Pirro (Parte VI)
Uno dei brani che più amo di Plutarco, che tengo sempre presente come promemoria, quando comincio a dare troppo valore a cose futili, è un dialogo, sicuramente inventato, tra Pirro e Cinea, suo ambasciatore-luogotenente, oratore tessalo di grande abilità e discepolo di Demostene.
Cinea vedendo che Pirro si accingeva a partire per l’Italia, trovatolo in un momento libero, iniziò la sua conversazione.
Cinea: Si dice, Pirro, che i romani siano buoni combattenti e governino popoli bellicosi; se la divinità ci concede di vincerli, che cosa faremo della vittoria?
Pirro: Tu mi chiedi, Cinea, una cosa che appare evidente : una volta sconfitti i romani non ci sarà nessuna città barbara o greca in grado di resisterci e ben presto ci impadroniremo di tutta l’Italia, di cui nessuno può conoscere meglio di te l’estensione, la prosperità e la potenza.
Cinea: Dopo aver conquistato l’Italia o re, cosa faremo?
Pirro: Là vicino ci tende le braccia la Sicilia, isola ricca, popolosa e facilissima da conquistare, poiché la momento, o Cinea, tutto vi è in preda alla sedizione, all’anarchia delle città, alla violenza dei demagoghi, dopo la morte di Agatocle.
Cinea: Ciò che dici è probabile, ma la conquista della Sicilia segnerà la fine della nostra spedizione?
Pirro: Che un Dio ci conceda la vittoria e il successo; ciò costituirà per noi il preludio a grandi imprese. Chi infatti si tratterrebbe dal conquistare, una volta che siamo alla portata, l’Africa e Cartagine? Una volta compiute tali conquiste, chi potrebbe negare che nessuno dei nemici che ora ci insultano potrà resisterci?
Cinea: No: è chiaro infatti, che con tali forze, potremo sicuramente recuperare la Macedonia e dominare la Grecia. Ma quando avremo sottomesso tutti, che faremo?
Pirro: ci riposeremo a lungo, mio caro, e ogni giorno, con la coppa in mano, ci rallegreremo conversando tra noi.
Cinea: Ebbene, che cosa ci impedisce adesso, se lo vogliamo, di prendere una coppa e di riposarci insieme, dal momento che già ne abbiamo le possibilità e disponiamo, senza darcene pena, di tutto ciò che ci accingiamo ad ottenere a prezzo di sangue, di grandi fatiche e di pericoli, dopo aver inflitto ad altri e subito noi grandi mali?
Un brano dal grande significato etico, troppo spesso è difficile accontarsi di ciò che si ha, apprezzandone la bellezza e il significato, ma che da un’immagine distorta del disegno geopolitico di Pirro. Il re dell’Epiro infatti, non aveva nessuna intenzione di estendere il suo dominio su popoli e stati barbari: il suo obiettivo era giocare al meglio la complessa partita dell’eredità di Alessandro Magno, arraffandone il più possibile.
Il problema, rispetto agli altri Diadochi ed Epigoni e che l’Epiro, nonostante le abilità militari e il coraggio di Pirro, non aveva sufficienti risorse economiche ed umane, per supportare le ambizioni del suo re. L’intuizione di Pirro fu trovare queste risorse in un’area dell’ecumene ellenico, che, per la sua marginalità geografica, nessuno dei suoi rivali aveva considerato: la Magna Grecia e la Sicilia. Imposto il suo dominio su tale area, di cui era nota da secoli la ricchezza, Pirro avrebbe avuto così il capitale economico ed umano per realizzare le sue ambizioni in Grecia e Macedonia.
Per fare questo, doveva sconfiggere Roma, per allontanarlo dalla Magna Grecia, e Cartagine, per strappargli l’epicrazia siciliana, il più ricco tra i domini della città punica. Pirro riteneva entrambe le imprese alla sua portata. Ignaro delle complesse dinamiche che spingevano all’integrazione politica tra Roma e Magna Grecia, era convinto che con l’Urbe si potesse, come per gli altri stati ellenistici, la strategia del bastone e della carota: ossia dopo aver sconfitto duramente il suo esercito, si sarebbe raggiunto un accordo per delimitare le aree di influenza nel Sud Italia. Inoltre, era abbastanza certo che gli interessi tra Cartagine e Roma fossero talmente divergenti tra loro, da impedire una collaborazione tra queste due potenze.
Per cui, appena ricevuta la richiesta d’aiuto di Taranto, non esitò ad accettare: con il massimo delle faccia tosta, Pirro, spacciando la sua spedizione come impresa a difesa della grecità contro i barbari, cosa assai campata in aria, dato che all’epoca Roma e Cartagine erano già più ellenizzate di parecchi domini tolemaici e seleucidi, mandò ambasciate agli altri epigoni, per chiedere aiuti. Questi, applicando il principio del
“Meglio che dia fastidio ai barbari che a noi”
accettarono senza grossi problemi. Antioco I, re del regno seleucide, Antigono II Gonata,figlio di Demetrio I Poliorcete, Tolomeo Cerauno, re di Macedonia, pagarono le spese della spedizione e dell’arruolamento dei cavalieri tessali e degli arcieri cretesi. Tolomeo II, mantenendo la tradizione di famiglia, orientata al controllo diretto o indiretto del Mediterraneo orientale, inviò un contingente di 5.000 uomini, 400 cavalieri e 50 elefanti, in gran parte utilizzati per presidiare l’Epiro, dato che fidarsi dei macedoni è bene, ma non fidarsi è meglio.
Nel frattempo, il Senato, ignaro delle decisioni di Pirro e dato che i tarantini avevano esagerato, decise di organizzare una spedizione punitiva nei confronti della città della Magna Grecia, con a capo Lucio Emilio Barbula, che era già in zona, impegnato a litigare con i Sanniti: l’obiettivo, sempre nell’ottica di non dare troppo potere al partito filo-campano, era limitato. Non si trattava di conquistare e sottomettere Taranto, ma dopo aver saccheggiato la sua chora e opportunamente terrorizzato i suoi abitanti, di imporre la revisione del vecchio trattato e un ricco tributo a favore di Roma. Insomma, se Pirro non si fosse messo in mezzo, un accordo si sarebbe trovato, anche perchè il principale problema di Roma, all’epoca era tenere a bada etruschi e celti.
Lucio Emilio Barbula si dedicò con sommo impegno al suo compito di maltrattatore autorizzato dei tarantini, tanto da stringere in un blando assedio la città, allo scopo di fare prevalere la fazione locale favorevole a un accomodamento con i romani. I negoziati, però, a causa di biechi motivi economici, dall’entità del tributo, alla sua ratealizzazione, al tasso di cambio tra moneta tarantina e monete romano campane, temi su cui Barbula era assai poco ferrato, andarono per le lunghe.
Così, l’arrivo di Cinea con 3.000 soldati, forza d’avanguardia di Pirro posta sotto il comando del generale Milone di Taranto, cambiò le carte in tavola, facendo prevalere nella città italiota il partito pro-guerra.
Barbula, che si era spinto nel Metapontino, così si ritrovò pure sotto il tiro delle macchine da guerra delle navi nemiche che erano disposte lungo la costa a presidiare il golfo. Nella battaglia che ne scaturì, Barbula riuscì a subire perdite minori del previsto poiché aveva astutamente disposto sul lato destro della colonna, esposto ai colpi, i prigionieri di guerra….
Alessio Brugnoli's Blog

