimente Taddeo con molta vaghezza, ed ebbe maniera facile perché fu molto aiutato dalla natura…fu molto volenteroso…insomma fece molte, anzi infinite cose degne di molta lode. Fu amorevole degli amici, e dove potette giovare loro, se ne ingegnò sempre.





Matteo, invece ha avuto una vita assai movimentata: nato in Salento, fece fortuna a Roma, per poi trasferirsi a Malta, dove dipinse un ciclo di affreschi sul Grande Assedio e sulla sconfitta dei turchi, in cui riprodusse con accuratezza i costumi, le armature, l’architettura militare e le formazioni di battaglia diventando un ottimo contributo per lo studio di queste materie. Dopo essersi trasferito a Siviglia, per decorare la sua cattedrale, Matteo ebbe la cosiddetta botta da matto: prese armi, bagagli e pennelli e si trasferì a Lima, in Perù, dove grazie alla mancanza di concorrenza, divenne ricco smodato.





Negli altari laterali vi sono, a sinistra una Natività di Giovanni de Vecchi, talentuoso allievo di Rosso Fiorentino, che ebbe la sfortuna di avere buona parte delle sue opere distrutte nel Seicento, e e a destra un’Adorazione dei Magi di Giovanni Francesco Romanelli, il Raffaellino, allievo di Pietro da Cortona e pittore di corte del cardinal Mazarino.





Del 1722 è il monumento funebre a Giovanni Giardini di Forlì, accademico di San Luca, argentiere dei palazzi Apostolici e cappellano del sodalizio, originariamente sepolto nella vicina chiesa della Morte.





Nel 1730 vi fu posta, in memoria di un confratello valoroso e illustre, la copia della lapide in memoria di Bernardino Passeri, orafo romano tra i fondatori del sodalizio, morto combattendo con i Lanzichenecchi in Borgo nel 1527, durante il sacco di Roma. L’originale è ancora in via dei Penitenzieri. In un locale attiguo alla chiesa si trova una piccola urna, al cui interno, come testimoniato dal cartiglio, si trova una porzione della bara di Raffaello, ottenuta a seguito della riscoperta della sua tomba nel 1833.

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Published on June 02, 2020 04:54

June 1, 2020

La Peste Antonina

[image error]Marco Aurelio



Può sembrare strano, ma nell’Età Classica, a differenza di quanto avvenuto nell’Età del Bronzo e nel basso Medievo, vi era una scarsa percezione del pericolo e degli impatti delle pandemie: gli episodi citati dagli storici si possono contare su due mani





I principali sono la peste di Atena, quella di Siracusa, che favorì la conquista romana della città, durante la Seconda Guerra Punica e quella del 174 a.C. citata da Livio, il quale racconta come questa malattia avesse prima colpito il bestiame, per poi contagiare gli uomini, portando al decesso, dopo 7 giorni dall’esordio dei sintomi.





Si trattava però di episodi ben limitati nello spazio e nel tempo, i cui impatti sociali ed economici, a medio periodo, erano alquanto ridotti. Le cose cambiarono con la cosiddetta Pesta Antonina. Dai racconti degli storici, possiamo ipotizzare una sua provenienza orientale: l’esordio dell’epidemia si registrò in Mesopotamia quando 16 legioni romane, più diverse unità ausiliare (complessivamente circa 200.000 uomini) al comando di Lucio Vero, il co-imperatore assieme a Marco Aurelio dopo l’occupazione del Regno d’Armenia nel 163, penetrarono nel Regno Partico. Sembrerebbe come l’epidemia cominciasse a diffondersi
con l’entrata delle legioni in Seleucia, la cui popolazione si era arresa senza combattere e, dopo un lungo assedio, con l’occupazione della capitale parta capitale, Ctesifonte che, come tradizione, i romani ridussero a un cumulo di macerie.





I primi decessi collegati alla peste, di cui si possiede chiara notizia, risalirebbero però all’estate del 165 e si sarebbero registrati a Nisibis, poco prima della conquista di Seleucia sul Tigri. La capitolazione di questa Città, ad opera del legato imperiale Avidio Cassio, avvenne verso la fine dello stesso anno.





Nel 166 d.C. la Grecia e la Macedonia vennero contagiate, i soldati si ammalavano e morivano lungo il percorso, sulla strada di ritorno verso l’Italia e così l’epidemia si diffondeva, tanto che a fine anno colpì Roma.





Così riporta l’evento la solita Historia Augusta,





Vi fu peraltro una tale pestilenza di tale virulenza, che per portar via i cadaveri si doveva ricorrere a carrozze e carri. In quell’occasione gli Antonimi emanarono leggi severissime sulla sepoltura dei cadaveri e sulla costruzione dei sepolcri, sancendo tra l’altro il divieto che a chicchessia fosse consentito di costruire tombe nel luogo che volesse: divieto che è in vigore tutt’oggi. La pestilenza fece molte migliaia di vittime, molte anche tra i personaggi di alto rango, ai più illustri dei quali Antonio fece erigere statue. E tale era la sua clemenza che volle che i funerali della gente del popolo si facesse a spese dello Stato…





Negli anni successivi, la pestilenza colpì anche le legioni impegnate nella dura guerra contro i Quadi e i Marcomanni, portandosi via lo stesso imperatore Marco Aurelio. Ora, nonostante il nome, è assai probabile che questa pandemia non fosse di Peste: abbiamo diverse descrizioni dei sintomi che accompagnavano la malattia, alcune assai romanzate, ma quella più attendibile è frutto della penna del grande medico Galeno, che cita come sintomi febbre, diarrea e infiammazioni della faringe, oltre a eruzioni sulla pelle, a volte asciutte e altre volte purulente, che apparivano verso il nono giorno di malattia.





Dinanzi a queste informazioni, gli studiosi hanno pensato che la malattia fosse il vaiolo, ma questa era abbastanza nota ai romani ed esisteva una certa immunità di gregge, oppure una variante particolarmente letale del morbillo.





In ogni caso, gli impatti dell’epidemia furono drammatici: dalle stime degli storici e dagli archeologi, morì da un quarto a un terzo della popolazione (immaginate che impatto avrebbe avuto il Covid-19, se avesse provocato in Italia 20 milioni di vittime…)





Per prima cosa, il fin troppo spernacchiato Commodo, si ritrovò senza soldati, per cui, più o meno a malincuore, dovette mettere fine alle velleità di conquista del padre oltre al limes danubiano. Poi, a causa del crollo del numero dei contribuenti, i conti statali finirono in rosso: per ripianare il deficit, dovette imporre pesanti tasse ai senatori, che se la legarono al dito, contribuendo alla sua pessima fama.





Infine, dovette rassicurare l’opinione pubblica, puntando sul fattore carismatico, spacciandosi come novello Ercole, che combatteva con coraggio i nemici dell’Impero, morbo compreso: per colpire l’immaginazione del popolino, dovette quindi scendere nell’arena, per combattere contro gli struzzi, cosa che dimostra un notevole coraggio personale, visto che sono bestiacce assai poco socievoli.





Soluzioni che erano più pezze calde, dato che non affrontavano la questione principale posta dall’epidemia: la drastica riduzione del numero di contadini nel granai dell’Impero, Sicilia, Egitto, Africa. A seconda delle zone, il loro numero, a causa dell’epidemia e delle grandi fughe, si era ridotto dal 43 al 60%. Il che, per un’economia agricola come quella dell’epoca, fu una tragedia senza precedenti.





Le tre riforme principali della Dinastia Severiana, la riorganizzazione dell’esercito, la cittadinanza a tutti e la modifica dei patti agrari, in cui si allungò la loro durata a fronte della diminuzione dei lotti di terra dati in affitto, sono tentativi più o meno riusciti, di risolvere i problemi causati da questo tracollo demografico.





Tracollo che ebbe a medio-lungo periodo un effetto inaspettato: avendo applicato i cristiani, per i loro tabù religiosi, che sconsigliavano di andare alla Terme e agli spettacoli circensi, un distanziamento sociale molto più spinto di quello dei pagani, furono colpiti assai meno dall’epidemia. Di conseguenza, da una parte la loro percentuale sulla popolazione totale aumentò di colpo, dall’altra da molti fu interpretato come una prova della superiorità della loro Divinità rispetto a quella degli Dei pagani, cosa che fece aumentare le conversioni.





Purtroppo, tutti i provvedimenti imperiali si scontrarono con una questione drammatica che nessuno all’epoca poteva prevedere e tanto meno risolvere: il cambiamento climatico. La temperatura cominciò a diminuire, tanto che dal tra il 536 e il 660 si verificò una piccola era glaciale, analoga a quella dell’età moderna.





Cambiamento climatico che ebbe tre effetti drammatici: aumentarono le pandemie, ad esempio, tra il 242 e il 269 d.C. si verificò la terribile peste di Cipriano, con un nuovo crollo demografico, la produttività agricola delle regioni a nord degli Appennini diminuì drammaticamente, mettendo in crisi l’economia della parte occidentale dell’Impero, causò la migrazione delle popolazioni che vivevano fuori dal limes, con il relativo collasso del sistema militare…





Una tempesta perfetta che cambiò dalle fondamenta la società e la geopolitica dell’Europa e del Mediterraneo…

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Published on June 01, 2020 08:06

L’anno del Dragon(e)

[image error]Falcon 9 dopo l’atterraggio



Tra i ricordi più nitidi che ho dell’infanzia, vi sono le partenze dello Shuttle da Cape Canaveral, con i loro successi e le loro tragedie, un’esperienza che forse mi ha portato ad amare la fantascienza: le stesse emozioni le ho provate sabato, con il decollo della Dragon di Elon Musk.





Alcuni miei amici, dinanzi all’evento, sono stati alquanto tiepidi, commentando





Embè, fa lo stesso lavoro della Sojuz”





Ora, lungi da denigrare la gloriosa navicella sovietica, che è uno dei trionfi dell’ingegneria, dato che il suo ottimo lavoro lo sta facendo dal 1966, beh, il progetto SpaceX è qualcosa di ben diverso. Il motivo è biecamente economico.





I grandi vettori americani, europei e russi, vuoi o non vuoi erano progetti, con sfumature differenti, “statali”: di conseguenza, al grido di





Tanto pagano i contribuenti”





le tematiche di reingegnerizzazione e di valutazione della redditività sotto passati in secondo o terzo piano. Problemi che invece Elon Musk, da investitore privato, che se non vuole guadagnarci subito, almeno deve andarci in paro, si è posto sin dall’inizio





Per cui la filosofia progettuale della Dragon è stata





“Non si spreca niente”





Nel concreto, se i vecchi vettori erano in fondo nulla più che le V2 di von Braun più o meno ingegnerizzate, insomma una tecnologia della Seconda Guerra Mondiale, il team della SpaceX ha deciso di seguire la filosofia differente del reusable launch system, RLS, ossia del sistema di lancio spaziale mirato a permettere il recupero totale o parziale delle parti del sistema per un successivo riutilizzo.





Ad oggi, infatti, un razzo può essere utilizzato per un solo volo, in quanto si distrugge ritornando sulla Terra: ovviamente questo fa crescere in maniera esponenziale i costi delle imprese spaziali, essendo i vettori dei vuoti a perdere.





Il primo stadio del Falcon 9 è riutilizzabile: dopo il distacco ed il rientro in atmosfera, infatti, scende in caduta libera controllata attraverso 4 alette aerodinamiche in titanio, poi accende nuovamente i motori frenando bruscamente la caduta ed atterrando in piedi, estendendo a pochi metri dalla superficie quattro zampe retrattili, su di una zattera predisposta nell’Oceano Atlantico (Autonomous spaceport drone ship), o in una piazzuola di atterraggio nella terraferma (Landing Zone 1 e Landing Zone 2 alla Cape Canaveral Air Force Station, Landing Zone 3 alla Vandenberg Air Force Base).





Per cui, il grande significato dell’impresa di sabato non legato al fatto che la Dragon abbia raggiunto la Stazione Spaziale Internazionale, cosa che facciamo abitualmente, con i vettori tradizionali, ma nel perfetto atterraggio del primo stadio. Ora, la prossima grande sfida di SpaceX sarà di riutilizzare a pieno anche il secondo stadio…

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Published on June 01, 2020 03:24

May 31, 2020

L’ex convento di Santo Spirito a Lanciano

[image error]Chiesa conventuale



Pietro da Morone, durante il suo breve papato, cercò di radicare il suo ordine religioso dei celestini: questo compito fu delegato al suo braccio destro Roberto da Salle, che, con straordinaria energia, riempì Abruzzo e Molise di questi monasteri.





Tra i principali, vi fu quello di Santo Spirito a Lanciano, che godette di grande importanza, come abbazia benedettina suffragata a San Giovanni in Venere, fino al XVII secolo. Il convento era proprietario di diversi feudi dell’entroterra frentano, arrivavando ad avere possedimenti anche nella vallata dell’Osento e del Trigno; la sua decadenza fu però causata dalla peste del 1656, che spopolò la zona.





Da quel momento il convento andò in un lento declino, fino a che, con le leggi napoleoniche e poi piemontesi nel 1866, il monastero fu requisito e adibito a rimessa e poi a deposito di ceramiche e zona botteghe, solo la chiesa rimase attiva: la struttura venne ridimensionata, e il chiostro abbandonato.





Fino al XX secolo era ancora consacrata ancora come chiesa, fino alla sconsacrazione e all’uso di fabbrica di ceramiche e mattonelle negli anni ’60. Un progetto voluto dall’amministrazione di Lanciano e da associazioni di storici, in accordo con il Comune e la Soprintendenza d’Abruzzo, ha permesso il restauro della chiesa, in stato di precarie condizioni, soprattutto il chiostro dell’ex convento era crollato in più parti, e si giunse alla riapertura nel 2010, sotto la forma di polo museale, ospitando il Museo Civico Archeologico mentre un’altra sala avrebbe accolto varie mostre culturali, la chiesa invece sarebbe stata auditorium pubblico.





Il convento si compone di una chiesa e di un vasto chiostro quadrato, con mura perimetrali e ingresso a due arcate moderne in pietra con copertura in legno del tetto. La chiesa ha facciata gotica con un bel portale tardo duecentesco, di scuola sulmonese angioina, decorato da cornice ogivale e fogliette d’acanto, con lunetta senza affreschi, forse in precedenza ne aveva uno. L’impianto a navata unica è rafforzata ad ambo i lati da tre contrafforti.





Come citato, parte della struttura è adibita a sede del museo civico archeologico, che sino al 2011 era ospitato presso il palazzo Stella nel centro storico, in via Cavour, ora sede della Canadian Renaissance School.





Il percorso in una sola sala, offre una storia, dalle origini sino al tardo periodo romano e all’inizio di quello bizantino, della presenza umana a Lanciano e dintorni. Nell’epoca pelasgica infatti il colle di Lanciano vecchio (il Colle Erminio), non era completamente popolato, ma solo alcune parti del fosso Diocleziano, di Largo San Giovanni e Largo dei Frentani, esistevano insediamenti anche nei dintorni, i villaggi di capanne di località Serre – Marcianese, Cerratine, e anche a San Giovanni in Venere.





Gran parte del materiale rinvenuto consiste in piccole sculture votive, come gli amuleti ritrovati nella cripta della chiesa di San Biagio o in quella di San Francesco d’Assisi, teste di divinità, spade ed elmi, e soprattutto molta ceramica, anche di importazione, visti i commerci di Anxanum con altre civiltà.





Tra le opere figura una preziosa lapide rinvenuta nel ‘500 nella piazza, durante i lavori di costruzione della torre campanaria della Cattedrale, venendo murata sulla facciata, e poi rimossa in seguito ai danneggiamenti dei bombardamenti del 1944. La lapide è coeva di un’altra rinvenuta dallo storico Omobono Bocache nei fondaci del Ponte di Diocleziano, che parla del pretore romano che fece restaurare il sito. La lapide della Toree rriporta invece:





IMP. CAES. AVG. ANXIANO ADSTANTE ORDINE / CVM PARTIBVS AVIONVS IVSTINIANVS RECTOR / NOMINATAM DECVRIONVM QUAM ETIAM COLLEGIA./TORVM OMNIVM PVBLICE INCIDI PRAECEPTI. V.T.





Segue un elenco dei decurioni che amministravano la città, nel I secolo.





I reperti più antichi riguardano vasellame e ceramiche, appartenenti alla popolazione dei Frentani, stanziata inizialmente in piccoli villaggi delle contrade, come Serre e Marcianese, e successivamente arroccatisi sul Colle Erminio di Lanciano Vecchio. In località Gaeta sono state rinvenute tombe di due guerrieri (1965), con corredo interessante: vasellame, ceramiche a figure nere del VI-V secolo a.C., e una collana di pasta vitrea per il corredo femminile. Altre ceramiche più tarde risalgono al IV-III secolo a.C., a testimonianza dei commerci e degli scambi della città con altre realtà locali, dato che Anxanum usava anche il porto di San Vito per i traffici. Tra questi vi è una testa di divinità in terracotta, probabilmente Minerva (II secolo a.C.).





All’età tardo-antica risalgono i reperti rinvenuti negli scavi negli anni 1990-94 in Largo San Giovanni e in Piazza Plebiscito; il ritrovamento di statue, e teste, dimostra che la città, anche nei periodi del tardo Impero (III-IV secolo d.C.), avesse continuato a proliferare economicamente. La testa marmorea di Diocleziano, che avvicina sempre di più alla quasi certezza che il ponte sotto la Cattedrale fu fatto erigere da lui, come riporta anche l’iscrizione rinvenuta da Bocache, oggi è conservata nel Museo Archeologico di Chieti. I reperti continuano sino alle soglie dell’VIII secolo d.C., quando l’area frentana fu conquistata dai Bizantini: di interesse, conservata nel museo, è un’anforetta in ceramica rinvenuta in contrada Sant’Amato nel 1968, catalogata del “tipo Crecchio”, poiché questo comune a poca distanza da Lanciano è ritenuto uno dei centri più importanti di fondazione bizantina, che ospita il Museo dell’Abruzzo Bizantino Altomedievale nel castello ducale. Altri frammenti ceramici e di vasellame del modello africano-mediterraneo, dimostrano che Lanciano anche in quest’epoca continuò ad avere scambi con diverse popolazioni della fascia italico-mediterranea, e non solo con le città confinanti.





Sino a qualche anno fa, il chiostro dell’ex monastero di Santo Spirito era sede di alcuni eventi della Settimana Medievale di Lanciano, con la rievocazione dell’investitura del Mastrogiurato, una sorta di prefetto, nominato dai regnanti angioini per controllare le città del Regno di Napoli, come la Panarda, una cena medievale che si svolgeva con una tavolata enorme in cui veniva servita ogni tipo di pietanza, dalla zuppa di farro ai cosciotti di agnello.

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Published on May 31, 2020 06:09

May 30, 2020

L’Educandato Maria Adelaide

[image error]Facciata dell’Educandato



Uno dei luoghi di Palermo che è tanto noto ai suoi abitanti quanto sconosciuto ai turisti è l’Educandato Maria Adelaide, a Corso Calatafimi, proprio davanti il Reale Albergo dei Poveri: il motivo di tale paradosso è alquanto banale. Essendo una scuola, è logisticamente assai complesso visitarlo, senza complicare la vita a studenti e professori.





L’origine del complesso è dovuta alla congregazione di San Francesco di Sales, che pur essendo presente a Palermo dal 1697, non aveva mai trovato una sistemazione stabile, cambiando più volte sede: stanca di questa condizione nomade, nel 1735, la nuova Superiora francese, proveniente da Annecy, prese a censo un terreno di proprietà dei Padri Minimi del monastero della “Vittoria”, posto subito fuori Porta Nuova; il fondo era situato in quello che, all’epoca, era noto come lo stradone di Monreale.





Così le suore, con solenne cerimonia, il 25 agosto del 1735, posero la prima pietra del complesso conventuale. Ora, nella prima metà del Settecento, Palermo si stava espandendo fuori le mura lungo tre direttrici: Bagheria, Piana dei Colli, Monreale. Mentre le direttrici verso est (Bagheria) e verso ovest (Piana dei Colli) si arricchirono con la costruzione di numerosissime ville, quella verso Monreale fu assai meno urbanizzata: per cui, la scelta di un terreno su quella strada permise alle suore di andare al risparmio.





Sempre in ottica di contenimento costi, il progetto fu affidato a Casimiro Agnetta, domenicano, uno dei tanti preti architetti che popolano il Barocco e il Rococò palermitano: Casimiro, allievo degli Amato, aveva lavorato a San Domenico e nel convento del Santissimo Salvatore.





Da quel poco che conosciamo dei suoi lavori, non è mai stato studiato a fondo, Casimiro concepì un linguaggio architettonico orientato, più che al fasto, alla solennità e alla funzionalità: forse è questo il motivi del suo scarso successo commerciale dinanzi a una committenza, che invece aveva priorità opposte.





Casimiro concepì una facciata sobria e severa, a tre ordini di finestre, tanto alte da permettere dall’interno soltanto la vista del cielo, interrotta da un portale con colonne e timpano spezzato che conferisce dignità all’insieme. Un ulteriore elemento architettonico apprezzabile, era il cortile interno delimitato da un porticato ad archi a tutto sesto.





Il convento fu inaugurato nel 1738: le funzioni religiose si svolgevano in una cappella provvisoria, anche se probabilmente Casimiro aveva progettato una sua versione della nostra chiesa di San Francesco di Sales, che non fu realizzata forse per mancanza di fondi. Con il tempo, però, le monache cominciarono a lamentarsi per la scomodità, per cui fu deciso di costruire finalmente la chiesa





[image error]Interno chiesa San Francesco di Sales



L’incarico per la chiesa di San Francesco di Sales fu affidato al solito Giuseppe Venanzio Marvuglia, che, nonostante la sua straordinaria abilità nel piagnisteo e nel farsi passare come genio incompreso, era tra gli architetti di maggiore successo della sua epoca e che conosceva bene la zona, avendo lavorato anche al Reale Albergo dei Poveri.





Giuseppe stavolta, forse perché le monache non erano di manica larga, non è che si impegno parecchio nel progetto, limitandosi ad aggiornare quanto concepito una quarantina d’anni prima da Casimiro Agnetta. Ad esempio, la facciata, che ha la stessa altezza dell’Educandato, riprende lo schema compositivo del tardo barocco, con i suoi forti valori plastici e contrasti di luci e ombre.





I due ordini sovrapposti, in basso ionico, in alto corinzio, coronati da un frontone, posto all’ attico, sono arricchiti dalla presenza di 4 nicchie laterali, che con la loro funzione chiaro – scurale modulano armoniosamente il rifrangersi della luce sulle pareti. Forti paraste accoppiate ad una trabeazione incorniciano il portone d’ ingresso che immette in un vestibolo costituito da due colonne libere che, sorreggendo il coro da cui le religiose potevano assistere alle sacre funzioni attraverso una grata, creano tre grandi intercolumni.





L’interno della Chiesa, tripartita in lunghezza, presenta un arioso impianto ad aula unica con quattro cappelle laterali addossate alle pareti e testimonia come Giuseppe si sia limitato moderare il già contenuto barocco di Agnetta, riuscendo comunque a non far perdere grandiosità e monumentalità all’edificio, sostituendo la sua predilezione per le linee rette neoclassiche alle linee curve ipotizzate dal predecessore.





La chiesa, inaugurata nel 1776, sempre per andare al risparmio fu decorata con pale d’altare del buon Gaetano Mercurio, già ai suoi tempi definito





triviale, scorretto disegnatore e fosco coloritore





Gli anni, ahimè, non hanno moderato tale giudizio. Come tutte le chiese palermitane che si rispettino, anche San Francesco di Sales ha la sua buona cripta, in cui venivano seppellite le suore, riscoperta per caso nei lavori di ristrutturazione del 1970, che è di forma rettangolare, ricoperta con volta a botte umettata e si sviluppa sotto l’altare maggiore. Sulla parete sinistra si scorgono ancora le tracce delle nicchie dove venivano deposti i cadaveri. In basso ci sono i ‘”colatoi” destinati alla essiccazione dei cadaveri e al centro vi è la botola che immette nell’ossario.





Due sono le peculiarità di questa cripta: la prima è il suo essere antecedente alla chiesa e quindi, probabilmente, concepita nel progetto originale di Agnetta. Questo è testimoniato da un pannello realizzati mattoni di ceramica, dai colori delicatissimi che riporta un’epigrafe che ricorda che lì sotto giace suor Maddalena Zangarna morta nel 1749.





La seconda riguarda una vicenda romanzesca accaduta ai tempi dell’epidemia del colore del 1837, quando giunsero a Palermo due suore da Friburgo: una divenne la direttrice dell’Educandato, la seconda, suor Maria Maddalena Clotilde Grandjoan, ci lasciò le penne il 3 agosto.





Le religiose non intendendo separarsi dal corpo della consorella, poiché era proibito seppellire cadaveri nelle chiese, di notte fecero scavare una buca nel pavimento della cripta e vi misero la cassa con il corpo della suora.Per non perdere il ricordo di suor Maria Maddalena Clotilde, deposero dentro la fossa la piccola lapide con l’iscrizione, aspettando tempi migliori che non arrivarono. E così sotto una piccola lastra seppellirono il corpo della suora, ma anche il loro segreto.





Tornando alla storia dell’Educandato, nel 1779 Ferdinando III di Borbone decretò che il monastero ospitasse venti fanciulle nobili, ma povere, e che ivi venisse impartita loro una educazione morale e manuale atta a farne delle donne “di buon senso e virtuose”.





L’ anno successivo, su richiesta delle deputazioni (quella del Convitto Real Ferdinando e quella dei Regi Studi) che sovrintendevano amministrativamente e giuridicamente all’educandato, il sovrano stanziò delle somme e delle rendite per ampliare l’edificio e renderlo adatto ad ospitare le “nobili zitelle”. Anche questa volta i lavori vennero affidati al solito Marvuglia che progettò un nuovo edificio a monte della chiesa, anche in questo caso, senza sprecarsi troppo.





Il prospetto riprendeva fedelmente quello dell’ edificio di Agnetta; al centro della nuova ala spicca un nuovo portale con balcone sovrastante. Quando nel 1782 i lavori furono ultimati, almeno in parte, il grande complesso architettonico era costituito da due ali simmetriche poste a valle e a monte della chiesa e l’intero complesso fu intitolato alla Regina Maria Carolina. Così nel 1783, cominciarono le lezioni e neppure a dirlo, le polemiche. Non sopportando più le lamentele e le pretese delle suore, i Borboni, nel 1840 decisero la separazione del monastero che rimase allocato nella parte più antica dell’ edificio, dall’ educandato, che trovò sede nella parte nuova e che fu affidato alle cure di una direttrice laica.





Dopo l’Unità d’Italia, nel 1863, ad opera del Ministro della Pubblica Istruzione Michele Amari, l’ Educandato ebbe un nuovo regolamento e fu amministrato da un consiglio di vigilanza, costituito dal Rettore dell’ Università e da due consiglieri, uno comunale e uno provinciale. Infine, per ribadire il cambio di regime e la damnatio memoriae nei confronti dei Borboni, venne intitolato a Maria Adelaide di Savoia, consorte di Vittorio Emanuele II. In seguito furono ristrutturate anche alcune parti dell’ edificio;





Nel gennaio 1881 la regina Margherita e il re Umberto I, in visita al Maria Adelaide, erano dovuti salire ai piani superiori in fila indiana perché la scalinata era stretta. Allora i responsabili della scuola promisero che nella successiva visita i regnanti avrebbero trovato una scala più consona al loro rango. Così fu: dieci anni dopo, nel 1891, lo stupore della regina fu immenso nel vedere il magnifico scalone sul quale poté inerpicarsi a braccetto di Sua Maestà.





Nel 1888 infine, passato tutto l’ edificio alla proprietà statale, dopo che le ultime quattro monache furono trasferite altrove, vennero avviati lavori di ristrutturazione del vecchio monastero. Ebbe l’ incarico l’ ingegner Decio Bonci che, tra l’altro, al pianterreno ricavò un grande refettorio decorato da piastrelle di maiolica alle pareti e da pitture floreali sul soffitto





Subito dopo, negli anni 1890-97 nell’ala più moderna, ad opera dell’ingegner Greco, furono ricavate sale di rappresentanza e una sala-teatro che venne decorata dal pittore Rocco Lentini, con affreschi a motivi floreali sul soffitto che reca al centro un medaglione con l’immagine della Regina Maria Adelaide. Solo nel 1994, il ginnasio fu aperto agli studenti maschi, mentre lo stesso avvenne nel 2003 per le elementari.





Nell’edificio spiccano due perle: la prima è la straordinaria biblioteca, che si si affaccia su uno dei giardini dell’ edificio da sempre denominato “delle palme” per la presenza di queste piante che abbelliscono le sue aiuole. All’interno di questa biblioteca troviamo circa 6000 volumi, di diversa datazione, che trattano numerosi argomenti. Da temi di cultura a temi di formazione: romanzi, classici di letteratura, enciclopedie, libri di arte, di lavori domestici, libri in lingua straniera, libri di galateo, testi teatrali in lingua originale, spartiti di musica, e inoltre disegni, fotografie, pitture, quaderni scolastici e opuscoli che raccontano lo stile di vita delle educande all’interno dell’ istituto.





[image error]Refettorio Liberty



La seconda è il refettorio liberty, con il soffitto e i muri decorati con dei motivi floreali e da nodi d’amore che si ripetono a intervalli regolari, anche nei vetri delle finestre e delle porte. Ma la caratteristica principale di questo refettorio è il Lambrì, piastrelle in maiolica, fatto a Vietri sul Mare, vicino Napoli. E’ rappresentato un tipico paesaggio siciliano: canne da zucchero, pale di fichi d’India e nello sfondo il mare. I colori prevalenti sono il verde, il giallo e il blu, che ritroviamo in molti panorami della nostra isola. Un altro particolare, che richiama lo stile Liberty, è nei sei lampadari in Murano, decorati da Iris e Gigli, fiori presenti in parecchie opere create durante questo stile. Anticamente vi mangiavano le educande, adesso vi pranzano gli studenti del liceo e le convittrici.





Accanto al refettorio antico, collegato da una porta di vetro, si trova la stanza dove vi pranza la preside, ma quando c’erano ancora le suore, qui vi mangiava la suora Badessa. E’ arredata con mobili essenziali: due credenze in stile ligneo, con incisioni decorative e degli specchi applicati, un tavolo molto semplice, rotondo e due pianoforti. In più troviamo un lampadario in ferro battuto, molto semplice e lineare, che non ha niente a che fare con i sei lampadari del refettorio

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Published on May 30, 2020 05:57

Alessio Brugnoli's Blog

Alessio Brugnoli
Alessio Brugnoli isn't a Goodreads Author (yet), but they do have a blog, so here are some recent posts imported from their feed.
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